Somalia, terra di martirio. La beatificazione di suor Leonella Sgorbati

Testi di Enrico Casale e Marco Bello |


La Cattedrale di Mogadiscio dedicata alla Consolata così come è oggi dopo essere stata bombardata.

Il 26 maggio prossimo, a Piacenza, sarà beatificata suor Leonella Sgorbati, missionaria della Consolata. Il 17 settembre 2006 a Mogadiscio suor Leonella è stata freddata con sette colpi sparati a bruciapelo da due killer che non sono mai stati né indagati né giudicati. Con lei è morto anche il somalo musulmano Mahmmed Mahmud, sua guardia del corpo. Suor Leonella aveva 65 anni, di cui 36 passati al servizio in Kenya e poi in  Somalia. Infermiera e formatrice di infermieri, aveva cercato di seminare la pace nel cuore di ragazze e ragazzi senza speranza nel futuro. Ci piace credere che ci sia riuscita, anche perché la scuola da lei fondata continua a funzionare. Vogliamo ricordare in queste pagine la sua storia, intimamente legata alla Somalia, il non-paese, che tuttavia esiste. Anche se ce lo siamo dimenticato.

Marco Bello


Indice:


Il paese inesistente.

La situazione oggi e le forze in campo

Eccetto le due zone autonome non riconosciute, Somaliland e Puntland, la Somalia resta altamente instabile. Il governo è debole e sostenuto (poco) dall’estero. Chi comanda sono i clan e i miliziani jihadisti. Restano presenti sul terreno eserciti di diverse aree del mondo. Mentre il turco Erdogan aumenta i suoi legami (e la sua influenza).

Jazera Beach, la spiaggia di Mogadiscio oggi – AFP PHOTO / Mohamed ABDIWAHAB

Quella somala è la storia di un fallimento nazionale e internazionale. Dal 1991, con la caduta del presidente dittatore Mohammed Siad Barre, il paese del Corno d’Africa vive in una costante instabilità politica e militare. La vecchia Somalia, diventata indipendente nel 1960, è ormai spezzata in tre tronconi. Al Nord, il Somaliland che si è dichiarato indipendente ed è politicamente stabile, ma che finora non è stato riconosciuto a livello internazionale. Nel centro, la regione del Puntland che, sebbene ancora formalmente legata a Mogadiscio, è diventata autonoma, con una propria struttura amministrativa e militare. Infine, il Sud dove le fragili istituzioni di Mogadiscio sopravvivono grazie all’aiuto della comunità internazionale. Le rivalità tra i clan e, soprattutto, la forza di al Shabaab, una milizia legata ad al Qaeda che controlla ampie parti del territorio, mina la possibilità di una ripresa per il paese. A ciò si aggiunge una nuova minaccia: la nascita delle prime cellule dell’Isis formate da ex miliziani fuoriusciti da al Shabaab e da guerriglieri.

Un vento di speranza

Il 16 febbraio 2017, poco più di un anno fa, sulla Somalia soffiava un vento di speranza. Dopo un complesso processo elettorale (che non prevedeva il suffragio universale, ma il voto di grandi elettori espressione dei clan) è stato eletto presidente Mohamed Abdullahi Mohamed, detto Farmajo. La fiducia riposta in lui si basava su un curriculum di tutto rispetto. Ambasciatore della Somalia negli Stati Uniti d’America dal 1985 al 1989, dall’ottobre 2010 al giugno 2011 aveva ricoperto la carica di primo ministro. Non solo, ma, da anni, Farmajo possiede la doppia cittadinanza somala e statunitense, un dettaglio che gli garantisce un sostegno aperto da parte del governo di Washington.

La sua elezione ha quindi destato molte aspettative nella popolazione che ha visto in lui la personalità in grado di portare il paese fuori dalla palude politico-militare in cui è impantanato. Ma il compito è, in realtà, molto difficile. Oggi, la Somalia è uno dei paesi più poveri del mondo: il 43% della popolazione vive con meno di un dollaro al giorno e dipende quasi totalmente dagli aiuti umanitari, il cui flusso però è compromesso dall’insicurezza generale e dai continui furti. La siccità, una successione di raccolti poveri e un rapido aumento dei prezzi dei prodotti alimentari e del carburante hanno aggravato la condizione socioeconomica somala causando varie crisi alimentari. Attualmente, più di sei milioni di somali, su un totale di circa 14 milioni, necessitano di cibo e un milione è fuggito all’estero per cercare scampo.

«Il presidente Formajo – spiega mons. Giorgio Bertin, vescovo di Gibuti e amministratore apostolico di Mogadiscio – sta facendo del suo meglio. A volte, però, ho l’impressione che le istituzioni statali stiano in piedi solo grazie all’appoggio esterno. Il sostegno estero è comunque relativo perché i partner internazionali hanno loro agende che non sempre coincidono con quella somala. Il presidente dovrebbe impegnarsi maggiormente a sganciarsi dai meccanismi interni ed esterni che lo vincolano, per cercare l’unica cosa che conta veramente: l’appoggio della popolazione più che l’appoggio internazionale».

Sospetti Al Shabaab – UN Photo/Tobin Jones

Eserciti stranieri

Attualmente c’è una massiccia presenza militare straniera nel paese. Dal 2007, l’Unione africana, con l’autorizzazione delle Nazioni unite, mantiene una forza composta da 21mila soldati e 550 poliziotti. Ne fanno parte reparti di Burundi, Etiopia, Ghana, Gibuti, Kenya, Nigeria, Uganda e Sierra Leone. Il ruolo di Amisom, questo il nome della missione, è stato fondamentale nel contrastare il diffondersi delle milizie jihadiste. Ma la missione ha comunque pagato un prezzo altissimo in vite umane. I dati ufficiali non sono mai stati diffusi, ma si stima che nei combattimenti siano morti almeno duemila soldati.

Anche l’Unione europea mantiene un proprio contingente nel paese con il compito di formare i militari del neonato esercito somalo. Questa missione, denominata Eutm Somalia, è comandata da un generale italiano e fa perno su un nucleo di soldati italiani. Nel paese ci sono anche altre presenze militari. Il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, nello scorso autunno ha portato il contingente a stelle e strisce a 500 uomini, il numero più elevato dal 1992 quando le truppe americane parteciparono all’operazione «Restore Hope». La Gran Bretagna ha poi una propria base a Baidoa nella quale le truppe speciali formano i soldati di Mogadiscio.

Arrivano i turchi

Sullo scenario somalo è comparso recentemente anche un nuovo attore: la Turchia. A ottobre, Ankara ha inaugurato in Somalia la sua più grande base militare all’estero. Nella grande struttura, che a regime ospiterà più di diecimila soldati, i militari turchi addestreranno i colleghi somali. Costata cinquanta milioni di dollari, la caserma è più di un’installazione militare. Essa è il segno del forte sostegno che il governo di Ankara offre a quello di Mogadiscio.

Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha recentemente rafforzato i legami con la Somalia sulla base della comune adesione agli ideali dell’islam politico. Erdogan ha visitato Mogadiscio due volte. Nel 2011 è stato il primo leader non africano in vent’anni a visitare la nazione devastata dalla guerra. Negli ultimi tempi è nata una collaborazione che ha avuto forti ricadute sul terreno. Aziende pubbliche e private turche hanno costruito scuole, ospedali e infrastrutture. Il governo di Ankara ha offerto molte borse di studio e ad alcuni ragazzi somali è stata offerta la possibilità di studiare in Turchia. Anche l’interscambio commerciale è in rapida crescita. Nel 2010 le esportazioni turche in Somalia ammontavano a 5,1 milioni di dollari, nel 2016 a 123 milioni. Nel giro di sei anni la Turchia è passata dal 20° al 5° posto tra i principali esportatori in Somalia.

Guy Oliver/IRIN

E l’Italia?

L’impegno turco supera ormai di gran lunga quello dell’Italia, ex potenza coloniale che, fino alla caduta di Siad Barre, ha avuto un solido rapporto con la Somalia. Attualmente, secondo quanto riporta il quotidiano finanziario «Il Sole 24 Ore» (del 18/01/2018, ndr) dei 165 milioni stanziati da Roma il 21 dicembre 2017 per la cooperazione internazionale, 13 sono destinati a cinque progetti che verranno realizzati in Somalia. Il primo prevede lo stanziamento di 3,7 milioni di euro al Fondo fiduciario delle Nazioni unite che promuove iniziative per il consolidamento dello stato di diritto in Somalia. In questo contesto, per esempio, «è prevista la ristrutturazione dell’edificio della Corte suprema e la costruzione della prigione dello stato regionale di Galmudug per migliorare le condizioni delle struttura nazionale giudiziaria». «Il secondo progetto stanzia 3,2 milioni di euro per finanziare il programma Farms Ifad e, in particolare, per migliorare in modo sostenibile la sicurezza alimentare della comunità del Puntland», con particolare attenzione agli sfollati. «Il terzo progetto contribuisce ad affrontare le sfide legate alla ricostruzione e allo sviluppo infrastrutturale della Somalia distrutte dal conflitto. E lo fa con uno stanziamento di un milione di euro a favore del Somalia Infrastructure Trust Fund della Banca africana di sviluppo. Il quarto progetto stanzia tre milioni per lo sviluppo di filiere produttive agro tecnologiche nelle regioni centrali e meridionali del paese». L’ultimo progetto, due milioni di euro, andrà ad «agevolare e sostenere gli sforzi del governo somalo e delle autorità regionali nella lotta alla disoccupazione e contribuire così alla stabilizzazione della regione del Corno d’Africa».

Rovine dell’hotel Al-Uruba – AU-IST/Tobin Jones

I fondamentalisti

Nonostante questi sforzi in campo politico, militare ed economico, continua nel paese la forte instabilità. Al Shabaab non controlla più le grandi città costiere, ma ha comunque una solida presenza nelle province dell’entroterra. Governata a lungo da Abdi aw-Mohamed, alias Godane (ucciso da un bombardamento Usa nel 2014), nel 2015 la milizia islamica è stata scossa da faide interne che sembravano averne minato la solidità e la capacità operativa. In quei giorni si pensava che i jihadisti fossero stati sconfitti e che si potesse, in qualche modo, riportare la pace in Somalia. Sotto la direzione di Abu Ubaidah però le formazioni islamiche hanno ripreso la loro compattezza e sono tornate ad organizzare attacchi contro le forze dell’Amisom, le ambasciate, i luoghi frequentati da stranieri.

A fianco di al Shabaab, hanno preso vita anche alcune cellule legate allo Stato islamico. Guidate da Abdulqadr Mumin, ex predicatore in Gran Bretagna e Svezia, per il momento hanno piccole dimensioni, ma si sono dimostrate capaci di unire i clan e i sub-clan più piccoli e da sempre esclusi dalla politica somala. Di esse fanno parte, oltre agli ex militanti di al Shabaab delusi, anche miliziani stranieri provenienti dal Medio Oriente dopo la sconfitta dell’Isis in Iraq, Libia e Siria.

«Sì, l’Isis è presente in Somalia – conferma mons. Giorgio Bertin -. Anche la stampa locale ne ha parlato. Le cellule avrebbero base soprattutto nel Puntland, la regione semiautonoma». La presenza dei miliziani di al Baghdadi desta preoccupazione perché in un video reso pubblico a dicembre i jihadisti invitano a «dare la caccia» ai non credenti e ad attaccare le chiese e i mercati. Gli Usa hanno lanciato raid con droni partiti dalle basi in Etiopia, contro gli affiliati dell’Isis facendo numerose vittime.

Ma gli attentati da parte degli islamici continuano, soprattutto a Mogadiscio, la capitale. Basta ricordare l’attacco del 14 ottobre 2017, uno dei più sanguinosi degli ultimi anni, con oltre 300 vittime. «Gli attacchi sono numerosi – afferma mons. Bertin -. Per la popolazione locale la situazione è meno drammatica. Lo è soprattutto per gli stranieri che vedono colpiti i loro luoghi di ritrovo e per questo motivo hanno bisogno di protezione. Quello che è auspicabile è che la popolazione si ribelli a questi attentati e che sia sempre più unita alle forze di sicurezza, e a quelli che cercano di riportare un po’ di legge e ordine in Somalia».

Enrico Casale

Ethiopian National Defence Forces in Hudur, capitale di Bakol Somalia – AU UN IST/Mohamud Hassan


Dall’indipendenza a Formajo

Cronologia essenziale

  • Il presidente della Somalia Mohamed Abdullahi Mohamed – AFP PHOTO / SIMON MAINA

    1960, 1 luglio – Proclamazione dell’indipendenza. Aden Abdullah Osman Daar viene eletto presidente.

  • 1969, 21 ottobre – Colpo di stato dell’esercito, il Consiglio rivoluzionario supremo designa Mohamed Siad Barre, comandante in capo dell’esercito e ispiratore del colpo di stato, come presidente. È rieletto nel 1979 per la seconda volta, e nel 1986 per il terzo mandato.
  • 1988, aprile – Firma di un accordo di pace con l’Etiopia, dopo la guerra dell’Ogaden del 1977-1978.
  • 1989, 9 luglio – Il vescovo cattolico mons. Pietro Salvatore Colombo viene ucciso con un solo colpo di pistola al cuore, nei pressi della cattedrale. L’assassino resterà sconosciuto. Nel 1991 non c’è più nessuno a custodire la cattedrale che durante la guerra civile – iniziata quell’anno e ancora in corso – sarà saccheggiata, bombardata, distrutta e le tombe dei vescovi violate per opera di forndamentalisti islamici.
  • 1989, 14 luglio – Manifestazione dopo l’arresto di capi spirituali musulmani radicali (450 morti).
  • 1990, 6 luglio – Allo stadio di Mogadiscio la guardia presidenziale spara sulla folla che contesta il discorso di Siad Barre. Le vittime sono 62.
  • 1990, agosto – Alleanza di diverse fazioni ribelli, inizia un’offensiva per rovesciare il presidente.
  • 1991, 26 gennaio – Il presidente Mohamed Siad Barre viene destituito. Al suo posto Ali Mahdi Mohamed.
  • 1991, 18 maggio – Il Nord si dichiara indipendente con il nome di Somaliland e capitale Hergheisa.
  • 1991, 18 novembre – Il presidente Ali Mahdi Mohamed viene rovesciato dal generale Mohamed Farah Aidid.
  • 1992, 3 dicembre – Inizia l’operazione militare Restor Hope, eseguita dagli Usa sotto l’egida delle Nazioni Unite.
  • 1993, 23 marzo – Risoluzione dell’Onu che crea l’Operazione delle Nazioni Unite in Somalia (Onusom II).
  • 1993, 3 ottobre – Nella battaglia di Mogadiscio vengono uccisi 18 militari statunitensi e un casco blu per la caduta di un elicottero abbattuto dai miliziani. I morti somali sono centinaia. È il fallimento di Restor Hope.
  • 1994, 20 marzo – La giornalista Ilaria Alpi e l’operatore Miran Hrovatin, entrambi italiani, sono assassinati a Mogadiscio. Stavano conducendo un’inchiesta sui rapporti tra funzionari italiani e Siad Barre, alla fine degli anni Ottanta. Lavoravano anche su una pista di traffici illeciti di armi e rifiuti.
  • 1994, 29 marzo – L’ultimo militare statunitense lascia il paese. Un anno dopo finisce la missione Onusom II.
  • 1996, 1 agosto – Muore il presidente Aidid, gli succede il figlio Hussein Mohamed Farah.
  • 1998, 1 agosto – Il Puntland, nel Nord Est, si dichiara regione autonoma.
  • 2003, 5 ottobre – La missionaria laica Annalena Tonelli viene assassinata con un colpo alla nuca, a Borama, nel Somaliland, dove dirige un centro medico.
  • 2004, agosto – Inaugurazione a Nairobi di un parlamento di transizione in esilio. A dicembre Abdullahi Yusuf Ahmed è eletto presidente di transizione.
  • 2006, febbraio – Prima sessione del parlamento di ritorno dall’esilio, a Baidoa.
  • 2006, febbraio – Scontri a Mogadiscio tra «i signori della guerra» e i miliziani delle corti islamiche. Vinceranno questi ultimi.
  • 2006, 4 settembre – Firma di un accordo di pace provvisorio tra il governo di transizione e le corti islamiche. I negoziati falliranno a novembre.
  • 2006, 17 settembre – Assassinio di suor Leonella Sgorbati, missionaria della Consolata, a Mogadiscio. I responsabili non saranno mai giudicati.
  • 2006, dicembre – L’Etiopia entra in guerra contro le corti islamiche e conquista Mogadiscio insieme al governo di transizione.
  • 2007, gennaio – Gli Usa iniziano dei raid aerei nel Sud del paese contro i jihadisti.
  • 2007, febbraio-aprile – L’Onu autorizza una missione africana per il mantenimento della pace, Amisom. Il governo si installa a Mogadiscio, dove continuano i combattimenti.
  • 2008, agosto – Gli islamisti riprendono Kisimayo.
  • 2009, aprile – Imposizione della Sharia, la legge islamica.
  • 2009, settembre – I miliziani di al Shabaab dichiarano la loro alleanza ad Al Qaeda. Continuano gli attentati contro membri del governo e del parlamento, l’Amison e anche la moschea di Mogadiscio.
  • 2011 – L’Onu decreta lo stato di «emergenza fame» in diverse regioni somale.
  • 2012, settembre – Hassan Cheikh Mohamoud è eletto presidente dai deputati e subito scampa a un attentato.
  • 2017, febbraio – Mohamed Abdoullahi Formajo eletto presidente. A ottobre un attentato a Mogadiscio causa oltre 300 vittime.

Ma.Bel.

Forze della Missione dell’Unione Africana in Somalia (AMISOM) a Kismayo – Phil Moore/IRIN


Leonella Sgorbati,

formatrice di pace in mezzo alla guerra. La suora con il cuore «extra large»

Se lo aspettava, in fondo al suo cuore, il martirio. Il rischio era grande, eppure ogni giorno andava nell’ospedale spinta dall’amore per i suoi studenti e dalla fede in Dio. Pur molto amata in Kenya, dove aveva insegnato e curato per 30 anni, aveva scelto di stare a Mogadiscio per
costruire con le ragazze e i ragazzi che formava come infermieri un futuro migliore. Perché ci credeva, suor Leonella, che un giorno anche la Somalia avrebbe visto la pace.

Sono le 12,30 di domenica 17 settembre 2006. Suor Leonella Sgorbati, 65 anni, sta attraversando la strada che separa l’Ospedale Sos, dove lavora, dal Villaggio Sos, dove vive con altre quattro consorelle, missionarie della Consolata. Torna a casa dopo la consueta mattinata di lezione. A Mogadiscio la situazione è molto difficile e gli stranieri sono presi di mira. Le sorelle non si allontanano mai dai due compound, eccetto che per recarsi all’aeroporto quando devono uscire dal paese. Anche per attraversare quell’unica strada, le suore hanno la scorta.

Nel breve tempo dell’attraversamento, due uomini compaiono da dietro un taxi e fanno fuoco su suor Leonella e Mohammed Mahmud, la sua guardia del corpo, che muore subito. Suor Leonella viene trasportata all’ospedale, dove muore poco dopo con sette proiettili in corpo. Le sue ultime parole sono: «Perdono, perdono, perdono».

A quasi dodici anni da quel giorno, grazie a un grande lavoro delle sue consorelle, la missionaria sta per essere beatificata, il 26 maggio a Piacenza. «Nel marzo dell’anno scorso è stato riconosciuto il martirio di suor Leonella – ci racconta suor Renata Conti, postulatrice generale -. Nel Capitolo del 2011 decidemmo di iniziare la causa di beatificazione. Abbiamo così raccolto la documentazione e realizzato un’inchiesta diocesana approfondita, ascoltando molti testimoni. Il presidente della commissione d’inchiesta era monsignor Giorgio Bertin, vescovo di Gibuti e amministratore apostolico della Somalia. I risultati ci hanno dato ragione e papa Francesco ha emesso il decreto di beatificazione lo scorso 8 novembre».

Infermiera e formatrice

Giunta in Kenya nel 1970, infermiera, lavora nel Consolata Hospital a Mathari, Nyeri e al Nazareth Hospital in Kiambu nei pressi di Nairobi. Si rimette poi a studiare ottenendo due diplomi di livello universitario e diventando formatrice di infermieri. Un passaggio fondamentale della sua esistenza. «Il lavoro in ambito sanitario le fece, ben presto, capire quanto fosse fondamentale preparare personale qualificato che, poco per volta, potesse assumere i ruoli fino allora portati avanti dalle suore. Per fare questo, era necessario istituire delle scuole per infermieri. Suor Leonella sognava in grande: non si sarebbe mai accontentata di qualsiasi risultato, voleva raggiungere alti livelli di qualità. Non era facile, oggettivamente, sebbene fosse entusiasta e capace, alle volte doveva piegarsi di fronte alla difficoltà o impossibilità», scrive suor Renata in un documento sulla vita della beata. «Assunta la direzione della scuola per infermieri a Nkubu, nel Meru (Kenya), una delle sue prime preoccupazioni fu quella di conciliare le regole con la formazione: era infatti chiara per lei l’esigenza di un sistema di insegnamento che includesse una formazione integrale dei giovani. Era proprio il suo punto fermo, ci teneva che gli studenti crescessero umanamente e spiritualmente, che diventassero dei professionisti competenti, ma anche degli operatori sanitari con un cuore accogliente, al servizio della persona che avevano davanti».

La superiora col sorriso

Dal 1993 al 1999 è superiora regionale delle missionarie della Consolata in Kenya, rieletta per due mandati consecutivi. È molto amata, per il suo sorriso accogliente e per un cuore grande. Durante le visite come superiora spesso cita l’Allamano: «Bisogna avere tanta carità da dare la vita. Noi missionari siamo votati a dare la vita per la missione».

Scrive su una circolare per le consorelle del Kenya: «Noi, sia individualmente, che come comunità, dobbiamo renderci disponibili al processo dell’incarnazione del Figlio in noi per poter essere la consolazione del Padre. Cosa significa questo in pratica? Significa accogliere che il Figlio sia libero in ciascuna di noi, in me, libero di perdonare attraverso la mia persona a chi mi reca offesa, libero di spezzare il pane della bontà, della comprensione nella comunità, libero di farmi percorrere l’itinerario che il Padre ha fatto fare a lui, con le scelte che il Padre indica. […] Libero di amare attraverso di me con l’amore più grande, l’amore che va fino alla fine, che è più forte dell’odio e dell’inferno, nella verità, nella pratica di ogni giorno e di ogni momento».

Una scuola per la Somalia

Nel 2001 viene chiamata in Somalia, per fondare una scuola per infermieri sul modello di quella che ha diretto in Kenya.

Il paese ha già vissuto 10 anni di guerra. «L’ospedale Sos era l’unica struttura sanitaria di Mogadiscio che lavorasse in ambito pediatrico a titolo gratuito. Era stata questa Ong (Kinderdorf International) a progettare la scuola per infermieri e a coinvolgere le missionarie della Consolata nella partecipazione e realizzazione del Somali Registered Community Nursing», scrive suor Renata. «La gente la voleva fortemente: erano dieci anni che non si formavano infermieri e medici in Somalia».

Ma il paese è allo sbando e il fondamentalismo musulmano ha oramai preso piede e ogni attività condotta da stranieri, per di più cristiani, è guardata con sospetto. Continua suor Renata nel suo scritto: «In Somalia, al di là della fatica, le sfide erano molteplici su tutti i fronti: anzitutto, il metodo formativo di suor Leonella doveva essere adeguato alla nuova situazione di insegnamento come esigevano le autorità civili. Era, inoltre, indispensabile una formazione integrale che servisse a far crescere i giovani umanamente, in modo da poter servire meglio la vita fragile e ferita dei malati. Come proporre, però, i valori su cui lei aveva sempre fatto leva, in un ambiente musulmano? Si dovevano ricercare elementi comuni tra cristianesimo e islam. Era necessario dimostrare che le nozioni scientifiche che lei promulgava non erano contro il Corano. Bisognava convincere i ragazzi, e l’ambiente in generale, che lei non faceva proselitismo, anzi, che rispettava e valorizzava il dialogo interreligioso. Eppure, c’era chi non ci credeva e pensava che suor Leonella usasse la scuola per convincere i giovani a farsi cristiani».

Una presenza costante

Le missionarie della Consolata erano arrivate in Somalia nel 1924, inviate, in quel tempo, dal fondatore Giuseppe Allamano in persona, che aveva detto al primo gruppo: «Partite, andate tra musulmani; sarà un campo duro, arido, non importa, lavorate, seminate, non aspettate frutti per cinquant’anni, poi il seme frutterà». Da allora c’era sempre stata una presenza costante, divenuta l’unica cattolica ufficiale. Ma nel 1991, a causa della guerra, le religiose hanno dovuto ridurre drasticamente le attività. Vi è rimasto un piccolo gruppo, di quattro, talvolta cinque sorelle, che lavorano come volontarie all’ospedale Sos Kinderdorf International, Ong presente nel paese dal 1983, che opera in favore dei bimbi senza famiglia o in difficoltà. «Una presenza che la Santa Sede di chiedeva di mantenere», spiega suor Renata.

L’assassinio di suor Leonella e della sua guardia del corpo spezza questa continuità. «Noi saremmo rimaste – ci racconta suor Renata – ma l’Ong ci impose di andare via. Il giorno stesso del viaggio della salma di suor Leonella a Nairobi, le nostre sorelle dovettero partire. E non siamo mai più tornate. Tuttavia diciamo che per noi la Somalia non è “chiusa”, ma “sospesa”; ci fosse uno spiraglio di luce potremmo eventualmente tornare».

Quando è arrivata in Somalia suor Leonella non c’erano scuole per infermieri in tutto il paese. Lei ne ha creata una di buon livello e riconosciuta dall’Oms sia per ragazzi che ragazze.

«Inoltre, lei era simpatica, gioviale, capace di farsi voler bene. I giovani, i suoi allievi la adoravano. E anche questo era mal visto, perché i radicali musulmani dicevano che convertiva i ragazzi al cristianesimo. Era una novità formare anche le ragazze. Di fatto si dava una speranza a questa gioventù, ma questo non è piaciuto ai fondamentalisti islamici perché formare i giovani è, per loro, un rischio». Con tutta probabilità è questo il motivo per cui è entrata nel mirino di qualche gruppo islamista.

Pressioni e intimidazioni

«In quel paese non era permessa l’evangelizzazione, si poteva solo testimoniare il Vangelo con la vita. La Somalia era, ed è, per il 99.99% musulmana con forze interne tendenti all’estremismo islamico. Vi erano manifestazioni frequenti e reazioni impreviste e violente nei confronti dei pochi cristiani, e questi erano costretti a visitare le suore di nascosto perché avevano molta paura di venire scoperti. I fondamentalisti cercavano, con tutti i mezzi, di forzare le sorelle, quattro in tutto, ad abbracciare la loro fede. Suor Marzia Feurra (superiora della comunità, oggi in missione a Gibuti, ndr) più volte fu assediata dai fondamentalisti perché diventasse musulmana: non potevano accettare che la loro gente fosse curata e aiutata da cristiani.

Sul giornale locale scrissero molte volte contro l’Ong Sos e contro le suore, avvertendo la gente di guardarsi bene da loro perché stavano cercando di fare proseliti. La gente, però, non dava peso a quanto veniva scritto, sapeva che era solo propaganda, ed ebbe sempre una grande fiducia nelle sorelle. Tutto questo e altro ancora, richiedeva una prudenza non comune perché non si era mai sicuri se il fratello che ti stava dinanzi era un amico o un nemico», racconta suor Renata.

Inoltre nel periodo in cui suor Leonella viene uccisa, c’è molta tensione a livello mondiale. Il 12 settembre, 5 giorni prima dell’uccisione, papa Benedetto aveva pronunciato il discorso di Ratisbona, nel quale una citazione dell’imperatore bizantino Manuele II il Paleolgo1, è stata ritenuta particolarmente offensiva per i musulmani, e in un clima già incendiario, ha creato reazioni a livello planetario. Dall’indignazione di alcune cariche islamiche ufficiali, alle manifestazioni di piazza, a violenze contro chiese e strutture cattoliche nel mondo, fino a minacce di morte verso il papa stesso.

Ratzinger esprimerà poi «vivo rammarico» per quelle reazioni sottolineando che: «Il mio era un invito al dialogo franco e sincero». Ma il danno è compiuto e chi vuole approfittare della situazione internazionale, e soprattutto dell’impunità che garantita da questa tensione, lo ha già fatto.

«“Noi dobbiamo dimostrare ai cristiani chi siamo”, dicevano nelle moschee. Ma gli unici cristiani in Somalia erano le nostre sorelle», ricorda suor Renata.

Una presenza che continua

Un fatto importante è che la scuola per infermieri fondata e organizzata da suor Leonella è ancora funzionante. «Il livello è un po’ sceso, ma continua a formare giovani», assicura la postulatrice. «È gestita oggi da ragazzi e ragazze che suor Leonella ha formato e fatto crescere. Lei aveva questo approccio: formare le persone locali affinché prendano in mano le opere». Una visione lungimirante dunque, che non si ferma al tempo di una presenza esterna, ma vuole gettare radici profonde.

Perché il martirio

Suor Simona Brambilla, superiora delle Missionarie della Consolata, ricorda così la beata: «Rivisitare il percorso di suor Leonella fino al suo martirio e oltre, significa venire a contatto col mistero della vita di una persona amata e amante. Significa affacciarsi su una vita che è porta tra cielo e terra, tra grande e piccolo. Significa essere ammesse a varcare, con trepidazione e gratitudine, una soglia sacra, una porta di Dio. Questo è il senso del nostro celebrare suor Leonella: celebrare un mistero di amore e dolore, di vita e di morte, intrecciate in un sacro, fecondissimo abbraccio; celebrare la consegna totale di Leonella al suo sposo, ma anche di Dio alla sua sposa.

Così, suor Leonella consegnava la sua vita: “La tua vita, il tuo amore, il tuo sangue… riceva la mia vita, il mio amore, il mio sangue… mi sento povera, incapace, accoglimi ugualmente, sono certa del tuo amore e della tua accoglienza”».

Chiediamo a suor Renata i suoi sentimenti sulla beatificazione: «Sono molto felice perché io ci credo a questo martirio. Non è stato un incidente. Suor Leonella si è preparata a questo evento, per tutta la vita. Nel cuore ha sempre avuto un’adesione costante al Signore, anche con alti e bassi come ognuno di noi. Era una persona molto radicale, nelle sue scelte». Il governo italiano di allora a non ha fatto nulla per scoprire la verità sull’assassinio della connazionale. Il ministro degli Esteri era Massimo D’Alema. Ricorda suor Renata: «Non fecero assolutamente niente. All’inizio dell’inchiesta ecclesiastica, avevo tentato andando alla Farnesina, ma mi hanno detto: “È meglio che non indaghi, è meglio non esporsi”. Inoltre non c’è stato nessun processo in loco. Abbiamo accolto questo fatto con dispiacere, ma non c’è stato alcun intervento da parte ufficiale».

Le spoglie di suor Leonella sono portate a Nairobi, dove il 21 settembre 2006, viene celebrato il funerale alla presenza di tantissima gente, autorità, missionarie e missionari, operatori dell’Ong, amici.

«Suor Leonella è morta inseguendo la visione di una Somalia stabile e pacifica – dice monsignor Giorgio Bertin durante l’omelia per il suo funerale2. «Lei era convinta che una nuova Somalia, guarita dal flagello della guerra civile è possibile. […] La sua vita, il suo sorriso e la sua innocenza ci dicono che un mondo nuovo è possibile, una nuova Somalia è possibile. Lei fu ispirata dalla convinzione che il nuovo mondo che Gesù è venuto ad annunciare è già cominciato qui sulla Terra. E non è una coincidenza che morì insieme a un uomo musulmano. […] Vivere insieme, nonostante le differenze, richiede la conversione del cuore, speranza, determinazione e perseveranza».

Marco Bello

Note

(1) «Mostrami pure ciò che Maometto ha portato di nuovo, e vi troverai soltanto delle cose cattive e disumane, come la sua direttiva di diffondere per mezzo della spada la fede che egli predicava».
(2) Agenzia Cisa, 21 settembre 2006.


«Ho vissuto con una santa»

Il ricordo di suor Marzia, che è stata in Somalia con suor Leonella

Funerale e sepoltura di sr Leonella Sgorbati

Suor Leonella era una persona del tutto normale, con le sue doti e le sue fragilità. Amava la sua vocazione e la sua famiglia religiosa, metteva tutto il suo entusiasmo nel realizzare la missione che Dio le aveva affidato e pur di realizzarla non guardava al sacrificio.

Amava le sorelle, ed era sempre presente alle attività comuni, la ricreazione per lei era sacra.

Anche nei momenti di tensione per la difficile situazione che stavamo vivendo a causa della guerra, lei aveva sempre quel senso di «humor» e cercava di tirarci fuori.

Penso che facesse la differenza l’intensità d’amore con cui lei agiva, facendo sì che le cose ordinarie diventassero straordinarie.

Suor leonella aveva un fuoco dentro che la divorava e questo si percepiva nel suo comportamento: voleva aiutare tutti, salvare tutti, si prendeva a cuore i problemi di ognuno e scherzosamente diceva che avrebbe voluto ritirare tutti i fucili della Somalia.

Aveva un carattere molto forte e volitivo con la sua tenacia e costanza riusciva a superare tante situazioni difficili e di rischio. La chiamavamo il «vulcano», sempre in eruzione. Aveva idee e progetti nuovi da presentare, tutti molto belli e utili per la gente, ma dovevamo fare i conti con la situazione che stavamo vivendo, che non ci permetteva di espanderci perché eravamo persone non gradite, e in tanti modi eravamo tenute d’occhio e sotto controllo.

Molte volte ci siamo trovate in situazioni veramente difficili e queste richiedevano da noi un discernimento non facile: «Partire o restare?». Partire voleva dire mettere in salvo la nostra vita che ha il suo valore. Restare voleva dire rischiare, ma di fronte alle necessità della gente nessuna di noi si sentiva di lasciare la missione, perché l’ospedale SOS era l’unico centro che aiutava i poveri e salvava tante vite.

Al mattino arrivando in ospedale si vedeva molta gente che pazientemente aspettava il proprio turno per essere visitata: donne a rischio della vita per i parti difficili, bambini disidratati e denutriti ecc. Di fronte a queste emergenze dimenticavamo tutti i nostri problemi ed eravamo felici di stare con la gente e donare loro un aiuto concreto. Ci dava tanto coraggio la parola del nostro padre fondatore, il Beato Allamano, che incoraggiava la fedeltà alla missione anche a costo della vita.

Quando suor Leonella è giunta in Somalia la situazione religiosa e politica andava sempre più deteriorandosi, e la lotta tra i gruppi si faceva sempre piu serrata, creando sempre nuovi focolai di guerra che davano tanta insicurezza.

Al contrario del Kenya, un paese libero dove la chiesa è una forza, la Somalia è un paese chiuso e a rischio, dove tutto è sotto controllo e la piccola chiesa viveva come nelle catacombe. Nessun segno religioso, tutto era stato distrutto, la cattedrale bruciata e le chiese rase al suolo.

L’unico Tabernacolo presente in Somalia era in casa delle suore e noi eravamo l’unica presenza di chiesa, anche se avevamo la messa solo ogni tre mesi, perché era impossibile la presenza di un sacerdote, la presenza di Gesù Eucaristia ci dava tanta energia e tanta forza per continuare il cammino.

Il pensiero di tenere questa piccola presenza di Chiesa Cristiana in un paese totalmente musulmano ci dava tanta speranza e ci aiutava a superare le tante difficoltà di ogni giorno.

Per suor Leonella la Somalia ha avuto un impatto molto forte. Per lei questa impotenza è stata come un martirio, ma non si è mai scoraggiata, mai ha ceduto le armi, e anche se con tanta fatica, ha sempre cercato di ubbidire alla limitazione dell’ambiente perché Gesù Eucaristia era la sua forza.

suor Marzia Feurra

Annalena Tonelli


Gli italiani uccisi in Somalia, terra dell’impunità

Quattro omicidi. Quattro italiani. Tanti sospetti. Mons. Salvatore Colombo, Annalena Tonelli, Ilaria Alpi e Miran Hrovatin sono le vittime di quattro casi che collegano in modo misterioso e drammatico l’Italia alla Somalia.

Monsignor Salvatore Colombo

Quella di mons. Salvatore Colombo è una storia dimenticata. Vescovo di Mogadiscio, viene assassinato il 9 luglio 1989. L’assassino è rimasto senza nome né volto, e non si sa perché abbia ucciso il prelato e se, dietro quell’omicidio, ci fossero mandanti eccellenti. È stato il regime a ucciderlo? Oppure c’erano altri interessi? Una possibile pista, ricostruita da «Avvenire», potrebbe essere quella delle tante ombre della cooperazione italiana in Somalia. Un ex agente dei servizi segreti italiani Aldo Anghessa è perentorio: «Monsignor Colombo era contro la Giza, cioè una delle maggiori imprese italiane in affari con il regime di Barre». Questo lo portò a scontrarsi contro i poteri forti di Mogadiscio. Il vescovo inoltre si rifiutava di distribuire gli aiuti della Caritas come chiedeva Barre, che pretendeva andassero a chi diceva lui. Anche questo potrebbe avergli attirato le ire del dittatore somalo. Nessuno ha mai indagato. E oggi, dopo la distruzione della cattedrale di Mogadiscio e dei suoi archivi, ricostruire la vicenda e risalire ai colpevoli è diventato impossibile.

Su di lui si può leggere: Massimiliano Taroni. Mons. Salvatore Colombo, vescovo dei poveri e martire della carità, Ed. Velar, 2009.

Annalena Tonelli

Anche il caso di Annalena Tonelli rimane (in parte) irrisolto. Forlivese, laureata in legge a Bologna, si trasferisce a Nairobi a 26 anni come missionaria laica. Da quel momento non lascia più l’Africa e lavora per aiutare poveri e ammalati. «Il mio primo amore – dirà – furono i malati di Tbc, la gente più abbandonata, più respinta, più rifiutata». La Tonelli studia una cura per guarire la Tbc in sei mesi contro i 12 o i 18 necessari fino ad allora, ma gli ammalati devono rimanere nel luogo di cura, non a casa. Lei mangia pochissimo, dorme quattro ore a notte, possiede due tuniche e uno scialle e si concede solo, ogni tanto, un po’ di caffè. Di fronte all’emergenza Aids, inizia a occuparsi anche dei malati colpiti da quel virus. Si attira le invidie dei capi locali. Alcuni di essi organizzano manifestazioni contro di lei perché «accoglie i malati di Aids e contagia una comunità di puri». La accusano poi ingiustamente di prendere i contratti dell’Onu senza coinvolgerli e consultarli. Nonostante i tentativi di riappacificazione, le tensioni rimangono. Il 5 ottobre 2003, Annalena viene uccisa con un colpo di fucile nel suo ospedale di Borama, in Somaliland.

Ilaria Alpi e Miran Hrovatin

Oscuri anche i motivi della morte di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, giornalista e cineoperatore della Rai, freddati il 20 marzo 1994 a Mogadiscio. Da allora processi, commissioni parlamentari e inchieste giornalistiche non sono riusciti a fare chiarezza sulla vicenda. Ciò che si sa è che i due giornalisti del Tg3 erano in Somalia per seguire il ritorno in patria del contingente italiano inviato in missione di pace nel Corno d’Africa. La Alpi però stava indagando su un traffico di armi e rifiuti tossici che coinvolgeva «i signori della guerra» locali e navi provenienti dall’Italia. Nel caso si mescolano interessi italiani e somali, depistaggi. Le note del Sismi (servizi segreti italiani) del 1994 confermano i risultati di molte inchieste giornalistiche svolte negli anni: «Ilaria Alpi è stata uccisa perché indagava su un traffico di rifiuti e armi. I mandanti vanno ricercati tra militari somali e cooperazione». Sono passati ormai 24 anni e ricostruire una verità giudiziaria è sempre più complesso. Non rimane che tessere le fila di un contesto politico e militare per ottenere almeno una verità storica.

Enrico Casale

20 ottobre 2017. preghiera in piazza dopo l’attacco terroristico del 14 ottobre che ha lasciato 276 persone uccise e oltre 300 ferite –  AFP PHOTO / Mohamed ABDIWAHAB


Un sacerdote a Mogadiscio

Incontro con il cappellano militare degli italiani

È un’eccezione: oggi un prete cattolico in Somalia può essere solo quello dell’esercito. Padre Stefano Tollu spiega la sua scelta e ci racconta, da una posizione di osservazione privilegiata, la vita nella capitale somala e gli incontri clandestini con i rarissimi cristiani di quel paese. Una comunità che si autodefinisce «in via di estinzione».

È l’unico sacerdote cattolico a Mogadiscio. Un prete in un mondo musulmano. Non è un parroco e neppure un religioso. È il cappellano del contingente militare italiano di Eutm, la missione di formazione e addestramento delle forze armate somale. Padre Stefano Tollu non è però estraneo all’Africa. Per anni ha servito come salesiano in Angola e Kenya. Oggi la sua missione è, forse, più difficile di quella svolta un tempo: offrire assistenza spirituale ai militari e al personale delle organizzazioni internazionali in un contesto particolare come quello somalo. Un ambiente complesso nel quale ha avuto occasione di incontrare anche il leader della piccola comunità cristiana locale che vive nascosta.

Missionario con le stellette

La strada di padre Tollu dall’Angola alla Somalia non è stata facile né lineare. È lui stesso a raccontarla: «Nasco come salesiano di don Bosco e, dopo gli studi di filosofia, ho vissuto undici anni in Angola e Kenya dove mi sono formato teologicamente e pastoralmente. Nel 2015, al mio ritorno in Italia, ho preso la scelta sofferta di non continuare a servire il Signore nei salesiani. È emersa la possibilità di svolgere il servizio presso l’Ordinariato militare. Ho accettato. Nel 1991-92 avevo svolto il servizio militare di leva negli alpini. Quello è stato un momento fondante della mia personalità e della mia spiritualità. Allo stesso tempo, ho sempre avuto amici nelle forze armate. Come capellano lavoro tra professionisti, spesso messi alla prova da situazioni complesse, alle quali rispondono con sacrificio e dedizione, non sempre riconosciute».

Non porta armi, non ha una preparazione militare. Il suo è un servizio spirituale. «L’esperienza missionaria mi ha aiutato molto – continua -, poiché mi ha dato la capacità dell’ascolto e della temperanza, ma anche la propensione all’elasticità e all’incontro verso l’altro. In questa nuova dimensione ho scoperto una purificazione interiore del mio servizio sacerdotale, laddove è aumentata la mia attenzione non al “fare”, ma all’essere strumento del Signore. È stato per me traumatico il non sentirmi compreso in questa mia scelta. Tante persone che per anni mi sono state vicine sono rimaste sorprese dal mio andare con i militari. Sono stato etichettato come “prete guerrafondaio” o traditore, parole forti che mostrano come non sia compreso il nostro servizio da tanti fratelli cristiani. Ho scoperto però in queste sofferenze, grazie alla preghiera e alla sana solitudine, la forza necessaria per camminare in questa nuova strada della mia vocazione».

Padre Stefano incontra i militari, li visita nei loro uffici, parla e scherza. Entra in confidenza con loro. E i militari si aprono a lui. Gli raccontano i loro problemi spirituali e personali. Nella sua diversità si sente sempre missionario «poiché sono in costante movimento, andando alla ricerca dell’altro, del fratello, porgendogli e condividendo con lui il Signore, nella mia fragile povertà umana». Lo scorso anno gli viene offerta la possibilità di tornare in Africa al seguito della missione italiana in Somalia. Padre Tollu accetta.

Soldati dell’AMISOM – AU UN IST/Ilyas A. Abukar

Somalia blindata

«L’opportunità di svolgere la mia missione all’estero mi fa sentire a casa – osserva -. Sono al servizio del contingente italiano, ma con il permesso del mio vescovo e delle forze armate, mi sono messo a disposizione del personale non italiano, assistendo anche i lavoratori ugandesi presenti nella nostra base, i soldati del Burundi della base accanto alla nostra, i lavoratori di Fao, Nazioni Unite e Ong. Le mie messe sono una bellissima Babilonia di preghiere in italiano, francese, inglese, kirundi, swahili e altre lingue ancora».

A Mogadiscio è l’unico sacerdote cattolico. In tutta la Somalia, compresi i pastori protestanti, i religiosi cristiani sono quattro o cinque. «Il cappellano militare del contingente del Burundi, padre Albino, lavora nel Nord della Somalia – osserva padre Stefano -. In sei mesi ci siamo visti due volte. Con piacere accompagno i suoi ragazzi di nazionalità burundese ed è una bellissima testimonianza di unità della Chiesa. Ho avuto il piacere di celebrare l’Eucarestia del Natale con il pastore Rodriguez, battista, cappellano degli Usa. Lui si trova a Gibuti e, nell’impossibilità di seguire i suoi connazionali qui a Mogadiscio, ha chiesto la mia disponibilità. La risposta era scontata poiché, prima ancora che me lo chiedesse, mi ero messo a disposizione di tutti». Difficile invece per lui incontrare i musulmani. «La realtà islamica è frammentata con leader legati a diverse scuole coraniche – chiarisce -. Non ho avuto il piacere di incontrarli. Mi auguro che, nel futuro, una volta liberato il paese dalle infiltrazioni terroristiche, si possano creare le condizioni per corrette e benevoli relazioni con i fratelli di fede islamica».

Il primo ministro della Somalia, Abdiweli Sheikh Ahmed, ferma un accordo col governo del Puntland il 14 ottobre 2014 – Unisom

Cristiani nascosti

Più complessa invece la relazione con i somali. La situazione di insicurezza in cui versa il paese, i continui attentati (3-4 volte a settimana a Mogadiscio) impediscono un ruolo strutturato all’esterno della base. «Quando esco con i militari, accompagnandoli nei luoghi dove svolgono l’addestramento delle truppe somale – osserva -, lo faccio sempre rispettando le norme di sicurezza. Giubbotto antiproiettile, elmetto e un soldato che rimane sempre al mio fianco. Raramente posso uscire e, quando ciò accade, è per condividere un pezzetto della quotidianità di una parte dei miei ragazzi».

La Somalia però lo ha impressionato. Così diversa dal Kenya e dall’Angola che ha conosciuto in passato eppure non così disastrata come viene presentata all’estero. «Quando ho attraversato Mogadiscio ho avuto la sensazione di una città spaventata, con la popolazione abituata a convivere con la paura, con l’insicurezza, con la non progettazione del futuro – racconta -. Rispetto a Luanda, capitale dell’Angola, tuttavia, ho notato maggiore pulizia e una migliore organizzazione. Un esempio: nella favelas della Lixeira dove ho vissuto per anni c’era un solo dentista per un milione di persone. Qui ne ho visti svariati. Allo stesso tempo, la militarizzazione della città, in risposta alle orribili azioni di al Shabaab, mi rattrista».

Nei suoi giorni nella capitale somala ha avuto l’occasione di fare un’esperienza unica per un sacerdote: incontrare i cristiani somali che, pur perseguitati, continuano a professare la loro fede in clandestinità e fra mille pericoli. Ho potuto conoscere Mosè – racconta padre Tollu -: è un cristiano cresciuto nella realtà del Protettorato italiano e poi nella Somalia indipendente, ma ancora molto legata al nostro paese. In molti lo considerano il portavoce dei cattolici somali. Lui definisce la sua comunità come una realtà in via di estinzione». Da una ventina di anni a questa parte ha infatti preso piede una versione intollerante della fede coranica. Al Qaeda e la sua filiale locale, al Shabaab, sono una minaccia continua per i musulmani non fondamentalisti e per i cristiani. Negli ultimi mesi si è poi affacciato anche lo Stato islamico che ha creato le prime basi nel Puntland. Un ulteriore pericolo per i cristiani locali. Il rischio arriva anche all’interno delle stesse famiglie dei cristiani. È ancora padre Tollu a parlare: «Mosè mi ha raccontato che “quelli nati dagli anni ‘90 in poi”, così li ha chiamati, sono diventati intolleranti e non comprendono i loro vecchi che professano il cristianesimo. Allora gli anziani fuggono, si allontanano dai loro figli e dai loro nipoti, perché potrebbero far loro del male». Mosè ha mostrato a padre Tollu una lista di cristiani morti recentemente, alcuni per cause naturali, altri per cause violente. «Gli ho promesso di ricordarli nella Santa Messa – dice padre Tollu -. Mosè, triste in volto, mi ha risposto: “Ecco lui e lei sono stati uccisi dai figli dei loro figli. Ormai la violenza è nelle case e noi, che siamo rimasti in pochi, rischiamo la vita ogni giorno”».

I pochi fedeli cattolici non possono avere un’assistenza spirituale continua. «Al momento – conclude – non esistono le condizioni di sicurezza per un sacerdote per svolgere serenamente il suo servizio a Mogadiscio. Mi auguro che in futuro, una volta liberato il paese dalle infiltrazioni terroristiche, si possano ricreare le condizioni minime per la presenza cristiana nella città. Ho promesso di pregare per loro durante la Messa. Siamo uniti nella preghiera quotidiana, fratelli in Cristo perseguitati e obbligati a nascondere la nostra fede».

Enrico Casale

Bambini somali a scuola nel campo di rifugiati di  Dollo Ado, Ethiopia. – J. Ose/UNHCR


Video su suor Leonella Sgorbati

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Per un mondo di Stephen Hawking

Testo di Rosanna Novara Topino |


Si stima che in Italia ci siano 4 milioni di disabili (80 nell’Unione europea). Nonostante le normative non manchino, nei loro confronti c’è ancora discriminazione e isolamento. Scuola e lavoro sono gli ambiti dove occorre fare di più. Senza dimenticare le difficoltà economiche delle famiglie costrette a supplire alle carenze dello stato.

Lo scorso 14 marzo è scomparso Stephen Hawking, il grande matematico e astrofisico inglese costretto da 55 anni su una sedia a rotelle a causa di una gravissima forma di malattia del motoneurone (inizialmente diagnosticata come sclerosi laterale amiotrofica). Da diversi anni, inoltre, non aveva più possibilità di parlare in seguito a un intervento di tracheotomia eseguito per salvarlo da una grave forma di polmonite. Nonostante una vita irta di enormi difficoltà, la sua mente è stata però capace di compiere studi tali da arrivare ad approfondire teorie scientifiche, che hanno rivoluzionato l’astrofisica e la cosmologia: la teoria del big bang e dell’espansione dell’universo, il principio di indeterminazione, la termodinamica dei buchi neri e l’esistenza non di un solo universo, ma di moltissimi, quindi di un multiverso. Tra le tante riflessioni che la sua opera ci impone, una in particolare riguarda l’enorme potenziale racchiuso nella mente di una persona così grandemente limitata nel fisico dalla malattia e dalla disabilità. Questo dovrebbe essere un monito per spronare il governo di ogni nazione a mettere in atto tutte le misure possibili per rendere migliore la vita dei disabili, in modo che essi siano in grado di esprimere tutte le loro potenzialità. Quasi sempre invece si parla di uguaglianza dei diritti per tutti, si fanno campagne contro le discriminazioni di genere, etnia, religione, orientamento sessuale, ma puntualmente ci si arena di fronte alle particolari esigenze che i vari tipi di «diversità» presentano. Si accampano spesso ostacoli di natura economica alla eliminazione delle barriere di ogni tipo, che, permanendo, comportano un’autentica discriminazione e molto spesso l’isolamento delle persone disabili. Troppo spesso i disabili sono invisibili, se non addirittura un peso per la società.

Non è un paese per disabili

Secondo l’Onu, l’Italia, che conta oltre 4 milioni di disabili (si tratta di un valore stimato, poiché non ci sono dati certi a riguardo), non è un paese a misura di disabile per diverse ragioni tra cui l’esiguità dei fondi messi a disposizione, il clima discriminatorio, le barriere architettoniche, le disuguaglianze in campo occupazionale, sanitario e scolastico.

Nel nostro paese, il 12 dicembre 2017 è stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale il secondo programma di azione biennale per la promozione dei diritti e l’integrazione delle persone con disabilità, che rappresenta il punto di arrivo del lavoro svolto dall’Osservatorio nazionale sulla disabilità. Nonostante il formale riconoscimento dei diritti dei disabili e i programmi che vengono stilati per loro in ogni settore – dalla scuola ai trasporti, dal mondo del lavoro alla sanità – permangono gravi carenze e spesso assistiamo addirittura ad una retrocessione per alcuni diritti, che sembravano dati per acquisiti.

La scuola e i docenti

Un esempio di diritto dei disabili sancito dalla Costituzione, ma spesso disatteso è quello all’istruzione e in particolare al sostegno, sebbene il sistema scolastico italiano sia apprezzato in tutto il mondo per quanto riguarda l’inclusione degli studenti disabili.

Secondo i dati Istat, nell’anno scolastico 2015-2016 nella scuola primaria c’erano 88.281 alunni con diverse forme di disabilità (3% del totale), mentre nella scuola secondaria di primo grado erano 67.690 (4% del totale). Si stima che l’8% degli alunni disabili della scuola primaria non sia autonomo in alcuna delle seguenti attività: spostarsi, mangiare, andare in bagno. Nella scuola secondaria di primo grado, tali alunni rappresentano il 6% degli alunni disabili. In entrambi gli ordini scolastici considerati, le forme prevalenti di disabilità sono quella intellettiva, i disturbi dell’apprendimento e quelli dello sviluppo, che sono presenti nel 2,1% degli studenti. Secondo il Miur (Ministero dell’istruzione, università e ricerca), gli insegnanti di sostegno assegnati per l’anno scolastico 2017-2018 sono stati 150.000 – di cui però 47.000 in deroga – per 243.840 alunni disabili (1 ogni 1,6 alunni) nelle scuole statali di ogni ordine e grado.

Il maggior numero di ore di sostegno settimanali in media si registra nelle regioni del Mezzogiorno. Circa l’8% delle famiglie di alunni disabili della scuola primaria e il 5% della secondaria di primo grado hanno presentato ricorso al Tar, nel corso degli anni, per ottenere l’aumento delle ore di sostegno. A seguito di tali ricorsi e delle successive decisioni amministrative dell’ultimo momento, sono stati nominati gli insegnanti in deroga di cui sopra, che non erano previsti sulla carta, ma che di fatto si sono rivelati indispensabili per potere avviare l’anno scolastico. Purtroppo, sistematicamente non vengono assegnate in prima battuta tutte le ore di sostegno necessarie allo sviluppo e all’educazione dei ragazzi, così le famiglie sono costrette a fare ricorso per chiedere un’integrazione, che spesso comporta il raddoppio delle ore concesse inizialmente e la trasformazione di una «mezza» cattedra di sostegno in una intera, con un esborso stimato per le casse statali di circa 300 milioni di euro. Quest’ultimo perché ogni famiglia, a cui sia stata accolta la richiesta di aumento delle ore di sostegno, ha diritto a un risarcimento di 1.000 € per ogni mese di assenza dell’insegnante di sostegno, a partire dalla notifica del ricorso (in media 3 mesi), più il risarcimento delle spese legali, per un totale di circa 5.000 € a famiglia. Tutto questo è capitato perché nell’assegnazione degli insegnanti di sostegno si è fatto riferimento a dei limiti di assegnazione risalenti al 2007, che non sono più stati rivisti, mentre nel frattempo è aumentato il numero dei disabili riconosciuti.

Secondo il rapporto del Censis del 1° dicembre 2017, gli alunni disabili iscritti alle scuole materne, elementari e medie sono aumentati negli ultimi 10 anni del 26,8%, mentre alle superiori l’incremento è stato del 59,4%. Il maggiore incremento si è registrato nel Mezzogiorno, con 38,3% tra i più piccoli e 42,2% tra i più grandi.

Un altro problema, soprattutto per i ragazzi disabili, è dato dal fatto che non solo si ritrovano a cambiare spesso gli insegnanti di sostegno, ma questi ultimi, se reclutati all’ultimo momento, spesso sono precari o non hanno l’abilitazione al sostegno. Questo perché il ministero ha dato la possibilità, in caso di esaurimento delle graduatorie dei docenti specializzati, di coprire i posti di sostegno con insegnanti non abilitati, iscritti nelle graduatorie di circolo o di istituto o con insegnanti di classi di concorso in esubero o in assegnazione provvisoria. È chiaro che tutto questo si traduce in una carenza di recupero delle disabilità, soprattutto quelle intellettive.

L’assurdo declino del braille

Tra le criticità dell’insegnamento di sostegno presenti nella scuola italiana c’è quella della scarsa formazione – specifica sulle singole disabilità – del personale scolastico (sia insegnanti specializzati, che curricolari). Ciò è particolarmente evidente nel caso della scarsissima (o assente) «competenza tiflologica» nell’ambito della disabilità visiva, cioè sono pochi gli insegnanti che conoscono il braille, il sistema di scrittura per i ciechi, e l’apparato tecnologico e didattico indispensabile per l’insegnamento a questo tipo di disabili. La mancanza di queste conoscenze da parte degli insegnanti, degli educatori e degli operatori scolastici aggrava l’handicap dell’allievo ipovedente, isolandolo di fatto dal contesto degli altri e oscurandone le reali potenzialità. Questo è un problema non da poco, se pensiamo che in Italia i non vedenti in età scolare sono circa 2.600 (molti purtroppo pluridisabili, come i sordociechi).

Per questi ragazzi è fondamentale imparare il braille e potere comunicare con i propri insegnanti con questo metodo. In Italia attualmente, stiamo assistendo al fatto che, sia per la difficoltà di integrazione scolastica, sia per la facilità di utilizzare i mezzi di comunicazione con voce digitale, molti giovani non vedenti si allontanano dall’apprendimento del codice braille, risultando così di fatto analfabeti e questo non può che ripercuotersi negativamente sulla loro vita futura, soprattutto a livello lavorativo.

Basta pensare al fatto che alla fine degli anni ’80, quando erano molto più numerose le persone non vedenti che conoscevano e utilizzavano il braille, in Italia c’erano un migliaio di insegnanti, 1.300 massofisioterapisti, 800 professionisti (soprattutto avvocati) e circa 9.000 operatori telefonici ciechi, mentre attualmente è rimasto qualche migliaio di operatori telefonici, il numero di avvocati e di insegnanti è circa un centinaio e abbiamo qualche centinaio di massofisioterapisti. Tra l’altro il codice braille potrebbe essere utilizzato anche per le schede elettorali, in modo da rendere più autonomi gli elettori ciechi, che adesso votano solo con il sistema del voto assistito. Per ovviare alla mancata conoscenza del braille da parte del personale scolastico, recentemente l’Irifor (Istituto per la ricerca, la formazione e la riabilitazione) dell’Uici (Unione italiana ciechi e ipovedenti) ha approvato un corso di aggiornamento di tiflologia di 200 ore e uno di formazione di 600 ore attivati sulla piattaforma e-learning dell’istituto.

Lo scandalo mobilità

Oltre al sistema scolastico, anche quello dei trasporti in Italia presenta notevoli criticità per i disabili. Basta pensare alle barriere architettoniche presenti in molte stazioni ferroviarie, dove spesso mancano gli ascensori, oppure al fatto che nelle carrozze ferroviarie dedicate al trasporto di persone disabili è possibile imbattersi in pedane sollevatrici nuovissime, ma inutilizzabili a causa di qualche cavillo burocratico, che ne impedisce l’uso. Per i disabili che devono viaggiare, la Rfi (Rete ferroviaria italiana) ha predisposto il servizio Sala blu, che permette di prenotare l’assistenza al viaggio. Nel caso non ci siano convogli attrezzati su una certa tratta, però, il disabile non può viaggiare perché, per ragioni di sicurezza, la normativa vigente in materia dice che non può salire su convogli non adibiti al trasporto di sedie a rotelle.

Salute e lavoro

La situazione non è certa migliore per quanto riguarda la salute. I dati dell’Osservatorio nazionale sulla salute delle regioni italiane dicono che lo stato fisico e quello psicologico dei disabili sono peggiori rispetto al resto della popolazione. In particolare, le loro condizioni di salute sono più precarie a causa del mancato accesso alle cure previste dai Lea (Livelli essenziali di assistenza). Sono molte infatti le famiglie italiane che, vivendo in difficoltà, non riescono ad ottenere né visite mediche, né trattamenti a domicilio. Si stima che il 14% dei disabili rinunci alle cure, rispetto al 3,7% della popolazione. Questo dato è più alto nel Mezzogiorno dove troviamo una percentuale del 30% in Puglia e del 22% in Calabria.

Per quanto riguarda il mondo del lavoro, solo il 18% dei disabili italiani risulta occupato, contro il 58,7% del resto della popolazione. In particolare, solo il 23% degli uomini disabili è occupato (contro il 71,2% dei normodotati), mentre le donne disabili occupate sono il 14% del totale (contro il 46,7% delle normodotate).

Da questi ultimi dati risulta per le donne disabili una doppia discriminazione, in quanto donne e in quanto disabili, ma questo non è tutto. Nel 2015, con il convegno «Fiori recisi», l’Uici volle mettere in evidenza la drammatica realtà delle violenze subite dalle donne disabili e il fatto che alcune donne sono diventate disabili in seguito alle violenze subite.

Le difficoltà economiche

Tra le varie difficoltà incontrate dai disabili italiani ci sono infine quelle economiche, poiché per loro è spesso difficile disporre di un reddito e le famiglie con persone disabili mediamente dichiarano un reddito inferiore rispetto alle altre. Del resto, i disabili, per avere una qualità di vita accettabile devono spendere di più dei normodotati per assistenza, apparecchi sanitari, dispositivi medici, ecc. A questo si aggiunge il fatto che il welfare italiano si basa ormai prevalentemente sulle famiglie che, nell’assistenza ai disabili, sostituiscono lo stato e che spesso per questo arrivano a indebitarsi. Questo è vero soprattutto con la fine del ciclo di studi, quando molti disabili non vengono inseriti nel mondo del lavoro e finiscono in una condizione di invisibilità a carico della loro famiglia, che si impoverisce per sostenere i costi del loro mantenimento e che diventa sempre più anziana. Del resto, le aziende, pur essendo obbligate ad assumere persone disabili, preferiscono pagare una multa, piuttosto di assumerle.

Vedere oltre

Quanto visto finora è una descrizione sicuramente non esaustiva sia delle tante forme di disabilità, sia delle difficoltà affrontate quotidianamente dalle persone disabili, ma vuole essere un invito a riflettere sul fatto che tutti hanno diritto ad una vita dignitosa e, soprattutto, che anche in presenza di gravi disabilità, le persone possono avere enormi potenzialità. È nostro dovere aprire la mente e vedere oltre la disabilità.

Rosanna Novara Topino
(settima puntata – Fine)




RD Congo. Pigmei, scuola, foresta: un momento difficile


Dagli anni Novanta i missionari della Consolata sono presenti fra i Pigmei Bambuti di Bayenga, nella Repubblica Democratica del Congo. Dal 2007 l’équipe missionaria può contare su padre Andrés García Fernández, missionario della Consolata di origine spagnola. Nell’inverno scorso è stato in Camerun a osservare il lavoro che i Fratelli delle scuole cristiane portano avanti nel paese con i Pigmei Baka nel campo dell’istruzione.

Mezzo milione di persone distribuite fra Repubblica Democratica del Congo, Repubblica Centrafricana, Camerun, Rwanda, Burundi e Uganda: queste le dimensioni della comunità pigmea secondo le stime riportate da Survival International, organizzazione che si occupa della difesa dei diritti dei popoli indigeni in tutto il mondo. Si tratta di un popolo che vive a stretto contatto con la foresta, spesso al suo interno, vivendo di caccia e raccolta. Il rapporto con le vicine popolazioni bantu, maggioritarie, è difficile: un po’ per lo scontro antico fra chi, come i Pigmei, la foresta la vive come casa, rifugio e riserva di cibo e chi, invece, la taglia per ottenerne terreni da coltivare, come è il caso dei Bantu, agricoltori. E un po’ per i pregiudizi che quasi sempre accompagnano i conflitti per le risorse: i Bantu vedono nei Pigmei degli esseri inferiori, dei selvaggi da sfruttare o isolare, mentre per i Pigmei i loro vicini sono i padroni violenti che rubano loro la foresta e li costringono con la forza a fare da servi per sopravvivere.

Oggi, la speranza di vita di un Pigmeo è fra i 40 e i 45 anni contro una media dei Bantu di 59. La mortalità infantile nei bambini fino a cinque anni, che fra i Bantu è al 20%, raddoppia fra i Pigmei.

Cambiare questa situazione è un lavoro lungo, delicato e costantemente a rischio. Ma in Camerun il metodo applicato dai Fratelli delle scuole cristiane (detti anche Lasalliani dal nome del loro fondatore, Jean-Baptiste de La Salle) sta lentamente provando a creare le condizioni perché i Pigmei escano dal misto di vergogna e rassegnazione in cui anni di discriminazioni li hanno confinati. Abbaimo fatto alcune domande a padre Andrés che con padre Flavio Pante è nella missione di Bayenga e lavora con i Pigmei da 10 anni e recentemente è stato in Camerun.

Andrés, perché questo viaggio-studio in Camerun?

«Per studiare il metodo O.R.A., che i Fratelli applicano nell’istruzione prescolare dei Pigmei Baka. Anche qui in Congo lo conoscevamo, ma in Camerun lo usano da più tempo e in maniera più organizzata. Guidato da fratel Gilbert Ouilabegue, ho visitato le tredici scuole fondate da fratel Antornine Huysmans nella zona di Lomié, regione dell’Est. Le chiamano Centri di Educazione di Base per evitare che siano classificate come scuole ufficiali e, per questo, tenute a rispettare programmi, calendari e metodi ufficiali che sarebbero del tutto inadeguati per i Pigmei».

Che cosa significa O.R.A.?

«È l’acronimo di Osservare-Riflettere-Agire. Il metodo si applica negli anni precedenti la scuola primaria con bambini fra i cinque e gli otto anni. Fratel Antornine, ideatore di O.R.A., pensava che fosse inutile tentare di chiudere in un’aula scolastica dei bambini abituati a vivere liberi nella foresta, senza muri né orari, e formati fino ad allora alla «scuola della vita», dove i maestri erano i loro genitori e fratelli maggiori e le materie l’uso dell’arco o le tecniche per pescare.

Così, un po’ alla volta e con l’aiuto anche di alcuni Bantu della zona, Antornine cominciò a ideare una pedagogia dinamica, che si adattasse ai ritmi, alla lingua e alla cultura dei Baka invece che mirare alla completa omologazione di questi ai Bantu. Il metodo si basa su questi tre principi: osservare, riflettere, agire, perché sono il più vicino possibile al modo in cui i bambini pigmei sono abituati ad imparare, cioè per osservazione ed emulazione degli adulti».

Come funziona in concreto?

«Innanzitutto, bisogna considerare che la funzione di questa pre-scuola è anche quella di liberare i bambini dalla paura della classe, del maestro, della lavagna e del parlare in pubblico. Si cerca sempre di coinvolgerli con canti, racconti, giochi di ruolo. Come punto di partenza si usa un disegno, che poi resta lì come per invogliare ad ascoltare la storia che segue. Ogni lezione, infatti, si apre con una piccola storia che introduce la parola, il numero, il concetto che si vuole insegnare».

E quanto ai contenuti?

«Nel primo anno, i bambini cominciano parlando nella lingua baka. Il punto di partenza, dicevo, sono i disegni che rappresentano scene quotidiane del campement (accampamento) pigmeo. Da qui si passa a nozioni di base come grande/piccolo, uguale/diverso, lungo/corto, poi ai primi segni grafici, alle cinque vocali e ai numeri da uno a sei, sempre partendo dalla lingua baka per poi tradurre in francese. Verso la metà del primo anno i bambini imparano qualche consonante, incominciano a formare delle sillabe, a fare qualche operazione aritmetica. Al termine del secondo anno, sono in grado di fare addizioni, sottrazioni e moltiplicazioni con i numeri da zero a venti e di parlare francese con una fluidità che mi stupisce ancora oggi, se penso che non sono ancora alla scuola primaria».

Che cosa ti sembra che funzioni particolarmente bene nel metodo O.R.A.?

«Te lo dico con un esempio. Ricordo la dinamica di una classe con un’insegnante, Souzanne, che era davvero splendida: non ha mai sgridato nessuno, non è stata quasi mai alla lavagna. Quello era il posto dei bambini che, uno alla volta, ci andavano spontaneamente per partecipare, scrivere, cantare, mostrare un oggetto, un frutto. Lei è davvero una formidabile narratrice di storie che fa «sognare» chi la ascolta. Gli allievi vengono sempre incoraggiati, non sono giudicati o valutati per il risultato ma per lo sforzo. Ho visto in quei bambini la voglia di venire a scuola, di scoprire, d’imparare, di essere… protagonisti».

A questo punto i bambini sono pronti per la scuola elementare ufficiale?

«Sì, e nei primi anni si distinguono rispetto ai loro pari per il livello di scrittura e lettura. Poi, però, in Camerun come da noi, cominciano i problemi. I pregiudizi, che i bambini bantu «assorbono» dai loro genitori, cominciano a farsi strada e i Pigmei – che spesso non hanno l’uniforme, le scarpe o il sapone per lavarsi prima di andare a scuola – diventano l’oggetto di beffe e dispetti. Questa stigmatizzazione a poco a poco umilia e scoraggia i Pigmei, che finiscono per lasciare la scuola. Qui a Bayenga, su cento che iniziano la scuola primaria solo cinque o sei arrivano a concluderla (alle volte neanche uno)».

Per chi ce la fa, la vita cambia in meglio?

«Non direi. A scuola, i ragazzi pigmei hanno preso coscienza dell’immagine che i Bantu hanno di loro, hanno visto le differenze e capito perché gli altri hanno certi atteggiamenti al loro riguardo: per questo vivono il ritornare al campement come una sorta di arretramento. D’altra parte, inserirsi nel villaggio assieme ai Bantu è come piantare un albero senza radici, fra persone che non li accettano come propri pari e che tendono a imporre loro delle relazioni verticali, gerarchiche. Per molti si apre la strada di quella che noi chiamiamo la destrutturazione, dove alcol e cannabis diventano i mezzi con cui tenere a bada, nell’immediato, la frustrazione e la depressione e portano presto all’abbrutimento».

Arriviamo così a parlare del rapporto fra Pigmei e Bantu che piano piano, anche grazie a strumenti come il metodo O.R.A., state cercando di rendere meno conflittuale.

«Sì, ma non sarà un processo breve né semplice. La relazione fra i due gruppi nel territorio della nostra parrocchia qui a Bayenga è assai complessa: alcuni Pigmei erano già qui quando i Bantu arrivarono nella grande foresta che copriva la zona; altri sono arrivati con i loro padroni bantu da diverse zone del Congo per cercare lavoro nelle piantagioni belghe e greche, ai tempi della colonizzazione. In generale, si può dire che ci sono famiglie bantu che sono proprietarie di gruppi di Pigmei, e succede che un proprietario si riferisca ai Bambuti come ai «miei Pigmei, i Pigmei che mi ha lasciato mio padre quando è morto». Questi Pigmei sono in qualche modo parte della famiglia, ma come servi, non come membri alla pari degli altri (per maggiori dettagli sul rapporto fra Bantu e Pigmei vedi articolo Echi dalla foresta, di M. Bello, MC ottobre 2012).Invece ora, già per il fatto di sentirsi accompagnati e voluti bene da noi così come sono, incoraggia alcuni Pigmei a relazionarsi con dei Bantu su basi più paritarie. Ci sono anche dei Bantu che già s’avvicinano ai Pigmei con altro approccio, con una nuova maniera di relazionarsi che non è più quella del padrone con lo schiavo».

Di recente è apparso in Italia un articolo che parla del conflitto fra Pigmei e Bantu nella regione del Tanganika, nel Congo orientale. Lì, dall’estate 2016 ci sono stati quasi 500 morti, 2.500 feriti e 70 mila sfollati prevalentemente Bantu. I Pigmei si sono armati e combattono, bruciano villaggi, uccidono chi non scappa.

«Non conosco la situazione di quella regione, ma mi pare che quel che avviene qui a Bayenga sia piuttosto il contrario: i Pigmei, pacifici abitanti della foresta, hanno accolto senza condizioni i Bantu al loro arrivo. Poi si sono create relazioni di sfruttamento (soprattutto nei lavori dei campi) ma anche di «simbiosi»: i Pigmei sentono il bisogno di ritornare dai padroni bantu per vendere la selvaggina, il miele, i frutti presi nella foresta. Ci sono conflitti, sì, ad esempio quando i Bantu non pagano i Pigmei e questi rubano nel campo del padrone, o gli sottraggono una gallina. Ma lo fanno per sopravvivere, non per lucrare, e senza usare la violenza. Di solito queste scaramucce vengono regolate in «famiglia» o dal giudice di pace locale. Purtroppo, però, non posso escludere che la situazione si evolva nella direzione che l’articolo descrive per il Tanganika».

Che cosa potrebbe portare al conflitto?

«Nella nostra missione ci sono circa tremila Pigmei e quattordicimila Bantu. Le attività economiche che la maggioranza bantu svolge – agricoltura, taglio e commercio del legno, sfruttamento minerario – fanno precipitare in fretta la foresta e i suoi biomi verso una situazione non sostenibile dal punto di vista ambientale e sociale, e non solo per i Pigmei. Ci sono molti interessi in gioco e molto poca formazione per affrontarli: è grande l’ignoranza che si rallegra del profitto veloce delle miniere e dell’esportazione del legno. Nella quasi totale assenza dello stato, la foresta diviene piazza aperta per quanti hanno un po’ di forza fisica o economica per sfruttarla».

Okapi nella Okapi Wildlife Reserve (© Kim S. Gjerstad)

La vecchia storia del Congo supermercato a cielo aperto alla mercé di chiunque abbia abbastanza armi o soldi.In un rapporto del 2015 dal significativo titolo Exploiter (dans) le désordre, la Caritas e la Commissione giustizia e pace della diocesi di Wamba spiegano la situazione della Riserva Forestale degli okapi (Rfo), a una manciata di chilometri da Bayenga. Secondo il rapporto, nel parco ci sarebbero una settantina di cantieri artigianali – uno di questi sarebbe in grado di produrre oro per 300 mila dollari settimanali – dove lavorano decine di migliaia di minatori informali. Sempre secondo il documento, a questi cantieri si aggiungono poi quelli semi industriali e industriali nei dintorni della Rfo:  a competere per la corsa all’oro ci sono proprio tutti, dai minatori artigianali alle grandi compagnie minerarie come la Kilo Goldmines, passando per le Fardc (l’esercito congolese) e le milizie ribelli.

«Esattamente. Fra la Rfo e la foresta intorno a Bayenga non c’è praticamente soluzione di continuità e i Pigmei Bambuti da sempre hanno cacciato in quest’area. Non l’okapi, però, visto che si concentrano su prede più piccole. Eppure, ora è proibito a tutti l’accesso alla riserva, i cui limiti sono stati fissati senza interpellare né i Pigmei né i Bantu. L’ente responsabile della vigilanza al parco dice che l’interdizione riguarda qualche specie soltanto, ma visto che non ha mezzi e personale sufficienti per fare i controlli, il risultato è il divieto assoluto di caccia e, addirittura, di passaggio nella riserva. Questa interdizione è rafforzata dalle attività dei ribelli e dei cacciatori di frodo, che invece nella Rfo ci sono e non gradiscono la presenza di possibili testimoni delle loro attività. Sì, come vedi c’è molto di più in ballo che non la convivenza fra due gruppi umani che faticano ad accettare l’uno lo stile di vita dell’altro».

Quello che racconti ricorda molto le difficoltà che i nostri missionari hanno affrontato e affrontano in Amazzonia.

«Ci sono molte somiglianze, sì, ma anche molte differenze. Qui non c’è mai stata una demarcazione delle terre indigene né un riconoscimento giuridico dei diritti dei Pigmei. Quello che noi cerchiamo di fare è accompagnare tanto i Bambuti quanto i Bantu in un cammino di reciproca conoscenza e comprensione che, se da un lato probabilmente dovrà passare per un adattamento dei Pigmei al contesto circostante, cerca però anche di evitare l’omologazione e valorizzare e difendere le caratteristiche dei Bambuti e della foresta che esso abita. Foresta che, vale la pena di ricordarlo, è un patrimonio per tutto il pianeta».

Chiara Giovetti




La Costa d’Avorio in ostaggio /2


Da Dianra, nel Nord Ovest, dove i missionari lavorano per sanità e dialogo, a Grand Zattry e Sago, nel Sud Ovest, dove cercano di ampliare una scuola. Passando per Soubré, dove è in costruzione una grande diga, terminando con San Pedro e Abidjan, dove tonnellate di cacao rischiano di marcire sui camion all’entrata dei porti.

A Dianra, come a Marandallah, il dialogo interreligioso permea di sé tutta l’attività dei missionari. Questo implica un procedere lento, graduale, rispettoso delle differenze e capace di fare emergere ciò che accomuna. «È anche per questo», spiega padre Matteo Pettinari, «che prima di costruire una case de santé (piccolo centro sanitario) contattiamo le autorità di ciascun villaggio e organizziamo un incontro pubblico che coinvolga tutta la comunità. Durante l’incontro chiariamo che queste strutture fanno parte di un programma che le autorità locali della sanità pubblica hanno affidato al nostro centro di Dianra Village. Non si tratta, quindi, di costruire “la casa dei cristiani” ma di portare l’assistenza sanitaria al villaggio attraverso le regolari visite della nostra equipe mobile. Non solo: nell’incontro si cerca di ottenere dagli abitanti del villaggio l’impegno a collaborare con il nostro personale in modo che questo servizio rechi davvero beneficio».

In quel contesto rurale la gente tende a rimandare il momento in cui ricorrere alle cure mediche, finché non è chiaro che i rimedi tradizionali sono inefficaci e che le patologie si sono aggravate al punto da essere ormai invalidanti. Le donne devono chiedere il permesso ai mariti per essere dispensate dal lavoro nei campi e andare al centro di salute a farsi visitare, ad esempio durante la gravidanza, o a far visitare i bambini per scongiurare il rischio della malnutrizione. Creare sensibilità e consapevolezza è un lavoro lungo e delicato. Fare di corsa significa rischiare di offrire un servizio che poi nessuno usa.

«È interessante», prosegue Matteo, «come villaggi distanti pochi chilometri reagiscano in modi diversi: c’è una località nella quale non siamo riusciti a trovare un accordo, un’altra dove ci stiamo avvicinando a un’intesa e una terza in cui, al termine della riunione con la comunità, alcuni giovani avevano già scavato le fondamenta per la case de santé».

Quest’ultimo non è il solo esempio incoraggiante che il missionario cita. Mostra con evidente soddisfazione le foto di Sononzo Carrefour, altro villaggio che fa capo a Dianra, dove la chiesa e la moschea sono dello stesso colore, e ricorda: «L’anno scorso i musulmani di Sononzo hanno fatto una colletta per ridipingere la moschea e ci hanno proposto di dare il loro contributo per ridipingere anche la nostra chiesa. È stato un gesto davvero splendido, un atto di fratellanza che ci riempie di gioia e ci evangelizza».

Verso Sud, fra palma da olio e caucciù

Lasciando Dianra in direzione Sud gli alberi tornano lentamente ad essere verdi, segno che qualche sporadica pioggia – al Nord del tutto assente da mesi – ha lavato via dalle foglie la polvere rossa della stagione dell’harmattan1.

Grand Zattry si trova nel distretto di Bas-Sassandra, lungo la strada in parte asfaltata che collega il Nord a Soubré, cittadina a 130 chilometri dal mare. Ai lati della strada, mentre non vengono meno le piantagioni di cacao, spariscono quasi del tutto i fiocchi bianchi del cotone e i frutti arancioni dell’anacardio. Sono gli alberi di caucciù a dominare il paesaggio – ciascuno con il suo recipiente simile a un bicchiere legato sotto l’incisione nella corteccia dalla quale cola il lattice bianco – e le palme da olio, con i loro grappoli di frutti rossi adagiati dove la fronda si stacca dal tronco.

A Blesséoua, uno dei villaggi che la missione di Grand Zattry accompagna, la scuola primaria ha 458 allievi: troppi per le sei classi che fino a dicembre 2016 aveva a disposizione. Quasi ottanta bambini per aula sono davvero di difficile gestione, constata una maestra che si unisce alla riunione con il capo villaggio e altri responsabili della comunità che collaborano con padre James Gichane, missionario keniano a Grand Zattry. Per questo motivo il salone cucina che la generosità di una donatrice ha permesso di costruire nel 2016 è per il momento stato adibito ad aula. Nel frattempo, il Conseil Café-Cacao, l’ente pubblico che regolamenta la produzione e il commercio dei prodotti da cui prende il nome, sta finanziando la costruzione di altre tre classi. «Sono andato di persona alla sede del Conseil», spiega il capo villaggio, «per spiegare loro la situazione della scuola, e grazie a Dio mi hanno dato retta. Bisognava almeno aumentare il numero di aule, ma anche la mensa scolastica e i servizi igienici sono in pessime condizioni». Oltre al villaggio di Blesséoua, la scuola primaria serve diciassette campement (villaggi più piccoli e provvisori) dei dintorni, gli alunni vengono qui a piedi da cinque chilometri di distanza. La situazione di questa scuola, che è comune a molte altre nel paese, stride con le dichiarazioni d’intenti delle autorità pubbliche secondo le quali ogni classe dovrebbe avere non più di quaranta alunni.

Energia per un paese che vuol crescere

Per andare da Grand Zattry a Sago si passa da Soubré, città sulla quale gli occhi del Costa d’Avorio sono oggi puntati per via della costruzione di un’imponente diga che sfrutterà un dislivello naturale del Nawa, un affluente del fiume Sassandra, per produrre energia elettrica. Una volta ultimata, sarà la più grande diga del paese, con una potenza installata pari a 275 megawatt per una produzione annuale di 1.170 gigawatt ora.

L’opera, dal costo di 338 miliardi di franchi cfa (circa 515 milioni di euro), è finanziata all’85% dalla Cina (attraverso la banca Eximbank) e al 15% dalla Costa d’Avorio nel contesto della cooperazione sino-ivoriana; l’entrata in funzione è prevista per la fine del 2017, dopo cinque anni di lavori. Oggi la Costa d’Avorio ha una potenza installata di 1.975 megawatt forniti per tre quarti da centrali termiche (gas naturale e vapore) e per un quarto da centrali idroelettriche, e vende energia a Burkina Faso, Mali, Ghana, Togo e Benin. Il governo intende però raddoppiare la potenza prodotta entro il 2020 e ha pianificato una nuova centrale termica a gas a Songon, quartiere di Abidjan, e una a carbone a San Pedro, suscitando la perplessità per la contraddizione fra la scelta del carbone e la ratifica dell’Accordo di Parigi sul clima.

Sago: l’Africa occidentale in un villaggio

Lungo la strada verso Sago, villaggio a un’ottantina di chilometri dalla costa, è frequente vedere cartelli con il logo della Sipef – Società internazionale delle piantagioni e di finanza – un’agroindustria internazionale che opera nelle aree subtropicali fra cui la Costa d’Avorio. I cartelli recitano: Non au travail des enfants (no al lavoro dei bambini).

«È una campagna che va avanti da qualche anno», spiega padre Ramón, «nata come reazione al fenomeno dei bambini schiavi portati qui soprattutto dal Mali per lavorare nelle piantagioni di cacao».

Il tema ha cominciato ad essere noto all’opinione pubblica internazionale nei primi anni Duemila ma è probabilmente con documentari come il danese The Dark Side Of Chocolate2 che ha guadagnato maggiore visibilità. «Oggi», continua Ramón, «anche grazie a questa campagna, chi è a conoscenza di casi di sfruttamento li denuncia sapendo che, a differenza di un tempo, gli sfruttatori verranno puniti».

Quella del Bas-Sassandra è una zona con una notevole varietà etnica, dove ivoriani e stranieri vivono del lavoro nelle piantagioni o dei commerci che si svolgono nel grande mercato. «In dieci anni», spiega padre Silvio Gullino, missionario della Consolata attivo prima in Repubblica Democratica del Congo e, ora, uno dei decani della missione in Costa d’Avorio, «il villaggio è passato da quattromila a diecimila abitanti. Qui, assieme e agli autoctoni di etnia Godié, vivono Baoulé, Koulango, Abron, ma anche Mossi del Burkina Faso. Anzi, si può dire che siano rappresentati quasi tutti i paesi della Cedeao (Comunità economica degli Stati dell’Africa Occidentale): Togo, Benin, Senegal, Mali, Mauritania…».

Una cartina di tornasole di questa varietà è la messa domenicale nella chiesa di Sago, durante la quale le letture vengono fatte in cinque lingue. I cattolici a Sago sono una minoranza, precisa ancora padre Silvio, circa il dieci per cento della popolazione. Sei persone su dieci sono musulmane, il quindici per cento è cristiano di altre denominazioni e un altro quindici per cento pratica le religioni tradizionali.

La scuola primaria Notre Dame de la Consolata accoglie 250 alunni dai sei ai dodici anni; padre Celestino Marandu, missionario tanzaniano anche lui con diversi anni d’esperienza in Congo, è a Sago dal 2009 ed è il responsabile della scuola che, nel gennaio 2017, è stata una delle pochissime a non rimanere chiusa tre settimane per lo sciopero dei funzionari pubblici.

«Certo», osserva Celestino, «è giusto che gli insegnanti rivendichino il loro diritto a stipendi più alti e migliori condizioni di lavoro; ma qui è la scuola a pagare gli stipendi, regolarmente e senza contributi dal governo. Garantiamo ai docenti anche case ad affitti ragionevoli e un ambiente di lavoro organizzato dove possono segnalare, discutere e risolvere i problemi insieme alla dirigenza. E tutto questo per assicurare la cosa più importante: che i bambini abbiano un’istruzione davvero di qualità». Padre Celestino ha appena completato l’arredamento della sala e mensa scolastica finanziato grazie al contributo di alcuni donatori italiani. «L’ispettore regionale dell’insegnamento primario è venuto a visitare la scuola», racconta padre Marandu. «Alla fine ci ha fatto i complimenti per la mensa più bella e grande della regione del Gboklê».

Nell’immediato futuro padre Celestino ha in programma di terminare la recinzione per avviare l’orto che produrrà frutta e verdura per la scuola: «Senza recinto non si può coltivare, arriverebbero gli animali a devastare tutto». Vuole poi ristrutturare alcune delle case degli insegnanti, completare la case de santé della scuola per seguire i bambini anche dal punto di vista della sanità di base, ultimare il campo sportivo. «Il governo ha introdotto l’obbligo scolastico fino a 16 anni», riferisce il missionario, «ma serve anche un sistema uniforme ed efficace di controlli e sanzioni per chi non manda i figli a scuola. Qualcuno stima che i bambini di fatto non scolarizzati siano ancora almeno la metà».

San Pedro e Abidjan, cacao invenduto e grattacieli

L’aria impregnata dell’odore acre delle fave di cacao è forse uno dei tratti distintivi di San Pedro, insieme alle file di camion che trasportano, oltre al cacao, anche gli altri prodotti delle piantagioni ivoriane. Ma nell’inverno del 2016 nell’aria si respirava anche apprensione: 400 mila tonnellate di cacao erano bloccate nei porti ivoriani e cominciavano a marcire. Il Conseil Café-Cacao, riportava il quotidiano francese Le Monde3, aveva fissato per il 2016 il prezzo cosiddetto «a bordo campo» a non meno di 1.100 franchi al chilo, 1,67 euro. Gli esportatori devono vendere ad almeno 1.800 franchi (2,74 euro) per guadagnare qualcosa considerando anche i costi di manodopera e trasporto. Ma da agosto dell’anno scorso il prezzo del cacao sul mercato mondiale è diminuito del 25% e ora un chilo vale 1.300 franchi, poco meno di due euro. A febbraio, del fondo che il Conseil Café-Cacao ha a disposizione per rimborsare gli esportatori in questi casi nessuno aveva ancora visto un franco. E, spesso, i produttori ricevono il pagamento per il raccolto in parte alla consegna e in parte anche mesi dopo, perciò, se non arrivano prima i rimborsi agli esportatori per l’invenduto i coltivatori rischiano di non incassare nulla.

E se questo è il problema più immediato, non è però l’unico: la rivista Jeune Afrique4 riportava diverse testimonianze di addetti ai lavori secondo i quali la metà del cacao venduto come equo, solidale e sostenibile avrebbe avuto una certificazione fasulla. Questo tipo di cacao può essere venduto a un prezzo più alto di quello del cacao ordinario, perché, in teoria, ha costi di produzione maggiori dovuti a standard più elevati nel trattamento dei lavoratori e nei metodi di coltivazione. Dopo che i colossi del cioccolato, Mars e Lindt in testa, si sono impegnati ad arrivare entro il 2020 a comprare solo cacao certificato, questa fetta di mercato ha avuto un boom. Ma qualcosa non torna: la certificazione è un processo lungo e meticoloso, eppure nel 2015 un terzo del cacao ivoriano – cioè 600 mila tonnellate su un milione e 800 mila – risultava certificato. Troppo in troppo poco tempo, sostengono gli scettici. Alcuni operatori avrebbero fiutato l’affare e costituito delle cooperative intermediarie che comprano cacao ordinario al prezzo minimo, ottengono false certificazioni e rivendono il cacao come equo, facendo così una cresta che può arrivare a 170 Fcfa (18 centesimi di euro) al chilo. Il cacao, ricordava ancora Le Monde, genera due terzi dei posti di lavoro e dei redditi nel paese, la metà degli introiti delle esportazioni e il 15 per cento del Pil. È un settore con il potere di mettere in crisi l’intero paese.

 

A guardare le scenografiche luminarie delle feste scintillare sui vetri dei grattacieli del Plateau, il quartiere chic di Abidjan, a sentire i comunicati con cui le Nazioni Unite annunciano che la situazione è abbastanza stabile da ritirare la forza di pace5, o a leggere che il volume degli scambi di denaro via cellulare tocca i 25 milioni di euro al giorno6 non si direbbe che la Costa d’Avorio possa ripiombare nel caos. E il ricordo ancora vivo del conflitto, della paura costante, del paese spaccato a metà potrà aiutare a contenere le spallate di inizio anno. Ma certamente il 2017 sarà un banco di prova fondamentale per evitare sia un nuovo conflitto sia il cronicizzarsi di una latente, logorante instabilità.

Chiara Giovetti
(2 – fine)

Note

1- L’Harmattan è un vento secco e polveroso che soffia a Nordest e Ovest, dal Sahara al Golfo di Guinea, tra novembre e marzo. È considerato un disastro naturale (Wikipedia).
2- The Dark Side of the Chocolate – Il Lato Oscuro del Cioccolato – Italiano, 02 agosto 2014, canale Youtube «doppiatorianonimi».
3- Charles Bouessel, Comment la Côte d’Ivoire se retrouve avec 400 000 tonnes de cacao invendues sur les bras,
lemonde.fr, 16 febbraio 2017.
4- Charles Bouessel, Agriculture : la filière cacao envahie par la fraude à la certification, jeuneafrique.com, 3 febbraio 2017.
5- Carlverth Kouakou, Côte d’Ivoire : Les casques bleus quittent le pays à partir du 15 février, laseve.info, 10 febbraio 2017.
6- Hamsatou Anabo, Côte d’Ivoire: Entre 15 et 18 milliards CFA de transactions quotidiennes via Mobile Money, connectionivoirienne.net, 3 febbraio 2017.

 




La Costa d’Avorio in ostaggio /1


Reportage dalla Costa d’Avorio. Dall’arrivo ad Abidjan, capitale economica e culturale del paese, proprio nella settimana dell’ammutinamento dell’esercito e dello sciopero dei dipendenti pubblici, alla visita alle missioni di Marandallah e Dianra, nel Nord del paese dove operano i missionari della Consolata.

«Sei stata in Costa d’Avorio dieci anni fa? La troverai molto cambiata, allora. Abidjan ad esempio: ora ha strade nuove, un nuovo ponte con il pedaggio ed è molto, molto più pulita». Così mi dice durante il volo una trentenne ivoriana che vive da vent’anni in Germania, dove lavora in proprio come parrucchiera. Di Costa d’Avorio, in realtà, sa poco o nulla, ormai: torna una volta all’anno per vedere i fratelli e per godersi il buon cibo ivoriano: il foutou, una sorta di polenta fatta con la banana, la manioca o l’igname a seconda della zona e il pesce cotto al vapore dentro una foglia di banano.

Ammutinamento dei militari

All’uscita dell’aeroporto della capitale ivoriana, però, le notizie che raccogliamo non riguardano i passi avanti nell’urbanistica di Abidjan, ma l’ammutinamento dei militari del Nord del paese, in particolare a Bouaké. Non di tutti i militari, bensì degli anciens combattants, cioè i ribelli integrati nell’esercito che avevano sostenuto, nella fase di uscita dalla crisi, la corsa alla presidenza dell’attuale capo di Stato ivoriano, Alassane Dramane Ouattara, detto Ado. L’attuale insubordinazione in seno all’esercito altro non è che il batter cassa degli ex ribelli, ai quali la compagine politica di Ado aveva promesso premi in denaro e privilegi in cambio del loro sostegno. Nel novembre 2014 c’era stata un’avvisaglia, ma si trattò di una semplice protesta; quello di oggi, gennaio 2017, è un vero e proprio ammutinamento iniziato la settimana successiva all’Epifania dalle città del Nord ed esteso poi agli ex ribelli nell’esercito di stanza in tutto il paese.

La richiesta al governo era chiara: soldi, miglioramento delle condizioni delle caserme e case per le famiglie dei soldati. Ouattara era in Ghana alla cerimonia di insediamento del suo omologo dopo le elezioni nel vicino anglofono. È rientrato in tutta fretta per convocare un Consiglio dei ministri e reagire all’emergenza. Dopo momenti di grande tensione culminati nel sequestro del ministro della Difesa inviato a Bouaké a trattare, un accordo è stato raggiunto e i militari sono rientrati nelle caserme. Ma il 13 gennaio, giudicando insufficienti i gesti del governo in direzione del rispetto degli accordi, i soldati hanno ricominciato a protestare creando disordini, stavolta più violenti.

Proteste e disordini

«Padre Alexander Likono, uno dei nostri confratelli, era a Bouaké per delle commissioni», racconta padre Ramón Lázaro Esnaola, superiore dei missionari della Consolata in Costa d’Avorio. «All’entrata in città ha trovato una cinquantina di militari: abbiamo preso Bouaké, dicevano, e prenderemo tutta la Costa d’Avorio. Poi gli hanno ordinato di scendere dalla macchina e di cederla a loro. Al suo rifiuto, lo hanno minacciato. Dopo una serie di negoziazioni e dopo avergli estorto denaro lo hanno lasciato andare, ma la paura è stata davvero tanta». I giornali hanno scritto che non ci sono stati incidenti seri, ma chi era a Bouaké parla di due morti e diversi casi di stupro.

«La situazione è grave», continua padre Ramón, «perché la popolazione, esasperata da una settimana di blocco delle attività economiche, si è ribellata ai militari, e questi hanno aperto il fuoco sulla folla. È un miracolo che non ci siano decine di morti».

Anche dopo i fatti del 13 gennaio governo e militari hanno siglato un accordo, ma il 17 gennaio c’è stata una terza ondata di disordini che ha causato quattro morti. A protestare non sono stati stavolta gli ex ribelli integrati nell’esercito, ma quelli entrati in forze alla gendarmerie e alla polizia, intenzionati a ottenere lo stesso trattamento dei «fratelli» militari. A peggiorare ulteriormente il clima è stato lo sciopero dei dipendenti pubblici a partire dal 9 gennaio, che ha portato, fra le altre cose, alla chiusura delle scuole per tre settimane.

La tensione sociale è alta: il governo avrebbe accettato, almeno sulla carta, l’esorbitante richiesta dei circa 8.500 militari ribelli, equivalente a circa 7.500 euro a testa (ma secondo altre fonti a questi si aggiungerebbero altri 10 mila euro da corrispondere in sette mesi), creando malumore in tutto il paese. I dipendenti pubblici, ad esempio, vivono la resa del governo come un’ingiustizia che aggrava l’inadeguatezza dei loro salari.

Il 7 febbraio le Forze speciali dell’esercito si sono ammutinate a Adiaké, città di confine con il Ghana. Reclamano pure loro premi economici come quelli accordati ai commilitoni.

Malumore popolare

Ma, ricorda ancora padre Ramón, il malcontento è diffuso soprattutto nella fascia più ampia della popolazione, quella che non può far valere le sue ragioni attraverso le armi né far sentire la propria voce con uno sciopero. Si tratta della gente comune, che un salario non lo ha mai visto e che vive di agricoltura e commercio. «Con quali soldi il governo pagherà i ribelli?», si chiede la gente. «Userà denaro pubblico sottraendolo agli investimenti in infrastrutture, sanità e scuola?».

La popolazione è disgustata dai militari che, riconvertendo i blocchi stradali del tempo di guerra in improvvisate frontiere interne, non hanno mai smesso di estorcere denaro a chi passa per trasportare cacao, anacardi, cotone o per andare a coltivare i campi. È stufa di non poter mandare i figli a scuola e di avere i servizi sanitari ridotti al minimo a causa dello sciopero. È, infine, spaventata dalla possibilità di ricadere in un conflitto – logorante, estenuante – come quello che solo dieci anni fa aveva trasformato il Paese modello dell’Africa Occidentale in una discarica di odio interetnico, di macerie di interi settori economici e di detriti di servizi pubblici e infrastrutture, sbriciolati dai tarli della corruzione. Alla data di chiusura di questo articolo la situazione sembra essersi stabilizzata, ma sono tanti a temere che il ritorno della tensione sia dietro l’angolo.

Marandallah, la missione del dialogo

Marandallah è una sottoprefettura nel Nord Ovest della Costa d’Avorio a poco meno di 500 chilometri da Abidjan. Siamo in piena zona koro, gruppo mandé presente in tutto il Nord ivoriano. Il 72 per cento della popolazione è musulmano, seguito da un 25 per cento che pratica le religioni tradizionali, mentre le diverse denominazioni cristiane si dividono il restante tre per cento. I cattolici sono 912 su un totale di 42mila abitanti.

«Date queste premesse», dice padre Alexander Likono, keniano missionario della Consolata che lavora a Marandallah (quello scampato al posto di blocco di Bouaké), «è facile capire come il dialogo interreligioso sia al centro del nostro lavoro qui. Al servizio del dialogo è anche il nostro impegno nel campo della sanità e dell’istruzione e formazione».

Le attività economiche principali della zona sono le coltivazioni dell’anacardo e del cotone. «I campi hanno un’estensione di un ettaro o due per famiglia», spiegano John Baptist Ominde Odunga, confratello e connazionale di padre Alexander. «A lavorare la terra sono, insieme agli adulti, anche i bambini, che spesso per questo smettono di frequentare la scuola primaria o addirittura non iniziano nemmeno il percorso scolastico.

La scuola secondaria conta circa 450 allievi, ma i professori – assegnati a settembre – hanno iniziato ad arrivare solo a gennaio. «È un luogo troppo isolato», continuano i due missionari, «qui gli insegnanti non ci vogliono venire. Per questo abbiamo proposto una soluzione temporanea ispirandoci a quel già avviene nel paese dal 2002 a causa della crisi: abbiamo coinvolto i giovani che hanno finito la secondaria chiedendo loro di darci una mano». A partire da novembre questi giovani sono impegnati come insegnanti volontari. Le famiglie degli studenti si auto tassano e riescono a dare ai volontari un piccolo rimborso di trentamila franchi al mese, pari a circa 45 euro, un quinto del salario di un insegnante statale. «Io stesso ho insegnato inglese», racconta Alexander. «Certo non può essere una soluzione definitiva, ma l’alternativa era lasciare 450 ragazzi senza scuola».

Il dialogo interreligioso e, più in generale, la reciproca conoscenza e cooperazione con la popolazione di Marandallah ha come luogo simbolo il Jardin de l’Amitié (Giardino dell’amicizia), una sorta di parco poco fuori dal villaggio. Nel Jardin, ideato e curato da padre João Nascimento, missionario portoghese attivo a Marandallah fino a dicembre 2016, si svolgono, oltre alle celebrazioni cattoliche, momenti di aggregazione ai quali partecipano tutti gli abitanti del villaggio. Altro luogo di aggregazione è il centro per le attività sociali di fronte alla missione, che ha sale per la formazione, un piccolo ristorante, un campo da gioco. Vi è poi l’alfabetizzazione, che si svolge sia a Marandallah che nei villaggi intorno all’interno degli appatames, strutture aperte simili a paillotte (tettornie circolari aperte, con tetto di paglia).

Altra attività fondamentale dei missionari a Marandallah è il centro di salute Notre Dame de la Consolata. Il centro ha un dispensario, una maternità che segue fra le quaranta e le sessanta donne per mese, un laboratorio utilizzato anche per la diagnosi e il monitoraggio dei casi di Hiv. Dalla fine dello scorso anno, poi, la maternità dispone anche dell’ecografia. Il centro è una struttura di riferimento per la diagnosi e cura dell’Hiv/Aids in collaborazione con Sev-Ci, Ong ivoriana specializzata in questo campo. «La difficoltà maggiore», spiega ancora padre Likono, «è far capire alle persone quanto sia importante venire tempestivamente al centro di salute quando hanno un problema. Spesso tentano di curarsi con i metodi tradizionali e si trascinano per mesi malattie guaribili in pochi giorni. Lo stesso vale per quelle donne incinte che non vengono a farsi visitare durante la gravidanza e che, in caso di parti problematici, arrivano qui in condizioni terribili, a volte troppo tardi». Portare i pazienti all’ospedale più vicino, se il caso è troppo complicato per essere risolto al centro, significa far loro affrontare ore di viaggio in ambulanza su piste difficili, specialmente con le piogge, per un costo fra i 60 e i 90 euro.

Dianra. Salute, alfabetizzazione e microcredito

Ottanta chilometri di pista più a Nord – l’asfalto finisce una quarantina di minuti prima di arrivare a Marandallah ed è praticamente assente in tutto il Nord – si trova Dianra. Un bambino di una decina d’anni attraversa il cortile della missione nel buio della sera, ha in mano una busta di plastica con dentro penna, matita, quaderno e lavagnetta. Raggiunge gli altri circa 160 bambini e adulti che si intravedono nei quadrati luminosi di porte e finestre delle aule della missione, le teste chine sui banchi o protese verso la lavagna.

«Questi sono i corsi di alfabetizzazione, sono cominciati quindici anni fa», spiega padre Raphael Njoroge Ndirangu, un altro missionario keniano che lavora a Dianra. «Non sono decollati subito, ma poi piano piano le persone hanno cominciato a vederne l’utilità nel loro quotidiano». Hanno capito, ad esempio, che saper leggere e scrivere permette loro di gestire direttamente la vendita del cotone o degli anacardi che producono invece di mettersi nelle mani di intermediari che barano sul peso e si accordano con i compratori per spartirsi il maltolto. Oppure hanno visto tre loro colleghi degli anni passati superare l’esame di stato che riconosce il livello scolastico raggiunto e trovare così lavori che altrimenti non avrebbero potuto avere. «Certo, non è facile per loro rimanere concentrati dopo una giornata nei campi, ma sono motivati e in questo gli insegnanti hanno un ruolo fondamentale». Altra attività che riesce a influire sul quotidiano delle persone è il microcredito, cornordinato da padre Manolo Grau, missionario spagnolo con all’attivo parecchi anni di Congo, poi approdato in Costa d’Avorio. «A oggi abbiamo 165 donne che partecipano al programma di microcredito, che è un’iniziativa stabile e, anzi, in crescita». A gestire le donne, suddivise in gruppi di cinque, sono sei responsabili, una delle quali è musulmana, a riprova che anche la missione di Dianra, come Marandallah, ha nel dialogo con le altre religioni uno dei suoi punti fermi. «Finora i vari gruppi di donne hanno semplicemente completato i cicli triennali di microcredito con percentuali di rimborso che non sono scese mai sotto il 98 per cento. Ora, dato il consolidamento dell’iniziativa, padre Manolo e le sei responsabili cominciano a pensare a un salto di qualità. «Potrebbe essere una cornoperativa, un orto comunitario, un’attività generatrice di reddito che riunisca alcune di queste donne in un progetto comune. Ma un’iniziativa del genere può funzionare solo se viene da loro. Il nostro lavoro è quello di accompagnarle nella riflessione e nell’eventuale formalizzazione di una proposta».

Un salto di qualità, invece, lo ha fatto nel 2016 il Centro di Salute Giuseppe Allamano a Dianra Village, località a 22 chilometri da Dianra. Padre Matteo Pettinari, missionario italiano e responsabile del centro, ha radunato tutto il personale nell’atrio del dispensario e Victor, infermiere recentemente entrato in forze al centro, guida la visita alla maternità, al laboratorio, allo studio dentistico terminati nel febbraio 2016. Questi completano il dispensario e la farmacia, che esistevano già; il centro così ampliato riceve crescenti richieste da parte di nuovi pazienti. I parti sono arrivati a circa 28 al mese.

«Grazie al sostegno di Amico, di Mco e di una parrocchia di Pesaro», spiega padre Matteo, «abbiamo inoltre costruito le cases de santé nei villaggi intorno a Dianra Village. Si tratta di piccole strutture presso le quali facciamo sanità di base e portiamo avanti il programma sulla lotta alla malnutrizione». «In quattro degli undici villaggi che serviamo», afferma Suzanne, ausiliaria responsabile con Victor del programma malnutrizione e membro dell’équipe mobile del Centro, «seguiamo 152 bambini malnutriti, ma prevediamo di ampliare progressivamente il programma anche agli altri piccoli che abbiamo individuato nei restanti villaggi».

Chiara Giovetti – [continua]