Anno 2019: oggi schiavi

Testi e foto di Anna Pozzi


Sommario


La tratta e l’attualità dello sfruttamento in Italia:

La schiavitù non è finita

La tratta di esseri umani è uno dei crimini più gravi. Oggi, nel mondo, circa 40 milioni di persone ne sono vittime. E l’Italia non ne è esente, anzi, cresce la tratta negli ambiti dello sfruttamento sessuale, agricolo e domestico. Questo fenomeno è diverso dal traffico dei migranti. Il decreto sicurezza del governo gialloverde complica ulteriormente la situazione, rendendo ancora più vulnerabili i soggetti deboli.

La tratta degli esseri umani e la riduzione in schiavitù delle persone non è un fenomeno relegabile a una pagina chiusa della storia. È una questione di grandissima e terrificante attualità che riguarda anche l’Italia come paese di origine, transito e destinazione dei nuovi schiavi.

La tratta degli esseri umani, infatti, è un fenomeno globale che – secondo le Nazioni unite – riguarda tutti i paesi del mondo. Un fenomeno tragico e complesso che coinvolge milioni di donne, uomini e bambini, usati principalmente come manodopera a bassissimo costo o sfruttati sessualmente. La tratta oggi è uno dei crimini più spaventosi e una delle più gravi violazioni dei diritti umani: un «crimine contro l’umanità», lo ha definito papa Francesco che non si stanca di denunciare le nuove orribili pratiche di schiavitù e di invitare tutti a liberare e proteggere le vittime.

Ma come si configura oggi il fenomeno della tratta di esseri umani? Per molti versi non diversamente da come si realizzava nei secoli passati il traffico degli schiavi africani verso le Americhe. Ovvero attraverso tre passaggi: quello del reclutamento, quello del trasferimento e quello del grave sfruttamento. Il «Protocollo delle Nazioni unite sulla prevenzione, soppressione e persecuzione del traffico di esseri umani, in particolar modo donne e bambini», conosciuto come Protocollo di Palermo, messo a punto nel 2000 ed entrato in vigore nel dicembre del 2003 – definisce i termini e la complessità di questo fenomeno.

La definizione della tratta

«Tratta di persone indica il reclutamento, trasporto, trasferimento, l’ospitare o accogliere persone, tramite la minaccia o l’uso della forza o di altre forme di coercizione, di rapimento, frode, inganno, abuso di potere o di una posizione di vulnerabilità o tramite il dare o ricevere somme di danaro o vantaggi per ottenere il consenso di una persona che ha autorità su un’altra a scopo di sfruttamento. Lo sfruttamento comprende, come minimo, lo sfruttamento della prostituzione altrui o altre forme di sfruttamento sessuale, il lavoro o i servizi forzati, la schiavitù o pratiche analoghe, l’asservimento o il prelievo di organi […] Il consenso della vittima della tratta di persone allo sfruttamento di cui [sopra] è irrilevante nei casi in cui qualsivoglia dei mezzi di cui sopra sia stato utilizzato».

Protocollo di Palermo, 2000. Protocollo delle Nazioni Unite
sulla prevenzione, soppressione e persecuzione del traffico di esseri umani,
in particolar modo donne e bambini.

Nel mondo: chi sono

Secondo l’Ufficio Onu contro la droga e il crimine (Unodc), circa 40 milioni di persone nel mondo sono vittime di tratta, prevalentemente a scopo di sfruttamento sessuale (59%) e lavoro forzato (34%), ma anche per altre finalità: espianto di organi, accattonaggio forzato, servitù domestica, matrimoni forzati (12 milioni di bambine ogni anno), reclutamento di bambini soldato o per gruppi terroristici, adozioni illegali e gravidanze surrogate commerciali.

Nel presentare il rapporto globale di Unodc, lo scorso 7 gennaio, il direttore esecutivo, Yury Fedotov, ha sottolineato due trend inquietanti emersi dalle informazioni raccolte in 142 paesi e specialmente nelle zone di conflitto: «Bambini soldato, lavoro forzato e schiavitù sessuale – la tratta di esseri umani ha assunto dimensioni orribili da quando gruppi armati e terroristi la utilizzano per diffondere paura e ottenere vittime da offrire come incentivi per reclutare nuovi combattenti», ha affermato. «Questo rapporto mostra che dobbiamo intensificare l’assistenza tecnica, rafforzare la cooperazione, sostenere tutti i paesi per proteggere le vittime e assicurare i criminali alla giustizia e raggiungere gli obiettivi di sviluppo sostenibile».

Purtroppo, anche il paradigma delle cosiddette «quattro P» – prevenzione, protezione, persecuzione e partenariato -, condiviso a livello internazionale per la prevenzione del fenomeno, la protezione delle vittime, il perseguimento giudiziario dei criminali e la promozione di un lavoro più coordinato e in rete tra stati, ma anche tra pubblico e privato, viene disatteso a più livelli. La dimostrazione è che il fenomeno non solo continua a crescere, ma si aggrava, coinvolgendo, ad esempio, un numero sempre maggiore di minorenni. È questo l’altro elemento inquietante che emerge dall’ultimo rapporto di Unodc: un terzo delle vittime del traffico di esseri umani è costituito da bambini, il 5% in più rispetto al periodo compreso tra il 2007 e il 2010. Le bambine rappresentano più dei due terzi dei minori coinvolti (il 23% del totale) e il loro numero è in crescita: con le donne rappresentano il 72% delle vittime. Negli ultimi trent’anni, circa 30 milioni di bambini sono stati coinvolti nella tratta; molti di più, circa 152 milioni – secondo l’Organizzazione internazionale per il lavoro (Ilo) – sono schiavi nei loro stessi paesi di origine. Non sono, dunque, «tecnicamente» vittime di tratta, ma sono comunque costretti a lavorare in condizioni servili e di grave sfruttamento specialmente nei settori dell’agricoltura (70.9%), dei servizi (17.1%) e dell’industria (11.9%).

Lagos

Il traffico e la tratta di esseri umani

Anche l’Italia non può dirsi un paese libero dalle nuove schiavitù. E non da oggi.

Il fenomeno si è strutturato nell’arco di oltre trent’anni, ma ha assunto proporzioni più rilevanti negli ultimi tempi, in seguito all’arrivo di migliaia di migranti sulle coste meridionali del nostro paese. Tra di loro ci sono anche molte vittime di tratta, in particolare giovani donne nigeriane che vengono poi costrette a prostituirsi.

Bisogna però distinguere fra traffico e tratta. Secondo Europol, circa il 90% di coloro che hanno raggiunto l’Europa in questi ultimi anni lo ha fatto affidandosi a criminali (smuggler o passeur) che, in cambio di soldi, ha permesso loro di superare le frontiere degli stati dell’Est Europa o di attraversare il Sahara e il Mediterraneo. La fuga dei siriani dal loro paese in guerra – per fare un esempio – poteva arrivare a costare anche 10mila euro a testa.

Solo nel 2015, il traffico di migranti (smuggling) da Medio Oriente e Africa ha fruttato al crimine organizzato circa 6 miliardi di euro. Europol stima che questo business illegale sia il più lucrativo nel Vecchio Continente, ancor più del traffico di droga, e che vi sarebbero implicati circa 30mila trafficanti.

La tratta (trafficking) prevede non solo il traffico, ma il grave sfruttamento: ovvero la riduzione delle vittime in una condizione di vera e propria schiavitù. In Italia, il fenomeno riguarda soprattutto

due macro aree: quella dello sfruttamento sessuale e quella dello sfruttamento lavorativo. Anche se sono presenti situazioni gravi riguardanti l’accattonaggio forzato (in crescita), l’espianto di organi, le adozioni illegali e la servitù domestica.

Quello della tratta e dello sfruttamento sessuale in Italia è una piaga che riguarda dalle 30 alle 50mila donne straniere, tra le quali un numero significativo di nigeriane, ma anche di ragazze provenienti dall’Europa dell’Est, dall’America Latina e dalla Cina. Negli ultimi tempi, tuttavia, il fenomeno ha assunto caratteristiche inedite, soprattutto in seguito allo sbarco massiccio di migliaia di giovani nigeriane arrivate attraverso la rotta del Sahara, della Libia e del Mediterraneo centrale.

A partire dal 2014, e con punte record nel 2016 (11mila), il numero delle donne nigeriane è aumentato esponenzialmente. Sono, oltre 20mila, infatti, quelle arrivate con gli sbarchi, e tra di loro un numero significativo di minorenni e di donne incinte o con bambini molto piccoli.

La maggior parte – seguendo le istruzioni dei trafficanti – ha fatto richiesta di asilo ed è finita nei centri di accoglienza straordinari (Cas) o nel sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati (Sprar), in attesa del riconoscimento della protezione umanitaria (abolita dal decreto sicurezza, 5 ottobre 2018, poi trasformato in legge il 27 novembre) o dell’asilo. Mentre si trovavano in queste strutture – che per loro natura non sono ad alta protezione -, i trafficanti hanno trovato il modo di costringere molte di queste donne a prostituirsi per restituire un «debito» che attualmente si aggira in media attorno ai 25-30mila euro. Si tratta sostanzialmente della somma che queste donne riescono a racimolare nei tempi di permanenza nelle strutture (un anno e mezzo circa), mentre in passato, poteva anche andare dai 60 agli 80mila euro.

I trafficanti, in sostanza, hanno trovato il modo di «sfruttare» non solo le donne, ma anche il sistema di accoglienza italiano per realizzare i loro turpi guadagni.

Solo una piccola parte delle donne nigeriane sbarcate, infatti, sono state individuate come vittime di tratta o potenziali tali e indirizzate verso i percorsi specifici del «Piano nazionale anti tratta» che – messo a punto nel 2014 – è stato rifinanziato lo scorso marzo.

Agricoltura biologica? No, schiavista

In questi ultimi anni, si è molto aggravato in Italia anche il fenomeno dello sfruttamento lavorativo che, solo in campo agricolo, riguarda circa 132mila lavoratori. Si tratta in gran parte di giovani uomini immigrati, ma anche di italiani e italiane, che si trovano in condizioni di povertà, mancanza di opportunità e pesante vulnerabilità. Secondo il «Quarto rapporto agromafie e caporalato» pubblicato dell’Osservatorio Placido Rizzotto di Flai-Cgil del luglio 2018, sarebbero addirittura 400/430mila i lavoratori agricoli esposti al rischio di un ingaggio irregolare e sotto caporale. Non tutti possono essere definiti «vittime di tratta», perché tra essi si segnalano anche nostri connazionali, ma anche perché tra gli stessi migranti ci sono situazioni variegate e complesse. Tutti, però, possono essere considerati veri e propri «schiavi». Quando si parla di grave sfruttamento lavorativo, infatti, non si sta facendo riferimento semplicemente al lavoro nero. È lavoro in condizioni servili, in cui le persone sono private della loro libertà e dignità, subiscono abusi, minacce e ricatti, e ovviamente vengono retribuite in maniera del tutto inadeguata.

Oltre al settore agricolo, il lavoro in condizioni servili diffuso in tutto il paese riguarda diversi altri ambiti: edilizia, servizi domestici e di cura, settore turistico alberghiero, ristorazione, fabbriche e commercio ambulante.

La nuova legge sul caporalato dell’ottobre 2016 (n. 199), recante «Disposizioni in materia di contrasto ai fenomeni del lavoro nero, dello sfruttamento del lavoro in agricoltura e di riallineamento retributivo nel settore agricolo», riformula il reato di caporalato, introducendo una fattispecie base che prescinde da comportamenti violenti, minacciosi o intimidatori e prevede pene più severe (la reclusione da 1 a 6 anni) non solo per chi recluta la manodopera (il caporale vero e proprio), ma anche per chi utilizza, assume o impiega manodopera (ovvero il datore di lavoro), sottoponendo i lavoratori a condizioni di sfruttamento e approfittando del loro stato di bisogno.

Un aspetto interessante di questa legge è il fatto che i proventi delle confische vengono assegnati al fondo anti tratta, le cui finalità sono state estese anche alle vittime del delitto di caporalato (oltre che alle vittime di sfruttamento sessuale): le due situazioni, infatti, sono ritenute simili, anche perché spesso le persone sfruttate nei lavori agricoli vengono reclutate usando mezzi illeciti come la tratta di esseri umani. Inoltre, in molti contesti, specialmente le donne subiscono una duplice forma di sfruttamento, lavorativo e sessuale. Nella provincia di Ragusa, solo per fare un esempio – migliaia di donne, in gran parte dell’Europa dell’Est, vivono segregate nelle campagne, spesso con figli piccoli, e lavorano per pochi euro nelle serre. E nel totale isolamento – anche se la cosa è stata denunciata più volte – subiscono ogni genere di violenza sessuale.

I danni del decreto sicurezza

L’entrata in vigore del decreto sicurezza ha ulteriormente complicato la situazione, creando un clima di grande confusione se non addirittura di criminalizzazione delle vittime. Un esempio è l’abrogazione del permesso di soggiorno per motivi umanitari, che veniva riconosciuto alla maggioranza delle donne nigeriane vittime di tratta o potenziali tali, che oggi rischiano di ritrovarsi in una situazione di irregolarità e dunque di maggiore vulnerabilità rispetto alle reti criminali. Inoltre, l’impossibilità d’iscrizione anagrafica dei richiedenti asilo (e tra questi molte vittime di tratta), in attesa dell’audizione presso la commissione territoriale, fa sì che molti di loro si ritrovino in una situazione di ulteriore precarietà, non potendo accedere all’assistenza sanitaria, al sistema di welfare, a percorsi di formazione o ad altri servizi, finalizzati all’inserimento socio-lavorativo nel nostro paese. Infine, il processo di trasformazione degli Sprar (sistema di protezione dei richiedenti asilo e rifugiati), che hanno accolto anche molte vittime di tratta seppure non identificate necessariamente come tali, in Siproimi (sistema di protezione per titolari di protezione internazionale e per minori stranieri non accompagnati) e il relativo taglio dei fondi, sta contribuendo ad accentuare il clima di confusione e di incertezza. Da tutto ciò non traggono certamente beneficio le vittime di tratta, ma anche tutti coloro che stanno lavorando per realizzare significativi ed effettivi cammini di formazione e integrazione. Per non parlare del fatto che – specialmente nel caso delle donne nigeriane – molte di coloro che sono vittime di un crimine gravissimo, non solo non vengono identificate come tali, ma si ritrovano private di alcuni diritti fondamentali.

Ed è proprio questo uno dei temi centrali che deve essere messo a fuoco quando si parla di tratta e di grave sfruttamento: quello dei diritti umani. La tratta, secondo gli esperti dell’Unione europea, si realizza «attraverso la considerazione e il trattamento di esseri umani alla stregua di proprietà private o merci di scambio, deprivando l’individuo della possibilità di fruire dei diritti che invece gli sono garantiti costituzionalmente. In questo senso, la tratta viola la dignità e il diritto dell’autodeterminazione della persona. Uno stato che non agisce per prevenire e combattere la tratta di esseri umani viola indirettamente i diritti umani della persona trafficata».

Di conseguenza, anche tutte le azioni di prevenzione, contrasto e protezione delle vittime devono necessariamente tenere al centro la questione dei diritti umani e il rispetto della dignità della persona, specialmente quando si ha a che fare con minori, che richiedono una particolare tutela. Per tutte queste ragioni, il fenomeno della tratta non può essere semplicemente ricondotto a un problema di migrazione, di ordine pubblico o di criminalità organizzata. Ma è, innanzitutto, una questione di dignità e diritti fondamentali di tutti e di ciascuno.


Una piaga del mondo moderno

Cosa mette in campo la chiesa per combattere la tratta

«Un reato di lesa umanità», definisce così la tratta papa Francesco. Le religiose rispondono all’appello del pontefice a combattere questo flagello nutrendo una rete, nata 10 anni fa, attiva in 70 paesi dei 5 continenti. Si occupano di protezione delle vittime ma anche di fare pressione per avere leggi più idonee. E la Chiesa istituzione si dota di Orientamenti pastorali sulla tratta di persone.

«La tratta di esseri umani è una piaga nel corpo dell’umanità contemporanea, una piaga nella carne di Cristo». In moltissime occasioni papa Francesco, sin dall’inizio del suo pontificato, si è espresso chiaramente per denunciare la tratta di esseri umani, un fenomeno che lui stesso ha definito «una delle ferite più dolorose, una moderna forma di schiavitù, che viola la dignità, dono di Dio, in tanti nostri fratelli e sorelle».

Per questo il pontefice ha spronato la Chiesa tutta a «intervenire in ogni fase della tratta degli

esseri umani», per «proteggerli dall’inganno e dall’adescamento; per trovarli e liberarli quando vengano trasportati e ridotti in schiavitù; per assisterli una volta liberati».

Su questo tema papa Francesco ha scritto anche diversi documenti, a cominciare dal testo della Giornata mondiale della Pace del 2015, significativamente intitolato «Non più schiavi, ma fratelli», in cui ha chiesto a tutti una «mobilitazione di dimensioni comparabili a quelle del fenomeno stesso». Nel messaggio, papa Francesco parla della schiavitù come di un «reato di lesa umanità», che continua a interessare, ancora oggi, «milioni di persone – bambini, uomini e donne di ogni età – private della libertà e costrette a vivere in condizioni assimilabili a quelle della schiavitù».

Nel settembre dello stesso anno, partecipando all’Assemblea generale delle Nazioni unite, papa Francesco ha ammonito tutti i leader della terra affinché di fronte a mali quali «la tratta degli esseri umani, il commercio di organi e tessuti umani, lo sfruttamento sessuale di bambini e bambine, il lavoro schiavizzato, compresa la prostituzione», non si risponda solo con vaghi «impegni assunti solennemente», ma si abbia «cura che le nostre istituzioni», come pure tutti i nostri sforzi, «siano realmente efficaci nella lotta contro tutti questi flagelli».

Le religiose scendono in campo

Ma se il monito del papa non è stato preso adeguatamente sul serio sul fronte delle grandi istituzioni internazionali, chi ha risposto prontamente al suo pressante appello è stato un altro network, quello delle religiose.

Impegnate in prima linea soprattutto nella prevenzione del fenomeno e nella protezione delle vittime, in Italia come in molti altri paesi del mondo, le religiose riunite nella rete di Talitha Kum – che fa riferimento all’Unione internazionale delle superiore generali (Uisg) – ha dato vita, già l’8 febbraio del 2015, alla prima Giornata mondiale di preghiera e riflessione contro la tratta di persone fortemente voluta da papa Francesco.

La Tratta nel mondoL’obiettivo di questa giornata – che ormai si celebra in diverse parti del mondo – è innanzitutto quello di creare maggiore consapevolezza sul fenomeno e far riflettere sulla situazione globale di violenza e ingiustizia che colpisce milioni di persone in tutto il pianeta. Al contempo, si vogliono indicare piste concrete per dare risposte efficaci. Per questo, da un lato, viene ribadita la necessità di garantire diritti, libertà e dignità alle persone trafficate e ridotte in schiavitù e, dall’altro, di denunciare sia le organizzazioni criminali sia coloro che usano e abusano della povertà e della vulnerabilità di queste persone per farne oggetti di piacere o fonti di guadagno.

«La tratta di persone ferisce con efferata violenza l’umanità – dice suor Gabriella Bottani, missionaria comboniana e coordinatrice di Talitha Kum -. Per questo noi, come religiose, continuiamo a portare avanti cammini di libertà e speranza attraverso gesti quotidiani di ascolto e incontro che curano innanzitutto la dignità ferita. Sono gesti sovversivi e di denuncia che contrastano il male della tratta di persone con il bene».

Suor Gabriella ha alle spalle una lunga esperienza nella rete anti tratta del Brasile, prima a Fortaleza e poi in Amazzonia, dove si è resa conto, incontrando personalmente anche molte vittime, di come «tutto è sfruttato, al punto che non ci si rende più nemmeno conto che gli uomini stessi sono sfruttati». Rientrata in Italia, suor Gabriella coordina, dal 2015, il network internazionale delle religiose per continuare a combattere in ogni angolo del mondo la piaga della tratta. Lo scorso giugno è stata riconosciuta come «eroe» contro la tratta dal dipartimento di Stato Usa, in occasione della presentazione del «Trafficking in Persons Report» (Tip Report) che quest’anno ha declassato l’Italia tra i paesi di seconda fascia a causa del peggioramento nel contrasto alla tratta e nella protezione delle vittime.

La rete è nata nel 2009 in seno all’Uisg, in seguito a un «Programma di formazione per personale religioso alle azioni di contrasto alla tratta di persone», realizzato in cooperazione con l’Ambasciata americana presso la Santa Sede e gestito in collaborazione con l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim). «Il desiderio condiviso – spiega la religiosa – era quello di coordinare e rafforzare gli sforzi e le attività contro la tratta promossi dalle religiose nel rispetto dei diversi contesti e culture. Attualmente, ci sono 17 reti regionali in 70 paesi nei 5 continenti».

In occasione del decennale, Talitha Kum ha realizzato anche una mostra fotografica che è stata esposta in Vaticano e che sarà in settembre alle Nazioni unite, in occasione dell’Assemblea generale. «Nuns Healing Hearts» è il titolo di questo progetto dalle immagini molto evocative: «Suore che curano i cuori». «Ciò che desidero trasmettere attraverso queste immagini – afferma la fotografa Lisa Kristine, che ha visitato molte realtà di religiose impegnate contro la tratta in diversi paesi – è il potente lavoro che le suore di Talitha Kum stanno facendo in tutto il mondo in prima linea contro la schiavitù. Ma la cosa più significativa di questo progetto è stato lavorare intimamente con le suore e sperimentare come loro operano instancabilmente e umilmente, spesso con poche risorse, per aiutare i più bisognosi».

Come si combatte la tratta in Italia

La tratta In ItaliaAnche in Italia, le religiose sono state tra le prime a individuare il fenomeno della tratta e a farsi carico della protezione delle vittime, ma anche tra le più efficaci nel denunciarlo e nel promuovere azioni di advocacy nei confronti delle autorità. Questo impegno – portato avanti insieme ad altri – ha condotto all’approvazione dell’articolo 18 del testo unico sull’immigrazione del 1998, una delle leggi più avanzate al mondo per quanto riguarda la protezione sociale delle vittime di tratta.

Purtroppo, in questi ultimi anni, le potenzialità dell’articolo 18 sono state gravemente disattese, per mancanza di risorse finanziarie e umane. «L’articolo 18 – ha denunciato in più occasioni Mirta Da Pra Pocchiesa del Gruppo Abele – è stato il frutto di un lavoro tra associazioni operanti sul campo e i ministeri degli Affari sociali, Pari opportunità e Interno, per aiutare le vittime a contrastare il traffico di esseri umani. Per un certo periodo l’Italia era diventata una terra difficile per i trafficanti: le ragazze denunciavano e le forze dell’ordine potevano colpire duramente le organizzazioni criminali. Da un certo punto in avanti, però, è iniziato lo sfacelo. C’è stato un disinvestimento generale: enti e associazioni che lavorano sul tema si sono trovati senza una regia, senza un coordinamento».

Suor Eugenia Bonetti, missionaria della Consolata, è stata tra le pioniere, insieme a Mirta Da Pra, di queste battaglie. Dopo 24 anni in Kenya, rientrata in Italia all’inizio degli anni Novanta, suor Eugenia ha ritrovato nel suo paese giovani africane sfruttate barbaramente come non aveva mai visto. Lei che aveva sempre lavorato per la promozione delle donne in Africa, si è rimboccata le maniche anche qui per contrastare una delle peggiori violenze che potessero subire. Prima a Torino, poi per molti anni a Roma, come coordinatrice dell’Ufficio Tratta donne minori dell’Usmi (Unione superiori maggiori d’Italia) e dal 2014 come presidente dell’associazione «Slaves no More» (mai più schiave), suor Eugenia continua a portare avanti instancabilmente una battaglia per liberare queste donne non solo dalle catene della schiavitù, ma anche da quelle del pregiudizio e dell’indifferenza. Per questa ragione, papa Francesco le ha affidato quest’anno le riflessioni della via crucis che si è tenuta in Vaticano la sera del Venerdì Santo (cfr sotto: Incontro con suor Eugenia Bonetti, una suora contro la tratta).

Ma se fino a oggi, all’interno della Chiesa, il tema della tratta sembrava essenzialmente relegato alla dimensione religiosa femminile, un significativo passo avanti nel coinvolgimento di tutti i suoi membri e in una presa di coscienza sul fenomeno è stato fatto con la pubblicazione, lo scorso gennaio, degli «Orientamenti pastorali sulla tratta di persone», realizzati dalla «Sezione migranti e rifugiati» del Dicastero vaticano per il servizio dello sviluppo umano integrale.

«Gli Orientamenti pastorali sulla tratta di persone – spiegano i due sottosegretari della Sezione, padre Fabio Baggio, scalabriniano, e padre Michael Czerny, gesuita – si propongono di fornire una chiave di lettura della tratta e una comprensione che diano ragione e sostegno a una lotta necessaria e duratura».

Istituita il primo gennaio 2017 da papa Francesco, che ne ha assunto personalmente la guida ad tempus, la Sezione migranti e rifugiati è incaricata di affrontare il tema della tratta di persone assieme alle altre questioni relative alle migrazioni. La sua missione è quella di assistere in particolare i vescovi e quanti si sono messi a servizio di questi gruppi vulnerabili.

Come sono nati gli «Orientamenti»

«Per affrontare il problema della tratta e della schiavitù di esseri umani – precisano i due sottosegretari – durante il 2018, la Sezione ha organizzato due consultazioni con vescovi, coordinatori pastorali, ricercatori, operatori professionisti e rappresentanti di organizzazioni impegnate in questo settore. I partecipanti si sono scambiati esperienze e punti di vista, affrontando gli aspetti rilevanti del fenomeno. Si è pure analizzata la risposta globale della Chiesa, specificandone i punti di forza e le debolezze, le opportunità politiche e pastorali, come pure la necessità di un potenziamento del coordinamento a livello mondiale.

Questo processo, durato sei mesi, ha dato vita agli Orientamenti pastorali sulla tratta di persone, indirizzati alle diocesi, alle parrocchie e alle congregazioni religiose, alle scuole e alle università, alle organizzazioni cattoliche e altre organizzazioni della società civile e a qualsiasi altro gruppo disponibile a impegnarsi in questo campo».

Un esempio di questo impegno viene da Caritas italiana che a inizio luglio ha presentato i risultati di un monitoraggio svolto sul territorio nazionale di tutte le Caritas che si occupano del fenomeno della tratta. Ne è emerso un panorama complesso di una sessantina di realtà che, in modo diverso, si occupano del fenomeno, con servizi e attività più o meno ampi e organizzati: dalle unità di strada alle accoglienze, dalle azioni di sensibilizzazione ai processi di integrazione (cfr pag 40).

Questo lavoro viene svolto in diversi casi in collaborazione con le religiose che operano o direttamente nelle Caritas o in case di accoglienza. Questo servizio – tuttora coordinato dall’Usmi nazionale che ha svolto in parallelo un analogo monitoraggio – è diminuito in questi ultimi anni o si è diversificato. Molte case di accoglienza delle religiose, infatti, non sono più specifiche per vittime di tratta, ma si sono convertite in accoglienze per mamme e bambini con varie forme di disagio o vulnerabilità. La complessità del fenomeno e la fluidità – legata alla questione degli sbarchi come anche ai cambiamenti legislativi – chiedono a tutti coloro che operano in questo ambito difficile e delicato di mettersi continuamente in gioco, a cominciare dalla formazione, e di sperimentare nuove progettualità.

È l’invito che arriva anche da papa Francesco: «Mi ha sempre addolorato la situazione di coloro che sono oggetto delle diverse forme di tratta di persone. Vorrei che si ascoltasse il grido di Dio che chiede a tutti noi: “Dov’è tuo fratello?” (Gen 4,9). Dov’è il tuo fratello schiavo? […] Ci sono molte complicità. La domanda è per tutti!».


Il lavoro delle Caritas in Italia, una rete capillare sul territorio

Sono una sessantina le Caritas che in Italia si occupano di tratta, con servizi e attività più o meno ampi e organizzati. Molte di più sono quelle che in modo spontaneo e non strutturato intercettano – in particolare attraverso i centri di ascolto o i dormitori – le vittime di tratta o presunte tali e le orientano verso servizi o realtà più specifiche. È quanto emerge da un report di monitoraggio realizzato da Caritas italiana per avere una mappatura più aggiornata e articolata del lavoro delle Caritas in questo ambito. Ne emerge un quadro variegato di impegno e difficoltà su molti fronti.

Qualche dato: le Caritas in Italia gestiscono 18 unità di strada; 31 accoglienze e progetti di integrazione; 24 realtà con attività di sensibilizzazione/informazione rivolte al territorio e corsi di formazione; 17 sportelli/drop in con servizi legali, sanitari, psicologici e così via; una ventina di iniziative di sostegno ad altre realtà con aiuti economici o materiali, supporto burocratico o altro.

Un impegno consistente, che tuttavia in questi anni si è confrontato e talvolta scontrato con molti ostacoli: la complessità e la fluidità del fenomeno, nonché i recenti provvedimenti legislativi, hanno messo molte Caritas di fronte alla necessità di aggiornarsi costantemente per continuare a dare risposte efficaci nonostante il mutamento delle situazioni.

Come per tutti, infatti, anche le Caritas – che spesso operano in collaborazione con gli Istituti religiosi femminili – hanno dovuto far fronte, da un lato, alla grande urgenza legata alla presenza di numerose donne vittime di tratta o potenziali tali, dall’altro, a un cambiamento del fenomeno che ha richiesto uno sforzo ulteriore di riflessione, formazione e organizzazione.

Più in generale, si legge nel report, tra le difficoltà emerge «il problema di una burocrazia molto complessa, il non facile rapporto con le istituzioni e l’enorme complicazione del reperimento dei documenti. Per non parlare dei tempi lunghi del percorso legale e sociale, difficili da gestire all’interno di una struttura protetta».

Tra gli auspici condivisi, quello che maggiormente emerge è l’importanza di consolidare il lavoro in rete: tra le diverse Caritas, ma anche con altri enti pubblici e privati. Perché insieme si è più forti, anche nel contrasto alla tratta e nel difficile e complesso compito di proteggere e integrare le vittime nella nostra società.


Incontro con suor Eugenia Bonetti, una suora contro la tratta

È stata una delle pioniere in Italia della lotta contro la tratta di esseri umani. Con il suo piglio battagliero, ma anche con la sua capacità di compassione, suor Eugenia Bonetti si è messa senza indugio al fianco delle vittime, per riscattarle dalla schiavitù, ma anche per dare loro voce, denunciando così un fenomeno che molti non volevano neppure vedere. Purtroppo anche oggi.

Era il 1993, e suor Eugenia Bonetti – missionaria della Consolata, oggi ottantenne – era appena rientrata in Italia, dopo aver vissuto 24 anni di missione tra le donne del Kenya.

A Torino, dove era tornata a malincuore, è stata un’altra donna africana ad aprirle gli occhi con il suo grido di aiuto. Suor Eugenia si è ben presto accorta che il fenomeno che aveva di fronte non riguardava semplicemente la prostituzione, ma qualcosa di molto più grave e orribile: tratta e schiavitù.

Da allora ha condotto moltissime battaglie; ha contribuito a togliere dalla strada oltre 6mila giovani donne, soprattutto nigeriane; ha coordinato a lungo il network delle religiose italiane che operano nelle case di accoglienza – l’ex Ufficio tratta donne e minori dell’Usmi -; ha infine fondato l’associazione «Slaves no More», di cui è presidente, che ha realizzato un progetto pilota di rimpatri volontari assistiti di donne nigeriane, e che garantisce, grazie all’impegno di una quindicina di religiose, una presenza settimanale nel Cpr di Ponte Galeria a Roma (Il Cpr è il Centro di permanenza per il rimpatrio, ex Cie, Centro di identificazione ed espulsione, ndr).

Di tutto ciò ha parlato anche in diversi libri, ma la sua figura e il suo impegno sono diventati particolarmente noti soprattutto dopo che papa Francesco le ha chiesto di scrivere le meditazioni per la Via Crucis al Colosseo dello scorso 19 aprile.

Suor Eugenia Bonetti

Suor Eugenia, che cosa ha significato scrivere quei testi?

«Una grande responsabilità, ma anche un’opportunità unica. Quando ho ricevuto la telefonata del cardinale Gianfranco Ravasi che mi chiedeva di scrivere le meditazioni per la Via Crucis sono stata presa di sorpresa. Ho vissuto quel periodo nella preghiera, ripensando alle parole di papa Francesco che parla di tratta come di “un crimine contro l’umanità”. Ho pensato che la Via Crucis potesse scuotere le coscienze e per questo ho accennato a valori come l’uguaglianza, la fede, la fratellanza, la misericordia, l’amore in tutte le sue forme (di una madre, di un padre, di un fratello e di una sorella, di un amico, di un passante, di un soccorritore), l’accettazione del diverso e del malato, di chi è in difficoltà. Ho fatto tutto attingendo ai molti anni passati a camminare sulle strade con queste donne, anni in cui le ho ascoltate, ci ho parlato e le ho aiutate con il sostegno di molte altre religiose e laici».

Su cosa ha voluto insistere?

«Ho cercato di includere tutte le forme di schiavitù presenti nel fenomeno della tratta, ma soprattutto ho tentato di sottolineare la condizione delle giovani donne distrutte da questa enorme piaga. Mi è sembrato giusto anche fare un appello: ai poteri e alla Chiesa affinché si prendano le loro responsabilità e agiscano mettendo l’essere umano sopra ogni altro valore e principio; alla società civile che, pur facendo molto deve fare sempre di più; ai clienti che sono parte attiva del problema».

Non solo storie finite male, però…

«Ho cercato di far riaffiorare anche la speranza, l’Italia del riscatto, di tutti i volontari e operatori del terzo settore, capaci di stare accanto al prossimo e di aiutarlo. E di tutti coloro che rispondono alla richiesta del Signore di mettersi in ascolto dei nostri fratelli e delle nostre sorelle. Mi sembrava importante anche soffermarmi sulla forza di rinascita delle donne e sulla loro capacità di lenire il loro dolore e il dolore altrui».

Lei indica nel deserto e nel mare i nuovi cimiteri di oggi. Che cosa intende?

«Nel deserto e nel Mediterraneo, continuano a morire migliaia di uomini, donne, bambini: esseri umani bruciati dal caldo del deserto o annegati nel mare, senza un nome, senza un’identità, privati della dignità e dei diritti che tutti possediamo, nell’indifferenza quasi totale di paesi che preferiscono non decidere».

Lei continua a essere impegnata su più fronti, in quanto fondatrice e presidente dell’associazione «Slaves no More». Che cosa state facendo?

«L’associazione nasce principalmente per aiutare le donne a liberarsi da ogni forma di violenza; in particolare si concentra sulle vittime di tratta, costrette a prostituirsi sulle nostre strade. Le attività che porta avanti, grazie al sostegno di tanti che ci aiutano e ci supportano, vanno dai rimpatri volontari assistiti in Nigeria alle diverse forme di interventi legati alla formazione e all’informazione sui temi specifici della tratta. L’associazione intrattiene strette relazioni di collaborazione anche con le case di accoglienza delle religiose a Lagos e Benin City (Nigeria)».

E nel Centro di permanenza per il rimpatrio (Cpr) di Ponte Galeria?

Suor Eugenia Bonetti

«A Ponte Galeria, insieme a un gruppo di suore di molte nazionalità e lingue diverse, siamo presenti tutti i sabati pomeriggio. Cerchiamo di accompagnare, con preghiere, feste e canti, le molte donne che, trovate senza documenti, sono costrette a passare molto tempo lì dentro, spesso senza sapere che ne sarà di loro. Ponte Galeria è a tutti gli effetti un luogo di detenzione, con sbarre e cemento, lenzuola di carta, molto freddo e caldo estremo. E anche tanta solitudine. Qui le donne sono costrette a una condizione di inattività, costantemente sorvegliate, con una minima possibilità di contatti con l’esterno, sole con le loro paure e i loro traumi, in balìa degli eventi. Noi rappresentiamo l’unico momento, durante la settimana, di ascolto, comprensione e compassione».

Le sembra che in Italia sia cresciuta la consapevolezza circa la tratta degli esseri umani, e la presenza di schiavi e schiave anche nel nostro paese?

«La tratta e i fenomeni a essa connessa sono cambiati e si sono evoluti, così come gli interventi a livello legislativo e da parte dell’associazionismo. Anche la consapevolezza è sicuramente cresciuta ma, oggi, mi sembra che ci sia una battuta d’arresto. Viviamo in una società consumistica dove i valori sono il denaro, il prestigio, l’esteriorità e l’apparenza; dove tutto può essere venduto e acquistato; dove l’essenziale è pensare a se stessi; dove ci viene istillata la paura del diverso; dove l’odio viene urlato e propagandato. Anche le nuove leggi sono lo specchio di un pensiero e di un modo di fare che tende alla divisione, all’odio e alla prevaricazione. Tutto questo non va certamente nella direzione dell’unione, della fratellanza, dell’aiuto e della comprensione».

Vedi anche questa intervista su Vatican news


Le misure dello stato italiano: un piano anti tratta (e il numero verde)

In Italia esistono un numero verde anti tratta e anche un piano nazionale che dovrebbero contrastare le gravi forme di sfruttamento presenti sul territorio nazionale.

Il primo, attivato nel 2000, viene gestito dal 2006 dal comune di Venezia. Il secondo, è stato finanziato per la prima volta nel 2016 e viene coordinato dal Dipartimento per le pari opportunità (Dpo) della Presidenza del consiglio dei ministri. Sono gli strumenti messi in campo dal governo italiano per il contrasto alla tratta degli esseri umani e la protezione delle vittime.

Il numero verde (800 290 290), in particolare, dopo una prima fase, in cui ha funzionato con una postazione centrale e 14 periferiche, dal 2006 fa capo a un unico ente – il comune di Venezia, appunto – che fa riferimento ai vari attori che, a livello regionale, operano nei progetti anti tratta finanziati dal Dpo. Sono 21 e coprono tutte le regioni italiane. Il piano è stato rifinanziato lo scorso primo marzo con 24 milioni di euro per i prossimi 15 mesi. Nel 2018, sono state assistite 1.914 persone (al 90% donne, in gran parte nigeriane), e si sono registrate 820 nuove emersioni (l’11,23% minorenni). Nell’88% dei casi si tratta di vittime di sfruttamento sessuale.

«Il numero verde – spiega Cinzia Bragagnolo che ne è la responsabile – raccoglie le segnalazioni, ed effettua una prima valutazione del caso, offre informazioni e orienta sui territori, cercando di favorire l’emersione del fenomeno e di offrire indicazioni sulle possibilità di aiuto e assistenza. Innanzitutto, viene fatta una prima valutazione della pertinenza della chiamata e poi si orientano le persone ai servizi sul territorio. L’obiettivo è di supportare le vittime di tratta e sfruttamento, ma anche di ottimizzare le risorse presenti qualora, ad esempio, ci sia bisogno di spostare le persone da una regione all’altra per motivi di sicurezza o per mancanza di posti in accoglienza o per incompatibilità delle strutture».

Le telefonate arrivano da soggetti diversi. «Possono essere le stesse potenziali vittime di tratta a chiamare – continua Bragagnolo -, oppure forze dell’ordine, operatori di progetti, servizi sociali o sanitari. Ultimamente sono cambiati molto i soggetti segnalanti che afferiscono al numero verde. Molte chiamate, infatti, arrivano da commissioni territoriali e prefetture o da Cas e Sprar, in cui sono presenti potenziali vittime di tratta».

Questo perché, da un lato, non sono più state fatte campagne di promozione del numero verde anti tratta e dunque è poco conosciuto – l’ultima risale al 2016, seguita da una brevissima campagna nel 2017 -; dall’altro lato, perché il fenomeno degli sbarchi, in particolare di giovani donne nigeriane potenziali vittime di tratta, ha inciso significativamente anche su tutto il sistema di accoglienza.

«In questi ultimi anni – conferma Bragagnolo – nelle prese in carico c’è stato un grande aumento delle donne nigeriane. Il picco lo si è avuto un paio di anni fa; adesso, in strada, le donne nigeriane sono tornate a essere circa un terzo, ma nei progetti del Dpo sono quasi il 90% dei casi. Questo significa che sono stati probabilmente trascurati altri target, ad esempio, donne provenienti da altri paesi; soprattutto, però, significa che è stato trascurato un altro ambito altrettanto preoccupante, quello del grave sfruttamento lavorativo».

Solo tre progetti su 21, infatti, si occupano di questa piaga che ormai non riguarda più soltanto il lavoro agricolo o il Sud Italia, ma interessa un po’ tutte le regioni e tutti i settori dell’economia del nostro paese: dall’industria alla logistica, dall’assemblaggio alla ristorazione.

«Ci sono pochi interventi strutturati sul grave sfruttamento lavorativo – conferma Cinzia Bragagnolo – anche perché è molto difficile operare in questo ambito. Occorrerebbe un lavoro multi agenzia e in questo momento si è ancora troppo poco strutturati per essere incisivi su questo fenomeno».

Lo scorso 7 maggio, il sottosegretario con delega alle pari opportunità, Vincenzo Spadafora, ha presieduto la prima riunione della nuova cabina di regia per la prevenzione e il contrasto alla tratta degli esseri umani, affiancata da un nuovo comitato tecnico. La cabina è la sede di confronto e di raccordo politico, strategico e funzionale tra le amministrazioni statali, la direzione nazionale antimafia e antiterrorismo, le forze dell’ordine, le regioni e gli enti locali per la definizione del nuovo piano nazionale anti tratta 2019-2021. Al comitato tecnico, invece, partecipano soggetti della società civile direttamente impegnati nel contrasto alla tratta e nella protezione delle vittime.

«Sarebbe importante – conclude Bragagnolo – che si possa mettere a punto il prossimo piano nazionale anche alla luce dei nuovi cambiamenti del fenomeno e delle recenti evoluzioni delle dinamiche della tratta. A mio avviso, occorrerebbe rivedere le connotazioni del programma di protezione sociale, dal momento che, in questi ultimi anni, la natura dell’art. 18 è andata in gran parte persa, poiché la maggior parte delle vittime ha seguito percorsi di richiesta d’asilo. Ma anche il contrasto alle reti criminali si è affievolito. Inoltre, bisognerebbe tenere aperto lo sguardo su altre forme di sfruttamento e non solo prevalentemente su quello sessuale».

Il nuovo piano nazionale anti tratta avrebbe dovuto essere presentato entro fine giugno, ma probabilmente slitterà di qualche mese.


Hanno firmato questo dossier:

  • Anna Pozzi – Giornalista professionista, collabora con diverse testate giornalistiche. Tiene incontri di formazione e seminari su politica, economia, società e cultura africana e sulle questioni di migrazioni e tratta. È tra i fondatori dell’associazione «Slaves no more» contro la tratta degli esseri umani. Ha collaborato alla realizzazione delle Giornate mondiali contro la tratta di persone (8 febbraio). Su questo tema ha scritto diversi saggi, tra cui Il coraggio della libertà (ed. Paoline, 2017) con Blessing Okoedion, Mercanti di schiavi (San Paolo, 2016), Spezzare le catene (Rizzoli, 2012). Ha inoltre realizzato due documentari: No place like home (2016) e Il coraggio della libertà (2017).
  • A cura di: Marco Bello, giornalista redazione MC.
  • Archivio MC:




Tutta colpa di…


testo di Gigi Anataloni, direttore di MC


Ne aveva fatte di tutti i colori quel giorno a scuola, tanto da farsi punire. Non semplicemente una sospensione, ma un buon numero di vergate di fronte a tutti dopo l’appello mattutino. Era poi venuto finalmente a parlarmi. «Che ti è preso?», gli ho chiesto. «Non lo so, ma non sono stato io. È stato il diavolo che me lo ha fatto fare».

È una storia di molti anni fa ormai, quasi una vita fa, quando ero nomade sulle piste del Nord del Kenya. Senza entrare nel merito della punizione corporale allora in uso in tutte le scuole, quello che mi interessa sottolineare ora è la scusa usata dal ragazzo per giustificare il suo comportamento: «Non sono stato io, ma il diavolo me lo ha fatto fare». Quando c’è di mezzo il diavolo, un poveraccio che può fare? Non è più lui il responsabile delle sue azioni.

I «poveri diavoli» di allora mi tornano in mente guardando a quanto succede oggi nel nostro bel paese. La caccia al colpevole sembra diventata uno sport nazionale. Le cose vanno male. Naturalmente «è colpa di…». Non mia, non nostra, ma colpa «loro», degli altri. In fondo, il diavoletto invocato allora dai «miei» ragazzi era una scusa su cui fare una bella risata, ma oggi non me la sento più di riderci sopra. Se qualcosa va storto non si cercano le cause, ma i colpevoli, i capri espiatori. E i colpevoli per antonomasia oggi sono i migranti (soprattutto se di pelle nera) e i rom che rubano il lavoro, le case, gli aiuti pubblici, la pace, la sicurezza, il buon nome.

Un paio di millenni fa, quando l’Italia era il «centro del mondo», non esisteva il problema dei migranti, ma si andava tranquillamente a conquistare altri paesi con guerra e razzie e si tornava a casa trionfanti con migliaia di schiavi esibiti come trofei e usati poi per coltivare i campi dei vincitori. E se per caso quei lavoratori stranieri avevano l’impertinenza di ribellarsi, ecco una bella crocifissione di massa come quella dopo la sconfitta di Spartaco: seimila crocifissi sulla via Appia tra Roma e Capua (uno ogni 30 metri circa), bel monito a chiunque osasse pensare che tutti gli uomini sono uguali.

Naturalmente i nostri antenati Romani non erano gli unici a pensarla così. Basta ricordare che il traffico di milioni di «migranti» dalle coste dell’Africa dell’Est verso la penisola arabica e il Golfo persico, iniziato da tempi immemorabili, non è mai finito (se si considera la libertà di cui godono le persone nella penisola). Per non essere da meno, noi europei (e cristiani) dell’età moderna, una volta «scoperta l’America» e capite le sue potenzialità economiche, ci siamo ben organizzati e abbiamo rifornito della necessaria manodopera, non proprio libera né volontaria, le nostre nuove colonie spogliando le coste dell’Africa dell’Ovest.

Ovvio, gli europei di oggi non hanno responsabilità delle cose fatte dai loro predecessori. Noi non siamo schiavisti come loro. Infatti, lo schiavismo di oggi non è colpa nostra, ma legge di mercato – per sopravvivere alla concorrenza -. Se oggi si trasferiscono le fabbriche in paesi dove i lavoratori costano meno e non hanno protezioni sindacali, e si riempiono i nostri campi di braccia fantasma controllate dai caporali, noi ci possiamo fare ben poco e, anzi, spesso diventiamo vittime a nostra volta. Se poi ci sono dei problemi, il sistema di sfruttamento ha una capacità di adattamento incredibile: giocando sull’indifferenza, sul bisogno, sulla lentezza delle istituzioni, sulla paura e sul potere della corruzione, si chiudono le tendopoli dei disgraziati, si fanno trasferimenti in massa, oppure si sistema il tutto con un bell’incendio. Non si risolve così anche il problema dei rifiuti?

Ritengo che ci sia bisogno che ciascuno prenda le sue responsabilità tenendo presenti alcuni punti che mi sembra dovrebbero essere ormai diventati chiari per tutti:

  • su questa terra o ci salviamo tutti insieme o nessuno si salva (il riscaldamento globale ne è un esempio: non si risolve costruendo isole per privilegiati, come non ci si salva dalla guerra atomica con i rifugi ma solo eliminando le atomiche e la guerra);
  • non ci sono persone di serie A e altre di serie B: ogni uomo ha la stessa dignità, gli stessi diritti, gli stessi doveri;
  • educazione, lavoro, casa, salute, pace e il poter stare a casa propria o il muoversi liberamente non sono privilegi di pochi, ma diritti di tutti; se uno non può avere tutto questo, o addirittura gli è impedito, è facile che cerchi strade alternative e violente per ottenerlo;
  • solo se si mette al centro la persona, ogni persona – non l’economia, il profitto e il potere -, si costruisce veramente un mondo «umano» dove ciascuno può vivere bene da «cittadino»;
  • scaricare le colpe delle proprie difficoltà e sofferenze su capri espiatori non risolve i problemi; aumentare la sofferenza degli altri non aumenta la nostra felicità;
  • la pace e l’armonia si costruiscono erigendo ponti, aprendo porte e creando relazioni paritarie, non innalzando muri e chiudendo porti.

 




Congo RD: Denis Mukwege, il medico che ripara le donne

Testo di Mario Ghirardi |


È un medico africano, come tanti altri. Ma lui decide di restare nella sua terra, il Kivu, e di curare le donne vittime di violenze inaudite. Diventa il massimo esperto mondiale in materia. Rischia in prima persona, perde amici e stretti collaboratori in attentati. Si guadagna il soprannome di «medico che ripara le donne».

Denis Mukwege parla con ritmo cadenzato e con toni di voce pacati. Racconta della Repubblica Democratica del Congo (Congo Rd), di golpe militari, di mercenari senza scrupoli, di stupri elevati a sistematica arma di guerra, di minerali insanguinati, di coltan, di un’Europa spesso alla finestra, di bambini che muoiono in miniera perché noi possiamo lavorare o trastullarci con il telefonino. Mi viene voglia di scagliare lontano lo smartphone che pure in questo momento è il mio strumento di lavoro per registrare e fotografare. Ma sarebbe inutile e forse anche dannoso, visto che i telefonini andrebbero smaltiti ben diversamente.

Per capire l’accorato appello del dott. Mukwege, dobbiamo partire dal suo passato: laureato in medicina in Francia, è tornato in Africa, nella sua regione natale, il Kivu, attorno ai Grandi Laghi, per combattere una battaglia che è poi diventata bandiera di chi vuole scuotere l’opinione pubblica mondiale di fronte a un massacro che ha già coinvolto milioni di vite umane e che in quei luoghi, a cavallo dell’equatore, dura da decenni.

Il dottor Denis Mukwege (di Mario Ghirardi)

L’ostinazione premiata

La scintilla dell’impegno sociale a 360 gradi di questo cortese professionista, diventato oggi punto di riferimento anche politico, scattò quando si trovò, stesa sul tavolo operatorio del reparto di ginecologia dell’ospedale da campo da lui creato a Panzi, ai confini orientali della Congo Rd, una ragazza che aveva fatto nascere egli stesso una dozzina d’anni prima. Era stata orrendamente stuprata come centinaia di altre sue coetanee. Nel 1989 fece il suo primo tentativo di dare corpo a un reparto ospedaliero di maternità a Lemera. Distrutto dalla guerra. Ne fece un altro a Bukavu, sua città natale. Distrutto anch’esso. Infine ne mise in piedi uno a Panzi, dove dal 1999 ha curato ben 50mila donne. Un numero enorme, vittime di stupri e di violenze sessuali di ogni genere, la gran parte con ferite di arma da fuoco ai genitali.

«Identifico ognuna di loro con mia moglie», commenta. In questo trova la forza morale di proseguire nella sua opera, anche oggi che ha compiuto il giro di boa dei 60 anni.

Ormai il dottor Mukwege, soprannominato «l’uomo che ripara le donne», è riconosciuto come uno dei più grandi esperti a livello internazionale nel trattamento dei danni patologici e psicosociali provocati dalla violenza sessuale praticata in Congo Rd in modo sistematico. Un’arma di guerra per colpire le donne nell’intimo del loro essere, distruggere simbolicamente il futuro mutilando gli organi genitali con ogni tipo di oggetti inseriti nella vagina, anche di bimbe di pochi mesi, e praticando tagli ai seni. Squartare donne incinte e seppellirle ancora vive è un altro atto ricorrente durante le incursioni delle bande armate. Tanta crudeltà ha lo scopo preciso e immediato di annientare sul nascere qualsiasi tentativo di ribellione dei villaggi, facendo sprofondare anche gli uomini in uno stato di sudditanza.

Miniera di cobalto (CC Fairphone)

Impunità totale

Pochissimi denunciano le violenze, non solo per la paura delle ritorsioni e dello stigma sociale, ma anche perché i casi in cui i tribunali hanno fatto giustizia sono sinora rari, visto che queste soldataglie senza volto aggrediscono i villaggi sconfinando dagli stati vicini e si spostano senza sosta. Un dato: a fronte di 15mila accuse formali, le condanne sono state 12. «Il silenzio è alleato degli stupratori – afferma Mukwege -. La vittima tace per vergogna e per paura di essere discriminata. Io devo combattere al loro fianco perché le donne sono forti, sono capaci di vivere per gli altri. Ho curato 50mila donne, ma pensiamo sempre che dietro a un numero c’è un essere umano, è questa consapevolezza che deve farci reagire. Avevo un successore, Gildo Byamungu Magaju, direttore dell’ospedale di Kasenga, l’hanno assassinato a fine aprile dell’anno scorso. Tuttavia non mi fermerò».

Oltre la medicina

Con mariti e figli traumatizzati, le donne, che in Africa continuano a essere il perno su cui ruota la vita sociale, sono costrette ad abbandonare famiglia e lavoro, portando con sé quelle profonde ferite che soltanto un personaggio come Mukwege è in grado di lenire.

Il suo aiuto oggi sta andando persino oltre, affiancandole nella ricerca di nuove competenze lavorative, offrendo l’opportunità alle più giovani di tornare a scuola e dando loro appoggio se intendono rivolgersi alla giustizia. Scelte pagate letteralmente sulla propria pelle. Mukwege è stato vittima di attentati, tra cui quello in cui è stata assassinata la sua guardia del corpo, e amico, Joseph Bizimana, e di irruzioni armate nella sua casa con minacce di morte e il rapimento della figlia. Costretto a fuggire in Scandinavia, è ritornato a Panzi non appena un gruppo di donne, che peraltro vivono con meno di un dollaro al giorno, hanno racimolato con una colletta i soldi per pagargli il viaggio aereo. È questo un comportamento che gli è valso il «Premio Sacharov per la libertà di pensiero», voluto trent’anni fa dall’Unione europea per celebrare il ricordo del fisico nucleare russo e assegnato ogni anno in riconoscimento di chi combatte la sua personale battaglia a favore dei diritti dell’uomo. E non è un caso se il primo a riceverlo fu Nelson Mandela.

Miniera a Kalimbi (CC Fairphone)

Radici storiche

Il motivo fondamentale per cui il Congo Rd è squassato da tanta violenza lo ha denunciato lo stesso Mukwege durante il suo discorso alle Nazioni Unite già nel 2012, poco prima dell’attentato: lo sfruttamento delle sue risorse minerarie. Fenomeno che risale almeno alla metà dell’800, quando il Congo fu acquisito come proprietà personale dal re del Belgio Leopoldo II. Sfruttamento che è costato almeno dieci milioni di morti. «Se il Congo è ormai da 25 anni una polveriera – commenta l’antropologo Luca Jourdan che abbiamo incontrato a fianco di Mukwege durante un suo tour italiano di sensibilizzazione dell’opinione pubblica organizzato dal torinese Centro di Studi Africani (Csa) – le cause risalgono proprio all’epoca coloniale, quando prima i traffici di schiavi e avorio, e poi quelli della gomma favorirono gli interessi sfrenati dei signori della guerra, che già allora terrorizzavano i villaggi mozzando le mani a chi non produceva i quantitativi stabiliti, come punizione e monito». I belgi non portarono civiltà. «I primi ammutinamenti dell’esercito – prosegue Jourdan – produssero il tentativo di secessione della regione del Katanga, poi la presa del potere da parte di Mobutu nel ’65, con l’esercito che fornisce quadri e ministri, ma senza che il dittatore si fidi dei suoi generali perché non li controlla. Oggi è il tempo di Joseph Kabila, delle elezioni promesse ma rinviate (la presidenza di Kabila è scaduta il 19 dicembre 2016, ma lui resta capo di stato)». L’esercito congolese è in realtà un attore della crisi, poiché non esiste una sola catena di comando. È un esercito integrato con le fazioni ribelli, però i gruppi non si mescolano, ognuno risponde ad un proprio capo. Il risultato è che i «warlords» spadroneggiano ognuno nel suo ambito, controllando, in accordo col governo, l’estrazione del coltan e degli altri minerali indispensabili all’industria dell’elettronica, che costano alla popolazione le violenze combattute da Mukwege.

Mario Ghirardi

 

Minatori a Kalimbi, Congo RD (CC Fairphone)


Miniere, eserciti e interessi globali

Stupri, figli del coltan

In Congo Rd permane una situazione di grande instabilità. In uno dei paesi con il sottosuolo più riccho al mondo, il 60% della popolazione vive nell’indigenza. Mentre nell’Est le milizie usano la violenza sulle donne come arma di guerra.

La regione congolese dei Grandi Laghi vive un conflitto internazionale tra i più complessi dell’Africa, aggravato dal precipitare della situazione nel confinante Burundi nel 2015, dai massacri nelle regioni del Kasai nel 2017 e dalla permanenza al potere in Congo Rd del presidente Joseph Kabila, ancora oggi, nonostante il suo mandato presidenziale sia scaduto nel 2016. La presa di posizione del dittatore nel far slittare le elezioni è tesa a voler accedere al suo terzo mandato presidenziale contro i dettami della Costituzione vigente che ha fatto saltare nell’anno anche la preannunciata visita di papa Francesco. Le ondate di profughi hanno alimentato ulteriori tensioni e conflitti tra gruppi armati ribelli per il controllo delle miniere superficiali. In esse uomini e bambini sono ridotti in schiavitù per l’estrazione del coltan, preziosissimo materiale, straordinariamente resistente al calore, senza il quale gli smartphone non potrebbero esistere e che qui si trova nelle maggiori concentrazioni al mondo (cfr. MC luglio 2015 e giugno 2016).

(CC Fairphone)

Il coltan, fondamentale anche per l’industria aerospaziale, fa gola a tutti, con i cinesi in prima linea alla ricerca di accordi commerciali, insieme a Stati Uniti ed Europa, per accaparrarsi quelli che sono ormai conosciuti come i «minerali insanguinati». La posta in gioco è altissima e nessuno vuole farsela scappare, ma il prezzo da pagare in termini di diritti umani è pure enorme, con vittime principali le donne e i bimbi anche di pochi mesi. Il Congo Rd ha arrestato la sua crescita economica, ma non demografica. È uno dei paesi più povero del pianeta con oltre 6 persone su 10 che vivono sotto la soglia di indigenza assoluta. I delitti sono in costante aumento, il numero di donne violentate supera il mezzo milione, con gli stupri usati come strumento per far nascere i figli dei vincitori oppure al contrario per rendere impossibile la nascita di una successiva generazione delle etnie sottomesse. Una situazione terribile attorno alla quale resta moltissimo da fare anche in termini di consapevolezza dell’opinione pubblica occidentale. Lo stupro di guerra come quello praticato in Kivu è stato riconosciuto infatti ufficialmente come crimine contro l’umanità e concausa di genocidio soltanto nel 2008, elaborando a livello legislativo con un ritardo smisurato quanto successe nel 1992, a danno dei bosniaci musulmani nell’allora Jugoslavia.

Chi estrae il coltan non gode di alcun diritto in cambio di un lavoro massacrante retribuito con spiccioli di dollaro. Bambini e uomini trasportano i secchi sulla testa sotto il sole a picco o sotto le piogge torrenziali, come schiavi di una società che non offre alcuna alternativa di sopravvivenza e nemmeno possibilità di scolarizzazione. I livelli di sicurezza sul lavoro sono infimi e si muore con facilità in quelle voragini della montagna, che diventano tombe, da cui i signori della guerra non si degnano nemmeno di portare alla luce i cadaveri per restituirli alle famiglie. La beffa sono i cartelli pubblicitari nei villaggi confinanti che promettono l’accesso gratuito a Facebook per tutti.

La tracciabilità dei materiali potrebbe essere un primo modo per limitare gli abusi. L’Unione europea nell’aprile scorso ha finalmente approvato un regolamento comunitario in questo senso, che però non sarà applicato prima del 2021. La normativa obbligherà tutti gli importatori europei di stagno, tungsteno, tantalio e oro a dichiarare le loro fonti di approvvigionamento con l’istituzione di un apposito registro e sistematici controlli sul rispetto degli obblighi di responsabilità, la cosiddetta «due diligence», in modo da mantenere elevati standard e garantire che non ci siano punti di contatto tra l’origine dei minerali e le bande armate. Dal patto però Bruxelles sembra aver escluso i minerali di cobalto, nonché il divieto di importazione di prodotti finiti che contengano il minerale, lasciando aperta la strada ai telefonini cinesi. Intanto contemporaneamente il presidente Usa Trump smantella il Dodd-Frank Act, un provvedimento per una volta in sintonia con quello adottato dalla Ue e promulgato dal predecessore Barack Obama nel 2010.

Mario Ghirardi

(CC Fairphone)

 Archivio MC:
Enrico Casale, Dossier: Minerali insanguinati, luglio 2015

Marco Bello, La lunga marcia per la pace, giugno 2016




Tratta e sfruttamento nel 21° secolo


Negli ultimi 5 anni 89 milioni di persone nel mondo hanno subito una qualche forma di schiavitù. Nel solo 2016 sono stati 40 milioni: 25 per lavoro forzato, 15 per matrimoni forzati. Una persona ogni 185. Il 51% donne, il 20% bambine il 21% uomini, l’8% bambini. Il solo lavoro forzato genera un giro di denaro di 150 miliardi di dollari l’anno. E il contrasto non sembra efficace.

La tratta di esseri umani (in inglese trafficking in human beings) è stata definita nel 2000 dalle Nazioni Unite come «reclutamento, trasporto, trasferimento, l’ospitare o accogliere persone, tramite l’impiego o la minaccia di impiego della forza o di altre forme di coercizione, di rapimento, frode, inganno, abuso di potere […] a scopo di sfruttamento. Lo sfruttamento comprende, come minimo, lo sfruttamento della prostituzione altrui o altre forme di sfruttamento sessuale, il lavoro forzato o prestazioni forzate, schiavitù o pratiche analoghe, l’asservimento o il prelievo di organi. […] Il reclutamento, trasporto, trasferimento, l’ospitare o accogliere un bambino ai fini di sfruttamento sono considerati “tratta di persone” anche se non comportano l’utilizzo di nessuno dei mezzi [descritti sopra]»1.

Leggere dietro i dati

Secondo le ultime stime dell’Oil2 (Organizzazione internazionale del lavoro), nel 2016 circa 40,3 milioni di uomini, donne e bambini di ogni parte del globo sono stati vittime di una qualche forma di schiavitù: sfruttati o costretti a sposarsi sotto minacce, violenze, coercizioni, inganni, abusi di potere. Di essi, erano 15,4 milioni le vittime di matrimoni forzati (il 37% minorenni), e 24,9 milioni le vittime di lavoro forzato (il 71% di sesso femminile, vedi box per maggiori dettagli). Nel mondo, nel 2016, erano 151,6 milioni i minori lavoratori (tra i 5 e i 17 anni).

Le cifre sono grosse, ma lette in un report dell’Oil rischiano di rimanere inerti. Diventa un esercizio assai utile allora provare a guardare dietro e dentro i dati per comprendere l’urgenza con cui l’umanità deve prendersi carico della situazione per tentare una risoluzione.

Il libro di Anna Pozzi, Mercanti di Schiavi, cerca di farlo. Snocciolando una quantità enorme di altri dati e informazioni, presenta situazioni di paesi concreti, racconta storie di persone, vittime o attiviste, e l’operato di gruppi e associazioni che in tutto il mondo lottano perché la schiavitù venga affrontata e debellata.

Dal mondo all’Italia

Diviso in tre parti, il volume accompagna il lettore in un itinerario che inizia da uno sguardo generale sul fenomeno, prosegue con l’approfondimento delle diverse forme di schiavismo presenti nel mondo e si conclude con un approfondimento sulla situazione italiana.

Nella prima parte, infatti, Anna Pozzi, offre al lettore uno sguardo complessimo con una rassegna globale delle forme dello schiavismo contemporaneo, i numeri del fenomeno, le sue cause e le azioni – spesso fallimentari – che, a livello di istituzioni internazionali, si sta cercando di sviluppare per contrastarlo. Nella seconda ci presenta alcuni approfondimenti tematici: la schiavitù come sfruttamento sessuale, la piaga del lavoro minorile, le spose bambine, la tratta e il traffico di persone legati alle migrazioni, il mercato delle gravidanze; ma anche alcuni approfondimenti legati a specifiche aree del pianeta: il Brasile, il Medio Oriente, l’Africa, l’Asia. La terza parte punta l’obiettivo sulla nostra Italia, a dimostrazione del fatto che «praticamente nessun paese è immune da questo fenomeno». La produzione dei pomodori, ma anche quella di frutta e di uva da vino, lo sfruttamento della prostituzione, il lavoro schiavo nel campo del tessile, il caso delle nigeriane e quello dei minori stranieri non accompagnati che «spariscono».

Far crescere la consapevolezza

Anna Pozzi affronta il vasto mondo della tratta e dello sfruttamento con lo stile giornalistico che la contraddistingue3. Descrive il fenomeno, lo racconta attraverso i dati, la narrazione di singoli casi, ma anche attraverso il racconto di quali sono le strategie, purtroppo spesso inefficaci, di istituzioni come l’Onu, l’Ue, la Corte penale internazionale, gli organi dei singoli paesi. Tra le pagine più belle ci sono quelle in cui l’autrice presenta le azioni concrete messe in campo da alcuni dei tanti uomini e donne che si battono in tutto il mondo su questo tema. Ecco allora emergere alcune figure come padre Mussie Zerai, la suora comboniana Azezet in Israele, il premio Nobel per la pace Kailash Satyarthi che ha liberato 80mila piccoli schiavi in India e in altri paesi. Nel libro si parla anche dell’impegno di papa Francesco, ad esempio istituendo la prima giornata mondiale ecclesiale contro la tratta di persone l’8 febbraio 2015.

Il bilancio che viene fuori dal libro non sembra essere molto positivo, nonostante le molte iniziative dal basso e le dichiarazioni di leader mondiali. Più volte Anna Pozzi afferma, infatti, che sembra non esserci ancora una reale presa di coscienza della gravità di questa piaga. Tra i molti dati che offre c’è, ad esempio, quello che parla di un altissimo livello d’impunità, anche in Italia, quello che indica un aumento del numero di minori coinvolti, quello che ci parla di una grande adattabilità delle organizzazioni criminali al mutamento delle situazioni, oppure quello che dà a noi italiani il primato nel turismo sessuale.

Immaginiamo che sia proprio da questo quadro poco positivo che ha preso le mosse il lavoro di approfondimento e denuncia di Anna Pozzi, allo scopo di costruire una maggiore consapevolezza da parte di tutti su una problematica solo apparentemente lontana.

Luca Lorusso

Note:

  1. Dall’articolo 3 del Protocollo addizionale sulla tratta del 2000, uno dei tre Protocolli addizionali alla Convenzione delle Nazioni Unite contro il crimine transnazionale organizzato.

  2. Il rapporto Global estimates of modern slavery. Forced labour and forced marriage (Stime globali della schiavitù moderna: lavoro forzato e matrimonio forzato) pubblicato a settembre 2017 dall’Oil e da Walk Free Foundation in collaborazione con l’Oim (Organizzazione Internazionale per le Migrazioni). Una bella presentazione si trova su http://www.alliance87.org/2017ge
  3. È giornalista e scrittrice, lavora per «Mondo e Missione», la rivista del Pime (Pontificio Istituto Missioni Estere), ha realizzato diverse iniziative per parlare del problema della schiavitù, anche in collaborazione con suor Eugenia Bonetti, missionaria della Consolata molto attiva su questo fronte, e tra le altre cose ha anche fondato un’associazione dal nome «Slaves no more».

Il libro

Anna Pozzi, Mercanti di schiavi. Tratta e sfruttamento nel XXI secolo,
San Paolo, Milano 2016, 215 pagine, 14,50 Euro.


Dati su
Matrimoni e lavoro forzato

  • 15,4 milioni di vittime di matrimoni forzati
    Il 63% ha contratto il matrimonio in età adulta (tra essi, il 77% è donna). Il 37% ha subito il matrimonio da minorenne (tra loro è femmina il 96% e il 44% aveva meno di 15 anni). La più giovane vittima registrata dall’Oil aveva 9 anni al momento del matrimonio. In totale, l’84% delle vittime è di sesso femminile.
  • 24,9 milioni di vittime di lavoro forzato
    Il 71% è donna o bambina. In totale, una vittima su quattro è minorenne (il 25%).
    Il lavoro forzato viene distinto in tre tipologie:

    • 1- Il lavoro forzato presso privati che conta 16 milioni di vittime nel 2016. Di questi, il 59% sono di sesso femminile, l’81% adulti, il 19% minorenni.
    • Le vittime di questa forma di schiavitù ritrovano la libertà in media dopo 20,5 mesi. Sul totale, il 24,3% è impiegata in lavori domestici, il 18,2% nell’edilizia, il 15,1% nell’industria; l’11,3% nell’agricoltura e nella pesca, il 9,5% in alberghi e ristorazione, il 9,2% nel commercio all’ingrosso, il 6,8% nei servizi personali, il 4% nelle miniere, l’1,6% nell’accattonaggio e in altro.
    • 2- Il lavoro forzato imposto dalle autorità statali che conta 4,1 milioni di persone. Di queste, alcune lavorano per anni, molte per poche settimane.
    • 3- Lo sfruttamento sessuale forzato che coinvolge 4,8 milioni di vittime. Tenute, in media, per 23,4 mesi nella loro situazione, la stragrande maggioranza (99,4%) sono donne e ragazze. I minori rappresentano il 21,3% del totale.
  • Il tasso di schiavitù per area del mondo
    Altro dato interessante e il tasso di schiavitù per aree geografiche: il più alto è in Africa, con 7,6 vittime ogni 1.000 persone. Il secondo nell’area Asia meridionale e Pacifico, con il 6,1 per mille, il terzo in Europa e Asia centrale, con il 3,9 per mille, il quarto negli stati arabi, con il 3,3 per mille e infine nelle Americhe con 1,9 vittime ogni mille persone.

L.L.

 


     

 

 

 

La collana «#VoltiDiSperanza»
delle edizioni Velar / Marna

Diari dal Sud

Piccoli libri dai quali emergono volti e storie di persone incontrate dall’autore in diversi luoghi del mondo. Racconti di viaggio per ricordare situazioni drammatiche su cui porre attenzione: dalle violenze dell’Isis in Iraq a quelle di Al-Shabaab a Garissa, in Kenya del Nord, dalla guerra silenziosa nel cuore del Messico, alla violazione dei diritti umani nel carcere di Challapalca in Perù.
È la voce di don Luigi Ginami quella che attraversa le pagine dei volumetti editi a partire da dicembre 2016 dalle edizioni Velar Marna. Una voce che racconta, nello stile semplice e diretto dei diari di viaggio, paesi e situazioni di cui è bene non perdere il ricordo.

Sacerdote della diocesi di Bergamo e presidente della Fondazione Santina Onlus, don Luigi parte almeno due volte all’anno per un luogo diverso allo scopo di incontrare le comunità aiutate dalla sua associazione. Da ogni racconto di viaggio emergono volti e storie di persone. E sono proprio alcune di queste a dare il titolo a ciascuno dei volumetti: Nasren, ad esempio, è una ragazzina yazida conosciuta nel campo profughi Dawidiya, a 70 km da Mosul, in Iraq, affetta da «Disturbo post traumatico da stress» causato dall’incontro con gli uomini del Califfato nero nell’agosto del 2014, quando aveva 11 anni. Janet Akinyi, giovane donna di 22 anni, che don Luigi non ha incontrato perché assassinata il 2 aprile 2015 nell’università di Garissa, in Kenya, assieme ad altri 147 studenti, da un commando di al-Shabaab. Padre Dominic, sacerdote vietnamita che ha subito la prigionia durante il regime comunista nel suo paese.

 

 

 

 

Il ricavato della vendita dei volumi andrà ai progetti della Fondazione Santina, in favore delle realtà raccontate.




Donne Yazide: Schiava dell’Isis


Hana è una giovane donna yazida1, infermiera nell’ospedale di Duhok, Kurdistan irakeno2. Il 3 agosto del 2014 si trova in visita a casa dei suoi genitori a Sinjar, quando arrivano i miliziani dell’Isis. Perde subito il fratello e la madre. Lei viene ridotta in schiavitù insieme a sua sorella minore. Il romanzo di Claudia Ryan, pur narrando una storia di fantasia, racchiude in sé il dramma di persone reali.

Il 3 agosto del 2014 la città di Sinjar, nel Nord dell’Iraq, nella Regione autonoma del Kurdistan irakeno, viene presa d’assalto dai miliziani dell’Isis. Improvvisamente.

Sinjar è uno dei centri più importanti dei fedeli Yazidi, minoranza religiosa considerata «infedele» dal Da’esh. In pochi giorni migliaia di Yazidi vengono uccisi o costretti alla conversione (se uomini o ragazzi, dagli 11 anni in su), o ridotti alla schiavitù sessuale (se donne, o ragazze anche di 9 anni).

Secondo il rapporto del Consiglio per i diritti umani dell’Onu intitolato «They came to destroy: Isis crimes against the Yazidis»3 (Sono venuti per distruggere: i crimini dell’Isis contro gli Yazidi) redatto nel giugno 2016, si è trattato di un vero e proprio genocidio. Nel report non si indicano cifre esatte, a parte il dato di 3.200 donne e bambini che, ancora a giugno 2016, erano in stato di schiavitù tra Siria e Iraq.

Il bisogno di conoscere

Questo è, a grandi linee, il contesto geopolitico nel quale Claudia Ryan inserisce la storia raccontata nel suo romanzo «Hana la yazida», edito per San Paolo nel 2016. Colpita dalle notizie che nell’estate del 2014 arrivavano da quelle zone di guerra, l’autrice ha voluto approfondire, prima studiando la situazione e la storia di quelle terre, poi compiendo, nel 2015, un viaggio in prima persona in Kurdistan. Lì ha avuto modo di incontrare e di parlare con diverse vittime.

Dal loro racconto è nata la figura di Hana, personaggio di fantasia che racchiude in sé il dramma vissuto da molte persone reali.

La storia

Giovane donna emancipata, infermiera nell’ospedale di Duhok, il 3 agosto del 2014 Hana si trova in visita a casa dei suoi genitori a Sinjar. Con l’arrivo dei miliziani dell’Isis perde il fratello e la madre e viene ridotta in schiavitù insieme a sua sorella minore, della quale perderà quasi subito le tracce.

Il romanzo inizia al tempo in cui Hana è già libera e decide di registrare sul suo tablet la propria storia, raccontandola ad alta voce per elaborare l’orrore vissuto. Sappiamo da subito, quindi, che Hana è sopravvissuta e che è tornata a fare il suo lavoro, ma che l’ombra della violenza subita non l’ha ancora lasciata, insieme all’angoscia per la sorte della sorella. Quello che si sviluppa nelle registrazioni che Hana cerca di fare con costanza è il racconto della sua schiavitù sessuale, dell’umiliazione, del senso di colpa, della paura costante provati nell’essere venduta ripetutamente, usata da uomini senza scrupoli, fino alla fuga, all’incontro con persone che rischiano la propria vita per proteggerla, e al ritorno alla sua piena libertà.

Senza scendere mai in dettagli morbosi e cercando di raccontare in modo umano le situazioni disumane della schiavitù subita dalla protagonista del suo romanzo, Claudia Ryan ci offre l’opportunità di comprendere meglio un fenomeno che forse abbiamo conosciuto solo per i suoi grandi numeri, incontrando da vicino una vittima e approfondendo la conoscenza del suo contesto sociale e culturale.

L.L.

Note:

1- Sulla minoranza yazida abbiamo recentemente pubblicato un dossier: Simone Zoppellaro, Yazidi, Missioni Consolata, marzo 2017, pp. 35-50.

2- Sul Kurdistan irakeno si veda il dossier: Simone Zoppellaro, Orgoglio Kurdo, Missioni Consolata, luglio 2017, pp. 35-50.

3- Human rights council, They came to destroy: Isis crimes against the Yazidis, 15 giugno 2016.

Il libro

Claudia Ryan, Hana la yazida. L’inferno è sulla terra, San Paolo, Milano 2016, 140 pp, 14,50 €.

Il sito dell’autrice

www.claudiaryan.net


Intervista all’autrice

Nel Kurdistan hanno vissuto l’orrore

Com’è nato il suo libro?

«Un giorno, casualmente, ho letto nel web un articolo che parlava di queste giovani donne rese schiave sessuali dai Da’esh. Mi ha colpito profondamente, lasciandomi attonita. Ho cercato altre storie, altri articoli, anche in lingua inglese, fino ad arrivare a leggere le relazioni di Human Rights Watch. In realtà all’inizio non l’ho fatto con l’intento di scrivere un romanzo, era solo puro interesse personale, ma poi, poco alla volta, è nata una storia e ho sentito l’esigenza di scriverla. A quel punto, però, era molto importante andare nel Kurdistan iracheno».

Perciò fondamentali sono state le ricerche e, soprattutto, il viaggio in Kurdistan.

«Sì, il viaggio che ho intrapreso mi ha messo in diretto contatto con la loro realtà e con le persone. Non si può scrivere di qualcosa che non si conosce.

In Kurdistan ho potuto vedere i luoghi dove sviluppare la storia, capire cosa si mangia, come si vestono, guardare le persone negli occhi, ascoltare direttamente le loro storie. Inoltre le guide e gli interpreti mi hanno spiegato meglio la religione yazida, la società curda e, nello specifico, yazida».

Può raccontarci un episodio o suggestione significativa di quel viaggio?

«Difficile… tutto il viaggio è stato una suggestione, è stata un’esperienza magnifica e profondamente umana. Gli episodi più commoventi sono stati quando ho parlato direttamente con le donne che erano state schiave, sabaye. Ogni volta mi sentivo devastata, ancora oggi a ripensarci mi vengono le lacrime agli occhi.

È stato bello, invece, ascoltare le storie di chi, quel 3 agosto 2014, riuscì a fuggire, di come ci riuscì, e poi essere invitata a pranzo o a cena nelle case private, toccare con mano la loro ospitalità. Inoltre è stato molto interessante visitare la città santa yazida, Lalish, ed è stato un onore poter parlare con uno dei loro capi religiosi, Baba Chawish».

Hana è un personaggio inventato che riassume le esperienze reali di diverse donne.

«Esatto. Il libro non racconta una storia vera, ma una storia plausibile, in quanto basata su testimonianze lette o ascoltate in prima persona. Hana, nella narrazione, incontra ragazze le cui vicende sono invece prese dalla realtà.

Il modo in cui Hana, nel libro, fugge, è una mia invenzione, ma poi ho scoperto che una giovane donna yazida è scappata davvero in un modo molto simile!».

Può raccontarci qualcosa degli incontri con le donne che hanno subito la schiavitù?

«Ho intervistato donne dai 17 ai 45 anni. Hanno visto cose terribili, come i propri cari venire uccisi sotto i loro occhi. Sono state umiliate, hanno perso la loro libertà, nel senso più vero della parola. Chi è giovane può superare il trauma, rifarsi una vita, ma le donne che hanno visto morire il marito e i figli maschi, che magari hanno una figlia ancora in mano ai Da’esh e non sanno dov’è… be’ per loro è impossibile riprendersi».

Cosa desiderava comunicare con il suo libro?

«Volevo raccontare cosa accade a queste donne, cercare di far immedesimare il lettore/lettrice nel vissuto di Hana, così che fosse più comprensibile, che colpisse il cuore prima dell’intelletto. Per questo ho preferito la formula del racconto in prima persona, per narrare le vicissitudini con i Da’esh. Spero che chi legge questo libro possa poi sentirsi più simpatetico con i popoli del Medio Oriente».

Lei è insegnante in un liceo, ha mai raccontato quello che ha visto in Kurdistan ai suoi studenti? Quali reazioni ha visto in loro?

«Oltre alla presentazione del libro, ho organizzato una conferenza sugli Yazidi, il genocidio che hanno subito, la schiavitù delle donne. Ho parlato di questi argomenti nella mia e in altre scuole: due ore di conferenza con ragazzi (una volta ne avevo davanti circa 250) assolutamente attoniti, concentrati, commossi. Ho avuto la loro totale attenzione per tutto il tempo e tante domande alla fine, tutte le volte. Penso sia importante parlare ai giovani di questi argomenti, sensibilizzarli, e quando si trovano davanti qualcuno che riporta ciò che ha visto e ascoltato in prima persona, per loro è più coinvolgente».

L.L.




I Perdenti 27.

Spartaco e la rivolta degli schiavi


Una delle più grandi rivolte di schiavi che l’antica Roma dovette affrontare fu quella capeggiata da Spartaco. Già due volte nella storia secolare di Roma c’erano state cruente ribellioni da parte degli schiavi, la prima tra il 136 e il 132 a.C., la seconda tra il 102 e il 98 a.C., ambedue in Sicilia dove gli schiavi vivevano in condizioni particolarmente dure lavorando nelle miniere e nei campi.

Queste «guerre servili» erano state represse con estrema durezza dalle autorità romane che consideravano gli schiavi degli oggetti di proprietà del padrone, che era libero di fare di loro quello che voleva. Ma la «terza guerra servile», capeggiata da Spartaco tra il 73 e il 71 a.C. fu la più pericolosa, coinvolse oltre centomila schiavi e indigenti e obbligò l’esercito romano a intervenire con le sue legioni migliori.

Il leader di questa ribellione era uno schiavo che proveniva dalla Tracia, un territorio che corrisponde oggi al Sud della Bulgaria più l’estremità orientale della Grecia e la parte europea della Turchia.

Le poche notizie storicamente certe che abbiamo ci presentano Spartaco arruolato nelle truppe ausiliarie romane, poi ridotto successivamente in schiavitù a seguito di un tentativo di diserzione. Molto dotato fisicamente, venne venduto a un lanista (padrone di gladiatori) di Capua e addestrato per quei giochi mortali nell’arena della città. Si racconta che fosse intelligente, acculturato e possedesse oltre a grandi doti umane anche un notevole acume tattico e una profonda conoscenza delle strategie militari romane, come dimostrato dall’abilità con la quale seppe riunire e guidare il suo esercito di schiavi.

Il suo nome nei secoli è stato un punto di riferimento fondamentale per moltissimi «ribelli»,  per tutti coloro che non accettano di essere ridotti in schiavitù e anelano ad avere un’esistenza dignitosa a misura d’uomo.

Visto che tra i personaggi dell’antichità il tuo nome e la tua storia godono di una immensa considerazione, puoi dirci come ebbe inizio la tua vicenda…

Tutto cominciò nel 73 a.C., a Capua, nei pressi di Napoli, in una scuola di addestramento per gladiatori, dove insieme ad altri schiavi prigionieri anch’io ero recluso. Circa duecento di noi organizzammo un complotto per fuggire, però all’ultimo momento il piano venne scoperto e alla fine riuscimmo a scappare solo in una sessantina.

Come siete riusciti a farla franca e a mimetizzarvi nel bel mezzo della società romana?

Durante la fuga avemmo la fortuna di imbatterci in un convoglio di carri pieni di armi destinate agli spettacoli dei gladiatori, le stesse che avremmo dovuto usare gli uni contro gli altri, e dopo un violento scontro ce ne impadronimmo, mettendo in fuga le guardie che lo accompagnavano, dopo di che ci rifugiammo sui versanti del Vesuvio.

La notizia delle vostre gesta si propagò con una velocità incredibile tra gli schiavi.

Questa fu la fortuna degli esordi, la fama che si creò attorno al piccolo nucleo iniziale di fuggitivi divenne come una calamita che attirò poi, un po’ per volta, schiavi e sbandati di ogni genere, attratti soprattutto dal nostro sistema di dividere «democraticamente», in parti uguali, il bottino che incrementavamo sempre più grazie alle razzie che compivamo in villaggi isolati lontano dalle città e dalle grandi vie imperiali di comunicazione. Tutto questo si svolgeva nell’indifferenza di Roma, che ci considerava né più né meno che una banda di piccoli delinquenti dilettanti che non meritavano poi una grande attenzione.

Ma le cose poi cambiarono…

In seguito a un conflitto con una guarnigione di legionari romani avvenuto quasi per caso, il nostro gruppo, che poteva considerarsi ormai un piccolo esercito, s’impadronì di un grosso quantitativo di armi da battaglia. Con queste sconfiggemmo le legioni di Caio Clodio, giunto sul posto per contrastare quella che – secondo il Senato di Roma – rischiava di diventare una minaccia seria per tutto il territorio della Campania.

Come si svolsero i fatti?

Il console Caio Clodio fece l’errore di attestare i suoi soldati all’imbocco dell’unica strada che discendeva lungo il Vesuvio. Noi riuscimmo a colpire le legioni romane prendendole alle spalle con un’azione di sorpresa, ovvero calando di notte giù per il declivio più scosceso un buon numero di combattenti legati con delle corde. Questa fu la prima azione eclatante del nostro esercito formato da pochi mesi, in quella occasione riuscimmo persino ad impadronirci di un certo numero di cavalli e delle insegne dei fasci littori della loro guarnigione, cose, queste ultime, ritenute quasi sacre dall’esercito romano.

Se ben capisco, c’erano ormai tutte le caratteristiche per una guerra vera e propria tra voi e la più grande potenza militare di allora…

Dici bene, in breve tempo la rivolta si estese in gran parte del Sud della penisola italica, gli scontri coinvolsero la Campania, la Lucania e l’Apulia. Altri schiavi in diverse parti dell’impero romano si ribellarono massacrando indiscriminatamente i loro padroni, crimini ed efferatezze gratuite che io stesso tentai inutilmente di bloccare.

In seguito a questi avvenimenti tu concepisti un piano per sfruttare al meglio la libertà conquistata…

Il piano che cominciavo a intravedere era quello di risalire la penisola e oltrepassare le Alpi, in modo da rendere la libertà agli schiavi che si erano uniti a noi. Purtroppo non tutti erano d’accordo con me, per esempio gli schiavi originari dalla Gallia decisero di separarsi da noi.

E questo perché?

Loro intendevano combattere Roma a viso aperto, piuttosto che fuggire oltralpe, io invece avevo delle vedute più realistiche, se vuoi più modeste, ero infatti convinto che noi – sia per numero come per preparazione militare – non avevamo nessuna possibilità di vittoria in uno scontro frontale con il formidabile e preparatissimo esercito di Roma.

Non tutti però la pensavano come te…

Purtroppo mi accorsi che l’enorme massa di uomini che mi aveva seguito ragionava più da gladiatore che da soldato, la gran parte di loro infatti voleva vendicarsi dando una sonora lezione ai romani per pareggiare il conto delle umiliazioni e delle angherie patite durante gli anni della schiavitù.

In ogni caso ci furono degli scontri con le legioni romane.

Sì, nel nostro peregrinare nella penisola ci scontrammo diverse volte con truppe dell’esercito di Roma e alcune battaglie sul campo le vincemmo noi, tant’è vero che alla fine di ogni scontro si radunavano nel nostro accampamento molti mercanti pronti ad acquistare il bottino che avevamo conquistato, ma io proibii di ricevere in cambio oro e argento: i miei uomini dovevano accettare solo ferro e rame, metalli necessari per forgiare nuove armi.

Roma non poteva tollerare ulteriormente che un piccolo per quanto agguerrito esercito di schiavi e fuoriusciti dalla società potesse esistere e ingrandirsi senza nessuna conseguenza, eravate come un tumore che bisognava estirpare ad ogni costo.

Per sottrarmi alle legioni romane che mi davano la caccia decisi di riparare in Cilicia (odierna parte Sud della Turchia), ma non riuscii a realizzare il mio piano a causa del tradimento dei pirati con cui mi ero incontrato e che, all’ultimo momento, ci rifiutarono le navi necessarie.

Con quel tradimento tu con i tuoi uomini sei rimasto intrappolato sulla punta estrema della penisola italiana.

Il peggio è che Crasso, sopraggiunto alle mie spalle ebbe l’idea di sfruttare la conformazione del Bruzio (la Calabria appunto) per toglierci ogni via di fuga: fece costruire una palizzata dalla costa ionica a quella tirrenica, lunga 300 stadi pari a 55 km dei vostri. Ma nell’inverno del 72-71 a.C., dopo ripetuti tentativi di forzare il passaggio, ci riuscimmo attraverso un vallone in una notte di tempesta.

Poi che successe?

Crasso richiese altri aiuti dal Senato, che gli inviò Pompeo con le sue legioni appena rientrato dalla Spagna, mentre dalla Macedonia, sbarcando a Brindisi, sarebbe accorso Marco Licinio Lucullo al comando delle sue legioni. Il cerchio si stringeva attorno a noi, a questo punto decisi di dirigermi verso Brindisi, nel tentativo di attraversare l’Adriatico.

Riusciste nell’impresa?

Purtroppo un buon numero di schiavi galli e germani durante la notte disertò, indebolendo decisivamente le nostre forze. Messo al corrente dell’imminente arrivo di Lucullo a Brindisi, decisi di tornare indietro e mi diressi ad Apulia con i miei compagni verso le truppe di Pompeo, in quella terra ebbe luogo la battaglia finale, dove fummo non solo sconfitti ma sbaragliati e annientati completamente.

 

La morte di Spartaco, crocifisso lungo la via Appia (secondo una tradizione non accolta però dagli storici romani), marmo bianco di Louis-Ernest Barrias, 1871, ora a Parigi, Giardino delle Tuileries.

L’ultimo atto della guerra contro Spartaco, lo schiavo che osò ribellarsi a Roma, fu un’autentica carneficina, rimasero uccisi sul campo di battaglia migliaia di schiavi tra i quali lo stesso Spartaco, il cui corpo comunque non fu mai ritrovato. I romani persero solo mille uomini e fecero seimila prigionieri, che Crasso fece crocifiggere lungo la via Appia (che da Capua porta a Roma). Altri reparti dell’esercito di Spartaco, circa cinquemila uomini, tentarono la fuga verso Nord, ma vennero raggiunti e annientati da Pompeo. Terminava così in un bagno di sangue la rivolta di Spartaco.

Quello che è certo è che la ribellione degli schiavi scosse profondamente il popolo romano, che «a causa della grande paura cominciò a trattare i propri schiavi meno duramente di prima». Anche la condizione legale e i diritti degli schiavi romani iniziarono a mutare.

Le idee di Spartaco, a distanza di secoli, entrarono a far parte del pensiero politico moderno, personaggi come Carlo Marx e Rosa Luxembourg lo presero a modello nei loro programmi di emancipazione come simbolo della rivolta delle classi servili (cioè gli operai) contro quelle padronali.

Il mito di Spartaco si staglia nei secoli più nitido che mai.

Don Mario Bandera




Perdenti 16 Iqbal Masih

iqbal-masih-1Iqbal Masih nacque in Pakistan nel 1983 in una famiglia cristiana poverissima a Muridke, abitato a Nord di Lahore, città con la più grande comunità cristiana del paese, nella provincia del Punjab. A causa di un indebitamento, contratto quando Iqbal aveva 5 anni, i suoi genitori furono costretti a «cederlo» a un fabbricante di tappeti per l’equivalente di 12 dollari. Il bimbo iniziò a lavorare 12 ore al giorno, per sette giorni alla settimana, incatenato al telaio, senza la possibilità di uscire dalla fabbrica, subendo maltrattamenti, con uno stipendio pari a una sola rupia al giorno (corrispondente a pochi centesimi di euro). Gli interessi del debito invece crescevano negando a Iqbal la possibilità di riscatto. Lavorò fino all’età di nove anni, quando, durante una fuga, fortuitamente venne a conoscenza delle attività di un’organizzazione in difesa dei diritti dei bambini lavoratori. Grazie a essa ritrovò la libertà, e iniziò a impegnarsi per la liberazione degli altri bambini. Una serie di circostanze favorevoli lo portarono alla ribalta dell’opinione pubblica internazionale e la sua testimonianza fu determinante per rompere il silenzio di omertà che copriva lo sfruttamento dei minori nel mondo. Il giorno di Pasqua del 1995, mentre andava a messa, fu ucciso da ignoti.

Iqbal, come ti ritrovasti a lavorare più di dodici ore al giorno a un telaio per fabbricare tappeti?

La mia famiglia era poverissima, mio papà per uscire dalla situazione economica molto precaria in cui ci trovavamo contrasse dei debiti con delle persone poco raccomandabili, praticamente degli strozzini che gli proposero di restituire il debito mandando uno dei suoi figli a lavorare per loro in una fabbrica di tappeti.

E tu ti offristi per andare a lavorare da quella gente per aiutare la tua famiglia?

Sì, perché mio padre era malato e poteva lavorare poco. A casa nostra si faceva una gran fatica a racimolare i pochi soldi necessari per vivere, per questo fin da piccoli tutti noi eravamo coinvolti nel trovare aiuti necessari per la sopravvivenza della nostra famiglia.

In cosa consisteva il tuo lavoro?

Io e gli altri bambini della fabbrica facevamo tappeti. Lavoravamo su dei telai tradizionali che richiedevano molta destrezza e mani piccole. Le nostre piccole dita si infilavano agevolmente nell’ordito e nella trama del tessuto: potevamo così realizzare disegni molto raffinati ed elaborati. Bisognava però lavorare giorno e notte, con tui massacranti. Ci tenevano incatenati l’uno all’altro per paura che fuggissimo. Ma io, almeno all’inizio, non avevo alcuna intenzione di fuggire perché dovevo aiutare la mia famiglia. Il padrone ci teneva sotto controllo ogni istante e se sbagliavamo a fare i nodi nel disegno di un tappeto ci puniva severamente. A volte ci costringeva a stare senza mangiare e bere dentro una scatola di lamiera sotto il sole.

Capitò anche a te di subire quel tipo di punizione?

Sono finito due volte lì dentro, una volta da solo e un’altra insieme a un ragazzo malato ai polmoni. Dopo qualche giorno è morto senza che nessuno avesse chiamato un medico per curarlo.

Non cercaste mai di scappare?

Una volta fuggii e mi rivolsi alla polizia, ma venni riportato alla manifattura e bastonato per punizione. Un’altra volta uscii dalla fabbrica insieme ad altri bambini di nascosto, e per caso assistemmo alla celebrazione della «Giornata della Libertà» organizzata dal Fronte di Liberazione dal Lavoro Schiavizzato (Bounded Labour Liberation Front – Bllf). Per la prima volta sentii parlare dei diritti dei bambini e descrivere la nostra condizione di schiavitù.

Quello fu un momento importante per te…

In quell’occasione conobbi Eshan Ullah Khan, leader del Bllf, il sindacalista che sarebbe stato la mia guida verso una nuova fase della mia vita, dedicata alla difesa dei diritti dei bambini.

Cosa successe dopo?

Ritornato nella manifattura, mi rifiutai di riprendere il lavoro malgrado le percosse. Il padrone disse alla mia famiglia che il debito contratto anziché diminuire era aumentato a diverse migliaia di rupie. Nel conto aveva inserito anche il cibo (sebbene scarso) che mi era stato dato, gli errori di lavorazione e altre menzogne. La mia famiglia fu costretta dalle minacce ad abbandonare il villaggio e io fui ospitato in un ostello dalla Bllf. Lì potei cominciare a studiare.

Il fatto di essere accolto da una struttura che, invece di sfruttarti, ti proteggeva, ti mise nelle condizioni di diventare un testimone dei soprusi che venivano compiuti verso voi bambini.

Dopo che incominciai a raccontare e a esporre al pubblico le terribili condizioni di vita a cui erano sottoposti i miei coetanei, il mio racconto venne ripreso e pubblicato dai giornali locali, da lì, per una serie di fortuite coincidenze, la storia rimbalzò sui mass media di tutto il mondo.

Così diventasti portavoce e simbolo del dramma dei bambini lavoratori in Pakistan, come in altri paesi in tutto il mondo.

Nel 1993, quando avevo dieci anni, invitato da diverse organizzazioni mondiali, cominciai a viaggiare e a partecipare a conferenze inteazionali, sensibilizzando l’opinione pubblica sui diritti che nel mio paese erano negati ai minori e contribuendo al dibattito sulla schiavitù mondiale e sui diritti inteazionali dell’infanzia.

Con le tue denunce e nella tua veste di «sindacalista bambino», non temevi per la tua vita?

Sulle prime avevo paura, ma con il tempo mi passò. A un certo punto mi accorsi di non avere più paura dei padroni, anzi, prendevo atto che erano i padroni che avevano paura di me e di noi bambini lavoratori e della nostra ribellione. Maturai anche l’idea che da grande sarei andato all’università per conseguire la laurea da avvocato per difendere coloro che erano oppressi e che vivevano situazioni intollerabili.

È vero che la tua fede religiosa ti fu molto di aiuto e ti sostenne nei momenti più duri e difficili?

Proveniente da una famiglia cristiana in un paese a stragrande maggioranza islamica, pregavo il Signore Gesù che mi desse la forza di rendere testimonianza della fede che avevo in lui e questo lo affermai in diverse occasioni nei miei viaggi per gli incontri inteazionali.

Se non vado errato hai anche ricevuto dei riconoscimenti inteazionali?

Nel dicembre del 1994 ottenni un premio di 15.000 dollari, con il quale decisi di finanziare una scuola in Pakistan. Ricevetti anche una borsa di studio per studiare all’estero, ma la rifiutai perché avevo deciso di rimanere in Pakistan, per portare avanti la mia campagna in favore dei più piccoli.

La tua attività come difensore dei bambini e la tua determinazione nel far conoscere al mondo il dramma del lavoro minorile sortì qualche effetto nella tua terra?

Circa tremila piccoli schiavi come me poterono uscire dalla loro condizione: sotto la pressione di alcuni organismi inteazionali, il governo pakistano iniziò a chiudere decine di fabbriche di tappeti che sfruttavano i minori.

 

Il 16 aprile 1995, domenica di Pasqua, all’età di 12 anni, Iqbal Masih venne assassinato, mentre si stava recando in bicicletta in chiesa. L’edificio era nei pressi della casa di sua nonna dove poi sarebbe andato con i suoi cugini. Alla notizia della sua morte, Ullah Khan affermò che si era trattato di un complotto «della mafia dei tappeti». Qualcuno si era sentito minacciato dall’attivismo di Iqbal, la polizia fu accusata di collusione con gli assassini. Di fatto molti dettagli di quel tragico giorno sono ancora oggi avvolti dall’oscurità. Alcuni testimoni affermarono di aver visto una macchina (dai finestrini oscurati) avvicinarsi al ragazzo in bici, dall’auto sarebbero partiti dei colpi di arma da fuoco.

Nel 2000 Iqbal fu il primo a ricevere, sia pur alla memoria, il World’s Children’s Prize, premio per i diritti dei bambini. Nel messaggio di fine anno del 31 dicembre 1997, il presidente della Repubblica Italiana Oscar Luigi Scalfaro ricordò il grande sacrificio di Iqbal Masih.

I suoi assassini, spezzandone la vita, hanno collocato la sua figura nel Pantheon dei testimoni che sacrificano la loro esistenza illuminando il cammino dell’umanità e ne hanno fatto un piccolo grande rivoluzionario.L’esempio che Iqbal ha seminato in Pakistan, come nel mondo intero, resta indimenticabile per tutti.

Il Bllf continua la sua difficile campagna per la liberazione da qualsiasi tipo di schiavitù, soprattutto contro l’asservimento dei bambini, per l’aumento delle paghe e per il cambiamento della legislazione.

Mario Bandera, Missio Novara