Malawi. Bagnato dal Lago



Dalla dittatura alla democrazia

Breve storia del paese bagnato dal grande lago

Da colonia britannica a paese indipendente. Dal partito unico, con un presidente padrone, al percorso verso la democrazia. Fino alle ultime elezioni, ripetute per brogli.

È una calda domenica pomeriggio di inizio novembre. Da qualche minuto, ci siamo lasciati alle spalle le vie affollate e rumorose di Lilongwe, la capitale del Malawi. Abbiamo imboccato una larga strada dall’asfalto grigio e siamo saliti di qualche decina di metri rispetto al resto della città. Ai due lati della via che percorriamo, giardini dall’erba verde appena tagliata e grandi alberi creano delle isole d’ombra sotto il sole battente.

A un certo punto, a intervalli regolari, iniziano a diramarsi alcune vie secondarie, al fondo delle quali notiamo edifici bianchi, sobri e imponenti. Sono le sedi dei ministeri del governo malawiano. Passiamo accanto al ministero dell’Educazione. Poi a quello della Giustizia. Più avanti, ci sono le indicazioni per la Difesa e gli Affari esteri. E, infine, ecco gli uffici del Presidente, del suo vice e le strutture dove si riuniscono i membri del gabinetto.

Siamo appena saliti sulla Capital Hill, la collina capitale. Poco più in là, c’è la sede del potere legislativo, il Parlamento. Costruito grazie a finanziamenti cinesi, è anch’esso un edificio imponente. Vi si giunge percorrendo un lungo viale fiancheggiato da prati verdi, aiuole e alberi. La struttura bianca a semicerchio si eleva sopra una grande scalinata, e culmina con una cupola centrale.

Vicino al Parlamento si trova un mausoleo. È la tomba di Hastings Kamuzu Banda, presidente dittatore del Paese tra il 1963 e il 1994. Fu lui a fare di Lilongwe la nuova capitale del Malawi nel 1975 (al posto di Zomba). E proprio perché la città fosse pronta ad accogliere i vertici politici del Paese, fin dagli anni Sessanta, Banda aveva avviato la costruzione di Capital City, la città nuova. Ancora oggi cuore della vita politica nazionale, culmina proprio su Capital Hill.

L’ascesa di Banda

Banda fu una figura politica cruciale per il Malawi. Sostenitore delle lotte indipendentiste, divenne un personaggio politico di primo piano con l’approssimarsi della decolonizzazione, un leader a cui affidare i primi passi del nuovo Malawi indipendente. Appena giunto al potere, però, iniziò a mostrare i suoi tratti autoritari, fino a diventare a tutti gli effetti un dittatore.

Nato durante il periodo coloniale britannico (1891-1964), Banda lasciò il suo Paese in giovane età per lavorare nella vicina Rhodesia del Sud (l’attuale Zimbabwe). Si spostò poi in Sudafrica e, infine, negli Stati Uniti, dove conseguì una laurea in medicina.

Iniziò a essere direttamente coinvolto nelle vicende politiche del suo Paese solo alla fine degli anni Quaranta, quando un gruppo di coloni bianchi propose di creare una federazione che riunisse alcuni dei territori controllati dai britannici nell’area. Nel 1953, nonostante l’opposizione della popolazione africana e dei suoi leader, Rhodesia del Nord (l’odierno Zambia), Rhodesia del Sud e Nyasaland (il Malawi, da «nyasa», «lago» in chiyao) furono uniti nella Federazione della Rhodesia e del Nyasaland.

A quel punto, sotto le crescenti pressioni dei nazionalisti malawiani, Banda decise di rientrare nel suo Paese. Fu immediatamente posto alla guida del Nyasaland african congress (Nac), movimento nazionalista nato nel 1944. Ben presto, Banda iniziò a viaggiare per tutto il Malawi. I suoi discorsi contro quella che definiva la «stupid federation» (letteralmente, la «federazione stupida») infuocavano gli animi e stimolavano i sentimenti indipendentisti. Tanto che, nel marzo 1959, il governo coloniale lo incarcerò per un anno e dichiarò lo stato di emergenza.

Ma nell’agosto 1961, Banda si riprese la scena politica. Il suo movimento – denominato Malawi congress party (Mcp) – vinse le elezioni, ottenendo la maggioranza nel Consiglio legislativo. Due anni dopo, Banda divenne Primo ministro di un Paese che si stava avvicinando all’indipendenza.

Il Malawi, un «kwacha»

Il Nyasaland divenne indipendente il 6 luglio 1964 con il nome di Malawi. Pochi mesi prima, si era sciolta la Federazione della Rhodesia e del Nyasaland. Per Banda fu una vittoria politica di rilievo. Egli infatti sosteneva che, all’interno della Federazione, il Malawi fosse costantemente relegato in disparte, perché considerato l’«ultima ruota del carro», più povero e arretrato rispetto agli altri due Stati con i quali era federato.

Per Banda, invece, il Malawi era paragonabile a un «kwacha» («sole nascente» in chichewa, la lingua ufficiale del Paese insieme all’inglese). E, solo una volta liberatosi dall’ombra degli ingombranti vicini, sarebbe sorto, come un sole, consolidandosi sul piano politico, sociale ed economico.

Quattro erano i principi che, secondo Banda, avrebbero guidato il Paese in questo percorso: unità, disciplina, obbedienza e fedeltà. Ma se durante il suo governo si registrò qualche progresso in ambiti come istruzione e salute, molti altri furono i passi indietro sul piano della libertà di espressione, dei diritti umani e della democrazia.

Già nell’agosto 1964, Banda affrontò il malcontento di molti dei suoi ministri, irritati dalla sua attitudine autocratica e dalla tendenza a non consultarli prima di prendere delle decisioni. Anche l’orientamento del dittatore in politica estera era causa di tensioni: il Malawi fu uno dei pochi Paesi africani a mantenere relazioni diplomatiche con il Sudafrica dell’apartheid e con i coloni portoghesi in Mozambico. D’altronde, Banda divenne ben presto un fidato alleato degli Stati Uniti in un’area calda per le logiche della Guerra fredda. Dunque, tre ministri furono cacciati il 7 settembre. Altrettanti si dimisero nei giorni successivi. La maggior parte lasciò rapidamente il Malawi, temendo per la propria vita.

Il partito unico

Dal 1966, il Malawi divenne uno Stato a partito unico con l’Mcp unico movimento legale. Qualsiasi voce di dissenso era rapidamente incarcerata o messa a tacere per sempre. Nel 1970, Banda divenne il presidente a vita dell’Mcp e, un anno dopo, fu nominato capo di Stato a vita del Malawi. L’ala paramilitare del suo partito, gli Young pioneers, contribuì a creare un clima di terrore che persistette fino ai primi anni Novanta.

Fu instaurato un profondo culto della personalità del dittatore. Ogni edificio doveva esporre una fotografia di Banda sul muro e nessun’altra immagine poteva essere più grande della sua. Prima di una qualsiasi proiezione cinematografica, veniva trasmesso un video del presidente che salutava la popolazione. Poi iniziava il film, che doveva aver superato l’ispezione preventiva dell’organo di censura. Accadeva che alcune scene venissero rimosse perché politicamente inaccettabili. Ma era anche possibile che venissero eliminate alcune pagine da riviste come «Newsweek» e «Time». C’erano solo una stazione radio, un quotidiano e un settimanale. Tutti attentamente controllati dal governo e utilizzati per la sua propaganda.

Fu introdotto un rigido codice di abbigliamento per le donne, che non potevano indossare pantaloni o vestiti al di sopra del ginocchio. Mentre agli uomini era vietato lasciarsi crescere i capelli oltre il mento. Se uno straniero non rispettava questo requisito, la sua chioma era immediatamente tagliata, prima di uscire dall’aeroporto.

Ogni fede religiosa era attentamente controllata perché non costituisse una minaccia al culto della personalità del dittatore. Le Chiese dovevano essere approvate dal governo. Alcuni movimenti, come i Testimoni di Geova, furono duramente perseguitati e dovettero abbandonare il Paese.

Venti di democrazia

Nei primi anni Novanta, in tutto il Malawi iniziarono a crescere le voci di dissenso contro le politiche autoritarie di Banda. Sul piano internazionale, con la fine della Guerra fredda, l’Occidente cominciò a spingere affinché molti Paesi del Sud globale – fino a quel momento governati da regimi autoritari allineati con l’una o l’altra parte – avviassero una transizione democratica.

Dunque, sotto pressioni domestiche e internazionali, nel 1993, Banda legalizzò gli altri partiti politici. Le prime elezioni multipartitiche si tennero l’anno successivo e furono vinte dall’United democratic front (Udf). Il suo leader, Bakili Muluzi, formò un governo di coalizione con l’Alliance for democracy e divenne il primo presidente eletto democraticamente nel Paese dopo trent’anni. Cinque anni più tardi, Muluzi fu riconfermato.

L’Udf rimase primo partito anche nel 2004, seppure senza la maggioranza assoluta in Parlamento. Il suo candidato, Bingu wa Mutharika, fu quindi sostenuto da un governo comprendente diversi movimenti che fino a quel momento avevano fatto parte dell’opposizione. Riconfermato, in quanto candidato del Democratic progressive party (Dpp), Mutharika morì di infarto nel 2012. Il suo posto fu preso dalla vicepresidente ed esponente del People’s party Joyce Banda (senza legami di parentela con l’ex dittatore) che però uscì sconfitta dalle elezioni del 2014. A imporsi fu Peter Mutharika, fratello di Bingu e nuovo leader del Dpp.

La tornata del 2019, invece, fu duramente contestata. Inizialmente, la vittoria fu attribuita a Mutharika, anche se di poco. A febbraio 2020, però, la Corte costituzionale annullò il voto, denunciando irregolarità e frodi. Due mesi dopo, la sentenza fu confermata anche dalla Corte suprema che indisse nuove elezioni per il 2 luglio. Era la prima volta che un risultato elettorale veniva messo in discussione. E poi ribaltato, dato che a vincere fu un candidato dell’opposizione, Lazarus Chakwera,  esponente dell’Mcp e attuale presidente del Paese.

Aurora Guainazzi


Religioni che convivono

Protestanti, cattolici e musulmani

Il paesaggio scorre veloce fuori dal finestrino mentre ci dirigiamo verso sud. Superiamo una moschea e suor Ornella, madre superiora della missione sacramentina di Mtande (alla periferia di Lilongwe), commenta: «In passato, in questa zona, c’erano solo i musulmani. I cristiani sono arrivati da poco».

Stiamo attraversando il distretto di Mangochi, l’area del Paese dove, ancora oggi, c’è la maggiore presenza di seguaci dell’islam (il 73% della popolazione). Portata dai mercanti arabi intorno al XV-XVI secolo, la religione musulmana si è poi diffusa tra gli Yao, il maggiore gruppo etnico sulle sponde meridionali del lago Malawi. Gli Yao erano abili commercianti: scambiavano con i mercanti arabi della costa, ma anche con i portoghesi in Mozambico. A loro vendevano avorio e schiavi. «Proprio per sfuggire alla schiavitù – dice suor Ornella – molti abitanti del luogo si convertirono all’islam. La maggioranza dei mercanti, infatti, era musulmana e tendeva a non schiavizzare membri della stessa fede».

I primi missionari cristiani arrivarono alla fine dell’Ottocento, sulla scia delle esplorazioni di David Livingstone. Nel 1875, a Cape Maclear, sulla punta di una piccola penisola sul lago, nacque la prima missione che, però, in sei anni riuscì a convertire un solo musulmano. Anche negli anni successivi, in quest’area il cristianesimo faticò a diffondersi, mentre diventava la religione predominante nel resto del Paese. «La fede cristiana qui ha preso piede solo recentemente, anche grazie all’attivismo degli ultimi vescovi», dice suor Ornella.

Oggi, il pluralismo religioso è un valore cardine del Malawi. La Costituzione definisce il Paese come uno Stato laico, dove è proibita qualsiasi discriminazione su base religiosa e tutti sono liberi di professare il proprio culto. A garanzia di ciò si pongono soprattutto le istituzioni giudiziarie. Recentemente, ad esempio, una sentenza della Corte suprema ha imposto al ministero dell’Educazione di far sì che i bambini della comunità rastafariana possano frequentare la scuola senza dover tagliare i dreadlock, simbolo del movimento religioso. Il mondo musulmano invece sta attendendo che venga riconosciuto, alle bambine che lo desiderano, il diritto a indossare l’hijab negli istituti scolastici. È proprio per questa attenzione alla libertà di culto che Freedom house (un’organizzazione che studia democrazia e diritti umani nel mondo) ha attribuito al Malawi il massimo del punteggio nell’indice sulla libertà religiosa.

La tolleranza d’altronde è sempre più un valore intrinseco alla società locale. Lo testimonia anche un’indagine dell’agosto 2021 di Afrobarometer (una rete panafricana che svolge studi statistici sul continente). A oltre il 62% degli intervistati «piace molto» avere dei vicini appartenenti a un’altra fede, mentre un altro 16% ha dichiarato che gli «piace alquanto». Solo il 10% ha risposto negativamente.

Anche suor Leonia, madre superiora della missione delle Suore sacramentine a Monkey Bay, conferma: «Nella nostra zona (il distretto di Mangochi, ndr), ci sono tante fedi, ma di solito le persone convivono senza problemi. Abbiamo tanti protestanti, dei presbiteriani e qualche anglicano. Poi ci sono i cattolici. E ovviamente i musulmani».

In tutto il Paese, oggi, secondo il World religion database (un database sulla distribuzione delle religioni nel mondo), il cristianesimo è professato dall’80% della popolazione – con un’ampia fetta di protestanti (38%) e cattolici (33%) – mentre i musulmani sono il 14%. Ci sono poi piccole percentuali di rastafariani, indù, ebrei e sikh.

A.G.

Lo spettro della carestia

La siccità ha portato i prezzi degli alimenti alle stelle

La produzione agricola per l’esportazione resta un pilastro dell’economia. Con conseguente forte dipendenza dai mercati esteri e dal meteo. Come accaduto per la grande siccità del 2024.  Mentre il 90% della gente vive di agricoltura di sussistenza.

«Quello è tabacco», dice suor Leonia indicando – quasi imbarazzata – le coltivazioni di fronte a noi. «Non volevo coltivarlo – prosegue la religiosa sacramentina -, ma mi hanno convinta a farlo perché, se le piante crescono bene, poi il raccolto di solito è redditizio».

Produrre tabacco non è semplice e richiede molto lavoro manuale. Prima, viene seminato in grandi orti, dove gli agricoltori se ne prendono cura quotidianamente. «Vedi – suor Leonia indica dei lavoratori assiepati attorno a un punto del terreno – stanno bagnando le piantine. Lo fanno tutti i giorni». Poi, «verso fine novembre, con l’arrivo delle prime piogge, le spostano nei campi dove hanno maggiore spazio per crescere e irrobustirsi». Con la cimatura – l’eliminazione della testa di fiore – e la rimozione dei germogli secondari, viene facilitata la crescita di foglie forti, e si ottiene un tabacco di migliore qualità. È un lavoro lungo e minuzioso che si protrae fino al momento del raccolto, intorno al mese di febbraio.

Suor Leonia volge lo sguardo verso una struttura di legno che corre lungo un lato del campo e aggiunge: «Una volta raccolte, le piante sono disposte su quei bastoni e lasciate essiccare all’aria aperta». Generalmente per un paio di mesi, in attesa che inizino le procedure di vendita, tra marzo e aprile.

Il settore agricolo

Suor Leonia non ha deciso di coltivare il tabacco per caso. Il Malawi è il sesto esportatore mondiale di questa commodity, il secondo in Africa dopo lo Zimbabwe. Con guadagni pari a 435 milioni di dollari nel 2022, il tabacco – la cui esportazione è iniziata nel 1893 – è stabilmente il primo prodotto commerciato dal Paese, seguito da altre materie prime agricole come tè, arachidi e legumi secchi.

D’altra parte, il settore primario contribuisce al 30% del Pil e impiega oltre l’80% della forza lavoro. La produzione di commodities, introdotte in epoca coloniale, continua a essere ancora oggi un pilastro dell’economia nazionale. Sia che vengano coltivate nelle grandi piantagioni, sia che siano frutto del lavoro dei piccoli agricoltori. Infatti, se dalle prime deriva il 30% della produzione agricola del Paese, i secondi sono responsabili del restante 70%.

Ma – come in tanti altri Stati africani dipendenti dall’esportazione di materie prime – anche il Malawi spesso si trova in balìa delle fluttuazioni dei prezzi sul mercato internazionale e dei cicli di espansione e contrazione della domanda e dell’offerta. Allo stesso modo è sovente alla mercé di disastri naturali che possono causare la perdita della quasi totalità del raccolto. Ne sono un esempio le inondazioni del 2002, che devastarono il settore agricolo e spinsero il presidente a dichiarare lo stato di emergenza nazionale a causa della carestia.

Anno critico

Quello che è successo nel 2024 non è stato tanto diverso. «Quest’anno, la pioggia è finita troppo presto, a febbraio», racconta suor Leonia, mentre camminiamo per i suoi terreni. Volge lo sguardo tutt’intorno e continua: «Così abbiamo perso tutto il raccolto di grano. Se avessimo avuto dell’acqua di riserva, avremmo potuto bagnarlo. Ma non l’avevamo».

Dopo tre anni di precipitazioni troppo abbondanti dovute ai cicloni tropicali Ana, Gombe e Freddy, il Malawi ha iniziato a fare i conti con le conseguenze di El Niño. Un fenomeno climatico che tendenzialmente avviene ogni cinque anni e provoca il riscaldamento dell’acqua superficiale dell’Oceano Pacifico centrale. Quando si verifica, El Niño ha un impatto in tutto il mondo, ma soprattutto causa violente precipitazioni in America centro meridionale, uragani nel sud del Pacifico e prolungati periodi di siccità in Africa subsahariana.

Così tra marzo e aprile 2024, gli agricoltori malawiani – stima il governo – hanno raccolto il 45% in meno di mais rispetto alla media degli ultimi cinque anni. Si è quasi dimezzata la disponibilità di un cereale essenziale per la dieta locale, coltivato da nove famiglie su dieci. Sono proprio queste famiglie che vivono di agricoltura di sussistenza – oltre ai piccoli proprietari terrieri – ad aver risentito maggiormente della siccità a causa della mancanza di riserve idriche e impianti di irrigazione.

Persi grano e mais, anche il raccolto di riso è stato molto magro. «Appena ho capito che quest’anno non saremmo riusciti a raccogliere il grano, ho detto “vado vicino al lago a preparare il campo per il riso”», racconta suor Leonia. «Ma ci sono state delle alluvioni in Tanzania e il fiume Ruhuhu (immissario tanzaniano nel lago Malawi, ndr) ha portato tanta acqua nel lago che si è “gonfiato”, inondando le risaie». Proprio nel momento del raccolto che, così, è diventato impossibile.

Rischio carestia

In Malawi, il 90% della popolazione vive di agricoltura di sussistenza, coltivando mais, riso e legumi. Ma fino a marzo 2025 non ci saranno nuovi raccolti. Non a caso, l’Integrated food security phase classification (Ipc, uno strumento utilizzato a livello internazionale per identificare i livelli di insicurezza alimentare) ha stimato che, tra marzo e ottobre 2024, circa 4,2 milioni di persone (su una popolazione di 21 milioni) si trovavano in condizione di insicurezza alimentare acuta. Cioè erano incapaci di produrre autonomamente il cibo necessario per la sopravvivenza quotidiana. Tra ottobre 2024 e marzo 2025, il numero crescerà a 5,7 milioni.

D’altra parte, già a ottobre, suor Leonia parlava apertamente di carestia: «Tanti nelle campagne non hanno più niente da mangiare e hanno iniziato a rubare i manghi sugli alberi». Le scorte di grano – accumulate nei silos fuori dalla capitale – sono finite da tempo. «Una buona parte – dice suor Ornella – è stata venduta all’estero dal governo per ottenere la liquidità necessaria per rispettare le scadenze sul debito». Debito estero che attualmente ammonta a circa  3,39 miliardi di dollari.

Prezzi alle stelle

Quel poco di grano presente nel Paese costa moltissimo. La farina per il pane è introvabile. Al mercato ci sono solo pomodori, verze, manghi e banane.

È proprio la mancanza di generi alimentari di prima necessità la principale causa della crescita costante dell’inflazione, arrivata a toccare il 34% negli ultimi mesi del 2024.

E se i prezzi dei beni di base – soprattutto alimentari – continuano ad aumentare, lo stesso non si può dire dei salari. Con una paga giornaliera di 4mila kwacha (2 euro), la maggior parte dei malawiani, a fine giornata, non ha il denaro sufficiente per assicurare un pasto alla propria famiglia. Basti pensare che una piccola anguria al mercato costa 5mila kwacha (2,50 euro). Uguale è il prezzo di cinque limoni o di un casco di banane. Per non parlare del costo dei legumi o, ancor peggio, della carne e del pesce.

Ma anche il prezzo dei fertilizzanti è più che triplicato. «Fino all’anno scorso, un sacco da dieci chili costava 30mila kwacha (circa 15 euro). Ora è salito a 90mila (45 euro), ma può raggiungere tranquillamente anche i 120mila (60 euro)», spiega suor Leonia. Se si considera che «per un ettaro di terreno, di solito, utilizziamo quattro sacchi di fertilizzante», diventa subito evidente che i costi sono cospicui. Cifre, che per la maggior parte degli agricoltori locali, sono insostenibili già in una situazione di normalità. Figuriamoci l’anno dopo aver perso quasi la totalità del raccolto.

Aurora Guainazzi


Bambini a rischio: è emergenza

Visita a un centro per la lotta alla malnutrizione

È lunedì mattina quando entriamo nel piccolo centro per la lotta alla malnutrizione alla periferia di Monkey Bay. I suoi locali sono gremiti di mamme e bambini di ogni età. «Lunedì e martedì sono i giorni più affollati», ci spiega Patience, la responsabile dei magazzini e della pulizia della struttura. «C’è appena stato il weekend e il lavoro di due giorni si è accumulato. Poi domani (il 15 ottobre, ndr) siamo chiusi perché è la Festa della Mamma. Quindi in realtà tutta questa settimana sarà impegnativa». Mentre parliamo, ci avviciniamo a una giovane mamma, il cui bambino di pochi mesi dorme avvolto in un telo sulla sua schiena. Lo tengono monitorato perché a rischio malnutrizione. Azioni di questo genere sono la quotidianità nel piccolo centro ormai diventato un punto di riferimento per i villaggi del circondario. A maggior ragione negli ultimi mesi, quando la fame ha iniziato a diffondersi sempre di più.

Nel distretto di Mangochi, già a ottobre 2024, secondo l’Ipc, il 35% della popolazione si trovava in una condizione di «crisi» alimentare. Essendo in grande difficoltà nell’assicurarsi la quantità minima di cibo necessaria per la sopravvivenza quotidiana, si collocava al terzo livello (su cinque) del sistema di allerta utilizzato internazionalmente per identificare le situazioni di insicurezza alimentare. A marzo 2025, il 5% degli abitanti passerà alla fase successiva, quella di «emergenza», una condizione in cui la mancanza di cibo è talmente marcata da causare un elevato rischio di mortalità e consistenti livelli di malnutrizione.

Tra i più a rischio, ci sono i bambini. Soprattutto se vivono nelle aree rurali e non hanno la possibilità di raggiungere i villaggi più grandi, dove si trovano le strutture per la lotta alla malnutrizione. Perciò, in tutto il Paese, si sta diffondendo sempre di più la pratica di realizzare degli screening nei villaggi più isolati, così da identificare ed eventualmente prendere in carico le situazioni più gravi.

È con questo obiettivo che una mattina ci rechiamo nel villaggio di Matwi. Per raggiungerlo, abbandoniamo presto la strada asfaltata e percorriamo qualche chilometro di sterrato, tra buche e tanta polvere. Siamo circondati dai campi e ogni tanto ci imbattiamo in qualche casa isolata. Quando arriviamo al villaggio, mamme e bambini sono già radunati sotto il portico del piccolo asilo comunitario. Osservano attentamente il personale medico mentre scarica il materiale dal fuoristrada e prepara le postazioni per la misurazione del peso, dell’altezza e della circonferenza del braccio. Prima di iniziare, Diana, un’infermiera, spiega in chichewa il motivo dello screening e l’importanza di realizzarlo. Poi, invita le mamme a recarsi con i loro bambini verso la bilancia, appesa, poco più in là, a una trave del soffitto. Uno alla volta, i teli colorati che avvolgono i piccoli vengono appesi e il loro peso annotato. Pian piano, inizia a formarsi una piccola folla anche intorno ai punti adibiti alla misurazione dell’altezza e della circonferenza del braccio. Infine, bambino per bambino, i dati raccolti vengono incrociati, identificando eventuali situazioni critiche. Il sollievo sul volto di molte madri, quando viene comunicato loro che per il momento non ci sono problematiche, è evidente. D’altronde, a Matwi, i generi alimentari scarseggiano ormai da mesi e non è facile assicurare anche solo un pasto al giorno ai propri figli.

L’Unicef (l’agenzia delle Nazioni Unite per l’infanzia), già a maggio 2024 – quando era chiaro che il Malawi si preparava ad affrontare mesi duri – aveva avvertito che più di mezzo milione di bambini sotto i cinque anni era a rischio malnutrizione acuta. Mentre 3,3 milioni avrebbero avuto bisogno di assistenza alimentare di base.

A.G.


Missione scuola

Ricerca di un’istruzione di qualità

L’educazione è la loro vocazione. Le Suore sacramentine hanno cinque missioni nel Paese. Qui l’istruzione è limitata e i tassi di abbandono scolastico sono elevati. E le bambine sono le più penalizzate.

È un caldo e assolato sabato pomeriggio quando accompagniamo suor Teresa nella scuola primaria della missione di Monkey Bay. Ne è la direttrice e ce la mostra con orgoglio. Superiamo il grande cancello di ferro battuto che separa la missione dagli edifici scolastici. Alla nostra sinistra sorge un piccolo altare in ricordo di Geltrude Comensoli, la fondatrice delle Suore sacramentine. Alla nostra destra c’è la scuola. È composta da tre edifici lunghi e bassi, paralleli gli uni agli altri, dove trovano spazio le classi, gli uffici del personale, la direzione, alcuni laboratori e una biblioteca.

Entriamo nell’ufficio di suor Teresa. Sulla scrivania c’è un computer, circondato da libri e fogli. «È periodo di esami» dice, mentre cerca qualcosa in una pila. Ci porge un pezzo di carta e continua: «Questa, ad esempio, è la prova di inglese». Si guarda attorno, adocchia un altro plico in fondo alla stanza e ne pesca un altro foglio. «Questo invece è l’esame di chichewa». Fissiamo la pagina senza capire nulla, ma affascinati dal vedere per iscritto la lingua che da qualche settimana sentiamo continuamente intorno a noi. Suor Teresa, nel frattempo, ha recuperato altre prove: rapidamente, ci passa gli esami di matematica, arti espressive, scienze e life skills.

Queste ultime suscitano la nostra curiosità. Ma quando domandiamo cosa siano, suor Teresa resta quasi stupita. Guardiamo insieme gli esami e nel frattempo ci spiega: «Le life skills sono competenze trasversali che guardano allo sviluppo dei bambini in ogni ambito della vita. Ad esempio, insegniamo loro strategie per rafforzare l’autostima, li spingiamo a prendere autonomamente delle decisioni o a risolvere i problemi. Affrontiamo anche temi come lo sviluppo delle relazioni sociali e i rapporti di genere». L’obiettivo è che bambini e ragazzi siano in grado di interagire correttamente e attivamente con chi li circonda.

Usciamo dall’ufficio e continuiamo il nostro giro. Entriamo nelle classi. Sono sobrie, ma funzionali. Dietro alla cattedra c’è una grande lavagna nera, mentre i banchi di fronte sono disposti in modo ordinato. Arriviamo all’ultimo edificio. «Qui ci sono i laboratori», spiega suor Teresa. Apre la porta di una stanza piena di cartelloni e oggetti di ogni genere: «Questo, ad esempio, è quello di scienze». Poco oltre c’è il laboratorio di informatica: uno spazio spoglio con un vecchio computer addossato alla parete. «Abbiamo solo quello – dice – ma è già qualcosa».

Vocazione istruzione

Le Suore sacramentine (nate a fine Ottocento a Bergamo) operano in Malawi dagli anni Settanta. In questo piccolo Paese, hanno creato cinque missioni (a Balaka, Lilongwe, Monkey Bay, Namwera e Ntcheu), ognuna con le proprie peculiarità. Ma con un tratto comune: l’istruzione è diventata fin da subito la loro vocazione. In particolare, le suore pongono un’attenzione particolare alle ragazze, spesso più svantaggiate rispetto ai loro coetanei maschi nell’accesso alla scuola. Infatti, se il tasso di istruzione femminile, rilevato dalla Banca mondiale nel 2022, era pari al 65%, quello maschile era superiore di sei punti percentuali.

Da qui la decisione di alcune missioni – Monkey Bay nel caso della scuola primaria, Namwera per la secondaria – di concentrarsi esclusivamente su bambine e ragazze. Il motivo ce lo spiega bene suor Leonia durante una delle nostre conversazioni: «Educare la donna in questa zona (Monkey Bay, ndr) è molto importante, perché, se lo fai, vedi già una mentalità diversa. Adesso non ci sono tante donne che hanno studiato. Perciò, vogliamo dare loro questa possibilità, anche solo perché possano organizzare le loro case come si deve». Le piacerebbe avere delle classi miste: «Sarebbe normale. Ma non possiamo fare tutto, perciò abbiamo dovuto fare una scelta».

Far funzionare una scuola delle dimensioni di quella di Monkey Bay è complesso. «Abbiamo circa 700 bambine, suddivise negli otto anni previsti dal ciclo di istruzione primaria», dice suor Teresa. «Di queste bambine – racconta invece suor Leonia – 250 si fermano a mangiare e dormire qui».

Attorno a un cortile di terra battuta, poco oltre il convento, sorgono un refettorio, le cucine e i dormitori. Le stanze sono essenziali, ma funzionali, con letti a castello e cassapanche dove le allieve possono riporre i propri effetti personali. In fondo a ogni edificio, ci sono i bagni. E cosa non scontata: acqua corrente ed elettricità sono presenti in tutte le strutture.

«Non possiamo offrire tutto questo completamente gratis, perché sennò non riusciremmo a organizzare la scuola, pagare i maestri e comprare il materiale», sottolinea suor Leonia. Per questo si chiede una retta, tentando comunque di renderla il più accessibile possibile. «Vorrei che più bambine della zona venissero a scuola. Perciò, invece di aumentare le fees (la retta, ndr), sto pensando di far sì che possano pagare di meno, sostituendo il denaro con qualcosa di materiale». Tra l’altro, già «abbiamo dei gruppi di orfane che non pagano niente. Oppure ci sono quelle che hanno solo la mamma e non il papà. In quei casi valutiamo di volta in volta».

Trovare un equilibrio non è facile. Ma suor Leonia ci tiene ad assicurare un’istruzione di qualità perché «in molti istituti, finita la giornata, i bambini se ne vanno, ma hanno appreso poco. Poco più avanti, ad esempio, c’è una scuola dove nelle classi sono in 400. Così non si impara nulla». Quello di cui parla suor Leonia non è un caso isolato: il sovraffollamento delle aule è un problema diffuso in Malawi. Soprattutto nelle scuole pubbliche dove, in media, un docente si trova a gestire 130 studenti. Ad alimentare questa situazione è la cronica mancanza di insegnanti: la retribuzione molto bassa (spesso sui 120mila kwacha al mese, circa 60 euro), a fronte di un impegno considerevole nella gestione delle classi, scoraggia molti dall’intraprendere questo mestiere.

Scarsità di scuole

Anche a Namwera, sulle montagne al confine orientale con il Mozambico, molte delle ragazze che frequentano la scuola secondaria si fermano a dormire e mangiare nelle strutture della missione. «Abbiamo 262 ragazze che vivono qui», racconta suor Ornella, la responsabile della scuola. Indica una serie di edifici che servono da dormitori. «Siamo una delle poche scuole superiori della zona e siamo riconosciuti per la qualità dell’istruzione che offriamo», sottolinea con orgoglio.

«In Malawi, l’educazione secondaria è poco diffusa», ci ha anticipato suor Ornella, madre superiora della missione di Mtande, mentre qualche ora prima percorrevamo una serie di tornanti su per la montagna. «In tutto il Paese le scuole superiori sono poche, e quelle che ci sono generalmente costano molto, anche se pubbliche. Quindi, non sono tanti quelli che se le possono permettere. I più poveri riescono ad accedervi solo se sono ritenuti meritevoli di una borsa di studio governativa».

In effetti, dati alla mano, è evidente che in Malawi l’istruzione – sia primaria che secondaria – è ancora limitata, con tassi di abbandono scolastico elevati. L’ultimo rapporto dell’Unicef, ad esempio, evidenzia che nel 2023 solo il 33% dei bambini e delle bambine aveva completato il primo ciclo di istruzione. Mentre quelli che avevano proseguito con la secondaria erano ancora meno, il 12%.

Al crescere dell’età dei ragazzi, poi, la forbice tra maschi e femmine si allarga sempre di più. Infatti, se dopo un anno di primaria, il numero di bambini e bambine che lascia la scuola è pressoché simile (il 4%), nel corso della secondaria le percentuali sono ben diverse. Le ultime statistiche del ministero dell’Educazione, relative all’anno scolastico 2023/2024, mostrano che, durante i quattro anni di superiori, il 60% di coloro che hanno abbandonato in anticipo gli studi erano ragazze. Perlopiù a causa di responsabilità familiari, tasse troppo elevate, matrimoni e gravidanze precoci. Queste due ultime condizioni, in particolare, hanno un’incidenza elevata: il 50% delle ragazze si sposa a meno di 18 anni, mentre il 29% ha già avuto almeno un figlio prima della maggiore età.

Insegnamento di qualità

Dunque, in Malawi, combattere l’abbandono scolastico e garantire un’istruzione di qualità sono delle priorità. Per farlo, le Suore sacramentine accolgono allievi fin dai primi anni di età. Dice suor Teresa: «Iniziare dall’asilo e assicurare una continuità educativa con la primaria e la secondaria è fondamentale perché i bambini ricevano una buona istruzione».

«Siamo state noi a portare l’asilo vero e proprio in Malawi», racconta invece suor Ornella. «Prima non esisteva. C’erano dei luoghi dove i bambini si riunivano qualche ora al giorno senza che però seguissero un reale percorso educativo. La scuola iniziava a sei anni con la primaria. Dopo che noi abbiamo aperto l’asilo a Ntcheu, anche nel resto del Paese hanno iniziato a nascere delle vere scuole materne». Oggi, tutte le missioni hanno un asilo che accoglie sia maschi che femmine e cerca di creare le premesse affinché ricevano un’istruzione di qualità.

Il lavoro delle Suore sacramentine è iniziato qualche decennio fa, ma sta pagando. La scuola primaria di Monkey Bay è tra le dieci migliori del Paese. La secondaria di Namwera è una delle poche del circondario a fornire un’istruzione di qualità. A Ntcheu, l’asilo continua a essere un esempio per tutto il Malawi.

Aurora Guainazzi


Il Malawi in cifre

  • Superficie: 118.480 km2 (0,4 volte l’Italia)
  • Popolazione: 21 milioni (2023)
  • Indice di sviluppo umano (posto nella classifica): 172/191 (2024)
  • Pil: 13 miliardi di dollari (2023)
  • Pil procapite annuo [PPP$]: 1.800 (2023)
  • Crescita annua del Pil: +1,9% (2023)
  • Settore agricolo in % sul Pil: 30%
  • Popolazione al di sotto della soglia di povertà (2,15 dollari US al giorno): 70%
  • Tasso di alfabetizzazione: 65% (donne), 71% (uomini)
  • Accesso alla rete elettrica: 14%.

PPP$: dollari in parità di potere d’acquisto, tiene conto dei livelli dei prezzi nel Paese.


Idee e progetti in quantità

La missione di Monkey Bay

Per raggiungere Monkey Bay da Lilongwe impieghiamo cinque ore. La strada è asfaltata, ma le buche sono numerose e di grandi dimensioni. Guidare è uno slalom continuo. Quando poi cala il buio, procediamo solo alla luce dei nostri fari. A un certo punto, l’autista si ferma e scende a controllare le gomme: senza illuminazione è ancora più difficile scorgere ed evitare gli avvallamenti del terreno. Fortunatamente, non abbiamo riportato danni. Ripartiamo e dopo un’oretta arriviamo alla periferia di Monkey Bay. I fari dell’auto illuminano un cartello che indica la missione delle Suore sacramentine. Lo seguiamo e, superato il cancello, l’autista si ferma nel cortile. Davanti a noi sorge il convento. La struttura è abbastanza piccola, in confronto agli edifici di altre missioni. Ma al suo interno si nasconde una realtà estremamente dinamica, ricca di idee e progetti che spaziano dall’educazione, alla sicurezza alimentare, passando per il miglioramento delle condizioni di vita della comunità circostante.

Assicurare pasti adeguati alle bambine che frequentano la scuola e vivono nella missione non è sempre agevole, soprattutto ora che i prezzi sono cresciuti. «Abbiamo dei campi non lontano da qui – dice suor Leonia – se riusciamo a coltivarli bene, possiamo produrre grano, verdure e tante altre cose per le bambine senza doverli comprare». Ma non è facile. Un po’ per i costi di semi e fertilizzanti. Un po’ perché, mancando mezzi meccanici, «per preparare dieci ettari con la zappa ci abbiamo messo quattro mesi. Uno spreco di tempo, energia e soldi». Proprio per questo, suor Leonia sta cercando un trattore che renda più economico, rapido ed efficiente il lavoro e che le permetta anche di aiutare gli altri. Infatti immagina di metterlo a disposizione della comunità: «Ognuno potrebbe inserire la propria benzina e usarlo. Vorrei dare anche ai miei vicini la possibilità di produrre autonomamente una quantità sufficiente di cibo». Mentre per non correre, un’altra volta, il rischio di perdere il raccolto a causa della siccità, non appena avrà trovato dei finanziamenti, ha già pianificato di costruire un pozzo. Indica un bastone piantato nel terreno a poca distanza dai campi arati: lì è stata trovata l’acqua.

Suor Leonia vuole raggiungere l’autosufficienza alimentare il prima possibile perché le idee non le mancano ed è impaziente di realizzarle, una dopo l’altra. Prima di tutto, la scuola secondaria «aperta sia a ragazze che a ragazzi per dare a tutti la possibilità di ricevere un’educazione come si deve». Il terreno su cui costruirla è già stato trovato, ma è ancora da comprare: «Mi hanno chiesto 30 milioni di kwacha (15mila euro, ndr). Non li ho e spero che qualcuno mi possa aiutare a raccoglierli». Nel frattempo, sa già che «dopo la secondaria, ci sarà da pensare ai vocational training, ovvero corsi di formazione professionale, per insegnare specifici lavori. Non tutti vanno all’università e bisogna permettere a chi vuole fare qualcosa di più pratico di impararlo». Immagina qualche classe dove insegnare a cucire o a fare il muratore: «Sarebbe una cosa molto importante per chi dice che non ce la fa ad andare avanti con la scuola. Adesso, tanti non hanno un vero lavoro perché non hanno imparato nulla. Se facessimo questi corsi invece tutti saprebbero fare qualcosa».

A.G.

Ha firmato il dossier:

Aurora Guainazzi

Si occupa di Africa subsahariana sia nell’ambito della cooperazione internazionale che dell’informazione. La sua attenzione si rivolge in particolare alle dinamiche economiche, sociali e politiche della regione africana dei Grandi Laghi.

A cura di Marco Bello, giornalista, direttore editoriale di MC.




Mal d’Africa


Ormai vescovo emerito, monsignor Virgilio Pante non molla il suo primo amore. Rimane a servizio di una terra e di una Chiesa con le quali ha condiviso negli anni tante lacrime e gioie.

Leggi qui la prima puntata: Virgilio Pante, vescovo emerito. Guardiano della pace  su Mc 07/2024

Il tempo passa anche per i vescovi e nel 2023, seguendo le regole canoniche, monsignor Virgilio deve presentare le dimissioni per raggiunti limiti di età. A succedergli è monsignor  Hieronymus Joya (cfr. MC novembre 2022), nato nel 1965 e ordinato sacerdote nel 1998, missionario della Consolata che ha svolto diversi incarichi in Kenya, dalla formazione alla pastorale. È stato anche vicesuperiore e poi superiore regionale della regione Kenya e Uganda.

Fin dalla scelta del motto, il nuovo vescovo si pone nella linea della continuità con il primo vescovo di Maralal: «Omnia vicit amor» (l’amore vince tutto). È la perfetta continuazione del «with the ministry of reconciliation» (con il ministero della riconciliazione) di monsignor Pante, in una regione dove la convivenza tra le varie etnie non è facile e spesso sfocia in scontri, aggravati non solo da ragioni di sopravvivenza in un ambiente difficile, ma soprattutto da influenze di forze esterne che hanno tutto da guadagnare dalla divisione.

Mons Pante con il vescovo novello mons Joya Hieronymus

Il nuovo vescovo

Il 22 ottobre 2023, nella Allamano Hall, vicino allo stesso prato dell’oratorio della missione di Maralal dove monsignor Pante era diventato vescovo, è avvenuta l’ordinazione episcopale e l’installazione del monsignor Joya. Il celebrante principale è stato il nunzio apostolico del Kenya e Sud Sudan, monsignor Hubertus Matheus Maria Van Megan, che è stato accompagnato nella celebrazione da monsignor Peter Kihara Kariuki, vescovo di Marsabit, e dallo stesso monsignor Virgilio Pante, entrambi missionari della Consolata. La celebrazione ha visto un grande partecipazione di gente venuta per vivere nella preghiera questo grande momento di grazia. Era presente una buona parte della conferenza episcopale del Kenya, tanti missionari e missionarie della Consolata, sacerdoti provenienti da altre diocesi, religiose, i leaders di diverse confessioni religiose, alcuni rappresentanti del governo, e una marea di fedeli, provenienti da località vicine ma anche lontane.

Disoccupato?

Monsignor Pante si è trovato, quindi disoccupato? Tutt’altro. L’ultimo pensiero è proprio quello di rientrare in Italia e fare il pensionato.

«Egoisticamente parlando, voglio avere una vecchiaia contenta, e siccome ho lavorato tanti anni in Kenya e ho vissuto anche delle cose molto belle…», dice il vescovo emerito, per sottolineare che non ha intenzione di rientrare in Italia. E continua: «E poi il nuovo vescovo mi ha detto: “Non andare in Italia, stai qua, io ti trovo un posto, ti do da mangiare e da lavorare”. Ovviamente senza interferire (da parte mia). Adesso non sono più il vescovo titolare, ma visto che il nuovo vescovo mi accetta, mi dà il permesso, io rimango più che volentieri.

Vorrei finire i miei giorni là, perché ho davvero il mal d’Africa dopo oltre cinquant’anni che sono in quel Paese. Era il 1972 quando sono arrivato, avevo 26 anni. Ora ne ho 78, dove vuoi che vada?».

«Volevo sistemarmi in una stanzetta del Centro catechistico, tra la missione e il seminario, per non disturbare, ma monsignor Joya si è rifiutato. Mi ha detto che se andavo a vivere da solo gli avrei complicato la vita, avrebbe dovuto darmi qualcuno che cucinasse per me, mi tenesse in ordine la casa e badasse alla mia salute. “No, stai qui con me, che ci facciamo compagnia, mangiamo insieme, preghiamo insieme e facciamo vita comunitaria”. Quindi ora vivo con il vescovo e lo aiuto per quello che posso, anche perché la diocesi è vasta e insieme possiamo essere più vicini alla gente».

Ritiro per sacerdoti diocesani. Tra loro anche padre Egidio Pedenzini andato alla Casa del Padre nell’ottobre 2022

Fucile appeso al muro e moto sempre «in moto»

Un pensionato per modo di dire, allora. Ma che ne è delle sue antiche passioni, la caccia e la moto? Il fucile è ben tenuto nella sua custodia, e il vescovo emerito non ricorda più quando è stata l’ultima volta che l’ha usato. L’intenzione sarebbe di non rinnovare il porto d’armi, anche perché la vita e l’ambiente sono cambiati rispetto ai suoi primi anni in Kenya, quando l’uso del fucile per andare a caccia era necessario per sopravvivere. Dopo aver fondato il seminario diocesano nel 1979 per tre anni il fucile lo aveva aiutato a nutrire i giovani seminaristi. Inoltre, si era rivelato necessario quando qualche animale della foresta si avvicinava troppo alle capanne, diventando un pericolo per la gente oppure ne distruggeva i piccoli orti. Ora non è più così e le leggi venatorie sono cambiate, per cui il fucile arrugginisce nella sua custodia.

Quanto alla moto, quella proprio non la vuole mollare. Il vecchio amore è molto utile e pratico per andare nelle cappelle più vicine e a dire messa alle suore, fare un salto in banca o altre commissioni. Certo non si parla più dei lunghi viaggi della gioventù o dei primi anni da vescovo, quando partiva in moto con lo zaino in spalla da Maralal per andare a Nairobi (circa 350 km) per la riunione della Conferenza episcopale, oppure quella volta che ha cercato invano di salvarla dalle acque del fiume in piena vicino a South Horr per ritrovarla poi otto km più in basso, o quando ha dovuto spingerla a mano per una ventina di chilometri nei dintorni di Baragoi perché si era rotto il motore.

Una moto regalata dall’Italia (Centro missionario di Belluno) per il vescovo Pante.

Sfide aperte

Monsignor Virgilio Pante vede davanti a sé ancora molte sfide aperte.

La prima è quella della pace che sembra un sogno irraggiungibile, ma per la quale ogni sforzo va fatto. Si va dall’essere spina nel fianco dei politici perché davvero investano nel benessere della gente con strade, scuole, servizi efficienti, alla lotta alla corruzione, al creare comunità cristiane dove davvero ci sia incontro, rispetto, dialogo e accoglienza indipendentemente dal gruppo etnico di appartenenza.

La memoria dei martiri, padre Michele Stallone ucciso a Loyangallani nel 1965, padre Luigi Graiff a Parkati nel 1981 e padre Luigi Andeni nel 1998 ad Archer’s Post, dona una forza speciale in questo impegno.

C’è poi la sfida di far crescere una chiesa locale che sia capace di camminare con le sue gambe ed essere autenticamente evangelizzatrice. Quando i missionari sono arrivati hanno fatto conoscere l’amore di Dio con i fatti: imparando la lingua, costruendo  scuole, curando i malati, dando da mangiare agli affamati e da bere agli assetati, il tutto con aiuti che venivano da fuori. Ora è tempo che i cristiani locali stessi diventino responsabili della loro Chiesa, anche economicamente, donando dalla loro povertà, per sostenere i loro preti, avere cura delle loro chiese, aiutare i più poveri.

Un’altra sfida è quella di spingere i giovani che hanno studiato, spesso proprio grazie alla missione, a investire le loro capacità nella propria terra, senza restare a Nairobi o emigrare negli Stati Uniti. Certo, il Paese sta ancora vivendo momenti duri e fatica a riprendersi dopo due anni di siccità seguiti da devastanti alluvioni, il tutto aggravato da una crisi di leadership politica. La povertà e il disagio aumentano, soprattutto per chi cerca di vivere con il proprio lavoro (spesso malpagato). Nello stesso tempo l’abitudine delle famiglie di esigere aiuto dai propri parenti salariati minacciando antiche maledizioni, scoraggia i giovani dal ritornare nella propria terra. Anche per affrontare queste difficoltà e cambiare la situazione, sarebbe bello che i giovani preparati tornassero a investire le capacità acquisite nelle proprie terre.

Festa della Pace. Messa sul antico altare di pietraincastrato tra due rami di un albero.La pietra è stata posta da padre Pietro Davoli negli anni ’70 e usata come altare. La pianta crescendo ha inglobato la pietra dell’altare.

Un messaggio ai lettori

«Ai lettori di MC – riprende monsignor Pante – direi: I  missionari che un tempo avete mandato in Africa stanno per morire, sono vecchi. Avete seminato con la vostra bontà, con la vostra preghiera, con il vostro aiuto in Africa, in Asia in tanti paesi. Quello che avete seminato rende frutto e ne riceverete anche voi i benefici perché queste Chiese sono un po’ il vostro vanto.

Il problema è che adesso, lo vedete voi stessi, dovete aiutare la missione qui in Italia, perché stiamo perdendo i valori di una volta. Ora è il tempo della missione dei laici che adesso devono svegliarsi. I preti non ci sono più e dovete voi essere missionari, riscoprire la vostra fede, andare a messa la domenica, educare i vostri figli, insegnare a pregare, non solo a divertirsi, altrimenti la nostra Chiesa antica muore, questa fede la perdiamo.

Grazie a Dio avete aiutato le Chiese dell’Africa, dell’America Latina e ora sono quelle che vi aiutano.

Come istituto, per esempio, noi vediamo già il vantaggio di avere avuto le missioni: oggi siamo per più di metà non italiani. Gli istituti che non hanno avuto missioni muoiono.

Fa tristezza vedere come nella mia Italia dove sono nato, dove ho vissuto la mia fanciullezza, adesso si bestemmia e si pensa soltanto a divertirsi.

Va bene, la vita è difficile, certo ci sono problemi, i salari sono bassi, però ci manca la fede che una volta era l’elemento di forza. Sono i laici che devono testimoniare questo, cominciando dalla famiglia. Se la famiglia è debole il problema si ingigantisce. I giovani hanno paura di sposarsi, di prendersi responsabilità, di soffrire. Bisogna buttarsi nella vita, non aver paura di soffrire.

Per cui, se da una parte io vado in Africa perché voglio morire laggiù, dall’altra mi sento un vigliacco. In Europa non mi sento capace, è troppo difficile».

Gigi Anataloni
(2 – fine)


La prima parte: Virgilio Pante, vescovo emerito. Guardiano della pace  su Mc 07/2024

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ORDINAZIONI: 6/7/2013

 




Italia. Studenti di serie B

 

La scuola italiana fa fatica a sviluppare una didattica inclusiva e interculturale e a superare gli stereotipi sulla migrazione. Una ricerca su cinque città italiane conferma fenomeni di segregazione.

 

In un mondo attraversato da continui flussi migratori, l’intercultura, la condivisione e lo scambio sono sempre più urgenti, e la scuola è uno dei luoghi dove lo sono di più.

L’istruzione, infatti, ha un ruolo cruciale nel determinare il futuro dei giovani. Può essere un potente vettore di emancipazione, tanto più se i ragazzi provengono da situazioni di povertà ed esclusione sociale, come quelli che hanno alle spalle un background migratorio. Ma questo avviene a condizione che l’ambiente scolastico combatta le diseguaglianze educative e favorisca incontro e scambio tra culture, saperi e lingue.

 

Il progetto Integration mapping of refugee and migrant children in schools and other experiential environments in Europe (Immerse, Mappatura dell’integrazione dei bambini rifugiati e migranti nelle scuole e in altri ambienti esperienziali in Europa), finanziato dal programma Horizon 2020, ha analizzato l’inclusione scolastica e sociale di minori migranti e rifugiati in Belgio, Germania, Grecia, Irlanda, Italia e Spagna.

In Italia, la ricerca è stata condotta da Save the Children e ha coinvolto 7.168 studenti tra 10 e 17 anni delle città di Catania, Milano, Napoli, Roma e Torino.

Il rapporto conclusivo, Il mondo in una classe. Un’indagine sul pluralismo culturale nelle scuole italiane, denuncia la mancanza di risorse economiche e professionali, soprattutto negli istituti presenti in aree svantaggiate. L’Ong evidenzia le difficoltà della scuola italiana nello sviluppare approcci didattici inclusivi e interculturali e nel superare gli stereotipi sulla migrazione.

 

Molti istituti, soprattutto in aree periferiche, manifestano fenomeni di segregazione. Il white flight, ad esempio, è la tendenza delle famiglie italiane a iscrivere i figli nelle scuole di aree centrali o in istituti privati, incentivando la concentrazione di alunni stranieri nelle periferie. Altro fenomeno riguarda la propensione, denunciata dalla Fondazione Ismu – Iniziative e studi sulla multietnicità, ad assegnare docenti meno preparati e motivati alle classi con maggiore concentrazione di studenti stranieri.

L’abitudine a inserire gli studenti di origine straniera in classi inferiori alla loro età, il mancato riconoscimento di titoli di studio conseguiti nei Paesi di origine e la scarsa offerta di attività extra-scolastiche, sono altri fattori di marginalizzazione.

 

Nell’anno scolastico 2021/2022, l’11% degli studenti con background migratorio ha dichiarato di non aver frequentato la scuola per sei mesi o più (a fronte del 5,9% tra gli italiani). Alcune delle motivazioni addotte (barriere linguistiche, necessità di aiutare i genitori, inutilità della scuola) sottolineano l’incapacità inclusiva del sistema scolastico.

Allo stesso modo, gli studenti con background migratorio hanno un minore accesso alle attività extra scolastiche: corsi di sport, arte e musica sono frequentati dal 20% degli studenti stranieri e dal 43% di quelli italiani.

 

Preoccupante è anche il rapporto con i docenti: se il 64,5% degli studenti italiani ritiene di avere sempre o quasi la fiducia degli insegnanti, tra gli alunni di origine straniera lo pensa solo il 53,4%. Inoltre, il consiglio orientativo dei docenti per la scelta della scuola superiore mostra la tendenza a sottovalutare il potenziale di questi alunni: a parità di risultati nelle prove Invalsi, essi ricevono meno frequentemente il consiglio di iscriversi a un liceo.

 

In Italia, l’acquisizione della cittadinanza è regolata dalla legge 91 del 1992 che stabilisce il principio dello ius sanguinis: si diventa cittadini alla nascita se si è figli di uno o due genitori italiani. Chi è nato in Italia da genitori stranieri può acquisire la cittadinanza a diciotto anni se ha risieduto legalmente e senza interruzione nel Paese. Fino a quell’età, quindi, molti ragazzi, nati e cresciuti in Italia, restano esclusi dalla cittadinanza.

 

Alcuni studi condotti in diversi Paesi europei hanno evidenziato una correlazione positiva tra successo scolastico e cittadinanza. Save the Children conferma questa tendenza anche in Italia: la cittadinanza favorisce un livello più elevato di istruzione: il 46% di italiani e il 43% di alunni con background migratorio ma cittadini italiani aspirano a laurea, master o dottorato. Tra coloro che non hanno la cittadinanza solo il 35%.

 

Per rendere la scuola italiana un ambiente inclusivo e interculturale, in grado di valorizzare il potenziale di tutti i giovani, la strada è ancora lunga. Non si tratta solo di intervenire sulla qualità delle istituzioni scolastiche e dell’insegnamento ma anche di garantire pari opportunità nella sfera socioeconomica e, soprattutto, dei diritti umani.

Aurora Guainazzi




A scuola con Penny Wirton

Sommario


Quel ragazzo di nome Penny
Come nasce e si diffonde la rete

Insegnare l’italiano a stranieri di ogni estrazione, età e cultura è una grande sfida. Sedici anni fa, a Roma, una coppia di insegnanti la raccoglie e fonda il primo nucleo di una scuola molto speciale, «senza muri». Il modello si replica in tutto il Paese seguendo principi chiari e condivisi.

«La scuola Penny Wirton nasce da un sogno – scrivono i fondatori, la professoressa Anna Luce Lenzi e il giornalista e scrittore Eraldo Affinati -: insegnare la lingua italiana ai migranti come se parlare, leggere e scrivere fossero acqua, pane e vino. Senza classi. Senza voti. Senza burocrazie. Lavorando al presente con chi c’è, con quello che abbiamo. Cercando di dare a ognuno ciò di cui lui, o lei, ha bisogno.

Matiur entra in aula, sorride, ti stringe la mano e si mette a sedere. Tu subito gli consegni il foglio con la matita e lo aiuti a imparare il verbo essere. Poi, a gruppi sparsi, arrivano gli altri: Abdi, Raissa, Dimitri, Kadigia… Noi crediamo nella qualità speciale del rapporto umano che si può realizzare nell’insegnamento a uno a uno. Negli anni abbiamo acceso passioni, elaborato esperienze, costruito legami, acquisito uno spirito, imparato uno stile. Non vogliamo fare semplice intrattenimento. Siamo legati al rigore didattico, consapevoli che, come sapeva il priore di Barbiana [don Milani], senza lingua non si può vivere. Senza nomi si muore».

È questa la mission della scuola di italiano Penny Wirton a Roma. Si tratta di un vero laboratorio antropologico da cui hanno preso forma altre 59 scuole con la medesima identità su tutto il territorio nazionale.

Le scuole Penny Wirton possono essere comprese in un’ottica di multi dimensionalità dei processi di integrazione. La questione dell’integrazione dei migranti e dei rifugiati impone di stabilire connessioni fra molteplici servizi sia istituzionali che del privato sociale, nella consapevolezza che, come viene affermato dal pedagogista M. Fiorucci e dalla dottoressa R. Cima (2022), «I soggetti a rischio di esclusione sociale – tra cui gli immigrati – e quelli afflitti “dai bassi livelli di scolarità” sono proprio quelli che meno utilizzano le opportunità loro offerte».

Come nasce

La scuola di italiano Penny Wirton nasce a Roma nel 2008 grazie alla volontà dei coniugi Affinati e Lenzi. Il primo, presidente dell’omonima associazione, è scrittore e giornalista da sempre legato al mondo della scuola. Lenzi è esperta di letteratura popolare è stata insegnante di italiano e ha curato diverse antologie scolastiche. Sono coautori dei due volumi: Corso di italiano per stranieri. Il libro della scuola Penny Wirton (2011) e Italiani anche noi. Il libro degli esercizi della scuola Penny Wirton (2015), che rappresentano i testi alla base del materiale scolastico utilizzato nelle diverse sedi della Penny Wirton.

Dalle parole dei fondatori emergono i due i pilastri che hanno portato alla nascita della scuola: da un lato l’esperienza alla Città dei ragazzi (fondata a Roma nel 1953 da monsignor Patrick Carroll-Abbing per accogliere i ragazzi di strada, ndr) e, dall’altro, gli insegnamenti di don Lorenzo Milani.

Come esplicitato da Affinati: «La particolarità della Città dei ragazzi è data dal fatto che è una comunità educativa basata sull’autogoverno, ossia un sistema pedagogico fondato sulla responsabilizzazione dei ragazzi. Al tempo di monsignor Carroll-Abbing i ragazzi ospitati erano tutti bambini italiani orfani e abbandonati. Quando sono andato io, invece, erano tutti stranieri. Ed è lì che mi è venuta l’idea di aprire una Penny Wirton, ossia una scuola italiana per immigrati. In questo senso la nostra scuola nasce da una costola della Città dei ragazzi. […] Poi vi è un altro riferimento, ossia don Lorenzo Milani. Anche lui è stato per me importante per indirizzarmi verso una scuola diversa da quella tradizionale, una scuola basata sul rapporto umano diretto. In altre parole: tempo scuola uguale tempo vita».

La scelta del nome «Penny Wirton» nasce dal fatto che entrambi i fondatori si sono laureati con una tesi su Silvio D’Arzo (1920-1952), autore di un romanzo per ragazzi intitolato «Penny Wirton e sua madre» (1978) che ha come protagonista un bambino povero e disprezzato, orfano del padre, alla conquista quotidiana della dignità e del riscatto. Come evidenziato dai fondatori «abbiamo chiamato così la scuola perché i nostri studenti sono i Penny di oggi, spesso orfani lontani mille miglia dalle loro famiglie».

La diffusione

La primogenita scuola di Roma ha rappresentato il punto di partenza di un fenomeno che, qualche anno dopo, è diventato capillare in tutto il territorio italiano. Anche grazie all’interesse mediatico ottenuto a livello regionale e nazionale, sempre più volontari hanno mostrato interesse per la scuola rendendosi disponibili a portare avanti gli ideali di don Milani nella Penny Wirton di Roma e nelle altre sedi in Italia. Ad oggi risultano essere più di cinquanta le scuole che portano il nome, il marchio e lo stile Penny Wirton: sia nel Sud, che nel centro e nel Nord Italia e in Svizzera. A fronte dell’aumento di richieste di nuove aperture e della crescente risonanza ottenuta dalla scuola, il 21 marzo 2016 è nata la «Carta d’intesa» della Penny Wirton, ossia un documento composto da 22 articoli nel quale sono esplicitati tutti i principi basilari che ciascuna scuola, indipendentemente dal territorio di riferimento, deve inderogabilmente sottoscrivere e rispettare. Il risultato è che ogni scuola risulta essere indipendente e autonoma da un punto di vista gestionale e amministrativo, spesso anche appoggiandosi ad associazioni locali, ma tutte sono legate nelle finalità e nel modo di operare alla scuola Penny Wirton di Roma.

La Penny Wirton non è solo un luogo di apprendimento, ma è anche tanto altro: un presidio di accoglienza nel territorio, uno spazio privilegiato di scambio e relazioni tra individui, un laboratorio antropologico nel quale ciò che conta, prima di tutto, è quello che Affinati definisce «la qualità delle relazioni umane».

Non esistono classi, lezioni frontali e burocrazia. La Penny Wirton è sì una scuola di italiano, all’interno della quale ciò che si cerca di raggiungere è il miglioramento della scrittura, della lettura, dell’ascolto e dell’oralità, ma è anche un luogo in grado di rovesciare e stravolgere il concetto stesso di scuola. Alla Penny Wirton non si mettono in pratica programmi didattici predeterminati e non è prevista l’attribuzione del voto, considerato uno strumento che crea false disuguaglianze e, per certi versi, disincentivante. L’apprendimento dell’italiano parte dallo studente e dalla relazione umana intrapresa assieme a lui dall’insegnante, nel rispetto del suo vissuto, delle sue difficoltà e ambizioni.

I principi della scuola

Così come esplicitato all’articolo 1 della Carta d’intesa, risultano essere tre i principi cardine della scuola: la gratuità, l’apoliticità e l’aconfessionalità.

La Penny Wirton è prima di tutto una scuola totalmente gratuita: agli studenti non è richiesta alcuna iscrizione formale, né tantomeno una contribuzione economica durante tutto il corso. È la scuola stessa che fornisce i materiali didattici indispensabili allo svolgimento delle lezioni. Libri, quaderni, fogli, penne, matite, sono acquistati tramite il meccanismo dell’autofinanziamento diretto da parte dei volontari insegnanti o donazioni da soggetti esterni.

La scelta di partenza da parte di Affinati e Lenzi è stata quella di creare uno spazio che fuoriuscisse dalla logica retributiva del do ut des. Accanto del principio della gratuità, la Carta d’intesa affianca il concetto di «aconfessionalità» e «apoliticità». Anche laddove gli spazi siano messi a disposizione gratuitamente da parrocchie, la lezione è un momento di interazione laico indipendentemente dal luogo nel quale si realizza. In generale, la ricerca di uno spazio fisico gratuito all’interno del quale essere ospitate ha rappresentato e rappresenta per molte scuole Penny Wirton un ostacolo complesso da superare.

Oltre al carattere aconfessionale, la scuola si pone all’esterno di qualsiasi logica politica. Non vengono pubblicizzati partiti e non si fa pressione sull’amministrazione locale. L’idea di fondo è che la non appartenenza religiosa e politica, favorisca una accoglienza inclusiva e senza barriere, riducendo le differenze tra studenti e insegnanti.

La Penny Wirton è una risorsa per il territorio nel quale si realizza l’ideale dell’uguaglianza e dell’accoglienza senza discriminazioni: principi che, esternamente, possono essere strumentalizzati, ma che per loro natura non nascono con un colore politico o religioso.

Uno stile unico

Tra i tratti caratteristici più salienti della scuola vi è l’approccio didattico utilizzato. Alla Penny Wirton, in primo luogo, l’insegnamento non avviene all’interno di classi ma attraverso il rapporto «uno a uno» tra volontario e studente. Alla base vi è il riconoscimento dell’unicità e della diversità di ciascuna persona, non solo da un punto di vista umano, ma anche prettamente scolastico. Infatti proprio a partire dallo studente e dalla sua specifica conoscenza della lingua italiana viene effettuata la scelta degli argomenti da affrontare.

Se i numeri a disposizione lo consentono, compreso quello dei volontari, ciascuno studente svolge le ore di lezione con un insegnante di riferimento o all’interno di piccoli gruppi di lavoro, senza che questo escluda eventuali interazioni con altri allievi o volontari vicini. Si tratta di ambienti nei quali è prioritaria l’attenzione relazionale e didattica per ogni singolo allievo, che, allo stesso tempo, si realizza in uno spazio di vita collettivo e movimentato. In altre parole, individualizzazione e senso comunitario, ossia due movimenti spesso considerati contrapposti, trovano un loro spazio comune alimentandosi vicendevolmente. Da questo punto di vista un ruolo importante è rivestito dalla figura del coordinatore, che raramente lavora con un solo studente, ma funge da collante fra i vari gruppi di studio durante l’attività.

L’insegnamento, sempre secondo la Carta, «non parte da teorie universali o da categorie grammaticali ma dalle persone». Assumendo tale presupposto, le lezioni non rappresentano comunque mai un semplice luogo di confronto o intrattenimento tra soggetti ma, al contrario, un momento nel quale «è perseguito un rigoroso percorso didattico per l’uso e la conoscenza della lingua italiana che segue la progressione da semplice a difficile».

Il materiale didattico utilizzato è solitamente suddiviso in due categorie: da un lato vi sono i libri di testo, e dall’altro è fortemente incentivato l’uso di strumenti per la ludo didattica. I due manuali «Italiani anche noi» rappresentano i due strumenti più utilizzati nelle lezioni di ogni Penny Wirton in Italia. Entrambi sono stati redatti dai fondatori sulla base dell’osservazione degli immigrati nel corso dei primi anni di attività, e sono stati illustrati con disegni originali dalla pittrice Emma Lenzi.

Il percorso

Oltre all’utilizzo dei libri di testo, in molte scuole viene dato ampio risalto anche agli strumenti di ludo didattica. Si tratta di piccoli giochi tascabili, talvolta collegati direttamente ai libri di testo, che permettono un insegnamento più sciolto, dinamico, in grado di «aprire» e stimolare lo studente all’apprendimento.

Lo scopo è quello di aiutare le persone nel miglioramento della lingua, senza in alcun modo quantificare il progresso ottenuto o creare classificazioni o gerarchie tra gli allievi, tenuto conto delle ampie differenze che si riscontrano tra loro. Allo stesso modo non vengono considerate negativamente le assenze effettuate, in quanto «stimiamo che gli allievi Penny Wirton siano assenti solo per cause serie e attendibili, ad esempio lavoro, anche saltuario». Nonostante questo, a ciascuno studente deve essere garantita una «continuità didattica collettivamente curata».

Al fine di ovviare alle intermittenze di frequenza di allievi e insegnanti, ogni studente possiede una scheda personale, sulla quale il volontario del giorno segna la data e gli argomenti svolti. Tale strumento consente all’insegnante della volta successiva di conoscere il lavoro già realizzato e agganciarsi agli ultimi argomenti effettuati. Al termine del percorso, che non ha una data conclusiva prefissata, ma termina quando viene liberamente stabilito dallo studente, la scheda personale rappresenterà il programma didattico svolto durante tutto il corso delle lezioni, e può risultare utile nel conteggio delle ore laddove egli richieda un attestato di frequenza.

Da sottolineare che la Penny Wirton non rilascia diplomi di valore legale, né certificati di livello di italiano validi per il permesso di soggiorno, per i quali è necessario l’intervento di un Ente certificatore.

Insegnanti volontari

Come già scritto, la scuola Penny Wirton si avvale di soli insegnanti volontari, nessuno dei quali, coordinatori inclusi, è in alcun modo retribuito per il servizio garantito. Diverse possono essere le modalità e i motivi per i quali una persona decide di insegnare alla Penny Wirton e questo rende l’insieme di volontari un grande calderone di umanità fortemente differenziato, all’interno del quale, comunque, ci si riconosce nel grande ideale dell’aiuto gratuito.

C’è chi giunge alla Penny Wirton perché mosso da principi politici, chi per questioni etiche, chi per sentirsi utile e chi per provare qualcosa di nuovo. Il risultato è che nelle svariate sedi possono avvicendarsi insegnanti di età e con percorsi di vita molto diversi.

Tra i volontari possono esservi ex docenti, pensionati e non, con esperienze lavorative differenti da quella scolastica. In molte sedi una cospicua fetta è costituita da studenti universitari, ma anche giovani liceali che giungono attraverso lo strumento dello stage formativo nell’ambito dell’alternanza scuola lavoro.

Non è necessario che l’insegnante possieda qualifiche o diplomi specialistici, ma è importante che sia adeguato alla funzione: oltre ad assicurare un servizio gratuito è chiamato a garantire una certa continuità, e non un apporto solo occasionale, e a mettersi in relazione positiva sia con gli studenti che con i colleghi. In altre parole, deve essere un soggetto curioso, aperto alla conoscenza e allo scambio con l’altro e, anche in virtù della dinamicità e mutevolezza continua che caratterizza la scuola, deve rendersi interscambiabile, se necessario, con altri insegnanti.

Al fine di garantire il rapporto uno a uno, ciascuna scuola possiede, in genere, un numero di volontari insegnanti circa pari a quello degli studenti. Laddove ciò non fosse possibile, si cerca di predisporre piccoli gruppi di lavoro.

Le diverse Penny Wirton ricevono continuamente nuove richieste da parte di persone interessate a offrire il proprio servizio. A tal proposito la scuola di Roma predispone periodici momenti di formazione, coordinati e gestiti da Anna Luce Lenzi, sia per nuovi insegnanti che per volontari già attivi che necessitano di aggiornamento. Nelle altre scuole è la pratica sul campo lo strumento formativo prioritario utilizzato a fronte di nuovi arrivi. Generalmente, a tutti viene offerta l’opportunità di iniziare affiancando per alcune lezioni insegnanti più esperti e di consultare i materiali didattici presenti nelle diverse sedi.

Gli studenti

«La scuola – troviamo scritto nella Carta d’intesa – accoglie sempre e accoglie tutti lungo tutto il corso, fino all’ultimo giorno, anche per una volta sola» (Carta d’intesa). Le scuole Penny Wirton sono rivolte agli immigrati, chiunque essi siano. A differenza di altre realtà, si tratta di una scuola priva di criteri di accesso: indipendentemente dal genere, dall’età, dalla nazionalità, dalla situazione economica e dalla condizione di regolarità-irregolarità della sua presenza sul territorio italiano (che non viene richiesta), a nessuno è impedita l’accoglienza e la partecipazione gratuita ai corsi di italiano. Le uniche informazioni registrate rispetto agli allievi riguardano i dati anagrafici (nome, cognome e nazionalità) e il luogo o la struttura di residenza, laddove sia presente.

L’assenza di vincoli di accesso rende anche il gruppo di studenti un grande mosaico eterogeneo in continuo mutamento che varia a seconda del territorio di insediamento della scuola. Promiscuità, nel senso positivo del termine, e mescolanza sono le parole d’ordine che caratterizzano la vitalità di ciascuna di queste realtà. A popolare le Penny Wirton possono essere giovani, alcuni dei quali minori stranieri non accompagnati provenienti dai centri di accoglienza, o adulti, parte dei quali regolarmente insediati e integrati, altri in attesa dello status di rifugiato, altri ancora giunti tramite i ricongiungimenti familiari. Altri sono maggiorenni ospiti di centri di accoglienza.

In alcune sedi si registra un più ampio numero di donne, mentre in altre è preponderante la presenza maschile. Come già sottolineato, la composizione di genere, età e nazionalità è condizionata dal territorio di riferimento, oltre che dal periodo dell’anno. Anche i livelli di preliminare conoscenza della lingua possono, quindi, essere molto differenti. C’è chi è residente in Italia da diverso tempo, lavora e capisce l’italiano, chi è appena arrivato; chi conosce l’alfabeto latino e chi invece scrive da destra verso sinistra.

Spesso per i volontari è possibile trovarsi di fronte a persone non scolarizzate nel paese di origine, rispetto alle quali la scuola «dedica un’attenzione particolare e didatticamente accurata», come recita la Carta. La sfida che si pone in questi casi risulta estremamente complessa: si tratta non solo di insegnare a leggere e a scrivere, ma anche di farlo in una lingua diversa dalla loro. Per questo motivo, sulla base dell’osservazione degli analfabeti in lingua madre in dieci anni di attività, i fondatori hanno creato e divulgato delle linee guida che oggi rappresentano un importante strumento di supporto ai volontari delle varie sedi che si trovano a interfacciarsi con studenti non scolarizzati.

Come arrivano

Gli studenti possono venire a conoscenza della scuola in diversi modi. In primo luogo, ogni Penny Wirton, tra le altre cose, si occupa anche di pubblicizzare sul territorio i corsi tenuti. Da un lato è fortemente incentivato l’uso di piattaforme tecnologiche: ogni scuola, oltre ad avere uno spazio sul sito internet ufficiale della Penny Wirton, possiede e gestisce un profilo Facebook di facile consultazione, nel quale comunicare i giorni, gli orari di lezione e pubblicare foto delle attività svolte. Un’altra modalità è quella del volantinaggio: è utile affiggere volantini pubblicitari alle fermate degli autobus, nelle moschee e in tutti quei luoghi di interesse frequentati da immigrati. Fondamentale, infine, è il contatto tra la scuola e i servizi sociali territoriali, gli sportelli, le associazioni, le cooperative e tutti quei soggetti che nel territorio si occupano di stranieri e migrazione. Talvolta può essere lo stesso centro di accoglienza a indirizzare e accompagnare in prima persona i soggetti ospitati presso i locali della scuola.

Nonostante questo lavoro, così come esplicitato da molti coordinatori, la modalità più usuale attraverso la quale molti stranieri giungono a conoscenza della scuola è rappresentato dal passaparola informale che si sviluppa tra i connazionali.

In virtù del numero crescente di scuole Penny Wirton, il coordinamento fra loro è sempre più importante. Lo scambio di esperienze, testimonianze e informazioni è fondamentale.

Al fine di incentivare gli scambi tra le scuole, da giugno 2018 è stato indetto a Roma il primo convegno nazionale delle scuole Penny Wirton, al quale hanno partecipato rappresentanti di quasi tutte le sedi. I convegni si sono ripetuti tutti gli anni. A seguito dell’ultimo incontro, nel giugno 2023, è stato creato un secondo sito internet intitolato «I quaderni della Penny Wirton», un’ulteriore piattaforma di incontro nella quale condividere e scambiare storie di vita, testimonianze, notizie delle attività nei diversi territori, rafforzando l’unione e l’identità della grande famiglia delle scuole Penny Wirton.

Elisa Sartori

Alcuni numeri

Non è possibile fornire un dato complessivo delle presenze di immigrati e di volontari di tutte le scuole attive sul territorio italiano, tuttavia, per comprendere la portata del progetto, può essere rilevante il recente report della scuola di Roma.

Nel 2022 a Roma sono state erogate 3.100 lezioni individuali su 80 giorni di apertura, con una media di 40 studenti stranieri alla volta, raggiungendo 500 lezioni individuali al mese. Gli studenti stranieri frequentanti in modo continuativo o intermittente sono 340 provenienti da 50 paesi, in prevalenza Egitto, Somalia, Afghanistan, Ucraina, Bangladesh, Nigeria, Perù.

I volontari coinvolti sono 130 a cui si aggiungono 66 studenti delle superiori coinvolti in progetti di alternanza scuola lavoro.

Si allinea al trend descritto per numeri e flussi la scuola di Milano. A dicembre 2023 le scuole Penny Wirton attive erano 59.

E.S.

Una comunità che accoglie
L’esperienza Penny Wirton a Pinerolo (Torino)

Un gruppo di studenti di liceo restano colpiti dal racconto dei fondatori della scuola Penny Wirton. Chiedono ai propri professori di poter attivare un’esperienza simile tra le mura del loro istituto. Così nasce qualcosa di particolare.

L peculiarità della scuola Penny Wirton di Pinerolo è data dal fatto che essa è ospitata da un istituto scolastico statale. Un’iniziativa formativa per sua natura informale e destrutturata, posta dentro a un ambiente istituzionale strutturato e radicato nel tessuto locale. L’istituto scolastico diventa contenitore di un’esperienza formativa rivolta agli immigrati, avente come presupposto un’apertura e un’accoglienza non giudicanti senza forme di controllo. Il progetto ha preso avvio nella primavera del 2018 da un incontro con Eraldo Affinati che presentò ad alcune classi del liceo Porporato il suo romanzo di recente pubblicazione: «Tutti i nomi del mondo». Affinati condivise con il pubblico anche la sua esperienza come fondatore della scuola romana. Su proposta degli studenti stessi nell’anno scolastico 2018-2019 è stato, quindi, presentato al collegio docenti il progetto pilota della scuola di alfabetizzazione per migranti che sarebbe stato inserito nel piano dell’offerta formativa del liceo.

Chi la frequenta

Per quanto riguarda gli stranieri che frequentano la Penny Wirton di Pinerolo, attualmente l’8% dichiara uno stato di non alfabetizzazione nel paese di origine, il 20% un livello elementare o intermittente di istruzione, il 30% un livello intermedio, il 35% un livello medio alto, il 7% un livello di formazione universitaria. Il 20% di loro conosce solo la lingua madre, il 70% la lingua madre e una seconda lingua diversa dall’italiano e il 10% conosce tre lingue.

Per quanto riguarda la conoscenza della lingua italiana, la maggior parte di loro, circa il 70%, è inserita in un percorso regolare di studio, in quanto all’interno dei percorsi dello Sprar (Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati): frequentano regolarmente i Cpia (Centri provinciali per l’istruzione degli adulti) del territorio. Il 10% frequenta le scuole superiori, il 15% frequenta anche corsi regionali per la formazione professionale e il 10% richiede un aiuto per i corsi preparatori all’esame della patente di guida. Altri si avvalgono unicamente di questo servizio perché gli enti presso i quali sono in carico non sono ancora riusciti a inserirli in percorsi di formazione istituzionali.

L’età è molto varia: il 10% sono minorenni, il 40% si può comprendere in una fascia dai 18 ai 30 anni, il 30 % si colloca fra i 30 e i 45 anni, mentre il 20 % ha oltre i 45 anni, fino a un massimo di 60 circa.

Le iscrizioni sono aperte tutto l’anno, per cui è possibile, per chi ne faccia richiesta, iniziare subito in qualsiasi momento.

No all’assimilazione

La mia esperienza diretta di questi anni mi permette di affermare che nella scuola Penny Wirton del Liceo Porporato è assente ogni logica neo-assimilazionista. Questa prevede che la scolarizzazione sia sempre più una moneta di scambio richiesta al soggetto migrante: se egli svolge corsi di italiano e dimostra di aver raggiunto un livello sufficiente, allora è un soggetto «desiderabile» e quindi «assimilabile» nella società. Il tratto caratterizzante di questo approccio è l’idea che tutte le possibili differenze tra le persone sono riconducibili a un’unica struttura umana e che l’incontro con il diverso si risolve progressivamente e inevitabilmente con la sua adesione al modello culturale dominante.

In tale ottica l’assimilazione è considerata un processo organico, univoco, lineare, il cui peso poggia esclusivamente sui migranti. Sono infatti loro che si vedono costretti ad assimilarsi ai «nativi» assumendone gli abiti mentali e gli stili di vita allo scopo di farsi accettare, non essere percepiti come un pericolo per l’equilibrio della società ricevente e progredire nella scala sociale.

In opposizione a quest’orientamento unidirezionale, il principio fondante della scuola Penny Wirton è la valorizzazione delle risorse e della specificità delle persone. Non solo la scuola non rilascia certificati di livello validi per il permesso di soggiorno di lunga durata, ma si configura come un luogo informale nel quale è lo studente a scegliere se e in quale misura frequentare le lezioni. In altre parole, essa è un’opportunità, tra le altre, di sentirsi accolti, senza che vi siano divieti, obblighi di partecipazione o test che certifichino l’apprendimento della lingua.

In questa scuola, confermando gli insegnamenti di don Lorenzo Milani, non esiste e non è tollerato il dualismo «buono-cattivo» o «bravo-non bravo». Come a Barbiana, tutti gli allievi sono considerati, allo stesso tempo, uguali in umanità e diversi da un punto di vista scolastico. L’obiettivo non è quindi quello di livellare il gruppo di studenti a uno standard comune ma, al contrario, aiutare singolarmente gli individui a colmare delle lacune linguistiche, permettendo loro di destreggiarsi più efficacemente nel nuovo contesto di vita.

Cittadinanza attiva

Occorre sottolineare inoltre che, mentre «il modello di civic integration in declinazione italica che si è delineato negli ultimi anni interpella il soggetto, la sua prestazione, i suoi comportamenti, la sua responsabilità individuale, non la comunità migrante, né tanto meno la comunità di accoglienza» (Carbone, vedi bibliografia), al contrario, il progetto delle scuole Penny Wirton si mette nell’ottica di interpellare la comunità d’accoglienza affinché i suoi membri si lascino coinvolgere e partecipino ciascuno secondo le sue competenze e i suoi valori. Con questi presupposti la scuola Penny Wirton può diventare uno spazio in cui sviluppare il capitale relazionale degli studenti, in quanto, oltre a essere una scuola di italiano, può essere, e lo è nei fatti, un luogo nel quale lo studente instaura relazioni significative con altre persone sia connazionali, sia studenti di altre origini, sia volontari.

Seguendo gli sviluppi del progetto è risultata evidente l’attrattività della scuola Penny Wirton per gli immigrati, non solo a livello nazionale con un numero di scuole in aumento in medie e in grandi città, ma anche a livello territoriale con un crescente numero di utenti iscritti e di volontari.

Ascoltando le motivazioni di alcuni studenti frequentanti, sia in modo regolare, sia saltuario, emerge che tale attrattiva ha le sue radici nei principi fondanti espressi dalla Carta d’intesa: la gratuità, l’assenza di criteri di accesso, la libertà di frequenza concessa allo studente e l’insegnamento uno a uno con il volontario insegnante.

Un altro aspetto interessante riguarda la specificità della Penny Wirton di Pinerolo che è situata proprio all’interno di un liceo storico radicato nel tessuto cittadino. Si configura un paradosso interessante dal punto di vista sociologico: una scuola superiore, che rappresenta l’espressione istituzionale di un’organizzazione pubblica, contiene in sé una scuola che per sua natura si propone come informale, destrutturata, senza quegli elementi che caratterizzano l’idea stessa di percorso scolastico (le classi, le valutazioni, le certificazioni, l’apparato amministrativo, l’obbligo di frequenza). Il liceo offre non solo la disponibilità di locali e di strumenti didattici per la realizzazione di un progetto, ma ha integrato la scuola Penny Wirton nelle sue attività di arricchimento formativo, rendendo gli studenti del triennio attori fondamentali per la sussistenza e per l’evoluzione del progetto stesso. Le ore di volontariato degli studenti sono riconosciute come percorsi di Pcto (alternanza scuola lavoro), oppure come crediti scolastici. In alcuni casi la loro esperienza è stata oggetto di trattazione personale agli esami di stato, in altri è stata presentata in occasioni pubbliche, come concorsi scolastici, creando un affetto di disseminazione che ha consolidato di fatto questa realtà.

Alcuni studenti, dopo la conclusione del loro percorso liceale, hanno continuato la loro esperienza di volontariato creando un effetto di promozione sul territorio. Ai nostri studenti liceali si aggiungono poi altri soggetti impegnati nel volontariato e gli operatori dei servizi d’accoglienza del territorio, in contatto informale con la scuola Penny Wirton nella quotidianità.

Processi di inclusione

Tale osmosi fra le istituzioni e il privato sociale del territorio ha anche agevolato l’avvicinamento degli utenti alle risorse locali, contribuendo a sviluppare la loro socializzazione e connotando la scuola Penny Wirton come un luogo di insegnamento e di inclusione.

Gli studenti stranieri vedono nella scuola un’occasione per incrementare la propria rete di legami, non solo con altri studenti e con i volontari incontrati, ma anche con possibili interlocutori del territorio valicando i confini scolastici.

Come scrive Laura Bosio, direttrice della Penny Wirton di Milano, nel suo libro Una scuola senza muri: «[…] non è questione di essere caritatevoli, meno che mai eroici. Per tutti noi quello che facciamo è normale: si prova a dare una mano in un momento complesso, ci si schiera anche, e lo si fa in un modo possibilmente serio e leggero, c’è già tanta tragedia nel fondo. Forse il punto è aiutare gli altri a riconoscersi, mentre riconosciamo noi stessi. Dal basso, gomito a gomito intorno ad un tavolo, davanti ad un libro dove si impara l’Italiano».

Elisa Sartori

Incontri e sorrisi
Esperienze di giovani volontari della Penny Wirton

Una peculiarità della scuola di Pinerolo è quella di essere stata voluta prima di tutto dagli studenti. E alcuni di loro sono i primi volontari-insegnanti. Qui riportano storie vissute in presa diretta con dei quasi coetanei stranieri.

Alcuni studenti del triennio hanno partecipato a un progetto didattico presentando la loro esperienza di volontariato. Dopo aver studiato i flussi migratori e la storia delle migrazioni del nostro Paese, hanno realizzato un lavoro basato su interviste fatte ai migranti durante le ore di lezione della scuola Penny Wirton.

Alex

Alex (nome di fantasia) ci ha raccontato che uno degli aspetti che ama di più della vita è quello di impegnarsi in ciò che fa. In Egitto svolgeva addirittura due mestieri: il tassista per i turisti, e il commesso in un negozio di frutta e verdura. Alex ci ha quindi spiegato che ciò gli manca di più è proprio il lavoro.

Nonostante sia in Italia da poco tempo, e nonostante il periodo storico complesso a causa del post Covid-19 e delle guerre, è già riuscito a fare un colloquio di lavoro. Noi ci auguriamo che sia riuscito a trasmettere un’immagine positiva della sua persona volenterosa, disposta a mettersi in gioco e a trovare le risorse per vivere qui. Per lui, il suo Paese è molto diverso dall’Italia, non solo sul piano delle libertà concesse, ma anche nello stile di vita. A partire dal traffico costante, che in Egitto porta con sé il continuo rumore dei clacson. Lì non ci sono semafori, o comunque non vengono rispettati, e per attraversare la strada, in assenza di strisce pedonali, ci si può impiegare un’ora, e quando finalmente si riesce nell’intento, gli insulti degli automobilisti arrivano a valanga.

Sicuramente Alex abitava in una metropoli, infatti ci ha detto che ha trovato Torino più simile all’Egitto rispetto a Pinerolo, con uno stile di vita totalmente diverso da quello di un piccolo paese di campagna, che lui preferisce. Ama il cibo italiano, in particolare il caffè, bevanda comune e scontata per noi. Adora il profumo che emana la caffettiera pronta.

Predilige di gran lunga la tranquillità di un paese immerso nella natura, nei ritmi e nelle attività umane scandite dalla luce del sole: quando questo tramonta e giunge il buio, la vita si blocca, per ripartire il mattino successivo con l’alba.

Tutto ciò ci ha fatto riflettere su aspetti del luogo in cui viviamo che non avevamo considerato; ma soprattutto il profumo intenso, la serenità, il silenzio e la dolcezza che caratterizza Pinerolo. Ed è come se la conoscesse meglio lui di noi, non nel concreto o nella viabilità, ma nell’essenza. Il suo entusiasmo e la sua semplicità nella descrizione della nostra città ci hanno fatto riscoprire la sua bellezza.

Hanna

Poi c’è Hanna, una ragazza nigeriana di 23 anni che frequenta già da tre anni la Penny Wirton. Quando abbiamo fatto la prima lezione con lei, ci ha guardato subito con occhi timorosi e ci ha scrutato con prudenza. Fra un esercizio di italiano e l’altro ci ha raccontato la sua storia dal momento in cui è arrivata in Italia. Non se la sentiva ancora di parlare del viaggio dalla Nigeria, ma i suoi occhi, scavati e arrossati, parlavano per lei. Osservandoli, infatti, si poteva percepire un passato con numerose difficoltà: nello sguardo ha ancora impresse le immagini e le sofferenze del viaggio.

In situazioni difficili come quella di Hanna, e di molte altre come lei, nelle quali non si possiede alcuna stabilità economica e di relazioni, è difficile tenere aperto il varco della fiducia nel futuro.

La notte non riesce a dormire, non solo a causa del ricordo del viaggio, ma anche della vita che conduce ora, della quale è difficile parlare. Mentre ce la racconta assume una postura chiusa e le mani cercano di sfogare lo stress sulle maniche: le guarda e le tocca per farsi forza a raccontare.

Quella forza riesce a trovarla parlando di sua figlia: Hanna è giunta in Italia con la sua piccola, che oggi ha quattro anni e frequenta l’asilo. Questa madre ha ancora diverse difficoltà da affrontare per garantire un futuro migliore e sereno a sua figlia, ma è disposta a tutto, e sono ancora una volta i suoi occhi a dimostrarlo.

Quando ci fa notare che manca poco all’uscita della bimba da scuola, il suo sguardo, che fino a quel momento era diffidente e segnato dalla stanchezza, si illumina e allo stesso tempo accenna a un sorriso. È la sua bambina che la stimola a superare i molti ostacoli della vita, da quelli passati, come il viaggio dalla Nigeria all’Italia, al lungo cammino di inserimento nel nostro Paese.

All’inizio Hanna non era in grado di leggere e scrivere, era analfabeta anche nella sua lingua madre e ha confessato di provare vergogna per questo, i suoi tentativi di inserimento nei corsi Cpia sono stati fallimentari, ma anche grazie all’aiuto di questo insolito modo di essere accompagnata nello studio alla Penny Wirton, è riuscita a imparare l’italiano e oggi continua il suo percorso con impegno e determinazione. I pensieri e le speranze si sono fatte strada in mezzo alla difficoltà espressiva e ci ha suscitato una grande vicinanza.

Verso un’altra vita

Questi giovani si esercitano a casa segnandosi le parole che non capiscono alla televisione, traducendole in inglese con il traduttore, per poi scriverle e impararle in italiano. In questo modo riescono a comprendere alcuni termini e cercano di collegarli insieme, di intuire il discorso.

Gli sforzi che compiono sono enormi: dall’imparare l’italiano al raccontare il loro passato, cercare un lavoro, crescere dei figli e costruire un futuro.

Nei discorsi di queste persone abbiamo visto la sincerità e questa suscita in noi speranza nell’uomo del domani. Sembra una contraddizione poiché c’è chi vorrebbe che l’immigrazione fosse un fenomeno concluso, da lasciare nel passato, mentre noi, in quello stesso fenomeno, vediamo il futuro.

Questo è il risultato delle interviste realizzate: la nascita di un legame tra intervistatori e intervistati, uno scambio reciproco di racconti ed emozioni. Non siamo solo noi ad aiutare loro con i corsi di italiano, o con risorse economiche, non è dare senza ricevere, anche se questo è o dovrebbe essere lo scopo del donarsi agli altri. C’è una restituzione, uno scambio reciproco, un completamento. Noi siamo rimasti meravigliati dai loro racconti e loro dalla nostra gentilezza, o meglio dalla gentilezza di tutte quelle persone che aiutano nell’apprendimento dell’italiano con il progetto Penny Wirton. Ma anche dalle persone che li aiutano a trovare un lavoro o semplicemente con chi, incontrato per strada, ha dato disponibilità a ripetere una parola non compresa o ha sorriso loro. I sorrisi che alla fine ci accomunano, facendoci superare ogni differenza culturale e linguistica. Nel libro «Una scuola senza muri», Laura Bosio sottolinea che uno dei tratti della scuola Penny Wirton è che quasi tutti sorridono volentieri, nonostante ciò che hanno passato, perché questa esperienza rappresenta per loro un primo passo verso un’altra vita.

Studenti del Liceo Porporato di Pinerolo

 

«L’inclusione è nel Dna del nostro liceo»
La parola del preside Valter Careglio

Valter Careglio è il dirigente scolastico del Liceo Porporato di Pinerolo. Lo abbiamo incontrato.

Che valenza ha l’avere la scuola Penny Wirton come parte dell’offerta formativa del liceo?

«È un’esperienza di service learning, ovvero una prassi di attività di servizio al territorio che comporta un apprendimento da parte della comunità educante, quindi sia dei docenti sia degli studenti. Di fatto tu impari facendo. Rispetto a qualsiasi attività di tirocinio o di alternanza scuola lavoro, il service learning aggiunge un valore: il servizio agli altri e al territorio. La Penny Wirton è proprio questo, perché da una parte mette in gioco le competenze dei docenti e degli studenti che apprendono e si sperimentano, e dall’altra ha un forte valore rispetto ai temi del volontariato, del servizio civile, della cittadinanza.

Inoltre, aprirsi al territorio vuol dire fare cose con il territorio e per il territorio. Questa scuola è nata in sinergia con Diaconia valdese, Caritas, Ciss (Consorzio intercomunale servizi sociali), e altre realtà del pinerolese.

Un altro aspetto è la sua connotazione politica. Chi crede in questo progetto crede in una società multietnica, nel fatto che i valori e i diritti non dipendono dal fatto di nascere in un posto piuttosto che in un altro, ma tutti devono avere pari opportunità; e la lingua è uno scoglio importante da passare.

Non bisogna confondere il piano istituzionale con quello che è la scuola Penny Wirton. L’istituzione ha i Cpia, i Centri provinciali per l’istruzione degli adulti. C’è anche l’alfabetizzazione degli stranieri, ma si occupano di persone in età scolastica. Taglia fuori persone di età maggiore che non sanno l’italiano, mentre la Penny Wirton va a coprire un segmento importante di cui istituzionalmente nessuno si occupa».

Chi sono i volontari della Penny Wirton al Liceo Porporato?

«Per gestire iniziative così occorrono delle professionalità. E i professori del liceo le possono mettere in campo. Inoltre la Penny Wirton ha avuto la forza di costruire un rapporto con gli ex docenti, personale della scuola che è in pensione e continua a mantenere un impegno. Abbiamo dato un senso a quelle professionalità che pure andando a fare qualcosa di completamente diverso, spendono la loro competenza. Un ex insegnante di lettere è diverso da qualcuno che si improvvisa.

Inoltre si prendono in carico degli studenti in alternanza scuola lavoro.

È un’attività fortemente strutturata e molto significativa. Ha una dimensione sociale, una dimensione politica. È un segmento di volontariato pieno di senso, ovviamente se si crede nell’integrazione».

Si tratta anche di una scelta di campo del dirigente.

«Ci siamo mossi in continuità con quanto fatto dalla precedente dirigente, Maria Teresa Ingicco.

Il Liceo Porporato ha al centro del suo Piano triennale di offerta formativa (il documento fondamentale di programmazione, ndr) il tema dell’inclusione, a tutto tondo. Vuol dire l’attenzione alle persone. Con la scuola di italiano ci occupiamo di persone che non vengono a scuola, ma è un’opportunità molto grande anche per i nostri studenti. Inoltre noi non abbiamo corsi serali, e questa esperienza costituisce un bagaglio importante se un giorno dovessimo realizzarli.

La nostra è una scuola che fino alle 18 è viva, ci sono molte attività e la Penny Wirton è una di queste».

Marco Bello

 

Bibliografia e sitografia

  • Eraldo Affinati, Anna L. Lenzi, Italiani anche noi. Il libro della scuola Penny Wirton, Il Margine, Trento 2011.
  • Eraldo Affinati, Anna L. Lenzi, Italiani anche noi. Il libro degli esercizi della scuola Penny Wirton, Il Margine, Trento 2015.
  • Maurizio Ambrosini, Sociologia delle migrazioni, Il Mulino, Bologna 2011.
  • Vincenzo Carbone, La nozione di integrazione dei migranti forzati, tesi di Master di I livello, Università degli studi Roma tre, 2022.
  • Laura Bosio, Una scuola senza muri, Enrico Mariani editore, Milano 2019.
  • Fiorucci, R. Cima, La formazione come strumento di inclusione dei richiedenti asilo e rifugiati, tesi di Master di I livello, Università degli studi Roma tre, 2022.
  • Sito ufficiale della Penny Wirton: www.scuolapennywirton.it
  • Sito «I quaderni della Penny Wirton»: www.iquadernidellapennywirton.it

Hanno firmato il dossier:

  • Elisa Sartori
    Insegnante di italiano, latino, storia a geografia, attualmente al Liceo Porporato di Pinerolo. Come educatrice, a Torino, si è occupata di minori in condizioni di disagio, di progettazione sociale inclusiva e di percorsi di sostegno per genitori e minori in comunità. Questo dossier è tratto dalla sua tesi di master di primo livello in «Accoglienza e inclusione dei richiedenti asilo e rifugiati», Università degli studi Roma tre.
  • Si ringraziano
    Valter Careglio, dirigente del Liceo Porporato di Pinerolo, e Joram Gabbio, vicepreside, per i testi degli studenti.
  • a cura di Marco Bello
    giornalista, direttore editoriale MC.

 




Bielorussia. Passaggio a Est


Nonostante il periodo turbolento, una famiglia di Moncalieri (Torino) ha visitato alcuni piccoli amici nella campagna bielorussa: ragazzi e ragazze che hanno passato alcuni periodi come ospiti in Italia, nell’ambito di un programma di accoglienza post Cernobyl. Qui scopre una realtà inaspettata.

Vilnius, Lituania, stazione degli autobus, mezzanotte e venticinque. Nonostante sia prevista tra cinque minuti una partenza per Minsk (capitale della Bielorussia), sui tabelloni dei vari stalli non ce n’è traccia. Sarà per la stanchezza accumulata durante la giornata trascorsa nella città lituana, ma il fatto ci crea una certa apprensione. Decidiamo di cercare un improbabile ufficio informazioni aperto nel cuore della notte. Siamo io, mia moglie e una delle nostre due figlie. Inizia così il nostro viaggio di famiglia per raggiungere quello che, nell’animo di ognuno di noi, è un altro pezzo di famiglia. Sono i ragazzi e le ragazze bielorussi che, negli anni, abbiamo ospitato per periodi più o meno lunghi a casa nostra, allo scopo di offrire loro un’esperienza di vita lontana dalle zone contaminate.

Alla stazione di Vilnius, nel frattempo, nel buio della notte, si è materializzato un autobus e dallo spazio circostante, apparentemente deserto, è emerso anche un capannello di viaggiatori che si confortano a vicenda sulla puntualità del servizio a dispetto delle omesse comunicazioni.

La dogana fa paura

Tra di noi scherziamo su come affronteremo la dogana. I racconti di amici che hanno recentemente attraversato la frontiera Lituania-Bielorussia parlano di controlli estremamente severi e il nostro voluminoso carico di coperte, penne, cioccolato e altri regali, temiamo che non passerà inosservato. È pur vero che mia moglie, sempre previdente, ha con se una lettera della fondazione «Aiutiamoli a vivere» (vedi box) che spiega la destinazione di quei beni.

I temuti doganieri, invece, si rivelano non essere un problema, almeno per noi. L’unico disagio sono i tempi d’attesa in fila per lo scanner dei bagagli che allungano il viaggio notturno.

Alle sei in punto del mattino arriviamo finalmente a Minsk. Siamo un po’ stropicciati e stanchi ma la gioia di incontrare Irina e suo marito Dima prende subito il sopravvento e le 5 ore e mezza per coprire meno di 200 km sono già un ricordo.

Minsk, in trasformazione

In attesa che l’hotel ci dia l’accesso al check-in, Irina e Dima ci rifocillano con una abbondante colazione e poi partiamo alla scoperta della capitale. Dima è uno chaperon fantastico e Irina è estremamente paziente nel gestire le nostre curiosità che spaziano dalla cucina al sistema di viabilità. Non è nemmeno da trascurare la grande capacità di creare confusione tipica della nostra famiglia.

Con Dima nei panni di Google maps e Irina in veste di Google translate vediamo una città di circa due milioni di abitanti con un impianto urbanistico di evidente stampo sovietico (è stata quasi totalmente distrutta durante la Seconda guerra mondiale) caratterizzato da ampi viali ed enormi edifici in stile classicista socialista. Minsk è una città che sta vivendo una parziale trasformazione con la nascita di centri commerciali, di nuovi quartieri e l’innesto di costruzioni di nuova concezione come la biblioteca nazionale e i palazzetti per lo sport che paiono proiettarla decisamente nel futuro. L’apparenza è di ordine, pulizia e discreto benessere.

Le proteste del 2020 però, non sono distanti.

Memorie

Minsk, come tutto il mondo ex sovietico, è fortemente legata al passato e soprattutto alla memoria dell’evento che l’ha vista maggiormente protagonista (suo malgrado): la Seconda guerra mondiale.

La città ha subito due assedi ed è stata teatro di scontri militari violentissimi e sanguinosi oltre a essere stata la sede di una delle più numerose comunità ebraiche poi fisicamente cancellata dalla mappa cittadina.

Visitiamo il museo che la città dedicato alla memoria di questa tragedia e, grazie a Irina e Dima, anche il memoriale di Chatyn.

Chatyn è il nome di un villaggio a 50 km da Minsk in cui tutti gli abitanti furono rinchiusi in un magazzino che venne poi dato alle fiamme dai nazisti così come tutte e 27 le altre case. Il memoriale ricorda i 628 villaggi che hanno subito la stessa sorte e lo fa tramite una scenografia che lascia il visitatore senza parole. È uno di quei luoghi che ti mostrano la ferocia umana senza veli, in tutta la sua immensa crudeltà. A Chatyn c’è il rispetto della memoria del singolo e la vastità della tragedia di un’intera nazione. Un dato su tutti: nel periodo 1941-1943 circa un terzo della popolazione bielorussa è deceduto. Al termine del conflitto si sono contati complessivamente oltre due milioni di morti.

Tutta la capitale è coinvolta nel ricordo, attraverso monumenti e musei. E si nota in questo così tanta cura e meticolosità che non può essere interpretata solo come propaganda politica. Altro luogo particolarmente toccante è via Ratomskaja, dove si trova l’avvallamento che ricorda il punto, appena fuori dalle mura del ghetto ebraico, nel quale vennero sepolti circa cinquemila ebrei (alcuni ancora vivi) durante una rappresaglia nazista nel marzo del 1942. L’olocausto costò la vita a 800mila ebrei bielorussi, ovvero il 90% della popolazione bielorussa di religione ebraica.

Incontri

Dopo due giorni dedicati a Minsk, ci spostiamo di 300 km verso nord est, a Vicebsk, base logistica del nostro viaggio.

Siamo qui infatti per incontrare di nuovo i «nostri» ragazzi e visitare le scuole nei giorni di riapertura dopo le vacanze estive, e visitare le strutture che frequentano. Affrontiamo le tre ore di viaggio sul Fiat Ducato bianco del nostro nuovo autista, l’impavido ma prudentissimo Ivan. Appena scesi dal pulmino, ecco Alesia. Credo che stesse presidiando l’albergo dove siamo diretti da almeno un paio d’ore. L’accoglienza con un abbraccio e un sorriso saranno indimenticabili. Passano pochi minuti, nemmeno il tempo di accreditarci al desk dell’hotel, e arriva Valentina, altri abbracci e saluti. Saliamo in camera e ci raggiunge anche Palina. È un tripudio di emozioni, è la meraviglia dell’amicizia che non conosce le dimensioni dello spazio e del tempo.

Il mattino del giorno successivo è dedicato alla scuola di Dobromysli, un villaggio di mille abitanti a 15 km da Liozna e 60 da Vicebsk. Siamo a due passi dal confine con la Russia.

La struttura è un vero gioiellino. Iniziamo a intuire quanto ci sarà sempre più evidente nei pochi giorni che trascorreremo qui: la cura che viene riservata agli alunni e, più genericamente all’infanzia, è veramente grande.

Ci accompagnano il direttore della scuola e la direttrice del plesso scolastico della regione. Colmi di orgoglio, ci raccontano quanto può offrire ai propri studenti la struttura che accoglie i bambini dal nido fino alla nona classe ovvero 14 anni.

Ci sono diversi edifici circondati da un parco con l’accesso diretto alla foresta (in cui è stato ricavato anche un sentiero didattico). Sul retro c’è un percorso «avventura» sospeso tra i rami dei pini. All’interno è tutto molto semplice ma estremamente ordinato e lindo.

Il giorno successivo è quello che noi, ormai drogati di inglesismi, chiamiamo il «Back to school», e abbiamo trasformato nell’ennesima occasione di shopping. Per le scuole bielorusse è invece un momento istituzionale.

Un orto… didattico

Il direttore ci tiene a sottolineare che sono ormai alcuni anni che questa scuola viene premiata nell’ambito del gruppo di istituti a cui appartiene, e ci porta a visitare una serra dove gli alunni si cimentano nella coltivazione di ortaggi e verdure che in parte vengono consumati da loro stessi e in parte venduti per raccogliere fondi per la scuola.

Natalia, una delle insegnanti, che già conosciamo perché è stata in Italia con l’accoglienza dei bambini, ci guida attraverso i corridoi, le classi, la palestra e, per finire, ad una tavola imbandita.

Il pomeriggio è riservato a Samir e alla sua fantastica «nonna». Un momento molto intimo, una vera immersione nella realtà dei villaggi (molto diversa dalla patinata Minsk o anche solo dalla vicina Vicebsk), ma soprattutto l’occasione per riabbracciarsi e giocare a freccette.

Inizia la scuola

La seconda giornata assistiamo alla cerimonia ufficiale di apertura della scuola di Veleshkovichi. È un momento importantissimo e tutti, dai bambini vestiti in modo impeccabile alle maestre affaccendate, fino ai poliziotti, hanno ben chiara la «sacralità» del rito di inizio dell’anno scolastico. Il pensiero corre immediatamente a quanto poca sia l’attenzione che da noi si presta all’istituzione scolastica e al diritto all’istruzione. Li si dà per scontati, mentre non è sempre stato così e il loro valore è inestimabile.

Veleshkovichi è un minuscolo raggruppamento di case sull’unica altura dei dintorni, una collinetta alta forse un centinaio di metri. La scuola non è piccolissima ma non ci sono molti ragazzi, i sintomi dello spopolamento delle campagne si colgono chiaramente. La zona è rurale e non certo tra le più ricche del Paese, tuttavia anche qui, nonostante i pochi mezzi a disposizione, l’attenzione nell’accogliere i ragazzi in un ambiente il più gradevole possibile è percepibile. Qui incrociamo Svetlana, la prima maestra che abbiamo conosciuto in Italia come accompagnatrice dei bambini. Svetlana, in forma smagliante, si sta occupando di una classe del primo anno.

Ci spostiamo a Liozna per visitare il centro Raduga. Un’eccellenza per l’assistenza dei bambini con disabilità o in «transito» in attesa di famiglia affidataria.

Inutile sottolineare l’accoglienza entusiasta di Piotr e Gallia, i direttori del centro. La gioia nel mostrarci quanto fatto e quanto in progetto e la felicità nel rivedere qualcuno dall’Italia. La pandemia e la guerra hanno creato una barriera che pesa tantissimo: siamo i primi, e quasi casuali, membri di un comitato di accoglienza per ragazzi che si rivedono dopo quattro anni.

Arriviamo in concomitanza con una festa organizzata in onore di uno sponsor del centro e, sarà per le bolle di sapone che volteggiano, sarà per i fiori presenti ovunque, ma l’aria che si respira è di serena allegria.

Anche qui restiamo ammirati dall’ordine e attenzione per i dettagli. Siamo in un bel posto (nonostante tutto).

Ci raggiunge la direttrice della gestione dei minori per accompagnarci a visitare la nuovissima casa famiglia realizzata alla periferia di Liozna. Ospiti sei ragazzi in un ambiente molto accogliente. Una vera isola felice e la testimonianza dell’impegno verso chi è in difficoltà.

La cena è il momento dei brindisi. Se ne susseguono parecchi, tutti innaffiati abbondantemente con cognac e wodka.

La mattina successiva è già ora di rientrare a Minsk dove ci attende l’autobus di linea che ci permetterà di ripercorrere la strada fino Vilnius dove arriviamo verso le 2 di notte stanchi ma con il cuore pieno di gioia. per aver rivisto – anche se per poco – i «nostri» ragazzi che studiano, lavorano, si fidanzano. Insomma, vivono la loro vita nella quale, per un po’, ci siamo stati anche noi.

Ezio Cheinasso

Fondazione «Aiutiamoli a vivere»




Biogas, istruzione e salute: il 2023 di Mco


L’anno che sta per concludersi ha visto la realizzazione di diversi progetti, sia nei settori tradizionali per i Missionari della Consolata – cioè la sanità e l’istruzione – sia in settori nuovi, come la promozione di energia pulita. E l’Africa, anche quest’anno, è stata la grande protagonista.

Lo scorso settembre, durante il vertice del G20 a Nuova Dehli, India, diciannove paesi e dodici organizzazioni internazionali hanno lanciato la Global biofuel alliance (alleanza globale per i biocarburanti). L’obiettivo dell’alleanza, di cui fanno parte fra gli altri anche l’Italia, gli Usa, l’India e, fra le organizzazioni, il World economic forum, la Banca mondiale e la Banca asiatica di sviluppo, ha l’obiettivo di promuovere l’uso dei biocarburanti sostenibili@.

I biocarburanti sono un tipo di bioenergia; quest’ultima, si legge nella sintesi del rapporto 2011 sulle fonti energetiche rinnovabili del «Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico», può essere prodotta da una varietà di materie prime di biomassa, cioè materia organica, come i residui forestali, agricoli e zootecnici, alcune colture, la parte organica dei rifiuti urbani, eccetera. Queste materie prime, attraverso vari processi e tecnologie, possono essere utilizzate direttamente per produrre elettricità e calore, oppure per ricavare combustibili gassosi, liquidi o solidi@.

Vecchie delusioni, nuove prospettive

La bioenergia, spiega sul suo sito l’«Agenzia internazionale dell’energia» (Iea, nell’acronimo inglese), rappresenta il 55% dell’energia rinnovabile a livello globale e oltre il 6% della fornitura energetica complessiva.

La moderna bioenergia, riporta ancora la Iea, è un combustibile a emissioni quasi zero, perché – per dirla in modo molto semplificato – l’anidride carbonica che si libera durante la combustione della biomassa si compensa in larga parte con quella che le piante coltivate per creare la biomassa assorbono con la fotosintesi.

All’inizio di questo secolo, i biocarburanti – ad esempio il biodiesel – avevano già ricevuto grandi attenzioni e generato aspettative che si erano però rivelate troppo ottimistiche@.

Le emissioni di anidride carbonica imputabili ai biocarburanti, infatti, non erano poi così basse, considerando la quantità di terra, acqua ed energia necessarie a produrre le piante per formare le biomasse di base. Inoltre, queste piante spesso rimpiazzavano le coltivazioni destinate alla produzione di cibo, provocando aumenti significativi dei prezzi dei prodotti agricoli. Da qui il dibattito, tuttora in corso, sintetizzato dall’espressione food vs. fuel, cibo contro carburante. Si parla oggi quindi di bioenergia moderna e biocarburanti sostenibili proprio in contrapposizione a queste prime esperienze di vent’anni fa e al loro parziale insuccesso.

Biogas e biometano

Anche il biogas rientra fra le bioenergie. Esso, spiega la Iea in un rapporto del 2020, è una miscela di metano, anidride carbonica e piccole quantità di altri gas prodotta dalla digestione anaerobica di materia organica in un ambiente privo di ossigeno.

Una delle tecnologie in grado di produrre biogas utilizza i biodigestori, cioè contenitori o cisterne ermetici nei quali il materiale organico, diluito in acqua, viene scomposto da microrganismi presenti in natura. Altri modi di produzione includono poi la «cattura» del biogas che si forma per la decomposizione dei rifiuti solidi urbani nelle discariche e il recupero dei fanghi di depurazione degli impianti di trattamento delle acque reflue. I fanghi, infatti, possono contenere materia organica e sostanze come azoto e fosforo e, con un ulteriore trattamento, possono essere utilizzati come base per produrre biogas in un digestore anaerobico@.

Il biogas può poi essere trasformato in biometano attraverso un ulteriore processo che rimuove l’anidride carbonica e le impurità. Il 90% del biometano prodotto oggi nel mondo si ottiene con questo metodo, detto upgrading, traducibile con miglioramento, passaggio alla categoria superiore.

Il biogas a Kimbiji

Secondo la Iea, 2,7 miliardi di persone nel mondo non dispongono di energia pulita per cucinare e usano biomassa solida: legna da ardere, carbone, sterco bruciato all’aperto, oppure cherosene. Circa un terzo di queste persone vive nell’Africa subsahariana.

Se fossero raggiunti tutti gli obiettivi di sviluppo sostenibile, nel 2040 il biogas potrebbe fornire energia pulita per cucinare a ulteriori 200 milioni di persone, metà delle quali in Africa, riducendo così l’inquinamento domestico causato da fornelli inefficienti e inquinanti che, secondo i dati del 2018, è direttamente collegato a circa mezzo milione di morti premature annuali nell’Africa subsahariana e a 2,5 milioni a livello globale.

Anche a Kimbiji, villaggio a circa quaranta chilometri a sud di Dar Es Salaam, in Tanzania, i missionari della Consolata registrano questa mancanza di alternative al carbone e alla legna da ardere come combustibili per cucinare. Per questo, padre Domnick Otieno, missionario di origine
keniana che lavora a Kimbiji da quasi tre anni, ha proposto di realizzare un biodigestore da alimentare con gli scarti generati dalla piccola porcilaia realizzata nel 2022 con il contributo della Caritas italiana. Questa ne ha sostenuto la costruzione per permettere a un gruppo di giovani locali di avviare un’attività generatrice di reddito.

«Siamo consapevoli», scriveva padre Domnick lo scorso marzo, «che una parrocchia dovrebbe essere un luogo di trasformazione nella società, un luogo in cui le persone imparano anche a prendersi cura dell’ambiente. L’installazione del biogas nella missione ci permetterà di avere sufficiente gas per l’uso domestico e potremo abbassare la retta per l’asilo, così i genitori dei nostri ottantasei alunni non dovranno più portare legna e carbone per pagare la parte di retta che non possono coprire in denaro. Il sistema a biogas offrirà inoltre a coloro che verranno alla missione la grande opportunità di conoscere l’importanza di questa fonte per ridurre l’inquinamento».

Scuola ad Alaba

Etiopia, istruzione in affanno

L’Etiopia, riporta il Fondo delle Nazioni Unite per l’infanzia (Unicef), ha fatto progressi significativi verso l’istruzione primaria universale, con l’88,7% dei bambini iscritti nell’anno 2021/2022@.

Ma alcuni studi del ministero dell’Istruzione etiope e i risultati degli esami per l’accesso all’università di quest’anno costringono a ridimensionare questo dato incoraggiante.

Secondo Africanews, il sito di notizie legato alla rete televisiva Euronews, solo il 3% degli studenti etiopi di scuola secondaria ha passato l’esame di ammissione all’università@, mentre il ministero fa sapere che l’85,9% delle scuole elementari e medie e il 70,9% delle scuole superiori in Etiopia sono «completamente al di sotto degli standard@».

«I risultati peggiori», riferisce padre Marco Marini, missionario della Consolata in Etiopia, «sono spesso nelle scuole private, anche se le scuole cattoliche continuano a mantenere un buon livello e quindi un buon nome».

Ad Alaba, 250 chilometri a sud della capitale Addis Abeba, i missionari della Consolata gestiscono una scuola con 730 alunni, seguiti da quattordici maestri; ci sono poi otto persone che svolgono altri servizi, dalla segreteria alla sicurezza. Le classi vanno dall’asilo alla quinta, ma i missionari intendono attivarne altre, fino all’ottava (equivalente alla nostra terza media, ndr), che è l’ultima del ciclo primario.

L’intervento realizzato ad Alaba ha permesso di fornire alla scuola quarantacinque banchi necessari per avviare la sesta classe e per sostituire quelli danneggiati nelle classi già esistenti. «In Etiopia – spiega padre Marco -, i banchi per la scuola sono pensati per tre studenti e hanno una struttura in ferro su cui sono poggiati i ripiani in legno che servono per scrivere e sedersi. I nuovi banchi possono quindi accomodare un totale di 135 studenti. Li ha realizzati la falegnameria della missione di Shashemane, a sessanta chilometri da Alaba».

Studenti in cortile della nuova scuola di Alaba

Kenya, la sanità fra riforme e vecchi problemi

Secondo i dati dell’Organizzione mondiale della sanità (Oms), il Kenya ha oggi un’aspettativa di vita di 66,1 anni, circa 7 anni sotto la media globale, ma 12,2 anni in più rispetto all’anno 2000@. Tuttavia, si legge nel rapporto 2022 dell’ufficio dell’Unicef in Kenya@, la povertà rimane alta e interessa 16 milioni di persone, cioè un keniano su tre. La metà della popolazione – 23,4 milioni di persone (o addirittura quasi 29 oggi, ndr), di cui 11,7 milioni sono bambini – non ha accesso a servizi di base come assistenza sanitaria, acqua potabile, servizi igienicosanitari, nutrizione e alloggio.

Il Kenya, continua il rapporto, si è impegnato a porre fine alla diffusione dell’Hiv/Aids, che è una minaccia sempre attuale per la salute pubblica, e alle gravidanze delle adolescenti entro il 2030. Se gli sforzi per garantire agli adulti l’accesso alle terapie per il trattamento dell’Hiv sono stati efficaci, tante infezioni nelle persone più giovani non vengono rilevate né trattate. Si stima che quasi 38mila bambini e adolescenti affetti da Hiv non siano in terapia.

Inoltre, secondo il ministero della salute keniano, come riportava lo scorso anno il giornale The Nation, una su cinque adolescenti fra i 15 e i 19 anni è madre o è incinta.

Uno studio pubblicato su Health economic review, rivista del gruppo anglo-tedesco Springer nature, rivela che solo un quinto dei keniani è coperto da una qualche forma di assicurazione sanitaria@ privata o pubblica (il Nhif, National health insurance fund del ministero della Salute, iniziato nel 1966, però collassato a causa della corrotta amministrazione di questi ultimi anni, ndr). Diverse testimonianze dirette da parte di missionari della Consolata, oltre a confermare sul campo questo dato, riportano che, di fatto, soltanto pagando è possibile ottenere cure adeguate.

Recentemente, il governo@ ha lanciato una riforma del fondo che però sembra peggiorare la situazione. Prima della riforma, i keniani pagavano dal loro stipendio o in forma volontaria cifre che andavano da 150 a 1.700 scellini keniani al mese (da poco meno di un euro a circa 11 euro) per il Nhif. Il nuovo fondo prevede un contributo minimo pari al doppio e, per i lavoratori dipendenti, un maggior prelievo percentuale sulla retribuzione.

Troppe persone oggi non hanno un lavoro regolare che dia loro diritto al Nhif o permetta loro di acquisirlo in forma volontaria e, tantomeno, di accedere alle cure sanitarie a pagamento.

Timbwani, la nuova clinica

Una delle zone in cui la povertà è più diffusa è la periferia di Mombasa, grande città portuale sull’Oceano Indiano, dove i missio-
nari della Consolata sono presenti a Likoni e a Timbwani, sulla costa sud oltre lo stretto che separa dalla città antica. Proprio a Timbwani, i missionari hanno di recente completato la costruzione di una nuova struttura sanitaria.

L’aiuto richiesto a Missioni Consolata Onlus dal responsabile, padre Joseph Waithaka, riguarda l’acquisto e installazione di mobilio e attrezzatura per la sala consultazioni, per il triage, per la sala delle cure prenatali e di materiale per le consultazioni pediatriche. La clinica di Timbwani lavorerà di concerto con il dispensario di Likoni, di cui è di fatto un’estensione, e avrà un bacino di utenza di circa 10mila persone. «Chi vive nella zona di Timbwani», scriveva lo scorso marzo padre Waithaka, «deve prendere il traghetto e attraversare lo stretto per raggiungere la struttura sanitaria pubblica più vicina. Questo nuovo centro sanitario ci permetterà di offrire assistenza ai malati e programmi di consulenza ai giovani tossicodipendenti e alcolisti». Mombasa si trova, infatti, su una delle nuove rotte del traffico mondiale di eroina e questo ha reso il Kenya un paese non solo di transito, ma anche di consumo@.

Chiara Giovetti




MCO. Il bilancio sociale, per conoscersi meglio


Lo scorso mese Missioni Consolata Onlus ha pubblicato il bilancio sociale 2022. Anche quest’anno, redigerlo è stata un’occasione per conoscere e far conoscere meglio il nostro lavoro, per migliorare la comunicazione interna e per soffermarsi su alcuni progetti significativi.

Il 2022 è stato un anno positivo per Missioni Consolata Onlus, che ha registrato un aumento di donazioni ricevute intorno al 6%. Lo si può leggere nel bilancio sociale 2022, pubblicato sul sito di Mco a fine giugno.

Scuola e sanità prima di tutto

La distribuzione delle donazioni per ambito di intervento ricalca abbastanza quella dei due anni precedenti, con le iniziative per sanità e istruzione a rappresentare da sole quasi il 40% del totale. Caratterizzata dal lavoro
dei quattro grandi ospedali (Ikonda e Makiungu in Tanzania, Wamba in Kenya e Neisu in Rd Congo) e dei due centri di salute (Dianra e Marandallah in Costa d’Avorio) in Africa, la sanità ha ricevuto 854mila euro (22,7% del totale), mentre l’istruzione – dall’asilo all’università – ha ottenuto quasi 657mila euro (17,5%).

Intorno al 3% si collocano poi le attività con i popoli indigeni, gli interventi che mirano a creare sviluppo economico e le iniziative che garantiscono alle comunità locali l’accesso a fonti d’acqua pulita e affidabile.

Questi tre ambiti hanno raccolto rispettivamente 124mila, 118mila e 117mila euro, mentre la formazione professionale, cioè quelle attività formative che forniscono competenze a persone che si trovano ormai al di fuori di un percorso scolastico – corsi di sartoria, informatica di base, gastronomia, e simili – hanno ottenuto 28mila euro, lo 0,8%.

Emergenze quotidiane

Una voce consistente è certamente quella che raggruppa ambiti non riconducibili a quelli già menzionati e che ha ottenuto un sostegno complessivo di 534mila euro, il 15% del totale.

All’interno di questa voce, il 2022 ha visto un robusto sostegno alle attività a carattere religioso, fra cui la costruzione o ristrutturazione di chiese, la copertura dei costi di formazione dei nuovi missionari nei seminari, la fondazione di una nuova missione, la formazione permanente dei missionari di ogni età. La maggiore novità del 2022 all’interno di questo gruppo di ambiti è invece la realizzazione di interventi di emergenza in sostegno ai rifugiati ucraini, prima solo in Polonia poi anche in Ucraina.

Le spese di amministrazione e funzionamento  della Onlus sono state pari al 12,5% del totale (469mila euro)

Il sostegno generico è stato di 314mila euro, l’8,4%. Si tratta, in quest’ultima voce, di un tipo di aiuto che è difficile ricondurre alla logica dei progetti o, comunque, degli interventi strutturati e organizzati, perché sostiene quella parte del lavoro dei missionari che consiste nell’assistenza immediata a persone che affrontano una difficoltà improvvisa e temporanea: un (o, più spesso, una) capofamiglia che perde il lavoro, un malato che non può pagare le cure mediche e tantomeno i farmaci necessari, un contadino o un pastore che ha perso tutto a causa della siccità o di razziatori. Piccole e grandi emergenze quotidiane che le persone affrontano anche bussando alla porta della missione per chiedere aiuto e, quasi sempre, cercando di ricambiare appena è loro possibile.

Congo, progetti salute

Ospedale di Neysu, Congo RD (AfMC)

La Repubblica democratica del Congo è, fra i Paesi di missione, il secondo per offerte ricevute: quasi 532mila euro, dopo i 955mila della Tanzania. È anche il paese in cui si sono svolti tre dei sei progetti in evidenza, interventi significativi che nel bilancio sociale illustrano ciascun ambito di intervento.

Il progetto dell’ambito salute è in realtà un insieme di interventi che si sono svolti all’ospedale di Neisu, nella provincia dell’Alto Uélé, Congo orientale. Hanno interessato la cardiologia, la maternità e l’ortopedia, oltre al trasporto di operatori e pazienti.

«La cardiologia è completa», confermava a maggio da Neisu il responsabile dell’ospedale, Ivo Lazzaroni, laico missionario della Consolata. «Facciamo una trentina di elettrocardiogrammi al mese mentre gli esami eco-doppler per ora sono meno e quasi solo per pazienti che vengono da Isiro», il capoluogo, 70 chilometri più a ovest: «Il costo dell’esame, 25mila franchi congolesi (circa 12 euro), dissuade tante persone dei villaggi qui in foresta».

Ma la sensibilizzazione dei pazienti sul ruolo della prevenzione nelle malattie del sistema cardiovascolare, che la dottoressa e le due infermiere formate a Kinshasa affiancano al lavoro di diagnosi e cura, sta iniziando a dare frutti: «Qui si usa tanto olio di palma e sale, per cui le ipertensioni sono frequenti. Le persone, però, stanno iniziando a capire: lo vediamo anche dal fatto che sempre più spesso decidono di comprare i farmaci per le malattie cardiovascolari che vengono loro prescritti, anche se hanno un costo elevato per il livello di reddito locale».

La maternità ha poi ricevuto una seconda incubatrice, «perché la precedente non funzionava più e non è stato possibile ripararla. È una grazia di Dio: ci sono dei bambini nati prematuri o sottopeso che ne hanno davvero bisogno». Ivo sta attivandosi per procurarne un’altra, perché quella attuale deve a volte ospitare più di un bambino.

Infine, la formazione in chirurgia ortopedica e traumatologia, che un medico e un infermiere dell’ospedale stanno seguendo a Kinshasa, permetterà di trattare con più efficacia i pazienti con fratture. «Molti di loro», dice Ivo, «se le procurano cadendo dalle palme, dove salgono a raccogliere i frutti per produrre l’olio. Se si rompe un ramo, o si incontra un serpente, si possono fare cadute disastrose. Se riescono a sopravvivere, i pazienti si trovano con fratture scomposte che non solo devono essere operate, ma richiedono mesi di fisioterapia». Il costo totale di questi interventi, che include anche l’acquisto di sei piccole moto per il personale sanitario dei centri periferici e per il trasporto dei pazienti, è stato di circa 44mila euro.

Baayanga, bambini pigmei a scuola (AfMC/Flavio Pante)

Scuola a Bayenga, mattonelle a Kinshasa

Sempre in Congo, padre Flavio Pante sta avviando la costruzione di una scuola a Bayenga, 140 chilometri circa a sud est di Isiro. Qui i Missionari della Consolata lavorano dagli anni Novanta con i Pigmei bambuti, per favorirne il dialogo, storicamente difficile, con la popolazione di etnia bantu e accompagnarne il percorso di ricerca di un modo di vita che rispetti la loro cultura e il loro legame con la foresta ma, allo stesso tempo, non li escluda dalla partecipazione alla vita della società congolese, fatta più di sedentarietà e di agricoltura che di nomadismo e caccia.

«Non sono uno da grandi progetti», scherzava in una lettera padre Flavio lo scorso maggio, «vado avanti con quello che ho, secondo la realtà del posto e i suoi tempi». Con l’aiuto di familiari, donatori privati, enti ecclesiali e organizzazioni amiche, padre Pante ha raccolto 9mila euro con cui costruirà nove classi che possono contenere fino a 80 allievi l’una, «limite posto dal regolamento scolastico del Congo. Ora più della metà del totale degli allievi è ospitato in un’altra scuola con orari a turni, ma stanno stretti e vivono diversi disagi». Le aule saranno in legno con tetti di lamiera e pareti in fango, rivestite di cemento per riparare le classi da vento e pioggia. «Sempre se il cemento sarà accessibile», precisa padre Flavio: perché «la situazione del Kivu», dove sono in corso violenti scontri fra l’esercito congolese e i ribelli del gruppo M23@, «porta per noi grosse difficoltà negli approvvigionamenti e un grande aumento nei prezzi».

A Kinshasa, nel quartiere di Mont Ngafula, padre César Balayulu ha infine realizzato con 2mila euro un microprogetto di recupero delle bottiglie di plastica, che vengono sciolte per produrre mattonelle da pavimentazione. «L’idea mi è venuta guardando un’iniziativa simile portata avanti dai gesuiti non lontano dalla nostra missione», spiegava a maggio padre César. «Vista la quantità enorme di bottiglie disperse nell’ambiente a Kinshasa, ho deciso di coinvolgere trenta persone fra giovani e donne della zona e cominciare». Questo potrebbe essere un progetto pilota, da ampliare almeno con l’acquisto di un apposito forno elettrico chiuso, per ridurre al minimo le esalazioni derivanti dallo scioglimento della plastica, spiega César. «I risultati sono incoraggianti: i torrenti d’acqua che si formavano nella zona intorno alla parrocchia con le violente piogge tropicali, prima scavavano il terreno. Da quando abbiamo messo il pavé fatto con la plastica delle bottiglie, l’erosione si è molto ridotta». Non solo, aggiungeva padre David Bambilikpinga Moke, superiore regionale del Congo: «Non trovando più le bottiglie a ostruire canali e fossi, durante le piogge, l’acqua defluisce più facilmente verso il fiume».

Distribuzione di cibo donato dai Missionari della Consolata in Polonia ai Frati Francescani Albertini di Zaporizia (AfMC/Luca Bovio)

La Polonia e l’emergenza Ucraina

Sin dai primi giorni di marzo 2022, dopo l’invasione russa dell’Ucraina e la fuga di milioni di persone nei paesi limitrofi, i Missionari della Consolata in Polonia hanno cominciato a organizzare l’accoglienza per i profughi, in collaborazione con la parrocchia di Santa Margherita in Łomianki vicino a Varsavia e la Caritas. Nei mesi successivi sono poi cominciate anche le missioni per portare aiuti in territorio ucraino. Padre Luca Bovio, missionario della Consolata in Polonia, ha partecipato a queste missioni insieme a don Leszek Krzyża, direttore dell’ufficio di aiuto per le chiese dell’Est presso la Conferenza episcopale polacca: grazie anche ai 51mila euro raccolti da Mco, padre Luca, don Leszek e le tante persone che hanno collaborato con loro, sono riusciti a portare cibo, prodotti per l’igiene, generatori nelle città di Kijew, Charnichow, Karkiw, Dniepr, Zaporiza, Kherson, Mikolaj, Odessa, Leopoli@.

A maggio scorso padre Luca Bovio, confermava il persistere della situazione di emergenza, specialmente nelle zone prossime al fronte. «Non ci sono più spostamenti di persone verso la Polonia, ma continuano quelli interni all’Ucraina, anche perché il governo invita le persone che vivono vicine alle zone di scontri a spostarsi». Non tutti, però, raccolgono l’invito, perché non se la sentono di lasciare i luoghi dove sono nati e cresciuti, ma anche perché la primavera è tempo della semina, e mancarla significa trovarsi senza provviste il prossimo inverno. «Così, in occasione di un viaggio nei pressi del fronte mi è capitato di assistere a scene quasi surreali, con i missili russi che cadevano a 500 metri da me mentre, a due chilometri nella direzione opposta, un contadino arava la terra sul suo trattore». Non ci sono lati positivi nella guerra, conclude padre Luca, ma la solidarietà che è emersa in questi mesi con la mobilitazione di così tante persone fra Polonia, Italia, Usa, Canada, aiuta tanto e dà speranza.

Bambini a colazione nel Baixo Cotingo ( AfMC/foto Francesco Bruno)

Acqua e popoli indigeni

Fra i progetti per garantire alle comunità l’accesso all’acqua c’è lo scavo di un pozzo artesiano che si sta svolgendo a Baixo Cotingo, nella Terra indigena Raposa Serra do Sol (stato di Roraima, Brasile), dove la siccità degli ultimi anni priva la comunità di Camará dell’acqua durante l’estate, mentre d’inverno il sistema di canali che porta l’acqua a valle dalle montagne vicine è spesso bloccato da foglie e detriti.

«Il pozzo artesiano è già stato perforato a una profondità di 64 metri», scriveva a maggio padre Jean-Claude Bafutanga, missionario della Consolata, «e ha fornito acqua sufficiente per l’intera comunità indigena di Camará, che ora può bere e utilizzare acqua pulita e potabile, non contaminata dal mercurio usato nell’estrazione mineraria illegale ancora in corso nella zona»@.

Il lavoro con i popoli indigeni del Venezuela, infine, continua ad accompagnare i Warao nell’affrontare le tante difficoltà legate alla più generale situazione del Paese@ e alla particolare condizione di emarginazione delle comunità indigene (cfr. articolo pag 10).

«Lo Stato venezuelano ha praticamente abbandonato le scuole delle comunità che vivono nella zona del reticolo di canali e corsi d’acqua minori (caños) del fiume Orinoco», scriveva lo scorso aprile padre Andrés García Fernández, missionario della Consolata nella missione di Nabasanuka e responsabile del progetto. Andare a scuola in queste zone è già peraltro molto complicato: «A causa delle grandi distanze, che devono essere coperte in curiara (canoa), insegnanti e bambini sono spesso assenti dalle lezioni».

A questo si aggiungono le difficoltà economiche di molte famiglie, costrette a rivolgersi alla missione per avere vestiti usati; e la mancanza di igiene combinata con l’assenza di strutture sanitarie adeguate e farmaci in grado di contrastare la diffusione di malattie come amebiasi e altri parassiti intestinali, infezioni della pelle, delle vie respiratorie, delle vie urinarie, micosi.

Il progetto Dignità per il popolo warao, si concentra su tre linee strategiche: alfabetizzazione, attività generatrici di reddito e salute. Finanziato da donatori privati con 5mila euro nel 2022, cerca di sopperire alle mancanze del sistema educativo con la distribuzione di materiale scolastico e la trasmissione del sapere tradizionale dagli anziani ai bambini. Fornisce inoltre formazione a 80 donne in tecniche sartoriali e sensibilizzazione su temi igienico sanitari per promuovere la prevenzione e la conoscenza delle piante officinali.

Chiara Giovetti

 




Scuola, ancora un sogno per troppi bambini


L’obiettivo di sviluppo sostenibile numero 4 non sarà raggiunto entro il 2030. Questa è la conclusione a cui si giunge consultando i più recenti dati Unesco. La pandemia ha rallentato l’impegno per assicurare la scuola a tutti, ma di fatto il calo era già in atto.

Secondo le più recenti stime delle Nazioni Unite@, sono 244 milioni i bambini e ragazzi di età compresa fra i 6 e i 18 anni che non vanno a scuola. Il numero più alto di questi, circa 98 milioni, è in Africa subsahariana, mentre altri 85 milioni vivono in Asia centrale e meridionale. I quattro Paesi con i dati più negativi sono Pakistan e Nigeria, ciascuno con circa 20 milioni di bambini e adolescenti non scolarizzati, seguiti dall’Etiopia, con 10,5 milioni, e dalla Repubblica democratica del Congo, con 6 milioni.

Rispetto ai cicli di studi, la mancata scolarizzazione interessa 67 milioni di bambini della primaria (di età fra i 6 e gli 11 anni), 56 milioni della secondaria di primo grado (12-14 anni) e 121 milioni della secondaria di secondo grado (15-17 anni).

La prima scuola operata dai missionari della Consolata a Tuthu, Kenya, nel 1902 (AfMC/Filippo Perlo).

La situazione è senza dubbio migliorata rispetto all’inizio del millennio, quando i bambini che non andavano a scuola erano oltre 400 milioni, ma gli studi più recenti dell’Unesco@ rilevano che, di questo passo, nel 2030 ci saranno ancora 84 milioni di bambini e ragazzi non scolarizzati, il 5% del totale. Lo studio, che si basa sui dati forniti dagli Stati e sugli indici di riferimento che essi si sono dati in modo volontario per misurare il loro avvicinamento agli obiettivi, riporta anche che meno di due bambini su tre finiranno la primaria e raggiungeranno il livello minimo di competenze nella lettura: in altre parole, 300 milioni di bambini non sapranno leggere come dovrebbero alla fine del ciclo primario di studi. Secondo questi dati, è chiaro che l’umanità mancherà il quarto obiettivo di sviluppo sostenibile dell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite, che mirava a «garantire un’istruzione di qualità inclusiva ed equa e promuovere opportunità di apprendimento continuo per tutti».

Covid, collasso nascosto ma enorme

La pandemia da Covid-19 ha avuto un ruolo sia nel rallentare i progressi sia nell’impedire la raccolta dei dati per monitorarli. Secondo un rapporto della Banca mondiale di febbraio scorso@, nei paesi a basso e medio reddito, 1,3 miliardi di bambini hanno perso almeno sei mesi di scuola, 960 milioni hanno saltato almeno un anno intero e 711 milioni un anno e mezzo o più.

Le scuole sono state chiuse più a lungo in America Latina, nei Caraibi e in Asia meridionale, ma ci sono state notevoli variazioni nella durata della chiusura da un Paese all’altro all’interno della stessa subregione. Ad esempio, tra aprile 2020 e marzo 2022 le scuole sono state chiuse per 61 giorni in Tanzania, ma per 448 giorni in Uganda; per 107 giorni in Marocco, ma 326 giorni in Arabia Saudita; e 47 giorni in Vietnam, ma 510 giorni nelle Filippine.

Una volta entrata in vigore la chiusura delle scuole, quasi tutti i sistemi educativi sono passati alla didattica a distanza; ma, a livello globale, più di due terzi dei bambini di età compresa tra 3 e 17 anni (1,3 miliardi di persone) non hanno internet a casa.

Effetti da valutare

Arvaiheer, Mongolia (AfMC)

L’impatto sull’istruzione del Covid-19 e delle restrizioni collegate richiederà ancora anni per essere completamente valutato; tuttavia, avverte la Banca mondiale nel rapporto, alcuni danni sono già evidenti. Oltre a riportare 70 milioni di persone sotto la soglia della povertà, la pandemia ha determinato un collasso tanto nascosto quanto enorme nel capitale umano delle persone più giovani, colpendole in un momento cruciale del loro sviluppo. Milioni di bambini non hanno ricevuto adeguata assistenza sanitaria, ad esempio mancando gli appuntamenti per le vaccinazioni più importanti.

Hanno poi dovuto affrontare maggiore stress negli ambienti e contesti che sarebbero deputati alla loro cura, subendo a volte anche abusi domestici e vedendo peggiorare la loro nutrizione. Tutto questo ha comportato una diminuzione nel rendimento scolastico e un rallentamento dello sviluppo sociale ed emotivo: un mese di chiusura si è tradotto in un mese di conoscenze perdute, in alcuni casi anche di più, come è successo nel Bangladesh, dove 14 mesi e mezzo di chiusure si sono tradotti in 26 mesi di apprendimento perso.

Per dare una misura concreta di questi dati, il rapporto cita l’esempio di una bambina di 10 anni che all’inizio della pandemia sapeva fare somme e sottrazioni e avrebbe poi dovuto imparare moltiplicazioni e divisioni. A causa dei mesi di scuola persi, non solo non ha imparato queste nuove abilità, ma ha anche dimenticato come si somma e sottrae.

È difficile prevedere come questa mancata formazione, se non recuperata, si ripercuoterà sulle vite dei bambini; tuttavia, basandosi sull’analisi degli effetti di precedenti eventi catastrofici, la Banca mondiale stima che i ritardi nell’apprendimento, una volta che questi bambini entreranno nel mercato del lavoro, potrebbero tradursi per loro in redditi fino a un quarto più bassi di quanto sarebbero stati in assenza della pandemia.

Scuola per bambini yanomami al Catrimani, Roraima (AfMC/foto C. Giovetti)

Non solo pandemia

Eppure, dicono ancora le stime dell’Unesco@, i progressi verso l’obiettivo 4 erano già rallentati prima della pandemia, e questo soprattutto riguardo agli adolescenti. Utilizzando un modello che combina i dati amministrativi forniti dagli Stati con indagini a campione presso i nuclei familiari, l’agenzia Onu conclude che la riduzione dell’abbandono scolastico fra i ragazzi della scuola secondaria inferiore (più o meno le medie italiane) è stata del 9% nel primo decennio di questo secolo e solo del 2% dal 2010 al 2020.

L’Africa subsahariana non è solo la regione con il più alto numero di bambini non scolarizzati, ma anche l’unica regione in cui questo dato è in crescita. Dal 2009 la quota di bambini che non fre­quenta la scuola è aumentata di 20 milioni, raggiungendo i 98 mi­lioni nel 2021, e sfiora i 100 mi­lioni nelle proiezioni per il 2023.

La disparità di genere è quasi scomparsa a livello globale e, anzi, rispetto al dato della mancata scolarizzazione ora le proporzioni sono invertite: 125 milioni di bambini non vanno a scuola, a fronte di 118 milioni di bambine.

Ma gli ostacoli verso il raggiungimento dell’obiettivo di sviluppo sostenibile sull’istruzione continuano a essere molti, ad esempio i disastri legati al clima, che nel 2021 hanno causato 23,7 milioni di sfollati. Gli studi sull’accesso all’istruzione per gli sfollati a causa del clima, lamenta l’Unesco, sono ancora molto pochi e rendono queste persone una categoria invisibile@, nonostante affrontino difficoltà molto simili a quelle dei rifugiati.

Lo scorso aprile, per i paesi a basso e medio reddito, il deficit di finanziamento per raggiungere l’obiettivo 4 era di poco meno di 100 miliardi di dollari. Anche ipotizzando che i Paesi donatori onorassero la promessa di destinare all’aiuto allo sviluppo lo 0,7% del Pil e dessero priorità agli interventi nell’ambito dell’istruzione, due terzi di questo deficit resterebbero comunque scoperti. Per questo, ha precisato la vicedirettrice dell’Unesco, Stefania Giannini, è necessario lavorare con le realtà fiscali dei vari Paesi@.

Chiara Giovetti


Come cooperavamo

Mgololo, giugno 1973

Mgololo si trova nella Tanzania centromeridionale, quasi al confine fra le regioni di Iringa e Morogoro, e nel giugno del 1973 era una delle ventotto missioni della diocesi di Iringa. Ci lavorava padre Francesco Cravero, nato nel 1923 a Cavallermaggiore, Cuneo, e fondatore nel 1968 della missione di Mgololo. La scuola, come dice l’«Appello dal fronte»@ qui sopra, era una sua idea fissa. «Le lavagnette e i gessetti sono giunti sin qui prima del mio arrivo», scriveva nell’articolo che accompagnava l’appello, ed erano anche «nate alcune scuolette: un capannone, o il più delle volte un albero frondoso sotto il quale si teneva la lezione. Il maestro era un giovanotto munito di licenza elementare». Con il tempo, le scuole cappelle e altre strutture di fortuna si erano moltiplicate e, constatava il missionario, occorreva «fare un passo avanti».

Al momento dell’appello, padre Cravero aveva già messo in piedi due aule scolastiche grazie alla collaborazione di un gruppo di Torino e l’attività didattica si svolgeva da quattro anni. Ma lo spazio era insufficiente: occorrevano al più presto altre aule, per evitare che i ragazzi della quarta elementare fossero costretti ad abbandonare gli studi. Per l’ampliamento, scriveva il missionario, «è sufficiente presentare un piccolo progetto, assicurare la decisa volontà di cooperazione da parte della popolazione e il governo darà il suo benestare, inviando sul posto un maestro diplomato».

La popolazione avrebbe collaborato procurando le travi per il tetto e la legna per la cottura dei mattoni, mentre ai suoi benefattori il missionario chiedeva tre milioni di lire per costruire tre aule e una casa per gli insegnanti.

«Nel Tanzania di oggi», scriveva, «l’indirizzo programmatico dell’Ujamaa, che vuole fondare la vita del villaggio […] sulla corresponsabilità fattiva di tutti i membri, non può non concordare con il missionario che, mediante la scuola, si fa promotore del progresso comunitario. La scuola non sarà del missionario, come avveniva nel passato, ma del villaggio, ed i primi responsabili saranno i genitori degli allievi e tutta la comunità».

La scuola di Makungu a Mgololo, riporta padre Erasto Mgalama dalla Tanzania, fu poi ceduta dai missionari della Consolata al governo tanzaniano ed esiste ancora. È ora in costruzione un altro edificio, che sorge dove prima c’era quello eretto da padre Cravero, che era in cattive condizioni e purtroppo non è stato possibile ristrutturare per conservare la memoria storica: si è preferito demolirlo e costruirne uno nuovo. La scuola ha 569 studenti, che agli esami risultano sempre fra i migliori della zona.

Chi.Gio.

Mgololo 2023


20 giugno: Giornata mondiale dei rifugiati

Dei 20,7 milioni di rifugiati seguiti dall’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr), 7,9 milioni sono bambini in età scolare. Di questi, quasi la metà non va a scuola.

Due terzi dei rifugiati vengono da cinque Paesi: Siria, Venezuela, Afghanistan, Sud Sudan e Myanmar. Oltre otto rifugiati su dieci sono ospitati da Paesi a basso e medio reddito, e in tre casi su quattro si tratta di Paesi confinanti con quello dai quali i rifugiati sono fuggiti.

Al 25 aprile 2023 il numero stimato di singoli rifugiati che sono fuggiti dall’Ucraina dal 24 febbraio 2022 ed erano presenti nei Paesi europei, era pari a poco meno di 8,2 milioni.

Considerando anche i 53,2 milioni di sfollati interni nel mondo, i 4,6 milioni di richiedenti asilo (cioè coloro che stanno aspettando una risposta alla loro richiesta di essere riconosciuti come rifugiati) e i 4,4 milioni di sfollati venezuelani, il totale delle persone che hanno dovuto lasciare le loro case superava alla fine del 2021 gli 89 milioni. Le cause dell’allontanamento sono persecuzioni, conflitti, violenze, violazioni dei diritti umani o eventi che turbano gravemente l’ordine pubblico@. Questo 20 giugno sarà la 22a giornata mondiale dei rifugiati, che fu celebrata per la prima volta nel 2001, anno del 50o anniversario della Convenzione sullo statuto dei rifugiati, o Convenzione di Ginevra del 1951@.

Chi.Gio.

Il mondo visto dala scuola di Iguachanya, Tanzania (AfMC)




Daadab. La città dei tendoni


Da 32 anni è una città fatta di ripari di fortuna, in mezzo al deserto. Ci abitano 350mila persone, e gli arrivi continuano. Intanto la guerra in Europa ha dirottato in Ucraina parte delle risorse. Alcune Ong e agenzie Onu continuano a dare assistenza a una popolazione (di rifugiati) che non può farcela da sola.

Immaginate una città grande come Firenze. Senza però monumenti e strade asfaltate. Senza case in muratura. Senza un fiume che l’attraversa. Una distesa infinita di rifugi improvvisati, capanne, tende, circondata da un deserto arido dove a farla da padrona è una terra rossa che impregna l’aria e riempie i polmoni.

Di fronte a voi, ecco Dadaab, il più grande campo profughi dell’Africa che sorge nel Nord del Kenya, nell’Africa orientale.

Fondato nel 1991 dalla Croce rossa internazionale e gestito dal governo keniano e dall’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr), da allora ha continuato a ospitare un flusso imponente di somali in cerca di rifugio, inizialmente dagli scontri tra le milizie claniche seguiti alla deposizione del presidente somalo Mohamed Siad Barre, poi dalla violenza delle milizie fondamentaliste di al-Shabaab (cfr. MC maggio 2018) e dalla siccità.

Sono trascorsi 32 anni e, nonostante Dadaab fosse stato concepito come un’infrastruttura temporanea, la maggior parte dei rifugiati che vivono nell’insediamento è nata qui e qui ha sempre abitato. Dadaab è la loro città e, spesso, è l’unico posto che conoscono.

Refugees stand in line at Kenya’s sprawling Dadaab refugee complex during a visit of Pakistani activist for female education and the youngest-ever Nobel Prize laureate Malala Yousafzai organised by the UN High Commissioner for Refugees, in Garissa on July 12, 2016. (Photo by TONY KARUMBA / AFP)

I quartieri della «città»

Il campo si compone di cinque insediamenti principali, noti come Ifo, Dagahaley, Hagadera, Kambioos e Ifo 2. Ciascuno di essi ha il proprio centro sanitario, scuola e servizi di base. Negli anni scorsi, il campo ha ospitato fino a 500mila persone, scese poi a 250mila e risalite a 350mila negli ultimi sei mesi. Tanto è vero che il governo keniano ha ordinato la riapertura di due quartieri di Dadaab che erano stati chiusi nel 2019 a seguito della riduzione dei rifugiati per effetto di un programma di rimpatrio volontario in Somalia.

Il rapporto tra Kenya e Daadab è controverso. A più riprese i politici keniani hanno annunciato, anche a scopo di consenso elettorale, l’intenzione di chiudere il campo e rimpatriare i rifugiati in Somalia, ma l’Unhcr e altre organizzazioni umanitarie hanno sollevato preoccupazioni per la sicurezza dei rifugiati e per la situazione umanitaria in Somalia. Il campo di Dadaab è quindi rimasto aperto e, nel tempo, è diventato sempre più una questione urgente e complessa da gestire per la comunità internazionale.

Nel rapporto Emergency watchlist che ogni anno la Croce rossa internazionale stila per individuare quali sono i paesi a maggiore rischio di crisi umanitarie, la Somalia è al primo posto. Oltre duecentomila persone nel Paese stanno soffrendo le conseguenze di un aspro conflitto civile contro la milizia fondamentalista al-Shabaab, e questo numero, si prevede, triplicherà entro novembre 2023.

Al conflitto, che interessa soprattutto le regioni centrali e meridionali, si sta aggiungendo una forte siccità causata dalla quinta stagione consecutiva di scarse o nulle precipitazioni atmosferiche (le previsioni annunciano che anche il 2023 sarà asciutto). Ciò ha provocato una diffusa insicurezza alimentare e una forte dipendenza dalle importazioni di cibo dall’estero. Anche queste, però, si sono ridotte per l’instabilità causata prima dalla pandemia di Coronavirus e poi dalla guerra tra Russia e Ucraina (tra i maggiori esportatori mondiali di cereali).

Di fronte a questa situazione drammatica, migliaia di famiglie abbandonano le loro case cercando rifugio in altre zone del Paese o all’estero.

Fuga dalla Somalia

Le storie di chi arriva a Dadaab sono drammatiche. Dekow Derow Ali, padre di quattro figli, faceva affidamento sui suoi raccolti e sul suo bestiame per sostenere la famiglia. Ma tre anni senza pioggia hanno distrutto i suoi mezzi di sostentamento. «Si piantano i semi, ma poi non c’è nulla da raccogliere – ha detto in un colloquio con i responsabili dell’Unhcr, agenzia Onu per i rifugiati -. Le mie mucche sono morte all’inizio della siccità. Ho perso anche alcune capre». Allora Dekow ha venduto le capre rimaste e, con i soldi ricavati, ha pagato il trasporto per sé e la famiglia fino a Dadaab. «Sono venuto senza nulla, tranne i miei figli», ha detto.

Come lui, almeno 80mila somali hanno deciso di attraversare il confine e rifugiarsi a Dadaab negli ultimi due anni, di cui circa 45mila sono arrivati nel solo 2022. Molti di essi non hanno niente. Sopravvivono grazie agli aiuti internazionali e sono costretti ad abitare in sistemazioni di fortuna in attesa di ricevere lo status di rifugiato.

«Nelle grandi tende che li ospitano – spiega Andrea Bianchessi di Avsi, Ong italiana che da anni lavora nel campo – le condizioni di vita non sono ottimali. Una volta che hanno ottenuto il riconoscimento di rifugiati, viene loro assegnato uno spazio all’interno del campo e vengono dati loro strumenti e materiali per costruire abitazioni più confortevoli.

Young Somali refugees sit with their families, who have volunteered to be repatriated back to Somalia from the Dadaab refugee camp in northern Kenya, prior to a visit by the Canadian Minister for Immigration, Refugees and Citizenship and the UN High Commissioner for Refugees in Dadaab on December 19, 2017. (Photo by TONY KARUMBA / AFP)

Nutrire Dadaab

Per il cibo, i rifugiati possono far conto su quello distribuito dal Programma alimentare mondell’diale, un’agenzia Onu. «Ricordo le lunghe code per la distribuzione delle razioni sotto il sole, in mezzo alla polvere – osserva Angelo Pittaluga, ex direttore del Jrs Kenya (Jesuit refugee service, Ong di emergenza dei gesuiti, ndr) e ora responsabile dell’advocacy del Jrs -. Sono distribuzioni mensili che, nel tempo, si sono ridotte a causa della contrazione dei fondi a disposizione delle organizzazioni internazionali. La nuova emergenza umanitaria in Europa ha drenato fondi per l’Africa e a pagarne le spese sono state le popolazioni più svantaggiate come quelle che vivono nei campi profughi».

Hussein Ibrahim Mohamed è stato tra i primi ad arrivare nel 1992. Ora, in qualità di operatore comunitario, sta aiutando i nuovi arrivati ad ambientarsi. «Queste persone si trovano in una situazione difficile – ha detto in un colloquio con i responsabili dell’Unhcr -. Hanno viaggiato molto lontano. Così ho deciso di chiedere in giro dei contributi, in denaro o in vestiti. Ho una parte del denaro donato e ho intenzione di comprare delle lenzuola di plastica per loro».

Aiuti «distratti»

A Dadaab, l’Unhcr fornisce alle famiglie assistenza in denaro, acqua potabile e strutture igieniche, oltre a servizi mirati per i più vulnerabili, come i bambini malnutriti. Le risorse sono però limitate. «Per rispondere a questa situazione stiamo utilizzando solo le scarse risorse che abbiamo per i nostri programmi regolari – ha dichiarato Martha Kow Donkor, responsabile dell’Unhcr per la protezione delle comunità -. I bisogni sono molto elevati e stiamo facendo appello ai donatori affinché forniscano maggiori finanziamenti».

Attualmente i principali donatori sono gli Stati Uniti, l’Unione europea e i paesi del Golfo Persico, che garantiscono abitualmente il 40% circa degli 80-100 milioni di dollari necessari per gestire Dadaab ogni anno.

«I contributi sono però precipitati drasticamente nell’ultimo anno, con il mondo distratto dalla guerra in Ucraina – ha detto Guy Avognon, capo delle operazioni dell’agenzia per Dadaab in un’intervista al Wall street journal -. Quest’anno, si prevede che le donazioni copriranno solo il 27% dei 102 milioni di dollari necessari».

Di fronte alla mancanza di tutto scatta, però, una gara di solidarietà. Khadija ha raccontato di essere stata accolta a braccia aperte dai rifugiati che già vivono a Dadaab, compreso un parente che le ha costruito un rifugio. «Ma non abbiamo cibo, né un riparo, né latrine», ha detto. Lo scorso anno il sovraffollamento e la mancanza di strutture igieniche nel campo hanno contribuito a un’epidemia di colera, con quasi 500 casi identificati dalla fine di ottobre, molti dei quali bambini.

Tra i minori è molto diffusa anche la malnutrizione. In una nota diffusa a gennaio, Medici senza frontiere (Msf) ha affermato che la sua struttura sanitaria a Dagahaley, un campo nel complesso profughi di Dadaab, ha curato il 33% in più di pazienti – principalmente bambini – per mancanza o scarsità di cibo nell’ultimo anno, mentre il tasso di malnutrizione nei campi è cresciuto del 45% negli ultimi sei mesi del 2022. «Abbiamo dovuto estendere il reparto per ospitare questo numero di bambini – ha dichiarato Kelly Khabala, vice coordinatore medico di Msf -. Le condizioni di vita nel campo ora non sono accettabili».

Su Dadaab grava anche lo spettro di al-Shabaab. La milizia jihadista somala affiliata ad al-Qaeda effettua continui attacchi sul lato keniano del confine, che dista circa 45 miglia dal campo, piazzando bombe lungo la strada e sparando alle stazioni di polizia. Gli operatori umanitari si muovono a Dadaab scortati dalla polizia armata di fucili militari, anche se le stesse forze di sicurezza sono spesso bersaglio di attacchi fuori dai campi.

Dadaab è anche un luogo in cui i miliziani fondamentalisti arruolano ragazzi per ingrossare le loro fila.

A Somali refugee walks along a dirt road in nothern Kenya’s Dadaab refugee camp near a rehabilitation centre for refugee women-survivors of Gender-based violence (GBV) on December 19, 2017. – The sprawling Dadaab complex 100 kilometres (60 miles) from Kenya’s border with Somalia has housed Somali refugees for around 26 years. There were about 239,500 people in Dadaab at the end of September, according to UN figures. The population peaked at around 485,000 in 2012 following a new influx after famine in Somalia. (Photo by TONY KARUMBA / AFP)

Istruzione, arma di riscatto

A lanciare segnali di speranza sono le Ong che lavorano all’interno del campo. Avsi e Jrs da anni ormai seguono programmi formativi a Dadaab, ma anche nel campo «gemello» di Kakuma (che si trova più a nord, verso il confine con il Sud Sudan, in condizioni non dissimili rispetto a quelle di Dadaab).

L’educazione dei più piccoli e la formazione degli insegnanti sono una scommessa sul futuro. «Lavoriamo a Dadaab dal 2009 – osserva Andrea Bianchessi -. In questi anni ci siamo occupati della scuola primaria. Abbiamo seguito almeno 30mila ragazzi e ragazze e abbiamo formato 3.500 insegnanti. L’educazione di base è fondamentale per garantire un futuro meno duro a questi giovani. È per questo motivo che abbiamo offerto questi stessi servizi formativi anche alle popolazioni keniane che vivono nei dintorni del campo, per non creare disparità tra chi vive dentro e chi vive fuori».

Un progetto complesso quello di Avsi che prevede programmi scolastici elaborati in coordinamento con le autorità keniane e somale, in modo che i ragazzi e le ragazze somale che dovessero rientrare in patria possano comunque vedere i loro studi riconosciuti. Un progetto che prevede anche la nascita di gruppi scout che impegnano i più piccoli e gli adolescenti in attività extrascolastiche ricreative. «Gli scout impegnano utilmente il tempo libero, ma non solo – continua Bianchessi -. Si pensi che, grazie alle loro attività, sono riusciti a entrare in contatto con 5mila coetanei e a convincerli a tornare a scuola. Un lavoro preziosissimo».

Il Jrs invece si è concentrato sulla scuola secondaria, soprattutto a Kakuma. «La nostra organizzazione si è presa in carico la formazione superiore – osserva Pittaluga -. Sono servizi che dovrebbero essere garantiti a tutti. Ma, anche in questo caso, i finanziamenti delle organizzazioni internazionali non sempre sono sufficienti. Per pagare gli insegnanti e il materiale didattico stiamo quindi lavorando per raccogliere fondi e coprire le necessità di base delle scuole. Un compito non sempre semplice».

Il futuro per decine di migliaia di persone che vivono nel Corno d’Africa è ancora precario.

Il Kenya settentrionale e la Somalia sono stati duramente colpiti dalla peggiore siccità che abbia interessato l’Africa orientale negli ultimi 40 anni. La regione si sta preparando alla sua sesta stagione delle piogge con scarse o nulle precipitazioni. La guerra in Somalia non sembra essere alle battute finali. Difficilmente il campo sarà smantellato. Anzi. Dadaab, nella sua drammatica precarietà, sembra tuttora essere un’ancora di salvezza per molte famiglie.

Enrico Casale




Honduras. Maestri coraggiosi


L’infiltrazione negli istituti scolastici delle bande Mara Salvatrucha e Barrio 18 è un dato di fatto. Per questo, insegnare nelle scuole del paese centroamericano è una sfida che pone in rischio la vita stessa.

Dall’altra parte dello schermo di un computer, il sorriso di Rodrigo Pineda (nome di fantasia per questioni di sicurezza, ndr), direttore di una scuola pubblica honduregna, supera i circa 10mila km che ci separano diffondendo calma anche nello spazio virtuale di una videochiamata su Zoom.

Rodrigo vive a Tegucigalpa, capitale dell’Honduras, e 20 anni fa ha deciso di diventare professore e poi dirigente scolastico di uno dei tanti istituti comprensivi del paese che, in genere, includono le scuole di primo e di secondo grado (6-17 anni).

Il giorno in cui ha deciso di rispondere alla vocazione per l’insegnamento sapeva che, oltre alle sfide educative, avrebbe dovuto accettare anche il rischio personale che questa professione porta con sé, almeno nei casi in cui bisogna esercitarla nei quartieri più poveri della capitale honduregna, controllati e messi a ferro e fuoco dalle bande Mara Salvatrucha (Ms-13) e Barrio 18.

E di fatti, ogni volta che il professor Pineda metteva piede nella propria scuola, prima che la pandemia costringesse alunni e insegnanti a vivere di didattica online, doveva far leva su tutto il suo coraggio per affrontare non solo le ore di lezione ma anche i criminali affiliati alle due bande che, da sempre, utilizzano le scuole pubbliche a proprio uso e consumo. Ormai da anni, i leader delle gang minacciano fisicamente i dirigenti scolastici per ottenere le chiavi degli istituti, dove di notte entrano per nascondere droga e armi nelle aule meno frequentate. Non era raro, infatti, che, al mattino, i bambini si imbattessero in un pacchetto di cocaina o in qualche proiettile nei corridoi, mentre si dirigevano verso le aule scolastiche. Tuttavia, la Mara Salvatrucha e Barrio 18 non sono mai state interessate agli istituti scolastici in quanto edifici. Il loro interesse è reclutarne i frequentatori. Spesso fermi davanti ai cancelli delle scuole, i membri delle due bande rivali cercavano di agganciare ragazze e ragazzi in età scolare. Questa forma di affiliazione, quasi sempre forzata, ha funzionato fino a marzo 2020 e, dal 18 aprile del 2022, giorno in cui – dopo due anni di pandemia – le classi di ogni istituto sono tornate alla didattica in presenza, rischia di riprendere a essere una pericolosa routine.

Personale forense trasporta il corpo di uno studente ucciso dai membri di una banda su un bus di Tegucigalpa (15 febbraio 2017). Foto Orlando Sierra – AFP.

Mara Salvatrucha e Barrio 18

Mara Salvatrucha (Ms-13) e Barrio 18 sono le due più grandi organizzazioni malavitose dell’America Centrale che, da decine di anni, alimentano una guerra intestina non solo in Honduras, Guatemala e Salvador, ma in parte anche negli Stati Uniti e in Canada, con l’obiettivo di controllare il monopolio del traffico di droga e armi e di gestire il giro dell’estorsione e della tratta a fine di prostituzione.

Le due bande criminali, in spagnolo chiamate maras o pandillas, nascono tra gli anni Settanta e Ottanta a Los Angeles, negli Stati Uniti. La cifra presente nel loro nome, «13» e «18», fa riferimento, infatti, al numero delle due strade della città californiana in cui vivevano e operavano i fondatori delle due gang. Entrambe le bande accoglievano migranti messicani e centroamericani e si sono diffuse nei loro paesi di origine a partire da metà degli anni Ottanta, quando, a causa di un indurimento delle politiche migratorie operato da Reagan e successivamente da Bush, sono aumentate in maniera esponenziale le deportazioni di persone arrivate sul territorio statunitense senza permesso di soggiorno, anche in giovane età. Attraverso questa operazione, una buona parte delle cellule attive delle due bande si sono ritrovate, dalla mattina alla sera, tra Salvador, Honduras e Guatemala, dove hanno continuato a crescere, diventando in breve tempo una presenza forte e strutturata tanto da sostituirsi allo stato, soprattutto nelle zone marginali e povere dove gestiscono ogni tipo di business, lecito o illecito.

Il reclutamento forzato

Per mantenere forti le maras e farle crescere, i loro leader devono reclutare continuamente nuovi membri, ragazzi da iniziare a piccole o grandi attività criminose, che possono variare dalla riscossione del pizzo nei negozi di quartiere fino alla gestione dell’intero traffico di droga verso il Nord America. Per questo motivo, alcuni membri delle gang hanno cominciato a prendere di mira le scuole più povere, cercando di convincere, con le buone o le cattive, ragazze e ragazzi tra i 10 e i 14 anni a unirsi a loro.

«Un giorno un pandillero (un membro di una banda, ndr) mi ha detto che le scuole sono praticamente il loro “incubatore”, la loro “serra”, dove crescono i loro futuri adepti. Sono i bambini più poveri, orfani o provenienti da famiglie disgregate che rischiano maggiormente di essere forzati a unirsi a loro. Quasi la metà dei miei studenti vive con un nonno o uno zio, perché i genitori sono morti o migrati negli Stati Uniti. Alcuni ragazzi vedono las maras come l’unica opzione di guadagno facile, ma molti, invece, ci chiedono aiuto. Ed è proprio per loro che scendiamo in strada e proviamo a dialogare con i capi delle bande per convincerli a lasciare stare i nostri studenti», dice Rodrigo Pineda.

Tipico gesto giovanile. Foto Karsten Winegeart – Unsplash.

Docenti assassinati

Migliaia di docenti honduregni (insegnanti, presidi, uomini e donne) hanno cercato di proteggere i loro studenti, in particolare i bambini e le ragazze, spesso vittime di rapimento anche a scopo di sfruttamento sessuale. Tuttavia, questo coraggio è costato la vita a più di 100 insegnanti fino a oggi. Secondo gli ultimi dati ufficiali elaborati dalla Commissione nazionale per i diritti umani dell’Honduras, solamente tra il 2010 e il 2017, las maras hanno ucciso 90 docenti.

Lo sa bene il preside Alberto Herrera (nome di fantasia, ndr), 52 anni di età e 32 anni di servizio nelle scuole, prima come maestro e negli ultimi anni come direttore didattico, che più di una volta nella sua vita ha dovuto ascoltare alla radio o leggere sui giornali la triste notizia dell’omicidio di un collega.
«Il problema è che alcuni studenti sono figli dei leader delle bande. In questo caso dobbiamo fare molta attenzione, perché spesso i genitori ci insultano, ci minacciano o ci aggrediscono se diamo un brutto voto a uno dei loro ragazzi – racconta Alberto -. Qualche anno fa, un’insegnante ha cercato di placare una rissa tra due ragazze e il padre di una di loro ha interpretato questa intromissione come un’umiliazione, per cui si è presentato a scuola e ha sparato al collega di fronte agli studenti durante l’intervallo».

In fuga dalle città

Rischiare la vita per fare il proprio mestiere non è accettabile per nessuno, in particolare per i più giovani, che spesso decidono di abbandonare la professione e la propria casa per sfuggire alle minacce e migrare verso le zone rurali del paese che hanno una percentuale di conflittualità inferiore a quella delle grandi città. Secondo gli ultimi dati dell’Unhcr, l’agenzia delle Nazioni Unite che protegge i diritti dei rifugiati politici e, nel caso dell’Honduras, anche degli sfollati interni, negli ultimi cinque anni, 269 insegnanti hanno deciso di migrare all’interno del paese a causa della violenza delle gang, una violenza che, tra il 2014 e il 2018, ha interessato 247.090 persone honduregne, pari al 2,7% della popolazione.

«Questa gentaglia entra di notte nelle nostre scuole per nascondere armi e droga e di giorno spesso sentiamo il rumore di sparatorie in mezzo alla strada di fronte alla scuola. In questi casi attuiamo il protocollo di sicurezza, che significa rimanere in classe anche fino a sera e lasciare uscire i bambini solamente quando le strade sono libere», continua Pineda.

Rodrigo Pineda e Alberto Herrera sono parte attiva del Comitato di docenti (Comité de docentes), un’organizzazione di insegnanti che si batte per promuovere un’istruzione di qualità e sradicare la violenza dalle scuole. Il Comitato è sostenuto dall’Unhcr e dall’Ong Save the children che, nel 2018, ha prodotto un rapporto di denuncia sulla grave situazione di violenza nelle scuole di cui sono vittime studenti e docenti. Questi ultimi, in Honduras, sono considerati la terza categoria professionale più esposta alle brutalità delle bande. «Gli insegnanti sono tra le vittime designate dalle bande, insieme ai gestori dei trasporti pubblico-privati e agli imprenditori – afferma Vanessa Paguada, coordinatrice di Save the children del progetto di protezione dei bambini e dei giovani, in collaborazione con l’Unhcr – i professori subiscono vari tipi di abusi, tra cui estorsione, furto e violenze fisiche o sessuali. Il fatto è che le bande li vedono come un ostacolo da eliminare perché si oppongono al reclutamento dei giovani. In qualche modo sfidano le bande proteggendo i ragazzi e questo affronto è inaccettabile per il codice d’onore delle maras».

Uomini della polizia honduregna arrestano membri appartenenti alla Mara Salvatrucha (Ms-13) a San Pedro Sula (17 febbraio 2017). Foto Jordan Perdomo – AFP.

Collusione polizia e «maras»

Neppure durante la pandemia c’è stata pace, molti insegnanti, infatti, sono stati vittime anche di violenza informatica e di estorsioni online. «Questi criminali sono arrivati a chiederci anche di ricaricare le loro carte di credito e di pagare internet ai loro figli. Ovviamente – spiega il professor Pineda – lo abbiamo fatto, perché temiamo per la nostra vita e soprattutto per quella dei nostri figli e delle nostre famiglie. Il problema è che non possiamo neppure denunciare, perché tutti qui sanno che la polizia è collusa con le maras. Anzi, spesso alcuni pandilleros diventano poliziotti. Non c’è un luogo libero dalla prevaricazione di queste persone. Sono ovunque».

La mancanza di fiducia nelle istituzioni trova una ragione in più nel recente arresto, e successiva estradizione, dell’ex presidente Juan Orlando Hernández, accusato dagli Stati Uniti di legami diretti con il narcotraffico.

Durante il suo mandato, Hernández ha ordinato la militarizzazione di numerosi centri educativi, in seguito alla morte di alcuni docenti e studenti.

«Lo stato fornisce misure palliative, ma non ha mai provato a risolvere il problema alla radice. La polizia rimane a pattugliare le scuole per un po’ e poi se ne va, lasciando il campo libero alle maras, che tornano più forti e arrabbiate di prima e la violenza contro di noi e gli studenti aumenta», spiega Alberto Herrera.

Di fatto la militarizzazione del territorio voluta dall’ex presidente ha spesso portato a scontri tra esercito e pandillas che hanno coinvolto anche passanti, gente comune e studenti, braccati sotto un fuoco incrociato. Questa situazione di guerra latente ha trasformato le strade dei quartieri più poveri di Tegucigalpa in veri e propri campi di battaglia senza né vinti né vincitori, ma con un numero elevato di morti innocenti.

Record di morti

I bambini e i giovani che rifiutano il reclutamento forzato stanno di fatto sfidando – anche inconsapevolmente – i capi delle bande, che puniscono questa audacia con la morte. Una vita breve però fa parte del destino anche di chi invece sceglie di unirsi a una banda, perché è consuetudine che siano proprio i più giovani e inesperti pandilleros a essere uccisi in rapine e scontri con la polizia. Con un tasso di 30 omicidi di minori ogni 100mila abitanti, l’Honduras detiene il record mondiale di bambini e adolescenti assassinati, secondo quanto riportato da un’indagine svolta da Save the children nel 2017.

Intrappolati in una situazione di violenza claustrofobica, molti giovani honduregni sono costretti ad abbandonare la scuola e le loro case e a scappare da un parente prossimo che vive in zone rurali del paese, o, più frequentemente, verso gli Stati Uniti, sommandosi all’enorme numero di minori non accompagnati che migrano dall’America Centrale.

Secondo gli ultimi dati della US Customs and border protection, l’agenzia di dogana degli Stati Uniti, da ottobre a maggio 2022 sono arrivati alla frontiera meridionale più di 100mila minori in viaggio da soli, il 23% dei quali sono honduregni.

Membro di una banda mostra la pistola. Foto Nathan Costa – Unsplash.

Dispersione scolastica

Negli ultimi due anni, in Honduras il tasso di dispersione scolastica è salito alle stelle. Circa il 40% degli studenti, infatti, ha abbandonato la scuola nel 2020, a causa dell’insicurezza, ma anche del peggioramento delle condizioni economiche dovuto alla pandemia e agli effetti degli uragani Eta e Iota (del novembre 2020). Oggi il 70% della popolazione honduregna vive in situazione di povertà.

In questo panorama, un buon numero di studenti di Rodrigo e Alberto ha lasciato la scuola per iniziare a lavorare informalmente, altri sono rimasti e alcuni sono migrati, ma sono riusciti a frequentare le lezioni collegandosi online dai campi di migranti in Messico, riuscendo addirittura a terminare l’anno scolastico. «Io dico sempre che noi docenti cerchiamo di fare un buon lavoro in mezzo a un campo minato. Provo una grande soddisfazione quando incontro ex studenti che sono già adulti e hanno terminato gli studi e ora lavorano onestamente, o quando vedo un bambino che partecipa alle lezioni nonostante stia migrando da solo verso gli Stati Uniti. Per loro e solo per loro continuiamo a rischiare la vita e a lottare per fare in modo che abbiano la migliore educazione possibile anche in mezzo a tutte queste difficoltà», conclude Alberto Herrera.

Simona Carnino

Aggregazione di giovani su una strada. Foto Brian Lundquist – Unsplash.


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