Si chiamava Moussa Ba

Si chiamava Moussa Ba. Era
Senegalese. Aveva 28 anni. È morto, arso vivo nell’incendio scoppiato la notte
del 15 Febbraio nella baraccopoli di San Ferdinando in Calabria. È la terza
vittima in un anno in questa zona di braccianti.

Il “ghetto” di San Ferdinando non
è degno di un paese civile, non è degno delle persone che sono costrette ad
abitarlo!

La Conferenza Instituti Missionari Italiani (CIMI) esprime cordoglio
ai famigliari della vittima, chiede che prontamente sia fatta luce sulle
circostanze che hanno portato al rogo e alla morte di Moussa Ba.

Moussa Ba e tanti altri sono oggi
i nuovi schiavi invisibili nelle campagne insieme ai contadini e come loro
vengono affamati, schiacciati e ghettizzati dalla logica del profitto e dal
controllo delle mafie.

Tra le autorità c’è chi in queste ora sta paventando lo sgombero di San Ferdinando. Crediamo che la soluzione non sia quella dell’invisibilizzazione del problema ma quella di trovare soluzioni e misure che favoriscano l’accoglienza diffusa e la integrazione dei lavoratori.

Commissione Giustizia e padre Della CIMI
17/02/2019




RD Congo: Le pietre che danno il pane


A Kinshasa una cava di pietre fa vivere decine di persone. Ma è un lavoro durissimo, svolto anche da donne e bambini. Il sito è sorvegliato da militari ed è impossibile accedervi. Un giovane giornalista congolese è riuscito a penetrarvi e ci ha affidato questo strabiliante reportage.

Kinshasa. Non solo coltan, oro e minerali preziosi. In Repubblica Democratica del Congo, anche la semplice pietra è oggetto di sfruttamento artigianale. Anche dove meno te l’aspetti: ad esempio in una una cava di ghiaia in piena capitale. E non in qualche periferia degradata, ma nel cuore di Kinshasa, nel quartiere Ngaliema, uno dei più antichi, a poca distanza dal palazzo presidenziale. Siamo sul fiume Congo: qui si trova la lussuosa residenza di Joseph Kabila, il presidente «scaduto» che non vuole lasciare la poltrona (il 19 dicembre 2016 Kabila ha terminato il suo mandato, ndr), poco oltre, un inferno di ghiaia bianca, dove la miseria spinge disperati di ogni età a un lavoro durissimo, senza alcuna tutela, solo per guadagnare i pochi spiccioli necessari a sbarcare il lunario. Da un lato chi ha in sedici anni di potere ammassato una fortuna stimata in 15 miliardi di dollari, dall’altro una massa di miserabili che paiono usciti da un racconto ottocentesco. La cava è sorvegliata da militari e accedervi non è possibile, salvo alcune rare eccezioni.

Un popolo di clochard

Parliamo di un popolo «clochardisé» (ovvero: reso clochard o barbone, ndr), le cui condizioni di vita continuano a deteriorarsi. Alla ricerca del pane quotidiano, alcuni congolesi si lanciano in una attività piena di potenziali rischi: la produzione di pietre e ghiaia per l’edilizia. In un paese che non offre opportunità e in cui il tasso di disoccupazione cresce ogni giorno, l’80% dei congolesi sono esposti alla mancanza di lavoro. Abbandonati a se stessi, migliaia di persone vengono qui nella cava a cercare lavoro, a volte anche a rischio della vita.

La Repubblica Democratica del Congo non ha solo ingenti ricchezze nel sottosuolo, ma offre anche enormi rocciosi, persino all’interno della capitale. Ogni categoria di persone si ritrova qui con un solo obiettivo: tagliare pietre. Uomini, donne, giovani, vecchi e anche bambini. Nessuna età è risparmiata. Se la convenzione internazionale dei diritti del bambino, istituita dall’Onu nel 1989, all’art. 32 stabilisce che «il bambino ha il diritto di essere protetto da ogni tipo di lavoro che metta in pericolo la sua salute, la sua educazione e il suo sviluppo», in questo luogo accade il contrario: i bambini sono esposti a ogni genere di rischi, privati della loro educazione, dei loro diritti sociali e sono presi nella trappola della miseria. Un futuro compromesso che non offre speranza di riscatto.

In questo luogo, anche le donne prendono parte attiva per nutrire la famiglia. Malgrado sia un lavoro esercitato normalmente da uomini, a causa della forza fisica richiesta, anche le donne, per necessità si ritrovano a svolgerlo, in un universo nel quale la povertà rovina la popolazione. Tutti sono alla ricerca della sopravvivenza, non importa il prezzo da pagare. Per ottenere una buona quantità di ghiaia alla fine della giornata, le donne sono infatti esposte a ogni tipo di rischio.

Finita la fatica fatta per spaccare le pietre, resta poi la difficoltà di trovare un compratore, tappa cruciale che fa parte della penitenza di questa attività. E il prezzo è irrisorio: 700 franchi congolesi, mezzo euro, a secchio. Le donne sono obbligate a lavorare anche tutta la giornata per arrivare a raccogliere una media di cinque secchi e portare così a casa 3500 franchi, il minimo necessario per la sopravvivenza.

La maggioranza di queste donne vive sotto la soglia della povertà, a volte sono senza marito oppure vedove. Sotto un caldo torrido, a rischio di malattie trasmesse dall’acqua e di pesanti infortuni.

Jacobo, il giovane

Nessuna età è esclusa da questa attività. Jacobo Cédrick è un giovane di 28 anni: aveva lasciato la Rdc per cercare lavoro in Congo Brazzaville, ma il suo sogno si è trasformato nel peggiore degli incubi. Espulso da Brazzaville, si è ritrovato in questo sito a spaccare pietre e produrre ghiaia, producendo da 10 a 20 secchi al giorno, per guadagnare dai 5 ai 10 euro. Ha un figlio a carico ma nessuna moglie. Copre i suoi bisogni e quelli del bambino con questa attività. Anziché darsi alla criminalità o alle rapine, fenomeno in crescita a Kinshasa e spesso praticato dai giovani kinois (nome degli abitanti della capitale) espulsi da Brazzaville, Jacobo lavora ogni giorno, domeniche comprese, per mantenersi. «Sono fiero di questo lavoro – dice a testa alta – malgrado il governo non si occupi di noi. Ciò che deploriamo sono le cattive condizioni di sicurezza nella nostra attività».

Christine, la madre

Maman Christine, madre di 9 bambini, fa questo lavoro dal 2001. Tutti i figli sono stati allevati e scolarizzati grazie alla sua fatica quotidiana nella cava. Con un marito disoccupato, Christine si batte quotidianamente per la sopravvivenza. «Siamo molto esposti in questo lavoro e i rischi sono ingenti. Malgrado ciò, non abbiamo altra scelta. Mio marito non lavora da oltre 15 anni e la vita con i bambini diventa dolorosa, sono obbligata a fare qualcosa. Gli inizi sono stati molto complicati, ma alla fine…», sospira, senza terminare la frase. «Molte ragazze sono esposte a causa della povertà», conclude.

Papy, il padre di famiglia

Papy lavora in questo luogo da due anni. Sposato e padre di quattro bambini, ogni settimana riesce a produrre l’equivalente di 100 dollari di pietre. Martello, scalpello e ferri vecchi, sono questi gli attrezzi del mestiere che Papy utilizza per ridurre quantità di pietra in ghiaia. Per mancanza di un minimo di struttura e organizzazione nella cava, spesso questi artigiani perdono pure quel minimo che spetterebbe loro a causa dei «commissionnaires», agenti che si propongono come mediatori fra venditore e acquirente e che lucrano impietosamente sui guadagni di Papy e degli altri.

L’appropriazione indebita avviene regolarmente in complicità con le autorità municipali. Le proteste degli artigiani della cava restano sempre inascoltate, in un paese in cui il livello di corruzione ha ormai raggiunto il grado di metastasi. «L’unico vantaggio in questa attività – sottolinea Papy – è che posso sfamare e mantenere i miei figli».

Isaac, il Robot

Isaac, detto «Robot», è un ragazzo molto dinamico. Cinque anni d’esperienza, Robot si è conquistato il suo personale successo nella cava. La sua forza, la sua determinazione, la sua motivazione lo portano a dimenticare il tempo che passa e a continuare a lavorare indefessamente. Se all’epoca si utilizzavano dinamite ed esplosivi per rompere le pietre, oggi tutto è vietato e la forza manuale resta l’unica che permette la produzione e decide la quantità di merce prodotta e ciò che si può sperare di guadagnare. Per inciso, che gli esplosivi siano stati vietati non è stata una misura a tutela dei lavoratori, ma una decisione imposta da un senatore che abita nel quartiere, probabilmente disturbato dal rumore delle esplosioni.

La vita in questo luogo non è per nulla facile. Serve forza, coraggio, determinazione e accettare ogni rischio che può arrivare. «Siamo pronti e sappiamo molto bene che ci sono rischi permanenti in questa attività senza protezione, siamo esposti anche a pericolo di vita, a volte. Ma se incrociamo le braccia, la manna non scenderà mai dal cielo, è il nostro destino».

Jean, l’anziano

Jean Ndota Kiwuta è tra i pionieri di questa attività. Responsabile di una spazio da sfruttare in questo sito dal 1972, coi suoi 4 figli, questo anziano lavoratore della cava si rallegra di aver retto per anni in questa attività così pericolosa. Oggi, con la vecchiaia incombente, pensa di lasciare il lavoro, fiero di aver scolarizzato i suoi figli con dura fatica.

Hyppolite

Un sorriso che contiene molte pene e angosce: lui è Hyppolite, 37 anni e 5 figli, fa questo lavoro da 10 anni. «Ciò che è già tuo vale di più di ciò che potresti avere in futuro», afferma, riassumendo la sua ragion d’essere in questo sito con la citazione di un adagio di La Fontaine.

Esther e Deborah

Di 13 e 14 anni, Esther e Deborah lavorano nella cava con la madre già da due anni, aiutandola a racimolare una buona quantità di ghiaia per trovare qualcosa da mangiare. La miseria in Congo porta molti minori a esporsi a qualunque attività.

Eternel, l’uomo vampiro

Una dimostrazione di forza: Eternel, soprannome dovuto alla sua forza incredibile, può sollevare ogni giorno fino a una cinquantina di pietre che pesano da 70 a 100 kg. Soprannominato anche l’uomo vampiro. Per questo, il suo ruolo è il caricamento delle pietre nei camion, altra tappa fondamentale e pericolosa del lavoro nella cava. Quando un compratore arriva, massi e ghiaia vanno caricati sui mezzi. È il momento più atteso dagli lavoratori, la risposta a tutti gli sforzi della giornata. Se i veicoli arrivano al sito, significa che la vendita è fruttuosa e l’energia impiegata troverà ricompensa.

La cava di Ngaliema, sulla riva del fiume Congo, è a suo modo un ambiente di lavoro conviviale, molto solidale, che ricorda un formicaio dove ognuno ha il suo compito: gli uni tagliano le pietre, gli altri le trasportano e le caricano su camion.

La Rdc è un paese potenzialmente ricco, ma di tale ricchezza beneficia una minoranza dei dirigenti al potere. Oggi, la fortuna dell’attuale presidente uscente Joseph Kabila è stimata in oltre 15 miliardi di dollari e la sua famiglia detiene più di 70 imprese, secondo un’inchiesta pubblicata recentemente1. Mentre la popolazione continua a vivere nella miseria. E la pesante crisi politica in corso non agevola certo la vita quotidiana dei congolesi: nulla assicura la speranza in un avvenire migliore.

Grevisse Musema*
(tradotto e adattato da Giusy Baioni)
* Grevisse Musema è un giornalista congolese indipendente, specializzato in questioni umanitarie e in zone di conflitto. Appassionato di ambiente ha lavorato alla Televisione nazionale congolese (Rtnc2).

Nota (1): Bloomberg.com, With his family’s fortune at stake, president Kabila digs in, 15 dicembre 2016.




Italia-Congo: La lunga marcia per la pace


Lui è un rifugiato congolese in Italia. Dove ha vissuto metà della sua vita. Ha il suo lavoro, vive bene. Ma un giorno succede qualcosa. Il Congo chiama e John sente di dover agire. Ma come? La strada si presenterà da sola, e lui dovrà fare delle scelte. E avere molto coraggio.

John Mpaliza porta con sé un entusiasmo dirompente. Quando lo incontri per la prima volta percepisci intorno a lui un’energia positiva. E ti diventa subito simpatico. È tipico di chi sta a suo agio nella propria pelle. Detto in altre parole, ha trovato la sua strada. Lo conosciamo grazie a una serie di incontri organizzati per lui dall’Ong Cisv di Torino.

Nato a Bukavu, in Kivu, nell’Est dello Zaire (oggi Repubblica Democratica del Congo), 46 anni fa, all’età di 11 anni John va a vivere a Kinshasa da sua sorella maggiore che si è sposata in capitale. Qui frequenta il liceo scientifico Boboto, gestito dai gesuiti, «una delle migliori scuole in Africa centrale», dice, e poi si iscrive all’università a ingegneria. È il 1988-89, anno in cui cade il muro di Berlino. Non c’è né Inteet né tv satellitare. «Ascoltavamo la radio sulle onde corte – ci racconta John -. All’università si riuscivano a creare momenti di confronto». Proprio in quegli anni nascono dei movimenti di dissenso, molto legati a un partito clandestino, l’Udps (Unione per la democrazia e il progresso sociale) di Etienne Tshisekedi, l’attuale maggiore partito di opposizione.

«Una volta fui contattato da qualcuno che mi portò a un incontro segreto e fu così che aderii a questo partito». John inizia a fare attività di propaganda, distribuendo volantini clandestinamente. «Non avevamo computer, si scrivevano a mano e si buttavano nei mercati».

Nel 1990 Mobutu fa un discorso importante: «Comprendete la mia emozione». Permette la creazione di altri partiti. È il multipartitismo. Il momento storico è quello del discorso di La Boule di François Mitterrand, nel quale il presidente francese sancisce che ormai è giunto il momento del multipartitismo per gli stati africani. «Lui diceva che non sarebbe mai stato chiamato “ex presidente”» ricorda John.

«Studiavo e manifestavo. Andai avanti fino al ’91. In quell’anno furono uccisi molti studenti a Kinshasa, Lubumbashi e Kisangani. Io fui tra i fortunati».

Congo addio

Incarcerato con alcuni compagni John rischia grosso, ma viene salvato dalla famiglia. «Vista la corruzione che ormai si era installata, pagando si veniva rilasciati. Da noi, in Congo, si dice: “Un figlio nasce da una madre e un padre, ma viene cresciuto da una società”. Così la mia famiglia allargata è riuscita a fare una colletta per tirarmi fuori e aiutarmi a scappare all’estero».

Il giovane John lascia il Congo proprio nel 1991. «Il mio viaggio è stato di lusso, in aereo, non è paragonabile alle traversate dei migranti di oggi».

John tocca diverse capitali africane, per arrivare a Orano, in Algeria, dove ha degli amici che stanno studiando. «Avevo iniziato gli studi a Kinshasa, così mi sono riscritto all’università, per studiare telecomunicazioni. È stata dura perché nel 1992 il Fis (Fronte islamico di salvezza, gruppo radicale, nda) vinse le elezioni, e la Francia disse che non potevano governare». Sono gli anni in cui infuria il terrorismo algerino, con attentati e bombe nelle città. Il presidente Mohamed Boudiaf viene ucciso in diretta tv: «Io l’ho visto e sono rimasto scioccato».

Così John, nel 1993 decide di fare un viaggio in Europa per andare a visitare degli amici a Parigi, Bruxelles e Roma. In Francia passa anche dalla comunità ecumenica di Taizé, in Borgogna.

«Sulla via del rientro in Algeria, a Roma, dovevo prendere l’aereo ma lo persi. Allo stesso tempo ci fu un attentato all’aeroporto di Algeri. Decisi allora di restare in Italia, anche perché in Algeria c’erano manifestazioni e se la prendevano ancora con gli studenti universitari». Così John Mpaliza chiede asilo politico in Italia e per lui inizia una nuova vita. «Una vita difficile, anche se non posso confrontare quei tempi alla situazione di emergenza attuale. Perché i numeri dei migranti erano diversi, così come la percezione che ne aveva la gente. Anche se la normativa non è cambiata molto».

Una nuova vita

Mpaliza si stabilisce nel Sud Italia dove svolge svariati lavori. Dalla raccolta di pomodori in Puglia, a quella delle arance a Rosao e a Castel Voltuo. Vive pure nella terra dei fuochi. «A Giuliano (in Campania) ho conosciuto gente meravigliosa che mi ha cambiato la vita. Avevo un permesso di soggiorno con divieto di studio e di lavoro. Ma non ricevevo sovvenzioni. Facevo dunque dei lavoretti per sopravvivere. In quel periodo ero presso una famiglia di Giuliano. Ci fu una sanatoria nel ’96. La padrona di casa decise di aiutarmi, mettendomi in regola per farmi avere il permesso di soggiorno. Da lì sono andato a Bologna e poi a Reggio Emilia».

Qui, finalmente, John può tornare a studiare e consegue la laurea breve in ingegneria informatica. Poi inizia a lavorare in comune. Un lavoro che svolgerà per 12 anni.

«Nel 1996 appresi dai media l’invasione dell’esercito ruandese in Congo, con a capo Desiré Kabila (che diventerà presidente del Rdc, nda) e subito telefonai a mia madre. Quando le dissi dove ero, replicò: “Cosa fai in Italia?”. Lo stupore era dovuto al fatto che l’Italia non gode di ottima fama, esporta troppi stereotipi, come la criminalità. In quell’occasione mi dissero che mio padre era morto durante l’ingresso dei soldati ruandesi a Bukavu, perché durante una crisi ipoglicemica, a causa della guerra non si era trovata l’insulina».

Ritoo all’inferno

Nel 2009 finalmente John decide di tornare in Congo, a Kinshasa, per una visita. Non è più tornato in patria dalla sua partenza, anche se ha sempre tenuto i contatti con la famiglia.

Quello che vede lo fa stare male: «Era come un paradiso trasformato in inferno. Il mio paese è un paradiso per le risorse che possiede. Terra fertile, acqua dolce, foresta, ecc. Quando ero piccolo, negli anni ’80, si viveva bene in Congo. Ho trovato tutto distrutto. Forse anche perché ero abituato a vivere in Europa.

Ho saputo di una sorella dispersa nell’Est, stessa sorte per molte cugine. Ho ritrovato mia madre, che si era trasferita a Kinshasa».

Nella guerra in Kivu è stato usato, e lo è tuttora, lo stupro come arma di guerra. Le donne inoltre sono rapite e ridotte in semi schiavitù alla mercé dei miliziani.

«Mia madre allora mi confidò: “Ogni sera prego Dio perché vostra sorella sia morta. È meglio così, piuttosto che soffra troppo”».

Si parla di 8 milioni di vittime in otre 20 anni di conflitto nell’Est del Congo. «Un genocidio dimenticato, ci ricorda John».

Tornato in Italia, dopo tre settimane di Congo, va in crisi.

«Ho vissuto 23 anni in Congo e 23 anni in Italia. Mi sento europeo, ma anche africano. Ritrovarti nelle tue radici e trovare questa situazione è stato un disastro. Avevo gli incubi tutte le notti. Ho provato a scrivere un articolo ma non sono stato considerato dai media». John inizia a maturare l’idea che deve provare a fare qualcosa per il suo paese. Ma cosa? Si chiede. «Qualcosa che desti curiosità, perché l’Africa non fa notizia».

L’ispirazione gli viene proprio dalla sua visita a Taizé di molti anni prima.

«Premetto che io non sono camminatore. Ma a Taizé una ragazza polacca mi aveva detto: se ti piace tanto questo posto, un giorno devi andare a Santiago di Compostela».

Pellegrino per caso

«Decisi di andare a incontrare i pellegrini. Nel 2010, per combinazione, c’era il Giubileo di Santiago. Ho parlato con circa 1.000 persone, di 27 lingue diverse, da 30 paesi. E lì ho capito che camminando e parlando la gente si ferma ad ascoltare». John parla di Congo, guerra, stupri, saccheggio delle risorse. Ma non ha ancora le idee chiare. È il raccontare quello che ha vissuto nel suo recente viaggio a Kinshasa.

«Nel frattempo, in Italia, avevo preparato una documentazione, e i miei dirigenti al lavoro volevano aiutarmi presentandomi a un politico. Ma in quel momento c’era crisi quindi non successe a nulla».

Ancora un altro segnale. «Nel febbraio 2011, una ragazza da Sidney mi chiamò su skype. L’avevo conosciuta al Cammino di Santiago. Era arrabbiata perché io non avevo fatto ancora nulla per il Congo, mi disse. Era un’insegnante e al suo rientro dalla Spagna aveva fatto lavorare i suoi studenti sul tema dello sfruttamento dei minerali del Congo.

Una persona su 1.000 si era attivata a causa di quello che le avevo raccontato. Forse qualcosa poteva cambiare. Decisi di organizzare una marcia da Reggio Emilia a Roma e portare la documentazione ai palazzi del potere. Avevo coinvolto la città: comune, provincia, la scuola di pace di Reggio, il centro missionario. La gente seguiva. Ero andato a parlare su Tele Reggio. Feci una marcia di 21 giorni e mi ricevettero alcuni deputati e senatori».

È la prima marcia di John Mpaliza per il Congo, che ne inaugura una lunga serie, in un crescendo di difficoltà. E, soprattutto, diventerà il modo di vivere e di lottare del congolese-italiano, dalla simpatia irresistibile.

On the road

Come si organizza una marcia per la pace in Congo?

«Si definisce la partenza e l’arrivo. Si prendono contatti con le istituzioni locali lungo il percorso, gli scout, le chiese, le scuole. Così nascono gli incontri. Le persone mi accompagnano per un pezzo della strada. Talvolta vengono ad accogliermi alle porte di una città al mio arrivo. Ma la marcia completa la faccio da solo.

A Roma, ad esempio, una quarantina di persone mi aspettarono fuori città e mi accompagnarono fino in Parlamento».

Segue nel 2012 la marcia Reggio Emilia – Bruxelles, di due mesi. John passa a Ginevra dove incontra l’Alto commissario per i diritti umani delle Nazioni Unite. Va anche a Strasburgo dove è ricevuto da parlamentari italiani ed europei. Molti di loro sono promotori dell’emendamento del maggio 2015 sulla tracciabilità dei minerali (si veda il dossier su MC luglio 2015). «Per la prima volta abbiamo chiesto una regolamentazione. C’erano anche congolesi dal Belgio e italiani nella marcia».

Il grande salto

«All’inizio le marce le facevo in estate, durante le vacanze. Oppure, nel caso dovessero durare oltre un mese, prendevo aspettativa dal lavoro. I miei dirigenti erano comprensivi e mi appoggiavano».

Tornato casa dalla marcia di Bruxelles, John si trova sommerso dalle richieste di incontri e conferenze.

Nel novembre del 2012 decide di prendere un part time verticale: alcuni giorni della settimana lavora in ufficio, durante gli altri fa incontri sul Congo, i minerali della guerra, le vie della pace. La sua vita sta cambiando. «Cominciai a chiedermi se fosse questa la via che dovevo seguire. A dicembre 2013 mi sono ammalato e ho capito che questo sistema non reggeva. Così ho spiegato al dirigente che il mio futuro non era più con loro.

Inoltre, la notizia della marcia di Bruxelles era arrivata anche in Congo. I miei famigliari avevano fatto una veglia di preghiera nel paese. Si raccoglievano i primi frutti, perché ormai se ne stava parlando. Mollare, sarebbe stata la dimostrazione che noi (africani) non sappiamo costruire».

John decide di lasciare il lavoro il 31 maggio 2014 e di consacrarsi totalmente alla causa. A luglio parte la marcia Reggio Emilia – Reggio Calabria.

Da quando ha lascia il lavoro John non ha più un reddito. Organizza marce, cammina e fa incontri in scuole, università, parrocchie e istituzioni. Vive di accoglienza e provvidenza.

«Ho deciso di rinunciare a tutto – ricorda – ma devo vedere quando mi sento in forma e posso camminare, fare le cose a modo mio. Ho collaborato con tante organizzazioni, come Rete pace per il Congo, creata dai missionari Saveriani di Parma. Ora mi appoggia anche Libera Internazionale. Non ho ancora fondato un’associazione, ma ci stiamo arrivando. Potrebbe servire per gestire eventuali donazioni».

John approfondisce le rivendicazioni delle sue marce. «L’obiettivo principale è rompere il silenzio, fare breccia. Fare conoscere il dramma congolese, denunciare l’assenza di diritti umani, la guerra economica che produce morti, lo stupro come arma di guerra. I danni che creano i caschi blu dell’Onu, che costano due milioni di dollari al giorno».

I progetti

John ci parla degli incontri: «I giovani a cui parlo sono talmente tanti che tutto questo non può non produrre qualcosa!», ci dice con entusiasmo.

«Voglio spiegare il rapporto che c’è tra noi e quel mondo in Congo». Rapporto che passa dal telefonino che ognuno possiede. «Sì. Non c’è ragazzino che non sia coinvolto. Tutti abbiamo a che fare con i minerali come il cobalto. Per questo parlo della “guerra che abbiamo in tasca”».

I ragazzi si coinvolgono anche con azioni pratiche. «Abbiamo lanciato dei progetti – spiega John – con scuole in Trentino e nel padovano. I ragazzi fanno raccolte di telefonini, per il riciclo. In effetti si può recuperare parte del minerale dall’apparecchio dismesso. È una ricchezza che abbiamo in tasca, anche quando si rompe, senza saperlo. È una miniera d’oro. Ad esempio l’Arpa del Friuli Venezia Giulia collabora con un’azienda svizzera che recupera l’oro dai telefonini».

La normativa in stallo

Oltra alla testimonianza, ovvero «raccontare, spiegare la nostra responsabilità» per formare l’opinione pubblica, è molto importante anche il livello istituzionale.

«Perché comunque abbiamo bisogno di qualcuno che ci aiuti a far passare una legge sulla certificazione dell’origine dei minerali con i quali si produce l’elettronica di consumo».

Gli Stati Uniti si sono dotati di una legge, nel 2010, la Dodd-Frank Act (vedi dossier MC luglio 2015), mentre l’Unione europea è in una fase di «negoziazione».

«La situazione è complicata. Il Parlamento europeo si è espresso il 20 maggio 2015 rendendo più restrittiva la proposta della certificazione volontaria. In realtà quello è stato il primo round, ora gli stati devono ratificare. In Italia c’è la Focsiv che porta avanti la “Campagna europea sui minerali dei conflitti” (vedi box) e che collabora con Rete pace per il Congo ed Eurac del Belgio».

John è deluso anche del comportamento dell’Italia: «Ero certo, sulla base dei miei contatti, che l’Italia avrebbe subito ratificato. Ma ho appreso che mentre il ministero degli Affari esteri è d’accordo, il ministero dello Sviluppo economico è contrario. Inoltre a dicembre è iniziato un negoziato trilaterale tra Parlamento, Consiglio e Commissione europea. Io non sono un negoziatore, e ho paura che diventi un nulla di fatto».

Oltre l’importante questione normativa, John scende più in profondità, per eradicare le cause: «Non basta la legge sulla certificazione dei minerali. Serve la stabilità in questi paesi. Se ci fosse uno stato che mettesse delle regole, le compagnie dovrebbero rispettarle e il livello dei problemi sarebbe diverso. Nelle miniere potrebbero lavorare solo adulti, non i bambini, e in certe condizioni di sicurezza. E soprattutto queste risorse andrebbero a beneficio del popolo del Congo e non del Rwanda o dell’Uganda che le stanno sfruttando senza controllo. E si vivrebbe un po’ meglio in Congo».

Nel 2015 John realizza la marcia da Reggio Emilia a Helsinki. Percorre a piedi 3000 km attraversando l’Europa in cinque mesi, da maggio a ottobre. «In Finlandia sono stato ricevuto da funzionari del ministero degli Esteri.

La marcia, richiesta da cittadini finlandesi che avevo incontrato a Varsavia, aveva l’obiettivo di incontrare la Nokia, che nel frattempo, a causa della crisi, era stata comprata di Microsoft. Ai finlandesi interessano molto le tecnologie. Io ho detto loro che sarebbe importante far capire ai cittadini da dove vengono i materiali per produrre i dispositivi. Loro temono che una legge di certificazione porterebbe a un aumento dei prezzi per i cittadini».

Obiettivo Africa

John è tornato in Congo in segreto nel 2014, perché sua madre e sua sorella non stavano bene. Ormai la sua lotta è conosciuta e rischia per la sua sicurezza personale. Ha un altro grande sogno che sta diventando un progetto: una marcia panafricana, che lo porti nel suo paese.

«A fine ottobre vorrei fare Reggio Emilia – Roma. Qui parteciperei a degli incontri durante la settimana internazionale per i diritti umani. Da Roma volerei a Città del Capo in Sudafrica. Da lì voglio risalire verso il Mozambico, la Tanzania e Zanzibar. Per poi attraversare la Tanzania verso Ovest per arrivare nell’Est della Repubblica democratica del Congo. Se ci riusciamo! Occorre lavorare con i movimenti della società civile, le chiese, le associazioni europee e africane. Bisogna creare una specie di scudo, perché camminare in Africa è più difficile!».

Marco Bello




Pomodori neri


  1. Angela Lano, Volti e storie dal vaso di Pandora, reportage dal cara di Mineo
  2. Giulia Bondi, Siamo uomini o caporali? , reportage dal Getto di Rignano
  3. Maurizio Pallante, Rompere il cerchio Crescita-Migranti

Questo dossier

Anche noi torniamo a parlare di migranti – sia profughi che migranti economici – dopo una drammatica estate di arrivi in Europa di decine di migliaia di persone dal vicino Oriente (Siria, in primis), dall’Africa, ma anche dall’Asia. L’Europa, divisa e litigiosa, si è letteralmente liquefatta davanti al problema. In queste pagine affrontiamo la questione con due reportage, un’analisi delle cause e un commento.
Il primo reportage è dal Cara di Mineo, la struttura in provincia di Catania, dove vengono accolti migliaia di migranti in attesa di identificazione. Il secondo viene dalla Puglia dove molti migranti sono impiegati nei lavori agricoli, quasi sempre in condizioni disumane. L’analisi di Maurizio Pallante esamina le cause delle migrazioni evidenziando un fatto mai preso in esame: è il modello economico della crescita infinita – spiega l’autore, teorico della decrescita – che produce spostamenti di popolazioni. Infine, il nostro collaboratore Gian Carlo Caselli, nella sua veste di presidente del comitato scientifico dell’«Osservatorio sulla criminalità nell’agroalimentare», affronta il tema delle agromafie e del caporalato. Passando dal pomodoro «made in China» allo sfruttamento di donne e uomini, in particolare extracomunitari, nelle campagne italiane.

la Redazione
con Giulia Bondi, Gian Carlo Caselli, Angela Lano, Maurizio Pallante

 


Reportage 1 / al Cara di Mineo (Catania)

Volti e storie dal vaso di Pandora

Un tempo era il villaggio residenziale dei soldati statunitensi di Sigonella, oggi è il «Centro accoglienza richiedenti asilo» (Cara). Famoso e controverso (anche per alcuni gravi fatti di cronaca), lo abbiamo visitato parlando con chi vi lavora e con chi vi è ospitato.

Catania, estate 2015. Al mattino presto ci rechiamo in una via vicino alla stazione ferroviaria, dove sono parcheggiate diverse auto con a bordo immigrati dell’Africa subsahariana. Sono tassisti abusivi che trasportano i rifugiati ospiti del Cara – Centro accoglienza richiedenti asilo – da Mineo a Catania, per le spese e altre commissioni giornaliere. Dopo aver contrattato il prezzo del passaggio, saliamo a bordo di un vecchio veicolo, pieno di persone.

Mineo dista un’ora da Catania. L’autista, Amin, un senegalese di 42 anni, ci racconta che talvolta lui e i suoi colleghi vengono fermati dalle forze dell’ordine, e multati per eccesso di passeggeri. Per il resto, nessuno dice nulla. Sono tre anni che fa questo lavoro e inizia a essere stanco: troppi rischi per via delle auto scassate, e poco guadagno. Sono in troppi a contendersi i viaggi da e verso il Cara: diciotto auto che lavorano dal mattino alla notte. I tassisti sono prevalentemente nigeriani, libici o senegalesi come Amin.

Il Cara è allestito nell’ex villaggio residenziale dei soldati statunitensi di stanza a Sigonella: un’ampia area nel «deserto» catanese, distante 10 km da Mineo, delimitata da filo spinato e controllata da esercito e polizia. Si entra e si esce solo con i permessi. Mentre aspettiamo l’autorizzazione a visitarlo, diversi ragazzi escono per raggiungere Catania o le aziende agricole attorno. La permanenza nel campo dovrebbe essere di circa sei mesi – in attesa del processo per lo status di rifugiato -, ma molti vi rimangono anche un anno o più.

Sono circa 3.000 i richiedenti asilo attualmente presenti nel Cara: arrivano dalla Nigeria, dal Gambia, dal Mali, dal Senegal, dal Ghana, dalla Costa d’Avorio, dalla Guinea Bissau, dalla Somalia, dalla Sierra Leone, dal Niger, dall’Egitto, dalla Libia, dall’Eritrea, ma anche da paesi non africani come il Pakistan e il Bangladesh. Per alcuni migranti lo status di profugo non arriverà mai, poiché, di fatto, non giungono da un paese in guerra o non possono dimostrare di essere perseguitati.

In Libia, con e dopo Gheddafi

Il campo è costituito da diverse case a schiera disposte su viali paralleli e da altre strutture adibite a mensa, moschea e chiesa, laboratori, uffici, scuola, ambulatorio, lavanderia, ecc. È organizzato con un esercito di operatori: sono 400 tra mediatori, assistenti sociali, medici, psicologi, avvocati, addetti alla mensa e alle pulizie.

Ci riceve il direttore del centro, Sebastiano Maccarrone, il quale ci spiega che molti degli ospiti, prima di arrivare in Europa, avevano lasciato il proprio paese per trovare lavoro in Libia. Molti, negli anni precedenti la «primavera libica» che ha rovesciato il regime di Muammar Gheddafi nel 2011, si erano ben inseriti a livello professionale e sociale. Con lo scoppio della rivolta, tuttavia, sono iniziati i problemi: persecuzioni a causa del colore della pelle, lavoro forzato, violenze, prigionia, stupri.

A migliaia, nel 2011, sono fuggiti verso le coste italiane, cercando salvezza dalle aggressioni sistematiche da parte di bande di militari di fazioni diverse: era l’«emergenza Nordafrica». Un’immigrazione di massa straordinaria ma prevedibile, vista la situazione di guerra civile in Libia.

All’emergenza delle persone immigrate nel paese nordafricano per scappare da guerre e persecuzioni si è affiancata, nei mesi e negli anni successivi, e fino ad oggi, un’altra forma di fuga: quella delle vittime del lavoro in schiavitù. È gente che viene costretta a pagare per andarsene o che è costretta a salire sui barconi da sfruttatori che, dopo averli utilizzati come manodopera gratuita, al momento di retribuirli, consegnano 2.000 euro agli scafisti per sbarazzarsi di loro. Molti di quelli che ora raggiungono le coste della Sicilia su gommoni scassati sono ancora lavoratori africani che fuggono dalla Libia post-Gheddafi. Altri, invece, si sono trovati a transitare nel paese nordafricano per tentare di passare in Europa. Tutti, indistintamente, sono finiti nelle mani di bande armate che li hanno catturati, picchiati, sfruttati, violentati e poi imbarcati a caro prezzo.

«Arrivano tutti dal caos libico – sottolinea il direttore del Cara Maccarrone -, perché con gli altri paesi del Nordafrica, come la Tunisia e il Marocco, abbiamo accordi bilaterali in base ai quali chi arriva da lì in Sicilia viene rimandato indietro. Il problema con la Libia è che manca un governo centrale con cui fare accordi. I migranti partono da vari porti. La vera questione è politica ed è internazionale: bisogna che i responsabili del colonialismo in Africa – principalmente Francia, Gran Bretagna e Usa – si occupino di questa drammatica situazione. L’Italia sta facendo un enorme sforzo».

Il direttore Maccarrone ci fa accompagnare nelle strutture del campo da una mediatrice, una giovane marocchina poliglotta. Sono terribili le storie che ci raccontano i rifugiati sulle condizioni di trattamento in Libia: descrizioni dettagliate di riduzione in schavitù e di violenze, possibili grazie al caos politico e sociale in cui è precipitata la Libia «post-primavera». Un paese senza un governo centrale – ne ha due, rivali, a Tobruk e Tripoli – e con milizie armate dovunque, Isis compreso.

Le donne dell’Africa subsahariana che si trovano a transitare in Libia vengono stuprate, portate nelle case dei ricchi e abusate. Ragazzi e uomini subiscono ogni sorta di violenze nelle carceri, che periodicamente vengono «ripulite» mandandoli sui barconi a morire in mare.

Jean Baptiste ha 22 anni e viene dalla Costa d’Avorio: è uno dei sopravvissuti al naufragio dell’aprile 2015 che uccise 800 persone. «Ho viaggiato da Tripoli all’Italia in un barcone. Avevo lasciato il mio paese all’inizio del 2014 per cercare un lavoro dignitoso in Libia. Lì i lavoratori immigrati li pagavano bene, ma a me è andata diversamente: sono finito in prigione, catturato per strada da milizie armate. Non so dire se fossero poliziotti, militari o bande criminali. In carcere ho sofferto per le violenze e i maltrattamenti. C’è razzismo contro gli Africani neri. Soffrono tanto in Libia. Non sono considerati come esseri umani».

Khalifa, 25 anni, è un musulmano di Gao, in Mali. È arrivato in Sicilia con Jean Baptiste, in aprile. «Ho lasciato il Mali nel 2010 e sono arrivato in Algeria, dove ho vissuto fino al 2012, quando ho raggiunto la Libia e sono riuscito a trovare un lavoro. Ero con mio fratello. Stavamo bene, lavoravamo per un datore di lavoro libico onesto. Purtroppo è stato ucciso da un gruppo armato e io ho dovuto cercare un altro lavoro. Così sono cominciati i miei problemi: il nuovo capo non mi pagava e quando ho iniziato a lamentarmi, mi ha consegnato a una banda di criminali, dei trafficanti, che mi hanno sfruttato. Sono finito in prigione, dove ero picchiato tutti i giorni. I carcerieri ci dicevano: “Non ci sono abbastanza cimiteri in Libia: vi faremo morire in mare”. Ci hanno costretti a imbarcarci su un peschereccio sgangherato, che è affondato con 800 persone a bordo. Soltanto in 28 siamo riusciti a sopravvivere. Mio fratello e tutti i miei amici sono morti annegati nel Mediterraneo». A questo punto, Khalifa interrompe la sua storia e scoppia in lacrime.

Le storie dei rifugiati sono simili tra loro: lunghi percorsi nel deserto, per arrivare in Libia o a lavorare o allo scopo di imbarcarsi per l’Europa, maltrattamenti, sfruttamento, violenze, tratta. Sono così somiglianti che sorge persino il dubbio che chi le racconta abbia mandato a memoria un copione per convincere chi li accoglie in Italia a occuparsi di loro e avviare la richiesta di asilo.

Chiediamo dunque agli psicologi, assistenti sociali e legali presenti nel centro di confermarci le storie ascoltate, e anche loro ci parlano di violenze, razzismo, stupri, mancanza di cibo e acqua, forme di lavoro schiavo e imbarchi forzati. «Sono tre anni e mezzo – ci racconta un’assistente sociale – che ascoltiamo storie terribili. Anche di lavoratori che prima stavano bene e che successivamente si sono trovati ai “lavori forzati” per un periodo e poi sono stati mandati via. Vengono sfruttati per mesi e quando non servono più li mettono in mare, verso l’Europa. È un esercizio di strapotere su migranti indifesi. Alcuni vengono liberati dal carcere per lavorare gratis. Dalla caduta del regime libico è iniziato questo caos. Detto in altre parole: Gheddafi dava garanzie nel Mediterraneo».

Dai barconi alla cronaca nera

Il Cara ha acquisito notorietà non solo perché è il più grande centro per richiedenti asilo d’Europa, ma anche per fatti di cronaca che hanno provocato orrore: a fine agosto, a Catania, sono stati trovati i cadaveri di due anziani. Poche ore dopo è stato arrestato un giovane della Costa d’Avorio, fuggito dal centro di accoglienza di Mineo. «“Il Cara di Mineo crea problemi che noi dobbiamo gestire con poco personale, facendo fronte all’emergenza”, ha commentato il procuratore di Caltagirone, Giuseppe Verzera, che cornordina l’indagine sul duplice omicidio. “È stato un delitto efferato – ha aggiunto – macabro, con una scena del delitto incredibile. [….]”. L’indagine però è tutt’altro che chiusa: l’ipotesi degli inquirenti è che l’ivoriano non abbia agito da solo ma abbia avuto dei complici, altri extracomunitari che la polizia di Stato sta cercando di individuare» (Il Fatto Quotidiano, 30 agosto).

Ancora cronaca giudiziaria legata a rifugiati accolti e poi fuggiti dal Cara: a settembre, a Worms, in Germania, viene arrestato un eritreo, Mulubrahan Gurum, che gestisce i soldi del lucroso traffico umano tra la Libia e l’Europa. Con questo arresto, finalmente anche i media mainstream iniziano a parlare in modo esplicito di tratta di esseri umani, di immensi guadagni, di organizzazioni criminali internazionali con ramificazioni dalla Libia (e da altre regioni africane) all’Europa: «“Dell’importo del viaggio, tra i 2.000 e i 2.500 dollari, solo il cinque per cento viene versato in contanti in Libia. Il resto deve essere pagato estero su estero. E per la conferma del buon esito è sufficiente un sms”. Il saldo, per quello che sin qui ha potuto ricostruire l’indagine della procura di Palermo, arriva normalmente in paesi come Germania, Svezia, Norvegia e Inghilterra. E qui raccolto da cassieri che provvedono a riciclarlo. Nelle intercettazioni si fa persino generico riferimento a “banche internazionali”, a trasferimenti “da Dubai all’Europa, così evitiamo i controlli”. A cambi da dollari in euro e viceversa. E del resto quello che dice Ermias Ghermay (uno dei personaggi coinvolti nell’inchiesta della magistratura palermitana, ndr) al telefono lascia intuire di quali ordini di grandezze si parli: “Ho guadagnato così tanti soldi da vivere benissimo per 20 anni, per ogni barca che mando verso l’Italia guadagno 80 mila dollari”» (la Repubblica, 12 settembre).

Il piccolo Aylan e gli altri

Quella degli ultimi anni è un’onda migratoria anomala, fenomenica (nel senso di eccezionale rispetto ai flussi fisiologici di migranti ante Primavere arabe, cioè prima del 2011), che sposta masse di persone da un continente all’altro, che provoca migliaia di morti e frutta miliardi di dollari alle organizzazioni criminali internazionali. Parallelamente, ma non disgiuntamente, ridisegna, piano piano, un’altra Europa, con altre popolazioni.

La maggior parte dei profughi di questi ultimi anni arriva da paesi come Iraq, Libia, Siria, Palestina, Afghanistan, Pakistan, Somalia, Eritrea, Etiopia, Sudan, distrutti dalle guerre occidentali (volute da Usa, Canada, Gran Bretagna, Francia, Italia, ecc.) e da quelle orientali (condotte da Turchia, Israele, Qatar, Arabia Saudita). In molti fuggono anche dallo «Stato Islamico di Iraq e Siria» (Isis), nato in seno al wahabismo saudita (alleato dell’Occidente) e da esso appoggiato e finanziato.

E ora le stesse immagini di migliaia di persone che attraversano a piedi confini e barriere nazionali o quella toccante di Aylan, il piccolo curdo di Kobane, morto sulla spiaggia turca di Budrum, vengono usate strumentalmente per creare il consenso a nuove invasioni e conflitti (contro la Siria di Assad, ad esempio) .

Rifugiati e immigrati sono oggetto di un immenso business che va dalla tratta di esseri umani reclutati nei villaggi e nelle città di diversi stati africani, all’allestimento dei viaggi sui barconi che attraversano il Mediterraneo e arrivano in Europa. Lucrano su questo traffico sia gruppi islamisti jihadisti (come accade in Libia, in Mali e in diverse altre regioni africane) sia organizzazioni criminali e mafiose locali e internazionali, e pure politici e rappresentanti di governi.

Una volta in Europa, inizia l’altrettanto redditizia gestione dell’accoglienza dell’immigrato: fondi ingenti stanziati dall’Unione Europea e destinate agli stati, e da questi, in certi casi, a amministrazioni comunali o cornoperative.

Parallelamente, c’è anche la consistente immissione nel mercato del lavoro – agricolo, commerciale, industriale – di manodopera disperata e a basso costo e lo sviluppo di nuove forme di lavoro subordinato, caratterizzato da condizioni disumane, o di semi schiavitù.

Infine, le bande criminali vedono nell’immigrato emarginato una potenziale manovalanza a buon mercato per lo spaccio, la prostituzione, ecc. Basti pensare che le mafie italiane già da tempo investono sul traffico di esseri umani, ritenuto più lucroso di quello della droga.

Nel Nord come nel Sud dell’Italia, molte campagne si riempiono di africani che, in cambio di paghe da fame, raccolgono pomodori e altra frutta che arriveranno sugli scaffali dei nostri supermercati e sui banconi dei mercati. Mentre di notte le strade delle città sono affollate di giovanissime donne nere, vittime della tratta del sesso. Forse l’ultimo gradino dello sfruttamento senza fine dei popoli colonizzati dall’Occidente.

Angela Lano*

(*)  Ricercatrice presso l’Università Federale di Salvador di Bahia (Ufba); articolo inserito in un progetto di ricerca sulla Libia sostenuto dalla «Fundação de Amparo à Pesquisa do Estado da Bahia» (Fapesb), Brasile.


Reportage 2 / Nelle campagne della Puglia

Siamo uomini… o caporali?

È una vera baraccopoli a 15 km da Foggia. Con baracche, ristoranti e bordelli. Vi abitano decine di lavoratori dell’Africa dell’Ovest. È qui che i caporali reclutano la mano d’opera. Qui occorre ingegnarsi in mille lavori. C’è pure una radio che dà voce a progetti e speranze. Reportage dal Ghetto.L’uomo senegalese ha la barba corta. In una tinozza da bucato di plastica azzurra prepara dieci chili di pastella ogni giorno, un enorme blob di schiuma morbida e chiara. Sta seduto su uno sgabello e la prende su a cucchiaiate, poi la getta in una padella di olio bollente che la gonfia e la indora, a trenta o quaranta alla volta, fino a trasformarla nei beignet più buoni di tutta la baraccopoli. «Durano fino a 35 giorni se li tieni chiusi nel sacchettino», gongola, con l’orgoglio della massaia che svela parte dei suoi segreti: «E questo perché dentro non c’è una goccia d’acqua. Solo latte e uova». Una porzione da due, in un sacchetto di plastica trasparente usa e getta, costa cinquanta centesimi.

In un altro angolo della stessa baracca di lamiera, grande, buia e non ancora rovente come sarà da mezzogiorno al tramonto, Maimuna prepara il soffritto. Ha quarantacinque anni, la pelle liscissima, occhi scuri, tunica colorata e capelli coperti da un turbante voluminoso. Il resto dell’anno fa la badante o le pulizie a Bologna. D’estate squama il pesce e cuoce il riso nella baracca di Papa Diop, senegalese, uno dei ristoratori storici del ghetto.

Pochi metri più in là, sotto il portico di lamiera e legno, affacciato sul «viale» principale, ecco Mamadou a lavorare di mannaia, per fare a pezzi la pecora che più tardi Maimuna bollirà. D’inverno, Mamadou vende le torri pendenti ai turisti, a Pisa in piazza dei Miracoli. D’estate spacca le ossa degli ovini al gran Ghetto di Rignano Garganico.

La chiamano tutti così la baraccopoli, a soli quindici chilometri dal centro di Foggia, che dà alloggio a circa duemilacinquecento braccianti. Sono quasi tutti dell’Africa occidentale francofona, lavorano nella raccolta del pomodoro e degli altri prodotti delle campagne della zona.

I braccianti vivono in baracche di plastica e cartone. Si alzano presto la mattina, i primi anche alle tre, per aspettare i «capi neri», i caporali che fanno da intermediari con le aziende agricole della zona, organizzano le squadre di lavoro e le trasportano su vecchi furgoni scassati, quasi sempre rubati, spesso con targhe bulgare o rumene.

Le pecore e i caproni che i macellai comprano da un pastore poco distante, vivono pure loro al Ghetto, almeno gli ultimi giorni della loro vita. Stanno legati per una zampa in recinti a cielo aperto, con le pareti fatte di vecchie porte e finestre di legno, recuperate da discariche e robivecchi. Qualcuna tenta di scappare, ma nessuna, alla fine, sfugge al boia, che arriva con la coca cola in una mano e il coltellaccio nell’altra, e non rinuncia a rispondere al cellulare nemmeno quando ha davanti la pozza di sangue appena uscita dalla giugulare della bestia.

Tutto quello che si potrà, finirà mangiato. Le ossa serviranno a fare il brodo. La pelle scuoiata giacerà ammucchiata su una delle tante cataste di rifiuti che nessuno dei comuni circostanti – Foggia, Rignano Garganico, San Severo – accetta di venire a raccogliere. I residenti del ghetto finiscono per bruciarle quasi ogni giorno: al puzzo di carcassa subentra quello di diossina e si libera spazio per la spazzatura dell’indomani.

Vita in baraccopoli

Prima di essere buttato, quasi tutto è stato riutilizzato e riciclato fino all’inverosimile. Le bottiglie di plastica della minerale si riempiono decine di volte dalle grandi taniche dell’acqua potabile, che a loro volta sono riempite da una cisterna, ogni mattina (pagata dalla Regione Puglia). Le bottigliette dei detersivi o delle bibite servono anch’esse per l’acqua, quella non potabile, da usare per lavarsi. La si attinge a uno dei tre punti di raccolta installati tra le baracche, circondati sempre da fango fresco e rozze canaline di scolo per contenere gli allagamenti.

Quando qualcuno si allontana verso i campi, con in mano un flacone verde che era stato di Nelsen piatti, sta quasi certamente andando a pregare, prostrato nella polvere, dopo le abluzioni rituali. Oppure a defecare, nei campi o negli uliveti, dato che i venti wc chimici installati all’ingresso del ghetto vengono puliti, da un uomo con un furgoncino cisterna e una pompa d’acqua, soltanto ogni due giorni (sempre a carico della Regione).

Esiste da circa vent’anni, ed è cresciuta ogni stagione con nuove abitazioni di fortuna, la spettacolare baraccopoli nota a tutti come il Gran Ghetto. Non è la sola città temporanea a dare riparo ai braccianti del Sud. Senza andare lontano, altri insediamenti di fortuna ci sono a Borgo Mezzanone e Borgo Tre Titoli in Puglia, o a Boreano in Basilicata.

Nei dintorni del Gran Ghetto quasi tutti i casolari, costruiti negli anni della riforma agraria e poi abbandonati, sono abitati, durante l’estate, dai braccianti impegnati nei lavori stagionali. Delle baraccopoli, il Gran Ghetto è la più grande, certamente tra le più longeve e sviluppate. Rimane abitata e in funzione anche per una parte dell’inverno per chi, oltre alla raccolta del pomodoro, lavora alla vendemmia o a quella delle olive. E molti braccianti arrivano già dalla primavera, per le verdure di serra, gli asparagi o i peperoni.

Da un anno all’altro, la plastica delle serre si ricicla come copertura delle baracche. Chi sa costruirle è in grado di metterne in piedi una piccola nel giro di un paio di giorni. Uno scheletro di legno e le pareti di cartone. E un tessuto connettivo fatto di vecchi tubi da irrigazione, su cui piantare migliaia di chiodi che, oltre a tenere insieme la struttura, servono ad appendere sacchi e zainetti per salvarli dalla polvere. Quando non raccolgono, i braccianti battono le campagne in cerca di materiali di scarto utili alla costruzione delle baracche.

Ce ne sono da otto o dieci posti, ma anche da trenta o quaranta, di proprietà dei caporali, che nella loro offerta logistica includono anche il luogo in cui dormire. Trenta euro, un materasso per l’intera stagione, con altri sette una rete a molle.

Sul modello base di baracca ci sono decine di varianti: doppio contro-soffitto in cartone, per isolarsi dal caldo straziante, e dal freddo che arriva già nelle notti di fine estate; oppure rivestimento di vecchie lenzuola, per rendere l’interno più accogliente. Il contro-soffitto in tessuto ce l’hanno soprattutto ristoranti e bordelli, che per il comfort dei clienti coprono anche i pavimenti con teloni in plastica. I più avviati hanno perfino le piastrelle.

Ristoranti, bordelli e caporali

Una ragazza guadagna dieci euro a cliente, e ne paga dieci al giorno di affitto al proprietario del locale. Al ghetto ce ne sono decine, si vedono poco perché dormono di giorno. Quasi tutte vengono dalla Nigeria.

I clienti non sono solo del Mali, del Burkina, del Senegal, del Gambia o della Guinea, come la maggior parte dei braccianti. Arrivano spesso al ghetto auto con targa italiana, guidate da uomini di mezza età, o da gruppi di amici anche molto più giovani. Dieci euro la ragazza. Un euro la birra da 33 cl, rinfrescata nei frigo alimentati dai generatori. Non più di tre euro un piatto di riso e carne, cereali o verdura, a scelta tra tante varianti di cucina africana, nella dozzina di ristorantini che si aprono tra strade e vicoli del ghetto.

Conveniente per gli italiani, la tariffa dei ristoranti rimane un lusso per molti abitanti del ghetto, pagati quasi sempre a cottimo e spesso in ritardo rispetto a quando il lavoro viene svolto. «Sono stanco, quest’anno parto appena riesco a farmi pagare», spiega Boureima, senegalese in attesa di una decisione sulla sua richiesta di asilo.

Negli ultimi giorni, ha lavorato in un’azienda agricola al taglio delle cipolle. Il pagamento in questo caso è orario, 2 euro e 75 centesimi per un’ora di lavoro, in piedi al nastro trasportatore. «Non ti lasciano riposare, neanche fermarti un momento per bere un sorso d’acqua, e allora ho deciso di smettere: aspetto i miei soldi e poi me ne torno a Roma», afferma, stufo di giornate lavorative di dieci ore in cui si guadagnano poco più di venti euro. Ogni bracciante, infatti, deve lasciare al «caporale» almeno cinque euro al giorno, per il trasporto dal ghetto al luogo di lavoro.

Funziona così anche per chi lavora nei campi di pomodori: cinque euro è la tariffa obbligatoria per farsi caricare, alle prime ore della mattina, su uno dei furgoni che, sferragliando tra nuvole di polvere, trasportano i braccianti fino al campo, stipati in venti o trenta alla volta su panchette di legno installate al posto dei sedili.

Per la raccolta del pomodoro, il pagamento è a cottimo, in base al numero di cassoni riempiti. Per un cassone da 300 kg di pomodori, il pagamento medio è di 5 euro, ma al bracciante ne restano in genere 3,50. Il restante euro e mezzo lo trattiene il caporale.

Quanto si guadagna in un giorno dipende da tanti fattori: le condizioni del terreno, la forma fisica del lavoratore, e anche quanti saranno i camion che in quella giornata arriveranno sul campo, per caricare 88 cassoni alla volta e trasportarli fino alle industrie che li lavorano per produrre la passata e i pelati.

«Se si lavora veloce e su terreno asciutto – spiega Yacouba – si possono riempire due cassoni in mezz’ora». Ma se il terreno è troppo asciutto, come nella secca estate 2015, per i braccianti spunta la concorrenza delle macchine raccoglitrici, che sostituiscono gran parte della manodopera.

Molti abitanti del Gran Ghetto non riescono a trovare da lavorare tutti i giorni.

Lavoro al Ghetto

Chi ha idee e altre capacità inventa qualcosa da fare nella vasta, sebbene povera, economia informale del ghetto: Soulimane taglia i capelli con un rasoio elettrico, su una sedia davanti alla sua baracca. «Mi piacerebbe aprire un vero salone», afferma, e ai clienti non fa mancare l’asciugamano posato sulle spalle per non sporcarsi la maglietta. Zaka si è costruito una baracca di lamiera in cui la sera brucia grandi tronchi di legno: riscalda l’acqua, a pagamento, per chi vuole prendersi il lusso di una doccia tiepida. Un giovane maliano ha una vecchia macchina per cucire Necchi. Una volta la settimana arriva il venditore di stoffe e lui si dà da fare come sarto. Nelle sere di luna piena si consuma un po’ meno la vista.

Camara, guineano, non ha capitale per avviare un’attività. Quando non lavora, si arrangia cucinando la cena per gli altri abitanti della sua baracca, che in cambio lo invitano a mangiare gratis.

Yaya si è infortunato sul lavoro. Gli è caduto addosso un cassone vuoto, il suo piede destro è gonfio come una palla da tennis. I medici del Polibus di Emergency, che quattro pomeriggi a settimana staziona davanti al ghetto, gli hanno prescritto iniezioni quotidiane. Per il weekend, quando il Polibus non c’è, gliele fa con mano sicura Angela, cuoca ivoriana, durante l’inverno badante in Sicilia. E alla fine gli sussurra all’orecchio, in francese: «Se non hai soldi, puoi mangiare a credito al mio ristorante». Lui invece qualche soldo lo trova: 10 euro dal caporale, come risarcimento per l’infortunio, assieme alla promessa di «un lavoro più leggero, alla macchina, quando sarai guarito». Altri 37, dall’albergatore campano che durante l’anno lo ospita come richiedente asilo. «È venuto a prenderci le firme, e ci ha portato il pocket money che ci spetta per quindici giorni», spiega Yaya: «Non solo a me, anche agli altri che abitano da lui e che sono qui al ghetto per la stagione». Per ogni due euro e cinquanta di «pocket money», la cifra giornaliera spettante a un richiedente asilo, l’albergatore ne riceve almeno trenta dallo stato. Stando al racconto di Yaya, anziché dichiarare che i suoi «ospiti» in questo periodo si sono allontanati e non gli costano nulla, l’albergatore preferisce farsi un giro in Puglia ogni due settimane a raccogliere le firme.

E così eccolo Yaya, sorridente nel cappello nuovo, altro regalo dell’albergatore. Le iniezioni hanno fatto effetto e quasi non ascolta il suo amico Amadou, ivoriano, che tenta di convincerlo che dieci euro sono un risarcimento irrisorio. Quasi impossibile avere il coraggio di denunciare quando si lavora a giornata, senza contratto. I pochi contratti esistenti sono falsi, non corrispondono alle giornate effettivamente lavorate.

La «voce» del Ghetto

«Il contratto agricolo provinciale prevede un pagamento di 7 euro e 92 l’ora, e un massimo di 6 ore e mezza di lavoro al giorno», spiega Yvan Sagnet, sindacalista della Flai Cgil, al microfono di Radio Ghetto. La radio è una baracca come le altre, si distingue per l’antenna che svetta in uno dei quattro angoli, legata a un palo di legno con pezzi di vecchie camere d’aria.

È aperta dalla tarda mattina fino a sera, e davanti ci sono sempre dieci o venti ragazzi. Qualcuno ci va solo per ricaricare il cellulare gratis, senza pagare i 50 centesimi che chiedono negozietti e ristoranti. Altri si improvvisano dj. Va per la maggiore il reggae africano, le voci ivoriane di Tiken Yah Fakoli o di Alpha Blondy, di cui si favoleggia che il terzo figlio viva al ghetto, e sia perfino un caporale.

Yvan, camerunense, è alla radio per condurre un dibattito sui diritti dei lavoratori. Prima di essere sindacalista è stato pure lui bracciante, nella zona di Nardò, in provincia di Lecce. Studiava ingegneria a Torino, era sceso per la stagione, per tirare su qualche soldo, e aveva finito per coinvolgere i compagni di lavoro in uno sciopero per avere condizioni migliori di lavoro.

I dibattiti, alla radio, continuano anche in sua assenza. Ibra, Akhet, Abdul e Mamadou li conducono con passione, invitano compagni e «fratelli» a fare sentire la propria voce.

In diretta alla radio chiama Toni Ricciardi, autore di un libro che racconta la strage di Mattmark, in Svizzera, quando a vivere in un ghetto erano gli italiani e la valanga del ghiacciaio Allalin, nel 1965, ne uccise 56 (assieme ad altri 32 lavoratori svizzeri, spagnoli, austriaci e tedeschi). Chiama Giulia Anita Bari, responsabile del progetto Terragiusta di Medici per i diritti umani, che fa presidio sanitario e monitoraggio nei ghetti della Basilicata. Chiamano i migranti accampati nel presidio «No Border» di Ventimiglia. Chiamano i volontari italiani che sono già passati di qui, da questo microprogetto che per il quarto anno consecutivo porta le voci del Ghetto a comunicare tra loro, e con l’esterno.

Passano dalla radio quasi tutti i bianchi che entrano ed escono, tranne quelli interessati solo alle prostitute.

Ricercatori, musicisti, gli attivisti di «Campagne in lotta» che cercano di organizzare manifestazioni con i lavoratori. I volontari di «Io ci sto», il progetto dei missionari scalabriniani che durante l’estate porta cinquanta ragazzi a settimana a insegnare italiano e riparare biciclette, sotto l’uliveto all’ingresso del ghetto.

«Ma è da noi che deve venire la voglia di ribellarci, e non dai bianchi», ribadisce al microfono Adama, che di rivolte ne ha già fatte, al centro di accoglienza di Crotone e nelle baraccopoli di Rosarno, e i diritti se li è visti scappare dalle mani proprio quando gli sembrava di stare per afferrarli. «Non dobbiamo avere paura», gli fa eco Mamadou. «Io ho visto uccidere i miei genitori. Ho visto Agadez, ho visto il deserto, ho visto le carceri libiche. Io non ho più paura».

Giulia Bondi

Nota: i nomi degli abitanti del Ghetto sono di fantasia.


Migrazioni e decrescita

Rompere il cerchio crescita-migranti

Quello delle migrazioni internazionali, lungi dall’essere un’emergenza, è un fenomeno strutturale, è parte del Dna di un’economia mondiale finalizzata alla crescita. Oltre al necessario dibattito sull’accoglienza delle persone che viaggiano verso l’Europa, è fondamentale domandarsi cosa si possa fare per evitare che esse si vedano costrette a lasciare le loro terre, divenute per molti aspetti inospitali. Una prospettiva utile è quella della decrescita, indicata anche dal papa nella sua Enciclica Laudato si’.

I flussi di migranti che, a rischio della vita e pagando altissimi costi anche in denaro, attraversano su barconi improbabili il tratto di mare Mediterraneo tra le coste del Nord Africa e dell’Europa del Sud, suscitano nell’opinione pubblica dei paesi in cui arrivano due reazioni contrastanti: quella umanitaria dell’accoglienza in nome della fratellanza e dell’uguaglianza dei diritti di tutti gli esseri umani, e quella egoistica del rifiuto che si traduce nella richiesta di riportare i nuovi arrivati nei luoghi da cui sono partiti, o di usare la forza per impedire che partano. La prima reazione è dettata da motivazioni religiose o politiche, sostenute dalle frange più a sinistra della sinistra. La seconda è motivata dalla paura per l’insicurezza sociale che può essere innescata dall’arrivo di persone prive di risorse per vivere, che possono essere indotte dall’istinto di sopravvivenza a tentare di tutto per riuscirci. Questa paura, che secondo i sostenitori dell’accoglienza sarebbe immotivata, benché l’esperienza sembri dimostrare il contrario, viene ingigantita e strumentalizzata politicamente dai settori della destra più retriva.

A conti fatti né gli uni, né gli altri fanno un’analisi approfondita delle ragioni per cui masse crescenti di persone fuggono dai luoghi in cui sono nate per riversarsi nei paesi dell’Europa occidentale. Le analisi si fermano all’ovvia constatazione del fatto che ciò avviene perché quelle persone non riescono più a ricavare dalle loro terre il necessario per vivere, a volte anche a causa di guerre sanguinose e interminabili. D’accordo, ma perché così tante persone non riescono più a ricavare da vivere dai luoghi in cui per migliaia di anni sono vissuti i loro antenati, e perché quei luoghi sono diventati teatri di guerra? Queste domande non solo non ricevono risposta, ma non vengono neppure formulate. Eppure, se non si capiscono le cause, non si può nemmeno tentare di rimuoverle, e se ci si limita a cercare di attenuarne le conseguenze, si può addirittura correre il rischio di rafforzarle.

Le migrazioni: necessarie per la crescita

La prima considerazione da fare è la seguente: le migrazioni sono una necessità intrinseca delle economie che hanno finalizzato le attività produttive alla crescita. Lo sono state sin dall’inizio della rivoluzione industriale in Inghilterra nella seconda metà del Settecento, quando in conseguenza di alcune leggi vessatorie contro l’agricoltura di sussistenza, i contadini non riuscirono più a ricavare dalle loro terre ciò di cui avevano bisogno per vivere, e furono costretti a emigrare nelle città, nelle quali trovavano da lavorare come operai nei primi opifici in cambio di un misero reddito monetario che li metteva in condizione di comprare, sotto forma di merci, i beni che non potevano più autoprodurre. Senza le migrazioni forzate degli ex contadini, l’industria non avrebbe trovato la manodopera di cui aveva bisogno per produrre merci, e nemmeno un numero sufficiente di persone provviste di reddito monetario in grado di acquistare le merci prodotte.

La crescita della produzione industriale, con cui è stato identificato il benessere, richiede un aumento costante di produttori e consumatori di merci, che sono due facce della stessa medaglia, perché per avere il denaro necessario a comprare le merci, a meno che non si viva di rendita, occorre lavorare nella produzione di merci, o nei servizi necessari al funzionamento di una società che tende a mercificare tutto, in cambio di un reddito monetario. Pertanto la crescita ha sempre avuto bisogno di costringere, con la forza legale dello stato, integrata da forme di forza illegale, e allo stesso tempo di convincere, con l’uso dei mezzi di comunicazione di massa, un numero crescente di persone a passare dall’economia di sussistenza all’economia mercantile.

Un’economia finalizzata alla crescita della produzione di merci ha bisogno di distruggere le economie di sussistenza e di avviare flussi migratori dalle campagne alle città, prima in ambito regionale (come è avvenuto in Italia nella prima metà del Novecento), poi a livello nazionale (come è avvenuto in Italia nella seconda metà del Novecento), poi a livello internazionale, come è avvenuto in Europa a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso con l’arrivo di migranti dai paesi dell’Est e dall’Africa.

«Dobbiamo aprire le nostre porte»

L’11 maggio 2015 il banchiere Carlos Moedas, Commissario europeo alla ricerca, all’innovazione e alla scienza, ha dichiarato all’emittente francese Europe1: «Bisogna avere più immigrati in Europa. L’immigrazione è necessaria alla crescita ed è certo che se potessimo avere più persone, potremmo avere più crescita. Il mio messaggio ai francesi e all’Europa è che dobbiamo aprire le nostre porte». Con una sintonia che potrebbe stupire, il XXIV Rapporto Immigrazione dal titolo Migranti, attori di sviluppo, presentato il 4 giugno 2015 all’Expo di Milano dalla struttura della Chiesa cattolica che si occupa di questo problema, la Caritas/Migrantes, ha messo in evidenza che i migranti costituiscono una ricchezza per l’Italia, perché producono l’8,8% del prodotto interno lordo, pari a oltre 123 miliardi di euro. E vengono pure pagati meno dei lavoratori italiani: un italiano guadagna in media 1.326 euro al mese, un cittadino comunitario 993, un extracomunitario 942. Per non parlare di chi lavora in nero, a cui viene dato solo il necessario per sopravvivere e tornare a lavorare giorno dopo giorno fino a quando ce n’è bisogno.

Cosa si può volere di più? Per smontare le resistenze delle persone anziane in apprensione per la loro sicurezza, i mass media ripetono in continuazione: «Come si potrebbero pagare le vostre pensioni senza i versamenti dei lavoratori stranieri?».

Un meccanismo che si autornalimenta

Per cortesia, lasciamo stare la retorica dell’accoglienza basata sui buoni sentimenti, sulla carità cristiana, sulla fratellanza e sulla giustizia sociale. Non che non ci sia chi agisce con questa nobiltà d’animo, ma chi lo fa finisce col rischiare di fare il cavallo di Troia a favore di chi, invece, utilizza i migranti (i quali per lo più sono persone nel pieno della loro forza fisica e della loro lucidità mentale) per far crescere il prodotto interno lordo dei paesi ricchi, utilizzando teste e braccia che potrebbero invece produrre ciò che serve per far uscire dalla miseria i propri paesi d’origine. Per non parlare di chi, come si è visto con l’indagine di Mafia Capitale, utilizza per arricchirsi illegalmente i finanziamenti stanziati per l’accoglienza temporanea dei migranti.

Le migrazioni dai paesi non industrializzati verso i paesi industrializzati sono causate dal fatto che questi ultimi, per sostenere la crescita dei propri sistemi economici, depredano i primi delle loro risorse, istigano i popoli che li abitano a farsi guerre fratricide, li cacciano dalle loro terre comprandole per un tozzo di pane, corrompono i loro governanti portandoli al potere e li sostituiscono o li fanno uccidere se diventano un ostacolo per i loro interessi, usano i contributi economici di aiuto allo sviluppo per costringerli a passare dall’economia non mercantile all’economia monetaria, dall’agricoltura tradizionale di sussistenza, da cui hanno sempre tratto da vivere, alle monocolture per il mercato mondiale, inducendoli a fertilizzare chimicamente i terreni per aumentare le rese fino a renderli sterili. E mentre i paesi ricchi impoveriscono scientificamente quelli poveri, anche col pretesto di aiutarli, fanno balenare davanti agli occhi dei loro abitanti la possibilità di accedere alle loro meraviglie tecnologiche.

I migranti che se ne vanno dai loro paesi nei quali non riescono più a vivere contribuiscono col loro lavoro a far crescere il prodotto interno lordo dei paesi d’immigrazione e quindi ad accentuare il loro fabbisogno di risorse. Per procurarsele, i paesi industrializzati continueranno a rapinare i paesi non industrializzati, utilizzando tutte le forme di violenza e sopraffazione con cui sono soliti sottometterli, faranno accrescere ulteriormente la loro povertà e indurranno quindi molti altri dei loro abitanti a emigrare per vivere.

Le migrazioni tendono ad autornalimentarsi. Se le organizzazioni umanitarie in cui si impegna la componente più generosa della nostra società non si preoccupano di intervenire sulle cause, contribuiscono a prolungare nel tempo l’ingiustizia e l’iniquità.

«Alla ricerca di un futuro migliore»

Premesso che alleviare una sofferenza è un dovere morale e, pertanto, deve essere svolto tempestivamente senza se e senza ma, capirne le cause è un dovere altrettanto impellente.

La comprensione delle cause che attivano i flussi migratori dall’Africa ai paesi dell’Europa occidentale è offuscata dal sistema di valori che accomuna, al di là delle differenze, tutte le correnti di pensiero presenti nei paesi in cui l’economia è stata finalizzata alla crescita della produzione di merci. Per descrivere gli occupanti dei barconi che arrivano sulle coste dell’Italia meridionale, o affondano tragicamente nel canale di Sicilia, i mass media ripetono un luogo comune di cui non immaginano le implicazioni culturali: «Disperati che si sottopongono a sofferenze indicibili e mettono a rischio la loro stessa vita alla ricerca di un futuro migliore». Il futuro migliore sarebbe l’inserimento nelle società in cui vivono i popoli che si autodefiniscono sviluppati per il fatto di avere un alto valore del prodotto interno lordo procapite. Convinti di appartenere alla società più evoluta che sia mai apparsa nella storia, inevitabilmente questi popoli pensano che il massimo desiderio dei popoli che essi definiscono sottosviluppati, sia di condividere i loro stili di vita. Di diventare sviluppati anche loro. Non riescono nemmeno a immaginare che possa esistere un’idea di benessere diversa dalla crescita del prodotto interno lordo procapite, magari più vera e più capace di futuro. Non si rendono conto che nei confronti dei migranti dall’Africa in Europa, come nei confronti dei contadini, degli artigiani e delle comunità nei paesi in via di sviluppo, si sta ripetendo la stessa storia iniziata nel diciottesimo secolo in Inghilterra.

Decrescita e stili di vita responsabili

L’unica possibilità per attenuare le sofferenze dei migranti dai paesi africani, non è spianare, seppure con le migliori intenzioni, la strada all’esigenza delle economie della crescita di accrescere con le migrazioni il numero dei produttori e consumatori di merci allo scopo di continuare a crescere, ma impegnarsi affinché i paesi industrializzati abbandonino la finalizzazione dell’economia alla crescita, riscoprendo l’importanza dell’autoproduzione per l’autoconsumo, dell’agricoltura tradizionale, dell’artigianato, dei rapporti comunitari, dell’economia del dono, della sobrietà, del rispetto della terra, della simbiosi che lega l’umanità alla fotosintesi clorofilliana attraverso il respiro, della bellezza, della contemplazione, della spiritualità. Questo recupero di valori e di modelli di comportamento del passato è una condizione necessaria per ridurre l’impronta ecologica della specie umana e per consentire una più equa ripartizione delle risorse tra i popoli, ma non sarebbe sufficiente se non venisse accompagnato da un grande slancio progettuale di innovazioni tecnologiche finalizzate all’aumento dell’efficienza nell’uso delle risorse della terra. È necessario rendere compatibile il consumo delle risorse con la loro capacità di riprodursi e di metabolizzare le emissioni che, inevitabilmente, si producono nei processi che le trasformano in beni per le esigenze vitali della specie umana.

Solo la decrescita della produzione di merci nei paesi industrializzati, attuata mediante l’adozione di stili di vita più responsabili e di tecnologie finalizzate eticamente, può ridurre la necessità di risorse, evitare che esse vengano sottratte ai popoli poveri attraverso forme sofisticate di violenza di massa, evitare a molti la costrizione dell’emigrazione rischiando la vita per il fatto di non riuscire più a trarre da vivere, come i loro avi, dalla terra in cui sono nati. Solo una decrescita con queste caratteristiche può consentire di realizzare condizioni di maggiore giustizia non solo tra i popoli, ma anche con le generazioni future.

Laudato si’

Nell’enciclica Laudato si’, con cui papa Francesco già dal titolo ha voluto sottolineare la ragione per cui ha scelto il suo nome di pontefice, la decrescita dei consumi di risorse da parte dei popoli ricchi viene indicata, seppur con alcune cautele che sembrano motivate dalla preoccupazione di attenuarne l’impatto sul paradigma culturale fondante delle società industriali, come la condizione imprescindibile per realizzare una maggiore equità tra i popoli. «[…] e? arrivata l’ora – scrive il pontefice – di accettare una certa decrescita in alcune parti del mondo procurando risorse perche? si possa crescere in modo sano in altre parti». Anche se questa interpretazione non evidenzia con chiarezza la connotazione della mercificazione insita nella crescita economica, indicando soltanto la diminuzione dei consumi di risorse da parte dei popoli che hanno più del necessario per consentire l’aumento della disponibilità delle risorse per i bisogni vitali dei popoli poveri, per la prima volta la decrescita riceve un riconoscimento della massima autorevolezza morale e viene indicata come la condizione indispensabile per realizzare in questa fase della storia la pulsione all’eguaglianza insita nell’animo umano, che costituisce l’elemento caratterizzante dell’insegnamento di Cristo. Dopo due secoli e mezzo di esaltazione acritica della crescita da parte di tutte le correnti di pensiero, di destra, di sinistra e della stessa Chiesa cattolica, a fronte dell’irrisione riservata sino a ora alla decrescita da politici, imprenditori e intellettuali che pure si vantano della loro formazione cattolica (e che, per quanta buona volontà ci mettano, non riescono dal 2008 a far ripartire la crescita economica), questa affermazione di papa Francesco segna l’inizio di una svolta storica.

Maurizio Pallante