Beatificato Josef Mayr-Nusser,
il giovane altornatesino dell’Azione Cattolica
che si rifiutò di giurare a Hitler.
Nella luminosa mattinata di sabato 18 marzo nel duomo di Bolzano con una intensa e suggestiva celebrazione eucaristica presieduta dal Cardinale Angelo Amato, prefetto della Congregazione Vaticana per le cause dei Santi e con la presenza dell’Ordinario della diocesi di Bolzano – Bressanone, Mons. Ivo Muser e di numerosi vescovi sia italiani che austriaci, è stato beatificato Josef Mayr-Nusser, il giovane altornatesino membro dell’Azione Cattolica che durante la Seconda Guerra Mondiale si rifiutò di giurare a Hitler.
Josef Mayr-Nusser era nato nel 1910 a Bolzano in una famiglia di contadini profondamente credenti. Iscritto fin dall’adolescenza all’Azione Cattolica di lingua tedesca della diocesi di Trento ne divenne ben presto un dirigente qualificato e preparato. In occasione della scelta decisionale riservata agli abitanti dell’Alto Adige del 1939 si schierò con i “Dableiber”, ovvero i “no optanti” coloro che, contrari all’emigrazione verso il Terzo Reich, vollero rimanere in Italia e aderì segretamente al movimento antinazista “Andreas Hofer Bund”. Dopo l’annessione dell’Alto Adige al Reich tedesco, fu arruolato forzosamente nelle SS. Al momento di prestare il giuramento, nonostante i consigli contrari di camerati e superiori, si rifiutò di pronunciarlo, per motivi di coscienza. Agli allibiti ufficiali e sottoufficiali delle SS presenti disse: “Io non posso giurare a Hitler, sono cristiano, la mia fede e la mia coscienza non me lo consentono”. Con queste parole Josef Mayr-Nusser, decretò la propria condanna a morte. Il suo no, venne infatti pronunciato davanti all’ufficiale superiore del centro reclute delle SS di Konitz, in Prussia. E per lui la corte marziale emanò una sentenza inappellabile: condanna a morte, per fucilazione, da eseguirsi nel lager di Dachau. Ma sul patibolo Josef non arrivò mai: morì per le botte, i maltrattamenti, la fame, la sete e le sofferenze fisiche subiti sul vagone piombato durante il viaggio di trasferimento al campo di sterminio. Davanti a migliaia di fedeli nel Duomo di Bolzano, il cardinale Amato ha esaltato le virtù del primo beato contemporaneo della diocesi di Bolzano e Bressanone, che grazie alla sua fede adamantina divenne una “fiaccola di luce, seguendo fino alla fine la propria coscienza”. Mayr-Nusser, aveva ben chiaro il primato della coscienza, nell’omologazione generale dei suoi tempi, diede ascolto alla sua coscienza. Non solo: giorno dopo giorno ha lavorato alla formazione della sua coscienza, confrontandosi continuamente con il Vangelo in modo da essere capace, di fronte a una scelta, anche la più dura, da che parte stare.
Il vescovo Ivo Muser ha evidenziato la gioia della diocesi di Bolzano e Bressanone per la beatificazione di un laico, padre di famiglia, esempio cristallino per l’impegno socio-politico dei cristiani, questo martire scomodo, per troppo tempo dimenticato, ci stimola al coraggio civile e a fare i conti con le pagine più oscure della nostra storia. Mons. Muser, ha poi aggiunto: “Rimarrà scomodo anche da Beato”. Ci abbiamo messo tanto, come società e come Chiesa, a guardarlo in faccia. Il suo tempo è stato un tempo di scelte coraggiose e chi scelse in modo sbagliato, di fronte a lui non può che rimanere in rispettoso silenzio. Alla fine Mons. Muser ha ricordato che ancora oggi c’è chi non accetta fino in fondo il suo messaggio, ma grazie a lui possiamo dire: “no alle scelte facili, sì invece alla convivenza tra i nostri gruppi etnici, tra tedeschi, ladini e italiani”. L’iter burocratico legato alla figura di Mayr-Nusser è rimasto inspiegabilmente bloccato per anni. Una buona spinta la data Papa Francesco, il cui ruolo è stato fondamentale per far camminare un altro processo di beatificazione che rischiava di insabbiarsi, quello di monsignor Romero.
Josef Mayr-Nusser proclamato Beato nel duomo di Bolzano dall’inviato papale, cardinale Angelo Amato, in una radiosa giornata primaverile altornatesina offre un messaggio attualissimo alla comunità dei cattolici non solo italiani: la sua testimonianza contro l’idolatria del potere – ieri come oggi – ha un valore civile e politico enorme. La Chiesa lo ha riconosciuto ufficialmente, ora l’impegno per tutti è che la sua figura non venga ridotta ad un innocuo “santino”, da tenere nel cassetto o nel portafoglio, ma grazie alla coerenza evangelica della sua vita sia additato alla comunità civile ed ecclesiale come un testimone coraggioso di non violenza e di pace.
Argentina San José Gabriel Brochero un pastore odora pecore
San José Gabriel Brochero, il «cura gaucho», era profondamente convinto che avrebbe potuto essere un buon pastore solo con un’azione missionaria ispirata dall’affetto, dall’interesse e dalla compassione per tutte le persone colpite dalla sofferenza, dalla povertà e dalle ingiustizie.
Nel volto di Brochero incontriamo la misericordia di Dio. Il 22 gennaio 2016 papa Francesco ha firmato il decreto che riconosce il secondo miracolo ottenuto grazie all’intercessione del beato José Gabriel Brochero. Il miracolo riconosciuto è quello della guarigione di una bambina che è tornata a camminare dopo un infarto cerebrale. Si tratta di Camila Brusotti, che all’età di otto anni, brutalmente picchiata da sua madre e dal suo patrigno, era rimasta per più di due mesi incosciente in terapia intensiva.
Il cura gaucho (cura = prete, gaucho = equivalente al cowboy, mandriano a cavallo), come era conosciuto, sarà canonizzato da papa Francesco il 16 ottobre e diventerà il primo santo tutto «argentino» perché nato e morto in Argentina. Mentre san Héctor Valdivielso Sáez (1910-1934), considerato da molti il «primo santo argentino», nacque nel paese, ma visse in Spagna da quando aveva quattro anni, e là fu fucilato insieme ai suoi confratelli quando aveva solo 24 anni, durante la rivoluzione delle Asturie, prima dell’inizio della guerra civile spagnola.
Il cura Brochero, la cui causa di beatificazione era iniziata nel 1967, era stato dichiarato venerabile da Giovanni Paolo II nel 2004 e poi beatificato da Benedetto XVI alla fine del 2012.
Chi era il Cura Gaucho?
Nacque nelle vicinanze di Santa Rosa de Río Primero (Córdoba, Argentina) il 16 marzo 1840 da una famiglia di contadini, quarto di dieci figli, crebbe nel seno di una famiglia profondamente cristiana. Due sue sorelle si fecero suore Figlie di Maria Santissima dell’Orto, fondate da sant’Antonio Maria Gianelli. Entrò nel seminario Nostra Signora di Loreto il 5 marzo 1856 e fu ordinato sacerdote il 4 novembre 1866. Destinato come collaboratore pastorale presso la cattedrale di Córdoba, si prodigò durante l’epidemia di colera che colpì la città nel 1867 e mieté più di quattromila vite. In qualità di prefetto agli studi del seminario maggiore, ottenne il titolo di maestro in filosofia presso l’Università di Córdoba il 12 novembre 1869.
Verso la fine del 1869 fu nominato parroco di sant’Alberto, un paese a tre giorni a cavallo dalla città; situata sulle Sierras Grandes, alte più di 2 mila metri, la parrocchia contava più di 10 mila abitanti che vivevano in luoghi isolati e impervi senza strade, senza scuole e servizi sociali. La situazione morale e l’indigenza materiale degli abitanti avrebbe scoraggiato chiunque, ma non il cura gaucho che da quel momento dedicherà tutta la sua vita a portare non solo il Vangelo, ma anche a promuovere la vita delle sua gente attraverso la scuola e tante altre iniziative sociali.
Appena un anno dopo il suo arrivo convinse uomini a donne a recarsi a Córdoba per fare gli esercizi spirituali, percorrendo in tre giorni gli oltre 150 km di distanza a cavallo o a dorso di mulo, in carovane che spesso superavano le 500 persone. Più di una volta furono sorpresi da forti tormente di neve. Al ritorno, dopo nove giorni di silenzio, preghiera e penitenza, i suoi parrocchiani cambiavano poco a poco la loro vita, diventando cristiani più convinti, impegnati anche nello sviluppo umano della loro terra.
Nel 1875, con l’aiuto dei suoi parrocchiani, iniziò la costruzione della Casa degli Esercizi del paese allora chiamato Villa del Transito (località che oggi porta il suo nome di Villa Cura Brochero). Fu inaugurata nel 1877 e, durante il ministero del cura gaucho vi passarono più di 40 mila persone con tui di 700 persone alla volta. Come complemento costruì la casa per le suore, un collegio per le ragazze e la residenza per i sacerdoti.
Con i suoi parrocchiani costruì più di 200 km di strade e varie chiese, fondò paesi e si preoccupò per l’educazione di tutti.
Richiese alle autorità e ottenne uffici postali e telegrafici. Progettò il ramo ferroviario che avrebbe attraversato la Valle de Traslasierra unendo Villa Dolores e Soto per liberare i suoi cari montanari dalla povertà in cui giacevano, «abbandonati da tutti, ma non da Dio», come amava ripetere.
Predicò il Vangelo adattando il linguaggio a quello dei suoi fedeli per renderlo comprensibile. Celebrò la santa messa anche nei luoghi più remoti della sua parrocchia, portando sempre con sé il necessario sulla sua mula. Nessun infermo rimaneva senza sacramenti perché né la pioggia, né il freddo lo fermavano, «altrimenti il diavolo mi ruba un’anima», diceva. Tra questi c’erano numerosi lebbrosi, che visitava regolarmente e con cui beveva il mate, la tipica bevanda argentina che si condivide da uno stesso recipiente. Si donava a tutti, specialmente ai poveri e ai lontani, che cercava con sollecitudine per avvicinarli a Dio.
Pochi giorni dopo la sua morte, il giornale cattolico di Córdoba scrisse: «È risaputo che il cura Brochero ha contratto la malattia che lo ha portato alla tomba perché non solo visitava ma anche abbracciava un lebbroso abbandonato da quelle parti». Diventato lebbroso, nel 1908 rinunciò alla parrocchia, toò a Córdoba e andò a vivere con le sue sorelle a Santa Rosa de Río Primero, la sua città natale. Non vi restò per molto: sollecitato dai suoi vecchi parrocchiani, toò a Villa del Tránsito nel 1912, preoccupandosi dell’opera che aveva sospeso, ossia l’installazione di una linea ferroviaria. Infine, il 26 gennaio 1914, rese l’anima a Dio. Le sue ultime parole, pronunciate in dialetto, furono: «Ora ho gli attrezzi pronti per il viaggio» («Ahora tengo ya los aparejos listos pa’l viaje»).
«Sarete miei testimoni»
Il cura Brochero prese alla lettera queste parole di Gesù e le visse da vero missionario praticando la spiritualità delle «tre A: aquí, allí, allá». Sono le tre dimensioni che egli ha sempre conservato nella sua vita.
Aquí – qui dentro il proprio cuore: la missione inizia in noi stessi, ma è necessario entrare nel proprio cuore, in profondità e con sincerità; spesso è il viaggio più difficile e lungo da percorrere.
Allí – qui e ora, in questo posto: nella propria diocesi, nella propria parrocchia, nella propria realtà.
Allá – Là, oltre: fino ai confini della terra che ci è affidata. Il cura Sapeva aprire le porte e lasciare entrare e nello stesso tempo sapeva uscire al di là delle frontiere tradizionali. Iniziava con un orizzonte concreto e limitato per ampliarlo poco a poco. Nello stesso modo il cammino missionario che egli apriva a coloro che lo aiutavano era proposto seguendo uno schema simile, partendo dal «di dentro», continuando nel «qui e ora» per aprirsi allo sguardo della missione nel «là e oltre» i confini e le barriere.
Juan Carlos Greco*
*Juan Carlos Greco, missionario della Consolata argentino. Il testo è stato tradotto e adattato da Misiones Consolata n. 470, luglio-agosto 2016, pubblicata a Buenos Aires, Argentina. Foto di questo articolo tratte da: www.curabrochero.org.ar
Le 3 «A»
Proviamo ad approfondire le tre dimensioni della spiritualità del cura con un po’ di allegria, qualche sua frase e brevi testimonianze.
1. Aquí – qui dentro
«Un certo padre Juan è appena morto. Il vescovo durante il funerale abbonda di elogi: “Il defunto era un buon sacerdote, un vero amico di tutti, un padre umile e povero, un missionario esemplare!”. La sacrestana guarda uno dei chierichetti e gli dice all’orecchio: “Vai a vedere nella cassa e guarda se chi sta dentro è proprio p. Juan”».
Non è necessario fare molti elogi di Brochero. Egli sapeva aiutare le persone a entrare dentro di sé, a prendere coscienza della propria situazione e iniziare un cammino di vera conversione.
Diceva: «Non siamo cristiani per un’idea o una decisione etica, ma per incontrarci con Gesù». E a proposito della sua ordinazione sacerdotale: «Ho avuto molta paura. Sono solo un povero peccatore, così pieno di limiti e miserie. E mi domandavo: “Saprò essere fedele alla vocazione? In che imbroglio mi sono messo?”. Ma subito una sensazione immensa di pace invase il mio essere. Perché se il Signore mi aveva chiamato, Egli sarebbe stato fedele e avrebbe sostenuto la mia fedeltà; inoltre, Gesù Buon Pastore, non nega mai i suoi doni a coloro che lo seguono e sono “altri Gesù”» «Solo convertendo noi stessi in un nuovo magnificat potremo diventare ciò che Dio vuole che siamo, umili servitori, sui quali si effonde la misericordia di Dio per poter offrire la propria vita per amore al mondo. Oggi, per intercessione della Madre della misericordia, dobbiamo essere artefici della pace, strumenti di riconciliazione, costruttori di unità e testimoni della misericordia, affinché Dio voglia servirsi di noi e ricordarsi della sua eterna misericordia, ossia della grande promessa di Dio fatta ai nostri padri a favore di Abramo, di noi e del suo popolo per i secoli dei secoli».
«L’ostia consacrata è un miracolo di amore, un prodigio di amore, una meraviglia dell’amore, un complemento di amore ed è la prova più chiara del suo infinito amore verso di me, verso voi e verso l’uomo».
«Egli non fu un cristiano triste, sapeva della gioia che dà Gesù e la voleva contagiare», scrivono i vescovi argentini, «per questo, visitando la gente nelle case, diceva: “Vengo a portarvi la musica”. La musica di sapersi amati da Dio».
Per questo se non si è capaci di ascoltare la musica «che è dentro» (di noi) non si può cantare né in «questo posto» né «oltre», fino ai confini del mondo.
2. Allí – qui e ora
Nel confessionale:
– Cosa posso fare con i miei peccati, padre?
– Ora (prega).
– (Hora?) Sono le quattro e un quarto. Però, che posso fare con i miei peccati?
Seduto… Camminare verso il «qui e ora», ma seduto, confessando lunghe ore. «Il sacerdote che non prova molta pena per i peccatori è mezzo sacerdote. Questi paramenti benedetti che indosso non mi fanno sacerdote; se non alberga dentro di me la carità non sono nemmeno cristiano».
E ai suoi sacerdoti che lo aiutavano raccomandò per iscritto «che quanto più i fedeli sono peccatori o rudi o incivili, tanto più li dovete trattare con dolcezza e amabilità nel confessionale, dal pulpito e nella relazione personale».
Camminando… verso i poveri. «Brochero si caratterizzava per l’andare incontro ai bisognosi. Non gli mancavano mai aiuti da donare ai poveri della zona. Il suo vestito era sempre umile e povero. Molte volte, la signora Zoraida Viera de Recalde che gli lavava i vestiti gli domandava: “Signor Brochero, e quella camicia nuova che aveva?!”. Il prete rispondeva: “L’ho data a un altro che ne aveva più bisogno di me”». Diceva sempre: «Dio è come i pidocchi, c’è dappertutto, ma preferisce i poveri».
Con la predicazione itinerante e gli esercizi spirituali. Un sacerdote che lo conobbe ha testimoniato: «Dato che nella sua parrocchia regnavano l’ignoranza, l’indifferenza, l’alcolismo e il latrocinio, iniziò l’opera di evangelizzazione per mezzo degli Esercizi Spirituali e si propose di portare alla città di Córdoba i suoi fedeli perché potessero farli. Ma come trascinare quella gente che non aveva idea di che cosa fossero? Come condurre un numero considerevole di uomini e donne per sentirneri molto difficili lungo gli oltre 150 km attraverso le montagne?
Brochero commentava: “Chiedevo in giro chi era la persona più ‘condannata’, più ubriacona e ladrona della zona. Le scrivevo allora un bigliettino dicendole che desideravo trascorrere due giorni nella sua casa, celebrare messa, predicare e confessare, e che quindi avvisasse i suoi amici. In questo modo sapevo che quella gente veniva ad ascoltarmi perché se fossi andato da una buona famiglia quei furbacchioni non si sarebbero avvicinati. E là dicevo solo che volevo fare il loro bene a mie spese e che volevo insegnar loro il modo di salvarsi e qui tiravo fuori il Santo Cristo invitandoli agli Esercizi Spirituali”. In questo modo, invitando la gente non solo della sua parrocchia, ma anche quella della Rioja e di San Luis riuscì a portare circa 700 persone agli esercizi, procurando loro i cavalli e il denaro necessari e rispondendo personalmente per tutte le necessità dei più poveri. Tutte quelle persone tornavano da Córdoba piene di gioia e completamente trasformate».
3. Allá – Là, oltre
Un prete durante la predica disse: «In questo paese si è persa la fede». Al che un ubriaco rispose ad alta voce: «E allora da qui non esce nessuno finché non venga ritrovata!».
Ma se si è persa la fede, Brochero sapeva che bisognava andare a «riscattarla» e nello stesso tempo a seminarla nei cuori che non l’avevano mai avuta. E dove si diresse? È nelle periferie – come ha spiegato in molte occasioni Papa Francesco – che il cura Brochero si impegnò a restare. «Andare verso coloro che non conoscono l’amore di Dio perché non è stato loro annunciato o perché la triste realtà in cui vivono dice loro che Dio è assente dalle loro vite». E faceva questo non solo con le parole, ma anche con le opere in ambienti che non erano certo normali per gli ecclesiastici di quel tempo.
«Come la Madonna alle nozze di Cana, anch’egli ha saputo dire a Gesù: “Non hanno acqua”, “non hanno educazione”, “non hanno strade”, “non hanno mezzi adatti per incontrarsi come fratelli e commercializzare i loro prodotti…”».
«Il cura Brochero come uomo di fede, povero e generoso, era già presente nel cuore della gente a Cordoba nel 1857 quando ci fu l’epidemia del colera. Allo scoppio di quella terribile epidemia egli era già prete. Piuttosto che fuggire dal flagello quel giovane sacerdote, rischiando di contagiarsi per servire gli infermi, andò di casa in casa consolando e assistendo nelle loro necessità materiali e spirituali gli ammalati. Consolò le famiglie e diede sepoltura cristiana alle vittime dell’epidemia. È proprio a partire da questo fatto che la gente iniziò a scoprire che in mezzo ad essa c’era un uomo di Dio».
«Visitando i lebbrosi della zona contrasse la malattia che sopportò durante i suoi ultimi anni, la lebbra. Si può ben dire che fu un martire della carità. Una persona che lo conobbe, ricorda che nella parrocchia c’era un lebbroso che aveva un brutto carattere, bestemmiava e nessuno voleva avvicinarsi a lui. Brochero gli si avvicinò, gli portava da mangiare, lo puliva, beveva il mate con lui. La sua stessa nipote gli diceva di non andare da lui ed egli le rispondeva: “Forse l’anima di questo pover’uomo non vale niente?!”, e continuò a servirlo; lo trasformò in un mite agnello. Il lebbroso si confessò da lui e morì santamente avendo ricevuto tutti i sacramenti».
Juan Carlos Greco
I Perdenti 7. San Tommaso Moro
Tommaso Moro nacque il 7 febbraio 1477 (o 1478) a Londra da una famiglia benestante, il padre era giudice. In gioventù si dedicò agli studi giuridici, diventando avvocato. Sposatosi nel 1505, ebbe quattro figli. Pur avendo un ruolo istituzionale di rilievo, condusse una vita ascetica in stile francescano. Rimasto vedovo nel 1511, si risposò quasi subito, accogliendo in casa la figlia della nuova sposa e, cosa nuova per quei tempi, volle che le figlie ricevessero la stessa alta educazione dei figli, dando un esempio alle famiglie nobili del tempo.
Nel 1504 entrò alla Camera dei Comuni, ricoprendo incarichi sempre più importanti e diventando sempre più conosciuto per le sue capacità e la sua integrità. Segretario personale e consigliere del re Enrico VIII, seguì il cardinale Thomas Wolsey (1471-1530), dal 1515 Cancelliere del Regno, in diverse missioni diplomatiche in Europa per favorire la pace tra i vicini litigiosi come il re di Francia e l’imperatore di Spagna e Germania e per sostenere il papa alle prese con la nascita e lo sviluppo del protestantesimo luterano. Fu eletto Speaker nel 4° parlamento convocato da Enrico VIII nel 1523. Nel 1529, caduto in disgrazia Wosley, Moro venne nominato Lord Cancelliere del Regno d’Inghilterra. Durante questo periodo usò tutta la sua autorità per fermare la diffusione del protestantesimo luterano. Ma dopo solo tre anni, nel 1532, restituì al re l’incarico e il sigillo di Cancelliere adducendo motivi di salute.
In realtà aveva maturato un insanabile disaccordo con Enrico VIII circa la gestione dell’annullamento del matrimonio con la regina Caterina d’Aragona, per sposare Anna Bolena. Fedele e devoto cattolico, non concordava con le misure che il re andava prendendo per escludere ogni influenza del papa nella vita e organizzazione della Chiesa inglese. Nel 1533 si rifiutò di partecipare all’incoronazione di Anna Bolena come regina d’Inghilterra, facendo aumentare l’ostilità nei suoi confronti. Difesosi con successo da diverse accuse di tradimento e corruzione, il 13 aprile 1535 gli fu richiesto di giurare fedeltà all’Atto di Successione (che riconosceva Anna come legittima regina d’Inghilterra). Si rifiutò però di accettare un secondo documento a esso connesso: l’Atto di Supremazia che nominava il re capo supremo della Chiesa d’Inghilterra disconoscendo il primato del papa su tutta la Chiesa. Quattro giorni dopo fu incarcerato nella Torre di Londra con l’accusa di tradimento. Durante la sua detenzione fu interrogato più volte ma non cedette né alle lusinghe né alle minacce. Il primo giorno di luglio venne condannato a morte per «avere parlato del re in modo malizioso… e diabolico» e il 6 luglio dello stesso anno fu decapitato.
Tommaso, tu sei stato una delle persone più in vista del tuo tempo, noto in tutta Europa sia come statista che come uomo di cultura, polemista e strenuo sostenitore della Chiesa e del Papato. Dal tuo ritratto più famoso sembri anche un tipo arcigno. è proprio così?
Macché. La mia fede mi dava una grande pace e serenità interiore. Ero un uomo dallo spiccato senso dell’humor e non lo perdevo neanche nelle situazioni più scabrose.
Ma l’humor non è una caratteristica di tutti i sudditi di sua maestà?
Magari fosse così! Purtroppo, anche ai miei tempi c’era gente dal brutto carattere, arcigna e irascibile che non sorrideva mai e spesso e volentieri perdeva le staffe.
Ti riferisci forse a Enrico VIII, che quando veniva contraddetto, andava subito in “ebollizione”?
Enrico era un uomo intelligente, ma passionale, impetuoso e impaziente. A lui ho dedicato molto del mio impegno politico, prima come membro del Parlamento inglese, poi come segretario personale del re, vicesceriffo della città di Londra, cancelliere del ducato di Lancaster, Speaker del Parlamento e infine come Gran Cancelliere del Regno, cercando di moderare le sue intemperanze e di aiutarlo a prendere decisioni che fossero per il vero bene del paese.
Prima di addentrarci in quella che è stata la causa della tua condanna, parlarci un po’ di te…
Venni al mondo il 7 febbraio 1477 da una famiglia non nobile della piccola borghesia londinese. A tredici anni fui mandato a fare il paggio di John Morton, cancelliere del Re d’Inghilterra e futuro cardinale. Quindi proseguii i miei studi in campo giuridico, diventando un avvocato. Frequentando l’ambiente universitario ebbi modo di conoscere una delle personalità più in vista dell’Europa del mio tempo: Erasmo da Rotterdam (1466-1536, teologo, umanista e filosofo olandese, ndr).
Fu in quel periodo, in cui eri ritenuto unanimemente una delle menti più brillanti del mondo accademico inglese, che scrivesti L’Utopia, l’opera per la quale ancora oggi sei conosciuto e considerato con rispetto in campo filosofico, oltre politico?
Attraverso il mio romanzo «Utopia» volevo esprimere ciò che era il sogno di tutti gli intellettuali del Rinascimento europeo, descrivendo una società segnata dalla correttezza di relazioni fra le persone che vi abitano, in cui è la cultura a dominare e regolare la vita degli uomini. In un certo qual modo volevo ri-esprimere con un linguaggio adatto ai miei tempi quello che Platone aveva scritto nella sua opera «La Repubblica» in cui parlava esplicitamente di una città ideale. L’ispirazione di quest’opera, molto apprezzata nelle varie università, mi venne lavorando con Erasmo da Rotterdam alla traduzione dal greco al latino di alcuni scritti di Luciano di Samosata (120-190 ca.).
Tra te ed Erasmo nacque anche un rapporto di stima e di affetto reciproco.
Con Erasmo rimasi sempre legato da una profonda amicizia, tant’è vero che in una lettera mi descrisse come un «credente ardentemente ansioso di verace religiosità, agli antipodi di ogni forma di superstizione», e anche quando fui imprigionato le sue lettere furono un fermo incoraggiamento e una profonda consolazione.
Ma oltre a Erasmo anche i tuoi familiari ti furono sempre accanto…
La mia prima moglie Jean Colt mi diede quattro figli: Margaret, Elisabeth, Cecily e John. Purtroppo la mia cara Jean morì a soli 23 anni, io rimasi con quattro bambini da accudire, per questo mi risposai dopo pochi mesi con Alice Middleton, anch’essa vedova che portava con se una figlia grandicella. Le mie spose e i miei figli furono sempre un rifugio caldo e accogliente in ogni stagione della mia vita, in modo particolare quando mi trovai imprigionato nella Torre di Londra.
Nonostante i tuoi molti meriti nell’amministrazione dello stato e nella gestione dei rapporti interazionali del tuo paese, il re entrò in contrasto con te sulla questione dell’annullamento del matrimonio con Caterina d’Aragona per sposare Anna Bolena.
Il fatto che Caterina d’Aragona fosse la zia di Carlo V, re e imperatore di Spagna (sul cui impero «non tramontava mai il sole»), creava già per sé complicazioni interazionali. Però quel matrimonio era stato celebrato rispettando tutte le leggi della Chiesa, con documenti stilati con cura dai più competenti giuristi del tempo. Era quindi valido a tutti gli effetti e pressoché impossibile da sciogliere.
Ma la passione acceca l’animo degli uomini e in questo i re non sono da meno dei comuni mortali…
Vero. Però se la passione aveva la sua parte, la ragione principale era un’altra: il re voleva a tutti i costi un erede maschio, mentre tutti i figli di Caterina erano morti appena dopo il parto e solo Maria (che sarebbe diventata poi regina) era sopravvissuta. Per questo Enrico VIII volle l’annullamento del matrimonio con Caterina per sposare Anna Bolena. Dopo di lei ebbe altre quattro mogli. Delle sei, da due divorziò, una morì nel 1537 dopo il parto dell’unico figlio maschio del re (il futuro Edoardo VI), una gli sopravvisse e due furono decapitate per ordine suo. Una di queste fu proprio Anna Bolena, che pur avendogli dato una figlia – la futura Elisabetta I -, fu accusata di adulterio, incesto e stregoneria, e decapitata il 19 maggio 1536.
Il papa fu irremovibile nel rifiuto dell’annullamento del primo matrimonio e la conseguenza fu che il Regno d’Inghilterra si staccò completamente dalla Chiesa Cattolica.
E pensare che papa Leone X l’11 ottobre 1521 aveva conferito a Enrico VIII, primo monarca europeo a riceverlo, il titolo di Defensor fidei (difensore della fede) come riconoscimento al libro che il re aveva scritto: «Difesa dei sette sacramenti», un’opera a sostegno soprattutto del sacramento del matrimonio e della supremazia del papa. Quell’opera fu vista come un importante attacco contro la nascente Riforma protestante, e specialmente contro le idee di Martin Lutero. A seguito della decisione di Enrico VIII di rompere i rapporti con la Chiesa cattolica e di fondare la Chiesa d’Inghilterra, papa Paolo III revocò il titolo e scomunicò il re.
Come reagisti quando nel 1532, ricattando il clero inglese, Enrico VIII si fece proclamare «unico protettore e capo supremo della Chiesa Anglicana»?
Come laico non ero tenuto a giurare su quel documento, ma, non condividendolo, il giorno dopo restituii al sovrano il sigillo – segno della mia carica di Cancelliere – e mi ritirai a vita privata, preparandomi ad affrontare una dura povertà in quanto perdevo ogni stipendio dalla Corte e ogni altro introito professionale, e non avevo risparmi, avendo dato tutto ai poveri e badato al sostentamento della mia numerosa famiglia.
Con che animo, quando Anna Bolena il 1° giugno del 1533 venne incoronata regina a Westminster, partecipasti alla celebrazione?
Io quel giorno mi astenni dal partecipare alla cerimonia, rimasi a casa con la mia famiglia adducendo motivi di salute. Così facendo mi attirai le ire della nuova regina, la quale, neanche troppo velatamente tramò perché io fossi sempre più emarginato.
Il re non ti diede scampo e ti invitò a prendere una posizione netta e ufficiale sulla questione.
C’erano tre punti che avrei dovuto accettare con un giuramento: che il matrimonio tra Caterina e il re Enrico VIII era nullo e quindi mai esistito; che Anna Bolena era la legittima regina di Inghilterra; e che il re aveva la supremazia sulla Chiesa d’Inghilterra non solo per le materie temporali ma anche quelle spirituali. Riconobbi che il Parlamento aveva il diritto di dichiarare Anna regina di Inghilterra, ma rifiutai categoricamente di accettare come valido l’annullamento del matrimonio con Caterina e soprattutto non feci il giuramento con il quale avrei dovuto riconoscere l’Atto di supremazia del re sul papa anche in materia di religione. Fui l’unico laico in tutta l’Inghilterra a rifiutare tale giuramento. Del clero rifiutarono soltanto il vescovo John Fischer e alcuni monaci certosini, che vennero anch’essi giustiziati.
Possiamo dire che i contrasti che hai avuto con il Re erano dei problemi di coscienza?
Mano a mano che procedeva il dialogo a distanza con il Re e con i suoi funzionari incaricati di convincermi a firmare, mi rendevo sempre più conto che era mio preciso dovere, come credente, rivendicare il primato della coscienza per cui ognuno deve scegliere tra l’osservanza della legge di Dio e quella degli uomini.
Quando fosti interrogato nella Torre di Londra, ti torturarono?
Torture fisiche no, ma ero sempre alla presenza di diverse persone, giudici agguerriti che cercavano in ogni modo di cogliermi in fallo. Nel corso di quattro drammatici interrogatori, tenni testa con pacata fermezza alle minacce e blandizie dei giuristi asserviti al monarca. Ma alla fine fui condannato a morte: «per avere parlato del Re in modo malizioso… e diabolico».
È vero che non perdesti il tuo senso dell’umorismo neanche negli ultimi istanti della tua vita?
Mentre salivo gli scalini che mi portavano al patibolo inciampai e caddi, dissi al boia: «Per favore mi aiuti a salire, a scendere non ce ne sarà più bisogno».
La condanna a morte e l’esecuzione di Tommaso Moro fu recepita come un fatto clamoroso da tutte le Corti europee. La notizia attraversò come un lampo tutto il vecchio Continente e la devozione verso questo integerrimo servitore dello stato e della Chiesa ebbe subito inizio.
Leone XIII lo proclamò Beato nel 1886 e Pio XI lo fece Santo il 19 maggio 1935. Nel 1980 la Chiesa Anglicana d’Inghilterra ha aggiunto Tommaso Moro e l’arcivescovo John Fisher alla lista dei «Martiri ed eroi della Riforma» e ne celebra la festa il 6 luglio. Il 31 ottobre del 2000, Giovanni Paolo II lo ha nominato protettore di tutti i politici e amministratori pubblici. Con la sua vita, e con la sua morte, Tommaso Moro ci ricorda che c’è ancora qualcosa o Qualcuno per cui valga la pena di accettare il martirio. Aveva tratto dalla sua fede e dall’entusiasmo umanistico del suo tempo, il desiderio di essere un vero uomo, totalmente uomo. Ma un giorno comprese che ci sono situazioni in cui un cristiano, proprio per essere pienamente «uomo», deve consegnare a Cristo tutta la sua umanità; situazioni in cui c’è posto solo per questa alternativa: o la disumanità, o l’Umanità del Risorto. O osservare le leggi dello stato o seguire la propria coscienza. La sua scelta è un esempio ancora oggi per tutti coloro che vogliono vivere con coerenza la propria fede.
Don Mario Bandera, Missio Novara
Preghiera del buonumore
Dammi o Signore, una buona digestione
ed anche qualcosa da digerire.
Dammi la salute del corpo,
col buonumore necessario per mantenerla.
Dammi o Signore, un’anima santa,
che faccia tesoro
di quello che è buono e puro,
affinché non si spaventi del peccato,
ma trovi alla Tua presenza
la via per rimettere di nuovo
le cose a posto.
Dammi un’anima che non conosca la noia,
i brontolamenti, i sospiri e i lamenti,
e non permettere
che io mi crucci eccessivamente
per quella cosa troppo invadente
che si chiama «io».
Dammi, o Signore, il senso dell’umorismo,
concedimi la grazia
di comprendere uno scherzo,
affinché conosca nella vita un po’ di gioia
e possa farne parte anche ad altri.
San Tommaso Moro
Mario Bandera
La «mia» Irene
23 Maggio 2015, a Nyeri, beatificazione di suor Irene Stefani. Nyaatha, la mamma misericordiosa, sarà proclamata beata dal cardinal John Njue di Nairobi, legatissimo alle missionarie della Consolata e ai missionari a cui deve la sua educazione. La cerimonia si svolgerà nel campus della Dedan Kimathi University di Nyeri. La prima beatificazione in assoluto in Kenya, dove da secoli si attende il riconoscimento della santità dei 149 martiri di Mombasa, massacrati nel 1631.
Suor Irene Stefani, nata Mercede, una delle prime missionarie della
Consolata, ha dato la sua vita per amore di Cristo, consumandosi fino
all’ultimo. Condivido con voi alcuni pensieri molto personali.
Ho incontrato suor Irene che ero ancora un ragazzino appena dodicenne. Bazzicando attorno all’altare come fedelissimo chierichetto, mi sono imbattuto in un giovane missionario scherzoso e dinamico che, saputa la mia passione per i libri, me ne ha passati «a gogò». Erano «I racconti della brughiera», «I romanzi del brivido» e le vite di missionari e missionarie in Africa, letture che integravano la mia passione per l’avventura, alimentata sui libri di Vee, Salgari e compagni. Un libro spesso, copertina azzurra con due scarponi bene in vista mi prese gli occhi e il cuore. «Gli scarponi della gloria» di suor Giampaola Mina raccontavano di una bresciana e valsabbina come me, una che, come me, aveva bevuto le acque del fiume Chiese. Lessi quel libro di un fiato, e poi lo rilessi ancora e ancora. Lo conservo tutt’ora, foderato con la classica carta marron del tempo. Un incontro per la vita. Due anni dopo entravo anch’io in seminario.
La «mia» Irene è una ragazzina di un paese di montagna adagiato vicino a un piccolo lago da cui esce il fiume Chiese. È un paese di confine. Poco più in là c’è il Trentino che a quei tempi era sotto l’Impero Austroungarico. Da lì i garibaldini erano partiti nella terza guerra d’indipendenza nel loro tentativo di liberare Trento. Una grande rocca domina Anfo, collegata a una serie di fortificazioni sulle montagne vicine. Migliaia di soldati vanno e vengono. La ragazzina si chiama ancora Mercede. È abituata agli scarponi e al lavoro duro. La famiglia è numerosa, il papà nonostante abbia una locanda e commerci in vino, non naviga nell’oro. Questo tempra il carattere della ragazza sana e robusta, formata al lavoro, alla disciplina, alla fede e alla preghiera. Attiva in parrocchia, si lascia contagiare da quel giovane prete missionario, padre Angelo Bellani, che ha l’Africa nel cuore e sta partendo per il Kenya. Ventenne, nel 1911, Mercede va a Torino e diventa suora alla scuola dell’Allamano: uno che vuole che i suoi missionari siano prima di tutto dei santi. Parte per l’Africa a fine 1914. E si trova gettata nel vortice della guerra, la «grande guerra» che insanguina anche Kenya e Tanganika, opponendo inglesi e tedeschi, mentre anche al suo paese, Anfo, vicino al fronte, la chiesa è trasformata in ospedale militare. Lei e le sue sorelle missionarie sono buttate in quel mare di sofferenza che sono gli ospedali militari dove i soldati di ultima categoria, i forzati dei trasporti, i portatori (carriers appunto) muoiono a migliaia. Si parla di 500mila arruolati a forza e 200mila morti. L’esperienza più dura per lei è a Kilwa Kivinje, un posto sperduto a 300 km a Sud di Dar-es-Salaam, un porto di trafficanti omaniti che razziavano schiavi nell’interno del Tanganika. I morti sono talmente tanti che ogni sera vengono accatastati sulla spiaggia perché la potente marea dell’Oceano Indiano dia loro sepoltura. La montanara è instancabile e senza paura. Un angelo per i carriers. Li conosce per nome, li cura, li consola, dono loro il suo splendido sorriso, li accompagna fino alla fine.
La foto più bella di lei è stata scattata proprio a Kilwa. Il fotografo l’ha bloccata nel pieno dell’azione. L’ha chiamata a posare mentre era impegnata a curare qualcuno. In mano ha una garza, al collo il crocefisso. Interessante quel crocefisso. Non è in posizione da cerimonia, ma da lavoro. Così, col cordino stretto alla gola, poteva essere facilmente gettato dietro le spalle perché non impedisse di chinarsi sugli ammalati e curae le ferite o pulie i corpi martoriati. E quel sorriso che oltre alla bellezza del viso irradia tutta la gioia e la serenità di una donna cui non pesa dedicarsi agli altri perché ha il cuore pieno di Gesù. Ho sempre amato quella foto. L’ho capita di più quando grazie alle nuove tecnologie ne ho fatto emergere i dettagli e ho guardato Irene negli occhi. Una vera missionaria, pronta al servizio del suo Signore che la chiama nei poveri, negli ammalati, nelle persone meno amate. È una donna coraggiosa, conosce la paura, ma l’amore le da tutto il coraggio necessario per gesti di grande gratuità e libertà. Così, nel buio della notte africana, alla luce delle stelle, sulla spiaggia dove una catasta di morti attende l’onda impietosa dell’Oceano che ruggisce contro la barriera corallina, Irene cerca tra i corpi il suo Othiambo (colui che è nato la sera tardi) dato per morto, ma ancora vivo, per farlo rinascere Omondi (nato all’alba) in Paradiso.
È lo stesso coraggio che qualche anno dopo, sulle colline di Gekondi, la spinge alla ricerca degli anziani portati a morire in foresta, in pasto per le iene o altri caivori come il leone o il ghepardo. La foresta. Incute timore di giorno, tanto più di notte. Foresta sono le pulci che ti mangiano le gambe, le formiche caivore su cui è meglio non mettere i piedi, i serpenti, le iene, i mille rumori che ti mettono i brividi. Ma niente ferma la sua passione per chi soffre, chi è ridotto a scarto, sia esso un anziano morente o un bambino abbandonato.
È lo stesso coraggio che trasforma la maestrina in paladina dell’educazione delle ragazze, che va a stanare nei villaggi e sostiene quando lottano pacificamente con i loro genitori che si rifiutano di mandarle a scuola.
L’icona di suor Irene sono i suoi scarponi. Non si portano per stare in casa, in salotto, nella quiete della cappella, nell’intimità del convento. Gli scarponi sono strada, sentirnero, sassi, fango. Sono arrampicarsi sulle erte colline, passare tra le ruvide erbacce, percorrere piste infangate, calpestare le spine. Sono essere in strada per amore, sulle orme di Cristo, alla maniera di Cristo, alla ricerca del suo volto nascosto negli umili, nei poveri, nei sofferenti.
Per questo ho amato questa missionaria dal cuore grande. E mi ha colpito la sua obbedienza. Ha chiesto al padre il permesso per diventare missionaria. E alla sua superiora quello di offrire la sua vita. Le due decisioni fondamentali della sua esistenza. Chiede il permesso non per debolezza, ma per vera umiltà. L’umiltà di chi è cosciente di non essere padrona assoluto della propria vita, ma solo serva per amore. E vuole donare tutto. Fino alla fine.
Gigi Anataloni
Cenni biografici
La biografia di suor Irene è di una semplicità sconcertante. Il 22 agosto 1891, di sabato, quinta di 12 figli, nasce ad Anfo, un paesino del bresciano sulle sponde del lago d’Idro. Battezzata il giorno dopo, è educata alla fede da genitori ferventi cattolici. Una volta cresciuta, diventa zelatrice dell’Apostolato della preghiera e insegna catechismo in parrocchia.
Nel 1905 padre Angelo Bellani, missionario della Consolata, visita Anfo prima della sua partenza per la missione del Kenya. Tra le ascoltatrici attente c’è anche la nostra, quattordicenne, che aveva già manifestato il desiderio di farsi missionaria.
Nel 1907 le muore improvvisamente la mamma, Annunziata. Nel 1909 il padre si risposa e Mercede si trova bene con Teresa, la nuova mamma. Memore dell’incontro con padre Bellani, alla notizia che a Torino sono nate le suore missionarie della Consolata, Mercede chiede al padre il permesso di farsi missionaria. Vinte le sue resistenze con l’aiuto del parroco, don Capitanio, il 19 giugno 1911, ventenne, parte per Torino. Veste l’abito da suora e prende il nuovo nome di «Irene» nel 1912; conclusi i due anni noviziato nel gennaio 1914, si dedica poi alla preparazione per l’Africa e lo studio delle lingue. Il 28 dicembre parte per il Kenya e il 31 gennaio 1915 arriva a Mombasa, dove, salutando la sua nuova terra, esclama «Tokumye Yesu Kristo!», ovvero «Sia lodato Gesù Cristo!», l’unica frase, per il momento, che conosce in lingua kikuyu.
Appena il tempo di inserirsi e di imparare la lingua locale ed è inviata con altri missionari e missionarie negli ospedali militari dove si curano i carriers, i portatori a servizio dell’armata inglese in guerra con i tedeschi che controllano il Tanganika. Prima a Voi, in Kenya, e poi a Kilwa Kivinje, Lindi e Dar-es-Salaam in Tanzania, per quattro anni (1915-1919) Irene si spende come crocerossina (insieme a quarantacinque altri missionari e missionarie della Consolata e Vincenzine del Cottolengo) in quelle anticamere della morte dove venivano curati migliaia di giovani africani arruolati a forza.
Nel 1920 la troviamo a Gekondi (pron. Ghecondi), nella regione centrale del Kenya, dove si butta nell’insegnamento nella scuola per ragazze e nella visita ai villaggi. Infaticabile e scattante, visita i malati, consola i morenti, recupera i bambini abbandonati, convince i genitori a lasciare che le loro figlie vadano a scuola, segue un gruppo di ragazze desiderose di consacrare la vita a Gesù, e tanto di più. La gente comincia a chiamarla «Nyaatha» (mamma misericordiosa).
Nel settembre 1930, dopo l’annuale settimana di preghiera e ritiro a Nyeri, chiede alla sua superiora il permesso di offrire la sua vita per la missione. Nel frattempo, a Gekondi scoppia la peste. Suor Irene ne è contagiata assistendo un ammalato. Muore il 31 ottobre 1930, a 39 anni. Sepolta prima nel cimitero dei missionari al Mathari, alla periferia di Nyeri, è stata poi posta in un’urna di marmo rossastro nella chiesa della parrocchia del Mathari stesso. Dopo la beatificazione sarà trasferita nella cattedrale di Nyeri, dedicata alla Consolata. (Gi.A.)