La lanterna resta accesa. Padre Bernardo Sartori, missionario


L’ultima volta che lo incontro è a Roma, lungo Via San Pancrazio. Un caldo giorno d’estate del 1968. Sono in autobus, quando scorgo sul marciapiedi una veste nera e una barba bianca.

«Ferma, ferma! – grido al conducente del bus -. C’è un’emergenza!». L’autobus si ferma fra lo stupore generale. Le porte a fisarmonica del mezzo si aprono.

Corro da lui, distante circa 70 metri, e lo chiamo: «Padre Bernardo!».

Quando mi vede, esclama: «Varda, varda el fiòl de Marino» (Guarda, guarda il figlio di Marino).

«Cosa fai qui a Roma?», mi chiede.

«Sto studiando teologia».

Conversiamo un po’. Naturalmente in dialetto veneto.

Padre Bernardo Sartori, quando ti incontra, chiunque tu sia, ti fa sentire «unico» nella sua vita. Così è anche per me in questo giorno romano.

Tuttavia, le persone accolte nel suo cuore sono migliaia e migliaia: a Falzé di Trevignano (Treviso), suo paese natale, a Troia (Foggia), dove ha operato come animatore missionario e, soprattutto, in Uganda, che lo vedrà missionario per 49 anni filati.

Padre Bernardo ha una parola speciale «solo per te». Una parola gioiosa.

Alla fine del nostro incontro nella capitale mi prende per mano dicendo: «Méname casa, parché me son pers qua a Roma» (Portami a casa, perché mi sono perso qui a Roma).

Padre Bernardo Sartori dal 2022 è «venerabile». Presto sarà «beato». Un fulgido esempio della Chiesa missionaria.

Quella stupida guerra

Bernardo Sartori nasce il 20 maggio 1897. Una frazione con meno di mille persone, tutta campi di frumento, granoturco, foraggio per vacche e buoi, gelsi per i bachi da seta e filari di viti. Ma spesso la metà dei raccolti è roba del «paròn». I contadini, infatti, in stragrande maggioranza sono fittavoli o mezzadri.

Fra i «paroni» c’è pure un conte. I bambini, quando lo vedono passare per strada fumando il sigaro, lo sbeffeggiano con la cantilena: «Conte coe braghesse onte / conte col capel de paia / conte canaia» (Conte con i pantaloni unti / conte con il cappello di paglia / conte canaglia).

Quei «paroni», con le loro mogli e amanti, sono spesso «canaglie», incuranti della fame e pellagra che affligge i contadini.

Un giorno padre Angelo Pizzolato, frate cappuccino di Falzé, durante un’omelia denuncia: «La nostra gente è rimasta povera a causa di due, tre signorotti».

Povera è pure la famiglia di Bernardo Sartori. Ad esempio: per pagare la retta del seminario diocesano, dove Bernardo studia da prete, i genitori devono togliersi la polenta dalla bocca. Polenta, perché il pane lo mangiano solo i «paroni».

Scoppia la Prima guerra mondiale (1914-1918). È «la grande guerra».

«Un’inutile strage», come lamenta il papa Benedetto XV. Falcia la vita a 10 milioni di persone. I caduti italiani sono 650mila (senza contare i civili) e i mutilati 450mila.

Nel 1917 anche Bernardo Sartori, ventenne, viene arruolato e mandato sul fiume Isonzo.

Una notte le mitragliatrici degli austriaci crepitano furiose a pochi passi da lui, le granate gli piovono intorno come arpie seminando morte. I cadaveri si ammassano al suolo tra urla disperate. Bernardo dice a se stesso: «È finita anche per me».

Poi si inginocchia, stringe la corona del rosario e prega: «Madonna santa, non farmi morire in questa stupida guerra. Io voglio andare fra i neri dell’Africa».

Amico lettore, se ti capita di entrare nella chiesa parrocchiale di Falzé, sosta davanti all’altare della Madonna del Carmine. Fra i vari ex voto «per grazia ricevuta» ne troverai uno firmato «Chierico Bernardo Sartori». Testimonia la sua vittoria in «una stupida guerra».

Da Troia a Ortisei

«Io voglio andare fra i neri dell’Africa».

Quella notte, sotto una tempesta di bombe, Bernardo Sartori promette di diventare missionario. E missionario sarà sulla scia di san Daniele Comboni, fondatore dell’omonimo istituto missionario.

Ordinato sacerdote il 31 marzo 1923, padre Bernardo è pronto per il grande balzo verso l’Africa, ma lo scoprono tisico con i polmoni bucati. La morte lo attende impietosa. Il tubercolotico, però, guarisce, ancora «per grazia ricevuta» dalla Madonna del Carmine di Falzé.

Ora si parte? Non ancora. Nel 1927 il superiore dei Comboniani lo manda a Bovino, in provincia di Foggia, per iniziare un seminario missionario. Però il seminario nascerà nella vicina, gloriosa ed antica Troia, che nulla ha a che fare con la Troia della seducente Elena, descritta dal poeta greco Omero.

Siamo sempre nel foggiano. Qui padre Bernardo e alcuni comboniani fanno i preti, risiedono in una casa (un ex convento) dedicata a «Maria Mediatrice di tutte le grazie». Sennonché «la Mediatrice» non c’è. Mancano pure i quattrini per comprarne un’immagine.

La notizia giunge fino al vescovo Fortunato Farina, che mette mano al suo portafoglio.

Padre Bernardo, in fatto di Madonne, ha gusti fini. Non si accontenta di immagini qualsiasi, magari rabberciate con lo spago. Per Troia, Bernardo esige una Maria Mediatrice pregevole, artistica, nuova di zecca. Soprattutto che parli al cuore dei troiani.

A tal scopo raggiunge Ortisei, in Alto Adige, dove si intagliano statue sacre in legno pregiato.

«Non voglio “una Madonna nordica”, perché io sono missionario nel Sud Italia – esordisce padre Bernardo di fronte all’artigiano altoatesino -. Inoltre, deve essere una Madonna missionaria».

«Si spieghi meglio, reverendo, perché lei sta andando sul difficile», replica l’artigiano dall’accento teutonico.

«La Madonna – spiega padre Sartori – tenga in una mano il piede di Gesù Bambino e con l’altra ne sorregga il braccio, quasi voglia porgerlo ai fedeli visitatori. Insomma, una Madonna che presenti a tutti Gesù salvatore del mondo». Oggi, secondo la mariologia moderna, la Madre del Signore è immagine e inizio della Chiesa, che avrà il suo compimento domani e dopo domani. Nel frattempo, Maria, per il travagliato popolo di Dio, «brilla quale segno di sicura speranza e consolazione» (Lumen Gentium 68). Infine, nel 1965, al termine del Concilio Ecumenico Vaticano II, papa Paolo VI (oggi santo) dichiarerà Maria «Madre della Chiesa». La dimensione mariana è uno dei cardini della spiritualità del nostro missionario.

Maria, Sultana d’Africa

Emoziona il tenore Andrea Bocelli, cieco, quando canta: «Con te partirò. Paesi che non ho mai veduto e vissuto con te, adesso sì li vedrò».

Finalmente anche padre Bernardo Sartori parte. Parte per un paese mai visto. È l’Uganda dei martiri Carlo Lwanga e dei suoi 21 compagni (alcuni anglicani). Parte il 5 novembre 1934 con in cuore tutte le persone cui ha comunicato la sua passione missionaria in Italia.

Quando arriva a Gulu, trova ad attenderlo fratel Arosio, un amico fin dai tempi di Troia.

«Ciao, vecchio. Cosa sei venuto a fare in Uganda?», lo canzona Arosio.

«Sono venuto a costruire chiese per la Madonna», sorride Bernardo.

«Ed io ti aiuterò», conclude Arosio.

«Costruire chiese per la Madonna». Grazie al sostegno dei compaesani di Falzé, degli amici di Troia e di altri benefattori, padre Bernardo costruirà numerose chiese in onore della Madre del Signore.

Ne ricordo quattro: Maria Sultana d’Africa a Lodonga, Maria Madonna di Fatima a Koboko, Maria Regina Mundi a Otumbari, Maria Madre della Chiesa a Arivu.

A Lodonga la vita è particolarmente complessa, perché è controllata in tutto dai musulmani. I colonialisti inglesi, che dominano l’Uganda, ritengono che a Lodonga l’Islam diventerà presto l’unica religione dell’intera tribù dei Logbara. Però padre Sartori erige una barriera con Maria, Sultana d’Africa. Ebbene, l’avanzata islamica si arresta. Nel 1961 i musulmani sono 30mila, e 30mila rimarranno a tutt’oggi, mentre i cattolici aumenteranno. Inoltre, parecchi musulmani abbracceranno il Cristianesimo. Di qui l’affermazione: «L’unico missionario capace di convertire i musulmani è padre Bernardo Sartori».

C’è «una logica soprannaturale» nel missionario: Maria è la porta dell’evangelizzazione (ad Iesum per Mariam). Così la chiesa materiale è il coronamento visibile di un’altra realtà più importante: la nascita della Chiesa viva.

Alla costruzione di chiese padre Bernardo abbina sempre un’altra opera assai più impegnativa e significativa: l’annuncio della «lieta notizia».

Ecco, allora, le interminabili visite alle comunità cristiane a piedi, in bicicletta o con la famosa moto a monocarrello; ecco le interminabili maratone sacramentali, le istruzioni, le penitenze. Il tutto accompagnato da una predicazione appassionata, canti coinvolgenti e una costante promozione sociale e spirituale.

Last but not least, tanta preghiera personale e altrettanta affabilità verso tutti.

Solo così si spiegano le conversioni dei seguaci di Muhammad.

Quello storico mattino

Dal 1971 il missionario vive le drammatiche vicende della bizzarra quanto brutale dittatura di Idi Amin Dada, nonché la sua caduta nel 1979, conseguente alla guerra Uganda-Tanzania.

Nel 1979 l’esercito del Tanzania invade l’Uganda fino alla capitale Kampala. È una dura «ritorsione», giacché i soldati di Amin hanno invaso per primi il Tanzania a Kagera.

Il Tanzania pagherà salatissima, in termini economici, quella invasione di «liberazione», mentre l’Uganda sprofonderà nella guerra civile.

Nella missione di Arivu tanti cristiani di padre Bernardo cercano scampo nel Congo (allora Zaire). Il missionario li segue, profugo tra i profughi.

Nel 1980 ritorna in Uganda e il 28 aprile rimane coinvolto in una sparatoria a Otumbari.

Da giugno a luglio 1982, padre Bernardo è nuovamente profugo in Congo. Instancabile nella pastorale e nell’assistenza alla popolazione abbattuta nel fisico e nel morale.

Ritorna in Uganda, nella missione di Ombaci. Ha 85 anni. È molto stanco.

Ma ogni mattina sosta in chiesa dalle ore 4 alle 8. Come se non bastasse, trascorre notti intere in preghiera.

Pure quel mattino, mentre in cielo si rincorrono le stelle sotto lo sguardo assorto della luna, il missionario entra in chiesa facendosi luce con una lanterna al cherosene.

È storico quel mattino, perché è il mattino di Pasqua del 3 aprile 1983.

Ora padre Bernardo Sartori giace esamine sul pavimento della chiesa al cospetto del Santissimo. È ritornato alla casa del Padre.

La lampada è ancora accesa, segno di una fede che ha vinto la morte.

L’arrivederci del popolo di Uganda al suo missionario è una apoteosi di commozione e riconoscenza senza pari.

La notizia raggiunge la gloriosa Troia, che proclama il lutto cittadino.

Mentre la modestissima Falzé canta l’alleluia pasquale, perché il loro indimenticabile compaesano è risorto.

Francesco Bernardi

 

L’articolo si rifà liberamente al libro «La sfida di un uomo in ginocchio» (padre Bernardo Sartori, missionario comboniano in Uganda), scritto da Lorenzo Gaiga, Emi, Bologna 1985.




Santo (in punta di piedi)


Il 23 maggio scorso la sala stampa del Vaticano annunciava che papa Francesco aveva approvato l’avvenuto miracolo della guarigione dell’indigeno Sorino Yanomami, per intercessione di Giuseppe Allamano. Un passaggio che ha aperto le porte alla prossima canonizzazione, cioè alla proclamazione della santità del nostro fondatore (che avverrà il prossimo 20 ottobre, come deciso dal Concistoro del 1° luglio).

Questo atto del Papa è il coronamento di un lungo itinerario, durato parecchi decenni, che aveva trovato il suo culmine nella beatificazione di don Giuseppe Allamano, avvenuta il 7 ottobre 1990 in Piazza San Pietro a Roma, da parte del papa Giovanni Paolo II. Mancava ancora il riconoscimento da parte della Chiesa di un miracolo per poterlo infine proclamare «santo». Ora anche l’ultima meta è stata raggiunta.

Molte persone si interrogheranno sul perché di questo cammino durato tanti anni con la raccolta di testimonianze, documentazione, ricerca delle grazie ricevute in varie parti del mondo. Ne valeva la spesa? Altri ancora, in maniera forse più radicale, si potrebbero domandare: che bisogno ha la Chiesa di proclamare i santi? Essi hanno raggiunto felicemente il loro obiettivo e vivono nella pace del Paradiso. A questi interrogativi risponde in maniera magistrale papa Benedetto XVI che, dopo aver presentato parecchi profili di santi, il 13 aprile 2011, ha affermato: «Nelle udienze generali di questi ultimi due anni ci hanno accompagnato le figure di tanti santi e sante: abbiamo imparato a conoscerli più da vicino e a capire che tutta la storia della Chiesa è segnata da questi uomini e donne che con la loro fede, con la loro carità, con la loro vita sono stati dei fari per tante generazioni, e lo sono anche per noi. I santi manifestano in diversi modi la presenza potente e trasformante del Risorto; hanno lasciato che Cristo afferrasse così pienamente la loro vita da poter affermare con san Paolo “non vivo più io, ma Cristo vive in me” (Gal 2,20). Seguire il loro esempio, ricorrere alla loro intercessione, entrare in comunione con loro, “ci unisce a Cristo, dal quale, come dalla fonte e dal capo, promana tutta la grazia e tutta la vita dello stesso del popolo di Dio” (Lumen gentium, 50)».

La storia, quella che troviamo scritta nei libri o illustrata in opere d’arte, dà importanza a chi conta nella produzione di beni materiali o a chi rende più bello il mondo con l’arte e la poesia oppure ha aiutato a sconfiggere epidemie. Similmente avviene anche con i santi che hanno arricchito la Chiesa con i loro scritti o la loro testimonianza di vita. La loro opera è a beneficio di tutti, tutti ne godiamo. I santi – possiamo affermare – sono uno scrigno di valori che ridondano a beneficio di tutta la cristianità. Quanto povera sarebbe la Chiesa se perdesse questi legami tra i santi in cielo e noi qui in terra. Per questo motivo essa ci esorta a non lasciare perdere questa comunione tra coloro che già hanno raggiunto il cielo e noi tutti ancora pellgrini qui in terra, ma desiderosi dello stesso traguardo. La ormai prossima canonizzazione, attraverso la voce del Papa, inviterà con forza tutta la Chiesa ad affidarsi con fiducia all’intercessione di Giuseppe Allamano e soprattutto a guardare al suo esempio di vita come faro che illumina e guida il cammino dei cristiani.

Quale messaggio ci possiamo aspettare dalla proclamazione di Giuseppe Allamano «santo»? Senza dubbio che venga rivolto un richiamo forte a ogni battezzato affinché metta sempre Dio al centro della propria vita per farlo punto di riferimento in ogni sua scelta, che aborrisca ogni chiusura per sentirsi quello che tutti noi siamo: famiglia di Dio, solidale e fraterna, aperta e attenta ai segni dei tempi.

Sono sicuro che quando papa Francesco proclamerà l’Allamano santo non mancherà di far riecheggiare ancora una volta uno dei suoi richiami più frequenti affinché la Chiesa sappia imitare i santi come il nostro fondatore per sentirsi «in uscita», aperta al mondo intero e nella predilezione per l’umanità più povera.

La Chiesa in uscita è quella che «sa fare il primo passo, sa prendere l’iniziativa senza paura, andare incontro, cercare i lontani e arrivare agli incroci delle strade per invitare gli esclusi. Vive un desiderio inesauribile di offrire misericordia, frutto dell’aver sperimentato l’infinita misericordia del Padre e la sua forza diffusiva» (Evangelii gaudium 24).




Rosario Livatino: sub tutela Dei


Da qualche mese sta girando in tutta Italia una bella mostra, presentata per la prima volta al Meeting di Rimini nell’estate del 2022, con il titolo «Sub tutela Dei. Il giudice Rosario Livatino»(1).

Chi è questo giovane giudice, morto il 21 settembre 1990 sotto i colpi della mafia siciliana? E perché è stato beatificato – primo giudice nella storia della Chiesa – il 9 maggio 2021?

Ecco qualche breve cenno sulla vita e sul pensiero di una figura che merita di essere conosciuta sempre di più, non solo come beato, ma anche come professionista.

Rosario Livatino nasce a Canicattì, in provincia di Agrigento, il 3 ottobre 1952. Figlio unico di due genitori benestanti, le sue radici affondano nella fede e nel diritto. Il nonno, già laureato in giurisprudenza, era stato sindaco del paese negli anni Venti e si era dimesso con l’avvento del fascismo; il padre Vincenzo, anch’egli giurista, lavora nell’esattoria comunale. La madre, Rosalia Corbo, donna profondamente cristiana, è parente del venerabile cappuccino Gioacchino La Lomia, missionario in Sud America e morto a Canicattì negli anni Trenta in odore di santità.

Terra di contraddizioni

Rosario vive in una terra di provincia, una sorta di isola nell’isola, ricca di contraddizioni. Tra i fermenti letterari di un Pirandello o uno Sciascia, si alternano le vicende della mafia agrigentina che ha le sue propaggini anche a Canicattì.

Per capire il contesto in cui cresce il futuro giudice, basti pensare che, al piano di sopra dello stabile di famiglia, vive il boss mafioso Giuseppe Di Caro, il quale deciderà di far murare l’ingresso comune per non incontrare Rosario che spregiativamente definirà «santocchio».

A scuola Rosario si distingue per bravura e sete di conoscenza. Guardato con stima e simpatia dai compagni del liceo classico da lui frequentato a Canicattì, non si sottrae alle richieste di aiuto per spiegare una lezione particolarmente complicata o ripassare prima delle verifiche.

Di natura riservata e umile, non ama apparire ma è particolarmente maturo e ha le idee chiare. La professoressa Ida Abate racconterà: «All’ultimo anno si chiedeva ai ragazzi di maturità: ma tu cosa pensi di fare, adesso? Giurisprudenza, rispose Rosario dolcissimo.
Mi ricordo che gli chiesi: forse perché papà e anche il nonno sono laureati in Giurisprudenza? No, perché voglio difendere la collettività»(2).

La laurea in Giurisprudenza a Palermo arriva infatti nel 1973 con lode; ne seguirà una seconda in Scienze Politiche.

Rosario Livatino alle elementari (il quarto da sinistra nella fila centrale)

«S.t.D»

L’acronimo S.t.D., che compare più volte nelle sue agende, fa l’esordio sul frontespizio della tesi di laurea in diritto penale. Non si tratta di una sigla misteriosa per indicare nomi in codice (come ipotizzano inizialmente gli inquirenti), bensì dell’invocazione «Sub tutela Dei»: un auspicio che riflette una fede radicata, ma anche il desiderio di essere illuminato e protetto in una professione di cui avverte con vertigine le gravi implicazioni.

Per un breve periodo infatti è vicedirettore all’Ufficio del registro di Agrigento, ma già nel 1978 vince il concorso di magistratura.

Queste le parole riportate, con inchiostro rosso, nella sua agenda il 18 luglio 1978: «Ho prestato giuramento; da oggi quindi sono in magistratura. Che Iddio mi accompagni e mi aiuti a rispettare il giuramento e a comportarmi nel modo che l’educazione, che i miei genitori mi hanno impartito, esige».

Per comprendere l’approccio di Rosario Livatino al ruolo di magistrato, è molto significativo riprendere una delle due confe
renze pubbliche tenute da lui e ancora conservate, in particolare quella che si svolge il 30 aprile 1986 all’istituto Suore vocazioniste di Canicattì, dal titolo «Fede e diritto»: «Il compito dell’operatore del diritto, del magistrato, è quello di decidere; orbene, decidere è scegliere e a volte scegliere fra numerose cose o strade o soluzioni; e scegliere è una delle cose più difficili che l’uomo sia chiamato a fare […]. Ed è proprio in questo scegliere per decidere, decidere per ordinare, che il magistrato credente può trovare un rapporto con Dio. Un rapporto diretto, perché il rendere giustizia è realizzazione di sé, è preghiera, è dedizione di sé a Dio […]. E tale compito sarà tanto più lieve quanto più il magistrato avvertirà con umiltà le proprie debolezze, quanto più si ripresenterà ogni volta alla società – che gli affida una somma così paurosamente grande di potere – disposto e proteso a comprendere l’uomo che ha di fronte e a giudicarlo senza atteggiamento da superuomo, ma anzi con costruttiva contrizione».

Livatino con la famiglia

Guerra alla mafia

Negli anni ’80 imperversa in Sicilia la seconda guerra di mafia, che vede nel 1984 l’affermarsi del clan dei corleonesi di Totò Riina. Poco dopo nasce nell’agrigentino una nuova «famiglia» mafiosa, di nome «stidda», che si contraddistingue per una organizzazione non verticistica ma paritaria, sulla base di federazioni tra gruppi più o meno consolidati nei vari comuni siciliani della zona.

Livatino si mostra fin da subito deciso nel perseguire vecchie e nuove formazioni mafiose, inclusi i rappresentanti di Canicattì (è sua la condanna di Alessandro Ferro, che abita a pochi passi da casa sua, a 12 anni di reclusione).

Le grandi difficoltà riscontrate nell’amministrazione della giustizia sono legate a un contesto normativo ben più complicato dell’attuale: negli anni ‘80 infatti non esistono né la procura nazionale e né le procure distrettuali antimafia, e le indagini risultano spezzettate tra procure con continue fughe di notizie; non esistono i collaboratori di giustizia (i cosiddetti «pentiti» – la prima norma significativa sul tema è del 1991), né associazioni antiracket, né tanto meno il 41bis, che oggi prevede il carcere duro e l’isolamento per i mafiosi. È frequente che proprio in carcere si alimentino le relazioni tra i malavitosi; risulta che persino l’omicidio di Livatino sia stato architettato tra mura penitenziarie.

In questo difficile contesto, Rosario non si tira indietro, anzi: magistrato molto preparato, sempre disponibile ad aiutare i colleghi nello svolgimento delle loro mansioni e nella conoscenza del contesto, è assai stimato nel suo ambito, tanto da ricoprire per ben due volte, nonostante la giovane età, il ruolo di segretario della sottosezione agrigentina dell’Anm (Associazione nazionale magistrati).

Interpreta le sue funzioni in modo integerrimo e nel riserbo più assoluto, senza concedere mai interviste – per questo non è molto apprezzato dai giornalisti locali. Rifugge, al contrario di alcuni colleghi, le correnti e gli avvenimenti mondani, ed evita di parlare di lavoro anche tra parenti e amici.

Magistrato «stile Livatino»

Nella seconda conferenza pubblica tenuta da Livatino, emerge con chiarezza il ritratto del magistrato «secondo Livatino». Questi deve tenere una condotta di vita consona sia in privato che in pubblico, pena la mancanza di autorevolezza agli occhi dalla comunità civile: «Nella sua vita di relazione e cioè nei rapporti con l’ambiente sociale nel quale egli vive […] è importante che egli offra di se stesso l’immagine di una persona seria, […] equilibrata, […] responsabile, […] comprensiva ed umana, capace di condannare, ma anche di capire. Solo se il giudice realizza in se stesso queste condizioni, la società può accettare ch’egli abbia sugli altri un potere così grande come quello che ha. Chi domanda giustizia deve poter credere che le sue ragioni saranno ascoltate con attenzione e serietà; che il giudice potrà ricevere ed assumere come fossero sue e difendere davanti a chiunque. Un giudice siffatto è quello voluto dalla umanità di sempre»(3).

Memorabile è il rispetto che Livatino nutre verso gli avvocati e verso gli stessi imputati. La polizia penitenziaria resta stupita nel vederlo, un giorno di Ferragosto, recarsi personalmente in carcere per consegnare un mandato di scarcerazione: è infatti inconcepibile per lui dover rimandare anche soltanto di poche ore la libertà di un detenuto, una volta giunta la fine della detenzione prevista per legge.

Leggendo le sue sentenze si resta stupiti per la cura del dettaglio e per la conoscenza del contesto, nonché di settori – come quello economico o ambientale – non di sua stretta competenza. È tra i primi, per esempio, a dare il giusto peso al sequestro dei beni dei mafiosi, consapevole che la mafia debba essere colpita innanzitutto nel patrimonio.

Personalità trasparente

D’altra parte, il lavoro è il riflesso del suo modo di condurre la vita privata. Ce lo testimoniano amici e parenti, ma anche le sue agende annuali nelle quali è solito appuntare gli incontri e le incombenze quotidiane, alcune riflessioni sui fatti pubblici e privati cui assiste, e persino il bilancio di ogni mese (positivo, negativo, incerto): ne emerge una personalità trasparente, molto affezionata alla famiglia e autenticamente umana (come quando riporta il desiderio di approfondire qualche conoscenza femminile e le delusioni amorose).

Racconta di un compagno di classe che, avendolo incontrato in Tribunale, lo salutò con l’appellativo «signor giudice». Livatino, dopo averlo chiamato in privato, gli disse: «Ricordati che per gli amici io sono sempre Rosario»(4).

Negli anni 1984 e 1985 vive un periodo di grande aridità, che da tanti viene definito come una vera e propria «notte oscura dell’anima»: gli appunti nell’agenda si diradano fino a scomparire e Rosario, pur continuando la sua frequentazione della Chiesa, evita di comunicarsi. Scrive: «Qualcosa si è spezzato. Dio avrà pietà di me e la via mostrerà?»(5).

Probabilmente incidono alcune delusioni nell’ambito lavorativo, e la crescente consapevolezza dei rischi che il suo lavoro implica, tanto che – a chi gli chiede come mai non pensa a farsi una famiglia – risponde di non voler lasciare una vedova e degli orfani(6).

Pronto alla prova

Nel 1986 la crisi viene superata e il magistrato annota in agenda che ha ripreso a frequentare l’Eucarestia: forse ha deciso di accettare quello che la vita gli chiede, pur con tutti i rischi che corre? Non lo sappiamo, possiamo solo provare a immedesimarci con le difficoltà che sicuramente si trova a fronteggiare ogni giorno.

Certo è che due anni dopo Livatino decide di avanzare la richiesta della Cresima, sacramento che in Sicilia solitamente non si riceve in età infantile ma nel contesto di scelte mature e di circostanze particolari. Qualcuno ipotizza che possa avere inciso nel settembre 1988 la morte del giudice Saetta e di suo figlio Stefano. La richiesta della Cresima è della settimana successiva. Ad ogni modo nulla di certo si sa sui motivi più profondi che spingono Rosario a compiere questo passo, senza peraltro approfittare di iter particolari di preparazione, com’era nel suo stile. Una ipotesi la avanza il vaticanista Luigi Accattoli: «Lui sa già a quella data che sarà ucciso e si prepara chiedendo la Cresima come il sacramento dell’età adulta, il sacramento quindi per affrontare anche la prova massima del sangue»(7).

L’esecuzione

Ritrovamento e riconoscimento del corpo del giudice Livatino

La prova, quella che si poteva forse immaginare, arriva nemmeno due anni dopo. Rosario Livatino viene ucciso il 21 settembre 1990, quando con la sua Ford Fiesta si reca al lavoro sulla statale 640, nonostante fosse un giorno di ferie.

Gli esecutori, quattro giovani di Palma di Montechiaro, fanno parte della stidda locale: era stato loro detto che il giudice tutelava Cosa Nostra e si accaniva contro le nuove formazioni mafiose. Parole false ovviamente: la stidda era ben consapevole che Livatino rappresentava un ostacolo per tutte le mafie, anche perché noto come cristiano integerrimo e incorruttibile.

L’esecuzione è particolarmente drammatica: i quattro giovani lo avvicinano su auto e moto; il giudice riesce ad accostare e a tentare la fuga in una scarpata, ma viene raggiunto e freddato a distanza ravvicinata. Le sue ultime parole, rivolte al killer, sono: «Cosa vi ho fatto, picciotti?». Vengono in mente le parole bibliche che ricordano il venerdì santo: «Popolo mio, che cosa ti ho fatto?» (Michea 6, 3).

Un testimone, uno solo, vede tutto e decide di parlare subito dopo i fatti: si tratta di Piero Ivano Nava, commerciante lombardo che abitualmente viaggia in Sicilia, quel giorno particolarmente a rilento per un guasto della sua auto. Grazie a una memoria fotografica, riesce a ricostruire i fatti e a ricordare volti e fisionomie degli esecutori, ed è in forza della sua preziosa testimonianza che in breve tempo gli assassini vengono catturati.

Seguono numerosi processi con relative condanne(8), e desta stupore la conversione di almeno due tra mandanti ed esecutori, uno dei quali chiederà di testimoniare nel processo di beatificazione(9).

Verso la beatificazione

Negli anni successivi alla tragedia, infatti, la figura di Livatino diventa sempre più nota e amata nella sua terra e non solo. Nel 2011 l’arcivescovo di Agrigento dà inizio al processo di beatificazione. Anche se sono almeno due i miracoli attribuiti alla sua intercessione, si decide di seguire l’iter, già intrapreso per don Pino Puglisi, del martirio in odium fidei: tra le cause che portarono i mafiosi all’omicidio ha un peso importante una avversione alle pratiche cristiane del giudice, che vengono correlate all’esercizio della giustizia.

Dice di lui Papa Francesco nel 2019: «Livatino è un esempio non soltanto per i magistrati, ma per tutti coloro che operano nel campo del diritto: per la coerenza tra la sua fede e il suo impegno di lavoro, e per l’attualità delle sue riflessioni»(10).

La cerimonia di beatificazione avviene il 9 maggio 2021, anniversario della visita di Giovanni Paolo II ad Agrigento nel 1993(11). Vale la pena ricordare un passo dell’omelia del cardinale Marcello Semeraro, prefetto della Congregazione delle cause dei santi: «Credibilità fu per lui la coerenza piena e invincibile tra fede cristiana e vita. Livatino rivendicò, infatti, l’unità fondamentale della persona; una unità che vale e si fa valere in ogni sfera della vita: personale e sociale. Questa unità Livatino la visse in quanto cristiano, al punto da convincere i suoi avversari che l’unica possibilità che avevano per uccidere il giudice era quella di uccidere il cristiano. Per questo la Chiesa oggi lo onora come martire».

La sua ricorrenza liturgica è stata fissata il 29 ottobre, giorno della Cresima del magistrato «Sub tutela Dei”. Un giorno assai significativo per chi, come lui, è stato chiamato a testimoniare con il sangue l’amore a Dio e alla giustizia.

Chiara Michelis


Note

1 La mostra è stata promossa da Libera Associazione forense, Centro studi Rosario Livatino, Centro culturale Il sentiero di Palermo, ed è noleggiabile dall’associazione Meeting di Rimini. Il catalogo della mostra, cui attinge questo articolo, è stato pubblicato da Itaca nel 2022.

2 Cfr. R. Mistretta, Rosario Livatino. L’uomo, il giudice, il credente, Paoline, Mi­lano 2022, pp. 34-35.

3 Da Il ruolo del giudice in una società che cambia, conferenza al Rotary club di Canicattì (7 aprile 1984).

4 Testimonianza di Giuseppe Palilla, presidente dall’Associazione Amici del giudice Rosario Angelo Livatino e testimone del processo di beatificazione, riportata in R. Mistretta, Rosario Livatino, cit., p. 185.

5 Cfr. R. Mistretta, Rosario Livatino, cit., p. 11.

6 Idem, p. 253

7 Cit. in G. Livatino, Giudice Rosario Livatino. Aperto il processo diocesano per la beatificazione, in L’Amico del Popolo, 16 maggio 2010 (in R. Mistretta, Rosario Livatino, cit., p. 251).

8 La vita di Nava venne stravolta: all’epoca non esisteva nessuna norma sui testimoni di giustizia (le prime sono del 2001), e gli stessi assassini diranno che era un fatto insolito, in quel contesto, trovare qualcuno che parlasse. Nava non si tirò mai indietro per alto senso civico e dovere morale e, come disse lui, quel giorno scomparve insieme al giudice. Infatti, perse il lavoro, venne trasferito con la famiglia in diverse città, fu costretto a cambiare identità e a non sentire né vedere più nessuno. Per approfondire si rimanda al libro-autobiografia Io sono nessuno. Da quando sono diventato il testimone di giustizia del caso Livatino (336 pagine, curato per Rizzoli da Lorenzo Bonini, Stefano Scaccabarozzi e Paolo Valsecchi, con la prefazione della ex presidente della commissione Antimafia, Rosy Bindi).

9 Nel catalogo della mostra sono ripor­tate due lettere di Domenico Pace (uno degli esecutori) e di Giovanni Calafato (uno dei mandanti).

10 Dal discorso di papa Francesco ai membri del «Centro studi Rosario Livatino» il 29 novembre 2019.

11 Quel giorno Giovanni Paolo II aveva scagliato il suo anatema contro la mafia proprio nella Valle dei Templi di Agrigento: «Nel nome di Cristo crocifisso e risorto, di questo Cristo che è Via, Verità e Vita, mi rivolgo ai responsabili: convertitevi! Una volta verrà il giudizio di Dio». È risaputo che il papa poche ore prima aveva incontrato i genitori di Rosario Livatino e che quell’incontro lo aveva profondamente segnato.


Siti web su Rosario Livatino




Un missionario medico per amore


Dopo due anni di attesa e rinvii a causa della pandemia, il missionario comboniano è stato finalmente riconosciuto beato il 20 novembre scorso, durante una celebrazione eucaristica nella sua missione di Kalongo, nel nord dell’Uganda. Il suo nome compare ora nella schiera di Santi e di Beati che la Chiesa già venera.

Medico missionario comboniano, spese la sua vita a servizio degli ultimi facendosi interprete del Mandatum novum conferito da Nostro Signore agli Apostoli duemila anni fa. Fonte inesauribile di idee e di iniziative, padre Giuseppe Ambrosoli (1923-1987), oltre che interlocutore mai banale e generoso di spunti e suggestioni, non temeva di parlare della morte, ma lottava per tenerla lontana dai suoi pazienti, sfidando ogni sorta di malattia. Per lui la medicina era un modo concreto per rendere intelligibile la Buona Notizia e, da questo punto di vista, la testimonianza da lui manifestata in sala operatoria o in corsia era, a dir poco, strabordante.

Appassionato del Regno di Dio, era pienamente consapevole delle proprie responsabilità. Emblematico è quanto egli scrisse ai suoi cari: «Le persone devono sentire l’influsso di Gesù che porto con me; devono sentire che in me c’è una vita soprannaturale espansiva ed irradiantesi per sua natura».

Il servizio agli ammalati per lui era una modalità di annuncio altrettanto nobile e necessaria quanto quella della predicazione. Come ha scritto pertinentemente di lui padre Arnaldo Baritussio, postulatore della sua causa: «Padre Ambrosoli ha certamente contribuito a inserire a pieno titolo il servizio medico nella prassi evangelizzatrice, che allora era soprattutto intesa come annuncio attraverso la Parola e i sacramenti in vista della fondazione di una Chiesa locale. Pur senza mettere in discussione questa opzione di fondo, ha contribuito con l’offerta della sua professionalità medica ad allargare il concetto e la realtà dell’annuncio. Il servizio agli ammalati è una modalità di annuncio altrettanto nobile e necessaria quanto quella della predicazione».

Medico e missionario

Nato il 25 luglio 1923 a Ronago, in provincia di Como, era uno dei figli del fondatore dell’omonima azienda del miele. Dal 1942 al 1950, il giovane Ambrosoli completò la sua formazione classica e professionale e pose le basi di una solida spiritualità che aveva già avuto modo di manifestarsi nell’apostolato tra i giovani dell’Azione Cattolica.

Con grande zelo, si iscrisse alla facoltà di medicina con il desiderio di partire per la missione: «Dio è amore, c’è un prossimo che soffre ed io sono il suo servitore»,  spiegò ai propri familiari.

Nel 1949 fece visita al superiore dei Comboniani di Rebbio (Como) con l’intento di mettere a servizio della missione ad gentes la sua qualifica di medico. Ricevuto l’assenso, chiese un periodo di riflessione prima di decidere definitivamente di entrare nella congregazione. Conseguita la specializzazione in medicina tropicale al «Tropical Hygiene» di Londra, con entusiasmo e senza rimpianti, si lasciò alle spalle l’agio della condizione familiare e una carriera medica che si prospettava brillante in patria.

Fece il suo ingresso nel noviziato comboniano di Gozzano, in provincia di Novara, il 18 ottobre 1951, e quattro anni dopo, il 17 dicembre 1955, venne ordinato sacerdote dall’allora arcivescovo di Milano e futuro papa Giovanni Battista Montini. Questo periodo segnò propriamente il completamento della formazione religiosa e teologica di padre Ambrosoli.

Uganda

Il 10 febbraio del 1956 partì per l’Uganda, con destinazione Gulu, capoluogo dei territori nord del Paese. Da qui si trasferì a Kalongo nell’East-Acholi, mentre seguiva e terminava gli studi dell’ultimo anno di teologia al seminario intervicariale di Lachor a Gulu. Il suo servizio missionario si svolse in quella porzione del popolo Acholi che occupava l’estremo Est dell’attuale arcidiocesi di Gulu.

La geografia di quelle terre, è bene rammentarlo, è anni luce distante dal nostro immaginario non foss’altro perché rappresenta un unicum all’interno della stessa Africa subsahariana. Stiamo parlando dell’Uganda settentrionale, un’immensa pianura ondulata, con un’estensione di circa 50mila chilometri quadrati, rotta di quando in quando da qualche boscaglia e da montagne rocciose che si ergono maestosamente e danno un’immagine plastica a un paesaggio in cui il cielo equatoriale sembra abbracciare tutto ciò su cui veglia.

L’altitudine media di questo territorio si aggira attorno ai mille metri sul livello del mare, ma questo non impedisce che sia una delle zone più calde dell’Uganda. A settentrione la pianura s’innalza leggermente verso le montagne di Ogoro e di Paloga, che servono come confine naturale con il Sudan meridionale; si tratta di alture che un tempo venivano utilizzate come rifugio dai ribelli. Il paesaggio è comunque seducente agli occhi di qualunque viaggiatore. Vi sono immense savane, nella stagione delle piogge, dall’erba altissima, con qualche boscaglia in cui è possibile trovare refrigerio quando il sole è allo zenit.

Kalongo

È proprio nel settore orientale di questo territorio, a valle di un’enorme e suggestiva spina vulcanica di granito con un dislivello di 500 metri, il monte Oret, che si erge la piccola e ospitale cittadina di Kalongo. è qui che padre Ambrosoli trascorse il resto della sua vita, esattamente 31 anni, dal 19 febbraio 1956 al 13 febbraio 1987.

Quando vi giunse, trovò un piccolo centro di maternità e un dispensario che trasformò in un vero e proprio ospedale. Nel 1959 fondò, sempre a Kalongo, con l’aiuto della consorella comboniana suor Eletta Mantiero, la Scuola per ostetriche e infermiere. Nel 1972 poi, si fece carico anche dei lebbrosari di Alito e Morulèm.

Gli unici intervalli in cui si assentò da Kalongo, furono i brevi periodi rappresentati dalle vacanze, spesso trasformate in autentici tour de force per accrescere le sue molteplici competenze nel campo chirurgico e procurare fondi per il complesso ospedaliero. La comboniana suor Caterina Marchetti descrive così una giornata di lavoro di padre Ambrosoli: «Incominciava con la sala operatoria verso le 7.30 del mattino e finiva alle 13.30 e a volte anche oltre. Rientrava per il pranzo; poi una breve pausa di riposo e quindi in dispensario a visitare gli ammalati fino alle 8 di sera. Subito dopo rivedeva gli operati della mattina e poi andava a cena. In seguito lo si vedeva recitare il rosario camminando nel cortile della missione, poi andava in chiesa dove rimaneva parecchio tempo. Prima di andare a letto rivedeva i conti o scriveva lettere. Le sue ore di sonno erano molto poche. Spesso di notte lo chiamavamo in maternità per emergenze di ostetricia. Uno si domanda come facesse, anche perché molto tempo lo dedicava alla preghiera».

Aneddoti

La fama di questo medico missionario si diffuse un po’ ovunque, non solo in territorio Acholi, ma anche tra altri gruppi etnici della regione come i Lango, i Kuman e i Teso. A questo proposito sono numerosi gli aneddoti che ne descrivono la popolarità.

Chi scrive, ad esempio, una volta ricevuta l’ordinazione diaconale, nel maggio del 1985, un giorno si recò per impartire i battesimi in un villaggio, nei pressi del lebbrosario di Alito, a un folto gruppo di catecumeni. Il primo di loro pretese di essere battezzato con il nome di «Doctor Ambrosoli». All’obiezione se non fosse più conveniente essere chiamato «Giuseppe», si oppose strenuamente perché era stato il «Doctor Ambrosoli» a salvargli la vita nel suo ospedale. Sta di fatto che da quelle parti sono molti coloro che portano quel nome.

Ciò che colpiva maggiormente i pazienti di Kalongo era la straordinaria capacità di padre Ambrosoli di infondere speranza. Non si trattava di semplice coerenza professionale, ma di una partecipazione totale, dal profondo del proprio essere, a quello che stava testimoniando, tanto da suscitare nella gente un religioso rispetto nei suoi confronti. D’altronde era un contemplativo con l’anima e con il cuore.

«Ajwaka Madid»

Inizialmente venne soprannominato «Ajwaka Madid», lo «stregone bianco». Poi, per la sua carica spirituale, venne chiamato «medico della carità».

Il servizio missionario di padre Ambrosoli venne scandito da diversi avvenimenti che segnarono positivamente e anche tragicamente la storia d’Uganda della seconda metà del Novecento. Visse infatti la parte finale della stagione coloniale britannica, a cui seguirono l’indipendenza, l’ascesa al potere di Milton Obote, l’avvento del dittatore Idi Amin Dada, il ritorno di Obote e l’ascesa dell’attuale presidente Yoweri Museveni.

Gli ultimi anni della sua vita furono segnati in particolare dalla guerriglia di cui ancor oggi il nord Uganda conserva profonde ferite.

Proprio in seguito ai ripetuti scontri tra forze governative e fazioni ribelli, il 13 febbraio 1987, fu costretto a evacuare l’ospedale di Kalongo. Si pose allora per lui la questione più spinosa: quella di trovare un posto conveniente alla sua creatura più amata: la scuola per ostetriche e infermiere. Sottopose così la sua salute, già gravemente compromessa, a sforzi enormi che, alla fine, lo condussero alla morte per insufficienza renale.

Il pomeriggio del 27 marzo 1987 si spense a Lira, 44 giorni dopo essere stato costretto ad abbandonare la sua Kalongo.

1958, Kalongo, padre Giuseppe Ambrosoli con le allive della scuola infermiere e suore Comboniane

Il miracolo

Com’è noto, per la beatificazione è necessario il miracolo, vale a dire il sigillo che la Chiesa affida a Dio per proporre il suo servo come intercessore ed esempio per la sua congregazione, per la Chiesa locale che l’ha visto nascere, e poi per quella comunità che l’ha accolto nell’adempimento della sua missione, l’ha visto morire e ne ha poi conservato il corpo e la memoria.

Di guarigioni e cure straordinarie padre Ambrosoli ne aveva ottenute in vita, ma quella che canonicamente è stata riconosciuta come un vero e proprio miracolo dalla Chiesa è quella avvenuta nel 2008 nell’ospedale di Matany, nella regione del Karamoja, nell’estremo nord est dell’Uganda, che ha coinvolto una giovane mamma di 20 anni, Lucia Lomokol di Iriir.

La donna, perso il figlio che portava in grembo, stava per morire di setticemia. Dal punto di vista clinico, non c’erano più speranze di salvarla. Ma il medico che la stava seguendo, Eric Dominic, di origini torinesi, le mise sul cuscino l’immagine di padre Ambrosoli e chiese ai familiari di invocare «il grande dottore». La mattina dopo Lucia apparve come rinata.

L’allora vescovo di Moroto, monsignor Henry Apaloryamam Ssentongo, sotto la cui giurisdizione si trovava la parrocchia di Matany, venuto a conoscenza del fatto, volle che si raccogliesse tutta la documentazione per sottoporla allo studio della Congregazione delle cause dei santi.

Così il 17 settembre 2010 iniziò il processo del presunto miracolo. Vennero convocati i testimoni presenti al fatto, oltre a due medici specialisti e due periti. Raccolta anche tutta la documentazione clinica, il processo si concluse positivamente quasi un anno dopo a Moroto, il 21 giugno 2011. Successivamente, questa guarigione venne decretata come «straordinaria e inspiegabile» dalla commissione medica istituita dalla Congregazione per le cause dei santi.

Una scelta d’amore

Un medico che lavorò fianco a fianco con padre Ambrosoli, ha scritto questa testimonianza: «Egli può essere considerato una figura radicalmente esemplare: non tanto per la sua bravura e polivalenza chirurgica, né per la sua capacità organizzativa e gestionale, e neppure per la scelta degli “ultimi”, come si usa dire oggi. Nonostante tutto ciò rimanga innegabilmente vero, è soprattutto per aver fatto una scelta di servizio e quindi di amore, supportata da una forte capacità organizzativa, che la sua figura diviene esemplare. La sua fu una scelta operata non per vanagloria o smania ascetica e autorealizzativa, quanto invece per rispondere, in umiltà e ubbidienza, quindi “negando se stesso”, a un invito di amore e di servizio basato sulla fede che è come attuazione del comandamento divino di “amare il prossimo”». Questo è l’elemento fondamentale che, secondo il postulatore della causa, padre Baritussio, conferisce all’opera di padre Ambrosoli un significato universale: «Accessorio e accidentale è il fatto che tutto questo egli lo abbia realizzato in un ospedale della savana africana. Essenziale invece, è che tale scelta di servizio “tecnico”, basata sulla fede come adesione operativa al Padre celeste, egli l’abbia realizzata integrandola direttamente in una prospettiva pastorale: carità al servizio del Vangelo ossia al servizio di un “annuncio di salvezza”. Questa è la ragione per cui padre Ambrosoli, nel suo operare, non è rimasto succube di una contraddizione tra sacerdozio e professione, ma ha saputo utilizzare l’una a vantaggio dell’altra realizzando tra le due una perfetta integrazione al servizio dell’uomo in un’ottica di fede».

L’ospedale vive

L’opera del beato Ambrosoli ha trovato un felice prosieguo nell’impegno profuso da un altro medico missionario, padre Egidio Tocalli (che riaprì l’ospedale nel 1990) e dalla Fondazione Ambrosoli, costituita nel 1998 dai suoi familiari e dai comboniani. Motivo per cui ancora oggi i pazienti di Kalongo non possono fare a meno di dire: «Apwoyo, Brogioli», grazie padre Ambrosoli. Una testimonianza, la sua, di fedeltà all’ideale comboniano di «salvare l’Africa con l’Africa».

Giulio Albanese

Tomba del beato nel cimitero di Kalongo




San Lazzaro Devasahayam


«La canonizzazione del beato Lazzaro, chiamato Devasahayam, è un’affermazione del suo essere stato discepolo di Gesù, avendo vissuto pienamente il Vangelo nella sua vita. Era un laico, e questo rivela che la santità è per ogni persona, non solo per i religiosi. Oggi parliamo sempre più spesso della vocazione dei laici nella Chiesa, e qui c’è un laico indiano, un padre di famiglia, che ha offerto una testimonianza vera e genuina dei valori del Vangelo. Amava i poveri e i Dalit ed era un potente testimone dello Spirito di Cristo» (card. Oswald Gracias, arcivescovo di Mumbai).

Nel regno di Travancore (Thiruvitankur nella linga locale), situato nell’India Sud occidentale, dal 1720 regnava Martanda Varmâ. Nel XVIII secolo questi territori erano ambiti dalla Compagnia olandese delle Indie. Ma il regno di Travancore si opponeva decisamente a questo dominio straniero e nella battaglia di Colachel (10 agosto 1741), sconfisse i mercenari della Compagnia, liberandosi dai legami coloniali e dalle tasse sul commercio delle spezie, in particolare sul pepe nero.

Diversi soldati della Compagnia furono fatti prigionieri, tra di essi il comandante degli olandesi, Eustache de Lannoy, un cattolico francese, che poi accettò di mettersi al servizio del re che gli diede il compito di modernizzare la flotta e l’esercito del suo regno. Da abile stratega militare, De Lannoy organizzò l’esercito di Travancore secondo lo standard europeo. Introdusse le armi da fuoco, promosse un sistema di tassazione accurato, e fece eseguire lavori d’irrigazione per rendere fertili e coltivabili le terre aride della parte interna del paese, salendo di grado fino a diventare ammiraglio capo. Ebbe infine un ruolo importante nella conversione di Nilakandan, un ufficiale dell’esercito reale.

Il regno di Travancore era uno stato principesco del subcontinente indiano. Comprendeva la maggior parte del Sud dell’attuale stato del Kerala e il presente distretto di Kânyâkumârî dello stato del Tamil Nadu. Aveva come capitale Thiruvananthapuram, l’odierna capitale del Kerala.

L’ampio territorio era incorniciato da alte montagne sui cui versanti prosperavano piantagioni di ogni tipo. Con le spiagge degradanti fino al mare, si godeva di un clima tropicale caldo e umido, ricco di precipitazioni e di piogge monsoniche, con temperature elevate durante tutto l’anno. Nel 1503 era stato la prima colonia portoghese in India, e fu per secoli uno snodo fondamentale per il commercio delle spezie verso il Medio Oriente e l’Europa. Era il regno del cocco, del peperoncino, del pepe nero, delle foglie di curry, del cardamomo, dei semi di senape e dei chiodi di garofano, spezie ancora oggi apprezzate dalla popolazione locale.

Statue of Devasahayam Pillai, St. Francis Xavier Cathedral, Kottar, Nagercoil – CC BY-SA 3.0

La nascita di Nilam

Nel piccolo villaggio di Nattalam, in una famiglia indù, il 12 aprile 1712 nacque Nilam, detto anche Nilakandan. Ricevette subito il titolo di «pillai» perché apparteneva all’alta casta dominante, i Nair, i cui membri lavoravano come soldati al servizio del re.

La carriera militare

Nilam fu educato da tutori competenti e raggiunse un alto livello di preparazione. Si esercitò anche nelle arti marziali tradizionali, mentre studiava e imparava molte lingue.

Con la meditazione e lo yoga, le arti marziali avevano lo scopo di aiutarlo a dominare il corpo e la mente, infondendo nell’animo serenità e pace per servire la divinità con tutto il cuore. Non erano semplici esercizi fisici per difendersi da attacchi improvvisi, ma strumenti di primaria importanza per portare l’esercitante nella via della pace interiore, nell’autocontrollo e nella pratica della nonviolenza. La morbidezza e la cedevolezza nei movimenti erano qualità essenziali nella pratica delle arti marziali. Non bisognava infatti opporsi alla forza dell’avversario, ma utilizzare piuttosto la sua forza per batterlo.

In quanto indù tradizionalista, Nilakandan si dedicò sempre fedelmente alle devozioni degli dei e all’osservanza religiosa, divenendo un ufficiale presso il tempio di Nilakandaswamy, nel Padmanabha­puram.

Grazie alla sua grande intelligenza e ai suoi talenti, intraprese la carriera militare divenendo ministro del regno di Travancore, come funzionario del palazzo reale addetto al tesoro e alle finanze. Era molto amato dal re, perché era un uomo buono e fedele al suo dovere.

Convertito dalla storia di Giobbe

Con il passare del tempo, quando, dopo alcuni cattivi raccolti e una cattiva gestione, perse i suoi beni, Nilakandan corse il pericolo di perdere anche il posto di lavoro e la sua onorabilità. Fu Eustache de Lannoy a consolarlo narrandogli la storia biblica di Giobbe. Gli raccontò che, messo alla prova da Satana, Giobbe aveva sopportato con rassegnazione la perdita dei suoi beni, dei suoi sette figli e tre figlie morte nel crollo della casa, e anche le sofferenze dovute alla malattia che lo aveva colpito.

Fortemente impressionato da questo personaggio, Nilakandan si avvicinò al cristianesimo e, nonostante fosse ben consapevole dell’ostilità che il re aveva verso i convertiti, chiese di ricevere il battesimo dal gesuita padre Giovanni Battista Buttari. Così il 14 maggio 1745 divenne cristiano, scegliendo per sé il nome di Devasahayam, traduzione in lingua tamil del biblico Lazzaro, o Eleazar, che in ebraico significa «aiuto di Dio».

Si consacrò solennemente a Cristo

Nel giorno del suo battesimo Devasahayam si consacrò solennemente a Cristo: «Nessuno mi ha costretto a venire, sono venuto dalla mia propria volontà. Egli è il mio Dio. Ho deciso di seguirlo e lo farò per tutta la mia vita». La sua vita non fu più la stessa: Devasahayam si dedicò alla proclamazione del Vangelo per quattro anni.

I capi indù non videro di buon occhio la sua conversione al cristianesimo. I bramini cominciarono a muovere false accuse contro Devasahayam presso il re che lo fece arrestare nel febbraio del 1749, intimandogli di ritornare all’induismo.

La conversione di un ministro del re era, infatti, ritenuta un tradimento e un pericolo per la solidità dello stato. Il suo rifiuto di adorare le divinità indù e di prendere parte alle tradizionali feste religiose irritò molto il re e i suoi ufficiali che non tolleravano la sua predicazione sull’uguaglianza di tutti i popoli, il superamento delle caste e l’amicizia con gli intoccabili, cosa proibita per una persona di casta elevata.

Tutti gli sforzi del re risultarono vani e Devasa­hayam rimase fermo nella sua nuova fede e si rifiutò di abbandonare Gesù Cristo. In seguito a ripetuti e inutili tentativi di fargli abiurare la fede cristiana, il re ordinò che venisse torturato a lungo pubblicamente, come monito per coloro che pensavano di convertirsi al cattolicesimo.

Persecuzione e tortura

Gli ufficiali di palazzo e i soldati misero in mostra Devasahayam attraverso il regno in un modo ignominioso e straziante. Fu fatto fatto girare nei villaggi seduto su un bufalo e gli furono offerte ridicole corone di fiori, mentre veniva regolarmente picchiato in pubblico con bastoni e spine. Misero polvere di peperoncino sulle sue ferite per aumentare il dolore e le sofferenze. Lo costrinsero a stare in mezzo a insetti voraci. Lo fecero camminare per molti chilometri sotto il sole cocente, con le mani e i piedi incatenati. Arrivati presso una roccia a Puliyoorkurichy, era molto assetato, ma i soldati si rifiutarono di dargli da bere. Cadde allora in ginocchio e pregò: l’acqua sgorgò e placò la sua sete, e sulla roccia rimasero le impronte delle sue ginocchia.

Gli ufficiali per intensificare le sue sofferenze lo portarono in un posto chiamato Peruvilai dove lo consegnarono ai carnefici. Essi lo legarono strettamente a un albero, impedendogli così di sedersi o sdraiarsi. All’aperto, sotto il sole cocente, la pioggia o il vento, soffrì la fame per sette mesi. Accettò ogni cosa felicemente e offrì tutto per la gloria di Dio. In mezzo a tutte queste sofferenze, la sua fede in Gesù non fu mai scossa ed egli rimase fedele a Cristo, non smise mai di pregare e meditare.

A closer look of the rock where Devasahayam is believed to have prayed and left imprints of his knee and elbow – CC BY-SA 3.0 Jayarathina

Il martirio

A Peruvilai una grande folla cominciò a recarsi presso di lui ogni giorno, per ricevere le sue benedizioni e preghiere. I soldati lentamente cominciavano a essere gentili con lui fino al punto da suggerirgli di fuggire. Venuto a conoscenza della nuova situazione, il re e gli ufficiali di palazzo si sentirono sconfitti nel loro desiderio di far cambiare idea a Devasahayam e, per evitare che ancora più gente diventasse cristiana, ordinarono che fosse portato in una prigione segreta presso Aralvaimozhy, al confine Sud Est del regno.

Anche a Aralvaimozhy le torture continuarono e, giorno dopo giorno, la sua salute divenne precaria. Infine, arrivò il momento supremo del martirio, che egli desiderava da molto tempo.

Il 14 gennaio 1752 gli ufficiali ricevettero l’ordine speciale da parte del re di ucciderlo in segreto. Devasahayam fu svegliato prima della mezzanotte e i soldati lo portarono sulle loro spalle, non essendo in grado di camminare, fino in cima a una collinetta nella foresta di Aralvaimozhy.

Per l’ultima volta egli chiese ai soldati un po’ di tempo per pregare. Nel mezzo della notte si inginocchiò sulla roccia e si abbandonò completamente al Signore.

Quando finì di pregare, chiese ai soldati di fare il loro dovere, ed essilo fecero. Gli spararono tre volte e Devasahayam cadde sulla roccia gridando: «Gesù, salvami!». Quindi per assicurarsi che fosse morto, gli spararono altri due colpi. Lo gettarono nella foresta perché il suo cadavere venisse divorato dalle belve e così distruggere ogni prova della sua uccisione.

Dopo cinque giorni, i cattolici che vivevano nelle vicinanze vennero a sapere dell’esecuzione. Raccolsero i suoi resti e li seppellirono nella Chiesa di San Francesco Saverio a Kottar, l’attuale cattedrale della Diocesi di Kottar, nello stato di Tamil Nadu.

Una santità riconosciuta

Tomb of Devasahayam Pillai, St. Francis Xavier Cathedral, Kottar, Nagercoil (CC BY-SA 3.0)

Ben presto Devasahayam venne venerato nella regione, e nel 1993 la diocesi di Kottar aprì canonicamente la causa di beatificazione.

La sua santità era ancorata a due capisaldi: anzitutto il grande desiderio di offrirsi a Dio, di appartenergli totalmente donandogli la vita, anche in modo cruento nel martirio. Poi, vivere in ascolto della parola di Dio, sottomettendosi totalmente al servizio della verità del Vangelo nella società. Visse così da vero testimone di Cristo la sua fede battesimale e il suo impegno cristiano. Dopo lunghe ricerche, Benedetto XVI autorizzò la promulgazione del Decreto super martyrio il 28 giugno 2012.

«La Chiesa indiana è grata per questa figura così eroica nel diffondere il Vangelo nella nostra terra anche nelle tribolazioni. È un dono all’India e alla Chiesa universale: sono sicuro che guiderà la vita di molti cristiani» (cardinal Baselios Cleemis, siro-malankarese).

Nella città di Nagercoil (diocesi di Kottar), il 2 dicembre 2012, si svolse la cerimonia di beatificazione, con grandissima partecipazione di popolo.

La canonizzazione è stata poi resa possibile dal riconoscimento di un miracolo avvenuto per sua intercessione, cioè la guarigione nel grembo di una donna indiana di un feto di 20 settimane che la medicina aveva ufficialmente dichiarato morto.

Gli esami ecografici a cui si era sottoposta laa donna avevano riscontrato mancanza di battito cardiaco e di movimento fetale. La donna, di religione cattolica, si fece portare dai genitori dell’acqua attinta dal pozzo di Nattalam, luogo di nascita del beato Lazzaro, di cui era molto devota: la bevve e continuò a pregare. Circa un’ora dopo aver bevuto, la donna sentì che il feto si muoveva. L’attività cardiaca fetale fu accertata da successive ecografie. Il bambino nacque senza parto cesareo, sano e in buone condizioni cliniche generali.

Papa Francesco nel concistoro del 3 maggio 2021 fissò la data di canonizzazione per il 15 maggio 2022.

Monsignor Peter Remigius, vescovo emerito di Kottar, dove si trovano i luoghi di nascita e di martirio di Devasahayam, assicura che «Da quando papa Francesco ha autorizzato il processo di canonizzazione, migliaia di persone stanno accorrendo nel luogo in cui è stato fucilato. In tutte le parrocchie della diocesi c’è grande giubilo, la notizia è diventata virale sui social. Inoltre, la donna del miracolo appartiene alla diocesi e abita molto vicino alla casa natia del beato».

Giuseppe Ronco

 




Beato Benedict Tshimangadzo Daswa


Il 13 settembre 2015, in un prato a Tshitanini, un paese non lontano dalla cittadina di Thohoyandou nel Nord del
Sudafrica, provincia del Limpopo, il cardinal Angelo Amato ha dichiarato beato Benedict Daswa, un maestro ucciso dalla gente del suo stesso villaggio per aver rifiutato di piegarsi alla stregoneria. Prima della beatificazione il suo corpo era stato riesumato e i suoi resti erano stati trasferiti nella chiesa che aveva contribuito a costruire, a Nweli, uno dei villaggi di Tshitanini.

Il beato Benedict Daswa

Tre fatti legano il beato Benedict Daswa al suo paese: è nato il 16 giugno 1946, in quello che sarebbe diventato nel 1976 il giorno dell’inizio della rivolta di Soweto che avrebbe segnato l’inizio della lotta contro l’apartheid, ed è stato ucciso il giorno della fine dell’apartheid (il 2 febbraio 1990). Infine riposa in una chiesa dedicata a Nostra Signora dell’Assunzione, patrona del Sudafrica.

Il beato Benedict nasce come Tshimangadzo Samuel Daswa il 16 giugno 1946, figlio primogenito di Tshililo Petrus e Thidziambi Ida Daswa. Ha tre fratelli più piccoli e una sorella. La famiglia, di religione tradizionale, appartiene alla tribù dei Lemba che vivono in quello che un tempo era il bantustan (territorio assegnato a una specifica etnia, ndr) del Venda, nel Nord del Sudafrica, vicino ai confini con Botswana, Zimbabwe e Mozambico. Dopo la morte del padre in un incidente, Daswa si assume la responsabilità dei suoi fratelli più piccoli e, appena comincia a lavorare, contribuisce a pagare per la loro educazione e li incoraggia sempre a studiare.

Durante le vacanze scolastiche va a stare con uno zio a Johannesburg dove trova un lavoro part time. Lavorando, diventa amico di un giovane bianco di fede cattolica. In più, molti dei suoi coetanei e compagni di scuola, dell’etnia Shangaan (un sottogruppo dei Tsonga, che vivono sia in Sudafrica – circa un milione e mezzo – che nel Mozambico e nello Zimbabwe – 4,5 milioni), sono cattolici. Daswa si converte così al cattolicesimo all’età di 17 anni. Prende il nome di Benedict da san Benedetto, il famoso santo del VI secolo, e in onore di Benedetto Risimati, il catechista che istruisce lui e altri sotto un albero (Risimati, vedovo, sarà ordinato sacerdote nel 1970 e morirà a 64 anni nel 1976). Dopo aver ricevuto la cresima da parte dell’abate vescovo benedettino Clemens van Hoek a Sibasa, antica capitale del bantustan, nel 1963, Daswa si dà da fare per insegnare la fede cattolica ai membri più giovani della sua comunità.

Un laico cattolico attivo

Dopo aver conseguito il titolo di studio di maestro, comincia a insegnare nella Tshilivho Primary School di Ha-Dumasi, diventandone preside nel 1979. È attivo nei sindacati degli insegnanti, nello sport e nella vita quotidiana del suo villaggio, Mbahe. Nella comunità, Daswa guida le funzioni domenicali quando il sacerdote non c’è e insegna catechismo ai giovani e agli anziani. Non ha ancora una casa tutta sua, ma d’accordo con la moglie, aiuta a costruire la chiesa di Nostra Signora dell’Assunzione a Nweli, affinché la comunità abbia un luogo decente per pregare. Questa chiesa ospiterà poi la sua tomba.

Amante della terra, coltiva con cura un grande orto, dal quale dona gratuitamente ortaggi ai poveri. Diventa membro, e poi anche segretario, del consiglio dell’headman (capo locale, equivalente più o meno al nostro sindaco, ndr) del villaggio. Nel consiglio si fa notare per la sua risoluta onestà, integrità e amore per la verità.

«Era aperto alla vita, al bene. Era uno che aiutava la gente. L’intero villaggio dipendeva dal suo piccolo orto per le verdure. Alcuni erano così poveri che lui lasciava loro le verdure anche senza pagare», ricorderà suo figlio maggiore, Lufuno, il primo di otto. Benedict sposa Shadi Eveline Monyai nel 1974, solennizzando la loro unione in chiesa nel 1980. Avranno otto figli, l’ultimo dei quali nascerà quattro mesi dopo la sua morte (Shadi, invece, morirà nel 2008).

La sua fede influisce profondamente sul suo modo di comportarsi, preoccupato com’è di vivere più il Vangelo che le tradizioni locali, e per questo è anche pesantemente criticato. Fa anche dei lavori che la tradizione ritiene riservati alle donne, come raccogliere legna e lavare i vestiti nel fiume, ma per lui condividere la cura dei bambini e le faccende domestiche con sua moglie fa parte dell’impegno matrimoniale.

Lufuno Daswa, che avrà 14 anni quando suo padre verrà ucciso, in seguito lo ricorderà come «un leader naturale» nella sua famiglia e nella Chiesa. «Tutta la famiglia era unita grazie a lui. Era un gran lavoratore. Era un visionario. Aveva piani per il futuro. Aveva fatto progetti per la nostra famiglia, per la nostra educazione. Era il 1980, ma già allora ci ha mandato nella migliore scuola della regione, la Catholic St. Brendan’s school. Noi potevamo andare da lui liberamente, come da un amico. Era tutto ciò che si poteva chiedere da un padre».

Benedict con la moglie Shadi Eveline

Tra fede e stregoneria

Sono proprio le sue scelte di fede a metterlo presto in conflitto con alcuni degli abitanti del villaggio e membri del consiglio del capo. Essi si risentono per la sua opposizione alla pratica della stregoneria, una pratica profondamente legata alla cultura tradizionale. Il conflitto ha origini nel calcio. Nel 1976, infatti, Benedict fonda una squadra chiamata Mbahe Eleven Computers. Dopo che la squadra subisce una serie di sconfitte, gli suggeriscono di chiamare un sangoma (guaritore stregone tradizionale, ndr) per fare dei riti propiziatori per far vincere la squadra. Benedict si oppone all’idea, ma nella votazione viene sconfitto, e lo stregone viene chiamato. Così lascia il club e forma una nuova squadra, gli Mbahe Freedom Rebels. Quella decisione scatena una lunga campagna di odio e gelosia nei suoi confronti da parte di alcuni. Viene perfino accusato di essere lui stesso uno stregone da gente invidiosa del suo successo, della sua bella famiglia, dell’orto che prospera e dell’amicizia che ha con il capo del villaggio.

Nel 1989 la crisi si acuisce. A novembre ci sono una serie di insoliti e fortissimi temporali con lampi, tuoni e soprattutto tanti fulmini che incendiano anche alcune capanne. Questo fenomeno si ripete di nuovo il 25 gennaio 1990. Per questo il 28 gennaio il capo villaggio convoca una riunione straordinaria del consiglio per vedere cosa fare. Benedict non riesce a essere presente all’incontro fin dall’inizio. Quando arriva il consiglio ha già deciso di cercare l’aiuto di un sangoma per scovare la «strega» che ha causato tutti quei fulmini. Ovviamente il sangoma non farà niente gratis, così per pagarlo decidono di richiedere cinque rand (più o meno l’equivalente di un euro, ndr) a ogni membro della comunità. Benedict cerca invano di far capire che i fenomeni meteorologici sono naturali e quindi non possono essere attribuiti alle streghe. Sottolinea anche che l’ascolto del reponso dello stregone causerà la morte di qualche persona innocente, ma inutilmente. Ci sono anche altri leader religiosi nel consiglio, ma la paura è più forte della loro fede.

Daswa allora si rifiuta di contribuire, sottolineando che l’uso di un guaritore tradizionale costituisce stregoneria e quindi è in conflitto con la sua fede. Così diversi membri del consiglio si sentono offesi per quella che percepiscono come una mancanza di rispetto per le loro convinzioni e cominciano a complottare per ucciderlo.

Il maestro Benedict in un momento gioviale con i suoi studenti

Una data importante

Il 2 febbraio 1990 – la festa della Presentazione del Signore al tempio – è una giornata intensa. Quel venerdì, è il giorno in cui il presidente Frederik Willem de Klerk annuncia la legalizzazione dei movimenti di liberazione (dell’African national congress – Anc, del Panafrican congress e del Partito comunista sudafricano) e la liberazione di Nelson Mandela. Daswa comincia il giorno lavorando nel suo orto dove raccoglie un bel po’ di cavoli, li mette in ceste che carica sul suo pickup, poi va fino a Makwarela dal medico per portare sua cognata con il bambino malato. Da lì si reca direttamente a Thohoyandou per consegnare al parroco, padre John Finn, tutto il carico di cavoli per i poveri. Mentre torna a casa incontra un giovane che cammina con un sacco di farina sulle spalle e gli dà un passaggio.

Riprende poi il viaggio per tornare a casa a Mbahe, quando alle 19.30, arrivando vicino alcampo da calcio degli Eleven Computers, nei pressi della scuola di cui lui è preside, vede la strada bloccata da tronchi e sassi. Benedict scende dal pickup per rimuovere i tronchi e subito un gruppo di uomini gli è addosso, lo pestano a sangue e lo colpiscono con pietre.

Il campo da calcio attraverso il quale ill beato Daswa ha cercato di fuggire ai suoi assalitori

Sanguinante, scappa attraverso il campo da calcio trovando riparo nella cucina di un rondavel (capanna rotonda tradizionale, ndr). Ma gli assalitori lo inseguono e minacciano di morte la proprietaria della capanna perché riveli il nascondiglio di Daswa. Due ragazzi lo tirano fuori a forza dal rondavel. Lui ne abbraccia uno, implorando per la sua vita. Un uomo però gli dà addosso brandendo una mazza di legno e gli sferra il colpo fatale. Benedict prega dicendo: «Dio, nelle tue mani, ricevi il mio spirito». Il colpo lo butta a terra con la testa rotta. Gli assalitori gli versano acqua bollente sulla testa, per assicurarsi che la loro vittima sia morta. E fuggono.

Il pick up del beato Daswa danneggiato dal lancio di sassi

Più forte del male

Il fratello di Benedict, Thanyani, è il primo membro della famiglia ad arrivare dove si trova il suo corpo. Quando la loro madre vede ciò che è stato fatto a suo figlio, sviene. Nei giorni che precedono il funerale di Benedict, padre Finn, le suore del Santo Rosario e la comunità cattolica vanno a casa Daswa ogni sera per pregare con la famiglia. «Ho un ricordo molto distinto: è stata la prima e unica volta che ho percepito la presenza del male», dirà padre Finn ricordando l’atmosfera di paura, tensione e ostilità nel villaggio.

Gli assassini non saranno mai condannati per mancanza di prove. Alcuni di loro continueranno ad andare ai Daswas (i centri dove si distribuisce cibo per i poveri, ndr) per ricevere frutta e verdura.

Lufuno Daswa, il figlio, ricorderà la sua ultima conversazione con il padre: «Stavo andando al secondo anno di scuola secondaria. Mi ha accompagnato alla
St. Brendan’s. Abbiamo chiacchierato a lungo. Mi stava insegnando alcune parole in sepedi, su come salutare mia madre. Abbiamo pregato e poi ci siamo abbracciati. Poi ha chiuso la portiera della macchina e io ho chiuso la mia, e lui se n’è andato. Penso che fosse il 22 gennaio, poco più di una settimana prima della sua scomparsa». Il funerale di Benedict è celebrato il 10 febbraio, il giorno prima del rilascio dal carcere di Nelson Mandela, nella chiesa di Nweli che Daswa ha contribuito a costruire. È presieduta da padre Finn con altri sacerdoti. Tutto il clero indossa paramenti rossi in riconoscimento della loro convinzione che Benedict sia morto martire per la sua fede.

Il maestro Benedict Daswa con i suoi studenti

Ricordo di un martire

All’inizio, la devozione a Daswa cresce localmente, fino a quando, alcuni anni dopo, il vescovo Hugh Slattery di Tzaneen ne viene a conoscenza. Il vescovo, che più avanti scriverà un libro sulla vita di Benedict Daswa, apre un’inchiesta sulla morte del martire nel 2005 e la completa nel 2009, quando viene inviata in Vaticano.

Nell’ottobre 2014, i consultori teologi della Congregazione per le cause dei santi raccomandano all’unanimità che Daswa sia dichiarato martire.

Benedict Daswa è beatificato il 13 settembre 2015 dal cardinale Angelo Amato, a nome di papa Francesco. Il successore di mons. Slattery, mons. João Rodrigues, presenta il decreto di beatificazione alla folla di oltre 35mila persone, tra cui il vicepresidente Cyril Ramaphosa.

I canti della celebrazione, a cui partecipano la madre, il fratello e la moglie con gli otto figli, sono sentiti a chilometri di distanza. C’è padre Augustine O’Brien che ha battezzato Daswa nel 1963, e padre John Finn, che ha celebrato il suo funerale.

Il cardinale Amato ricorda che Daswa è stato un uomo buono e gentile e, soprattutto «è stato un vero missionario di Cristo che è riuscito a convincere i suoi compagni ad abbracciare la fede cattolica».

Copertina della rivista Southern Cross

Il vicepresidente Ramaphosa sottolinea come la beatificazione sia un motivo di grande gioia per tutto il Sudafrica e che è la prima volta che la Chiesa cattolica riconosce come martire di Cristo un sudafricano.

Daswa è stato un uomo che ha avuto il coraggio di pagare di persona per quello che riteneva giusto, combattere la stegoneria per difendere la vita di anziane donne innocenti, pur sapendo di rischiare di perdere la sua stessa vita.

La festa di Daswa è il 1 ° febbraio.

 tradotto e adattato da «Southern Cross», giugno 2021

Funerale di Benedict nella chiesa di Nweli


Daswa e la politica

Nato il 16 giugno e martirizzato il 2 febbraio, due date molto importanti in Sudafrica. Daswa era politicamente schierato?

Non so se lo fosse o meno, ma certo era dalla parte della giustizia e dei poveri. Le persone di profonda fede, anche se dicono di non essere politicamente schierate, tendono a mettersi nei guai con il potere sia per il loro comportamento sia perché si fanno domande come: «Perché siamo poveri?». La loro preoccupazione di alleviare tutto ciò che mantiene le persone in schiavitù, li fa entrare in contatto con i poteri politici in modi che possono causare ad alcuni di loro persecuzione o addirittura la morte.

Penso poi che per noi cattolici il 2 febbraio abbia un significato più profondo di quello legato alla storia politica. È la festa della Presentazione del Signore. Molto interessante che quando Gesù fu presentato a Dio nel Tempio, la vita di Daswa fu presentata a Dio suo creatore. Che giorno per essere chiamati alla vita eterna.

suor Tshifhiwa Munzhedzi Op,
 postulatrice della causa di beatificazione


Cosa rende speciale il beato Daswa?

Se non fosse stato martirizzato, Daswa sarebbe stato uno dei tanti santi sconosciuti della Chiesa. Cosa lo rende così vicino alla gente? Cosa c’è in lui che affascina i comuni fedeli?
In primo luogo affascina come padre di famiglia.

Padre Finn presiede il funerale di Benedict nella chiesa di Nweli

La Chiesa ha molti santi, ma la maggior parte di loro sono religiosi. Il beato Daswa era sposato, un normale padre di famiglia, con figli e che lavorava come farebbe qualsiasi papà per sostenere la propria famiglia. D’altra parte, il suo processo di canonizzazione mostra proprio che i santi sono persone comuni che fanno cose ordinarie. È il modo in cui svolgono queste attività quotidiane che li rende diversi. Ognuna delle loro azioni è influenzata dalla loro fede in Dio e si connette costantemente con il loro Creatore. Questo è ciò che ha vissuto il beato
Daswa.

In secondo luogo, attira come educatore.

Daswa ha svolto il suo lavoro non solo concentrandosi sui risultati in classe. Vedeva i suoi allievi come esseri umani che hanno bisogno di essere guidati in tutti gli aspetti della vita. Lo ha fatto, e così ha insegnato loro responsabilità e abilità della vita. Era pronto a sostenere l’educazione dei suoi alunni anche quando era contro la volontà di genitori che non ne capivano proprio l’importanza. Nell’educare i bambini, ha aiutato a educare anche i genitori.

In terzo luogo, convince come convertito.

Come i primi cristiani, la sua conversione al cristianesimo è stata completa. Ha accettato Dio e ha vissuto la sua vita dedicandosi alla costruzione di quella relazione con Lui senza essere timido o vergognarsi di riconoscerlo in pubblico.

In quarto luogo, è una persona semplice.

Anche se il beato Daswa è andato a scuola e ha poi raggiunto una posizione sociale importante, è sempre rimasta in lui una grande semplicità. Penso che questa caratteristica lo renda attraente per le persone. È come se anche io potessi diventare quello che era lui. Penso che sia in quella semplicità che Cristo ha potuto trovare una casa dove dimorare.

E quinto, è esemplare la sua generosità.

Daswa era generoso, eppure non sembrava essere uno che potesse essere ingannato facilmente. Condivideva ciò che aveva con coloro che non avevano, ma si aspettava anche che la persona crescesse e si elevasse seguendo il suo esempio. Era ben consapevole che uno stomaco vuoto non può svolgere il suo lavoro come dovrebbe. Così, aveva schemi di alimentazione per i suoi alunni e dava frutta e verdura dal suo giardino ai vicini bisognosi.

suor Tshifhiwa Munzhedzi Op,
 postulatrice della causa di beatificazione

La tomba del Beato Daswa nelal chiesa di Nweli

 




Suor Carola Cecchin «mware muega»


La vita di questa suora del Cottolengo, in Kenya dal 1905 al 1925, è un inno alla carità, un’esistenza spesa a servizio dei più poveri, dei più bisognosi, avendo cura del prossimo nella concretezza del quotidiano tanto da essere chiamata dai Kikuyu e dai Wameru «mware muega» (suora buona*).

La vita di Maria Carola fu realmente conformata a Gesù Cristo, rinunciando a se stessa e vivendo con fedeltà gli impegni assunti con la sua professione religiosa di suora cottolenghina, prima in Italia e poi come missionaria in terra africana. Ma la prima terra di missione, come donna consacrata, fu la vita semplice e umile nella cucina del convento: «È là che si formò, che imparò lo spirito di sacrificio; è là che incominciò ad essere missionaria, a guadagnare anime a Gesù». Ciò che vale non è «fare il missionario», ma «essere missionario» nei tempi e nei modi che Dio e l’obbedienza richiedono.

Unita a Cristo

Il legame con Gesù fu la costante della storia di Maria Carola fin da ragazza e poi come giovane suora, e andò crescendo in modo straordinario nella sua lunga marcia missionaria. «Il pensiero che potrò in qualche modo concorrere a far dilatare il Regno di Gesù mi riempie di riconoscenza verso di Lei e verso il Signore, io offro fin da questo momento tutta la vita mia». Con queste parole, il 19 marzo 1904, chiese a padre Giuseppe Ferrero, successore del Cottolengo, la possibilità di essere inviata come missionaria in Africa. Desiderio che si realizzò il 28 gennaio dell’anno successivo. Pagò il suo legame con l’Africa attraverso il superamento di se stessa, la rinuncia non solo al male, ma anche agli affetti e alle cose più care. Una potatura che la segnò fino alla fine della vita perché il dono di sé era autentico e non effimero o interessato, come dice un canto: «L’amore vero è un taglio sul vivo, se non vogliamo dare il di più». […]

Nella sua offerta fatta il 6 gennaio 1899, solennità dell’Epifania, quando emise la professione religiosa, tenendo una candela in mano, formulò questa preghiera che anticipò quanto avrebbe vissuto poi: «Che il mio corpo si consumi come questa cera, o Gesù, scompaia dopo aver tanto fatto e sofferto, né di me resti traccia quaggiù come nulla resterà di essa! Che della mia anima, come da questo lucignolo, emani luce e calore: luce radiosa per me nella conoscenza Tua, calore infuocato per il prossimo che dovrò amare tanto da dimenticare me stessa, per poterlo beneficare, edificare e portare a Te, o Gesù, Amore mio Divino! A Te che scelgo per mia porzione nel tempo e nell’eternità».

Obbediente allo Spirito

[…] Suor Maria Carola, grazie alla sua fede e al sacrificio costante di sé, rifulge per la sua straordinaria capacità di sapere coniugare in modo mirabile l’annuncio del Vangelo e la promozione umana, ottenendo frutti di conversione spirituale e di liberazione umana e sociale. L’occupazione a cui suor Maria Carola attendeva con amore erano i catechismi in missione e a domicilio. Quale conforto provava e come si sentiva animata a nuovi sacrifici, nel poter dire: «Eccoti, Gesù, sono Tue queste anime, regna in esse sovrano!». E in quei villaggi sentiva l’altezza della sua vocazione, il dovere di pregare il Padrone della vigna, e il desiderio che il seme gettato germogliasse e giungesse presto a maturità. Era più che persuasa che soltanto dal lavoro della grazia dipende la conversione delle anime. «Noi lavoriamo – diceva – ci affatichiamo, Gesù muove i cuori, Gesù illumina le menti; Gesù è il gran Ladro d’amore; Egli solo sa rubare, e rubare, e rubar bene».

È bello riconoscere che suor Maria Carola, in forza della sua conformazione a Cristo e senza che lei se ne rendesse conto, diventò per i suoi e le persone incontrate una «traduzione dello stile di vita di Cristo, che essi potevano vedere e alla quale potevano aderire».

È bello ricordare la conversione del capo del popolo kikuyu. Nei pressi della missione di Tuso c’era il villaggio del gran capo del Ghekoio (così si scriveva allora, prima che si imponesse la traslittetrazione inglese, ndr), Karoli che era entusiasta di muare Karola, perché diceva: «Porta il mio nome». Quando poi capì che la mware cucinava molto meglio delle sue numerose mogli, la simpatia si accentuò e giornalmente le inviava carni da cuocere, farina e zucchero, burro per la confezione di paste dolci. E suor Karola lo trattava con mille riguardi nell’intento di far conoscere di più il cristianesimo. E infatti le sue speranze non furono deluse: il seme da lei gettato, benedetto dal Signore, germogliò e fruttificò nel 1916, quando Karoli ricevette il battesimo. […]

Per lei l’azione missionaria non fu «un palo secco da innaffiare», ma un’opera di Dio germogliata nel cuore della foresta. Era convinta che il seme della Parola, gettato in quella regione impervia e isolata, avrebbe dato frutti di carità e di rinnovamento.

Testimone della fede

[…] Suor Maria Carola conosceva molto bene gli elementi fondamentali della fede, che in passato erano noti a ogni bambino, perché li aveva appresi nella cerchia famigliare e alla scuola di santi sacerdoti ed educatori. Lei aveva imparato fin da ragazza, da giovane religiosa e poi da intrepida missionaria che «per poter vivere e amare la nostra fede, per poter amare Dio e quindi diventare capaci di ascoltarlo in modo giusto, dobbiamo sapere che cosa Dio ci ha detto; la nostra ragione e il nostro cuore devono essere toccati dalla sua parola».

Ecco perché tutta la sua vita fu un annuncio continuo del Vangelo e della dottrina cristiana. Ogni occasione fu opportuna per indicare la salvezza nel nome di Gesù e di Maria. Sia cucinando, sia assistendo i malati, sia medicando, sempre la parola evangelica da lei seminata nell’intimo delle persone scese come medicina che cura le ferite e le piaghe dei cuori e delle anime.

Quanto lavorò. Non vi fu capanna, anche lontana, che non fosse visitata, e più volte, da lei; ma il suo prezioso compito fu il nucleo delle catecumene; quanta pazienza nell’impartire i principi della fede, nell’abituarle alla vita cristiana. E una volta cristiane era tutta di loro, giorno e notte, pronta sempre a confortarle, a far da madre a loro e ai loro bambini.

Era una donna di grande fede che sapeva trasmettere l’amore per il Signore pur nella difficoltà della lingua, sia nel catechismo che nei rapporti con la gente.

La sua fede era nutrita dalla Parola di Dio, da solide letture e da intensa preghiera e adorazione.

[…] Tutte le sue fatiche le offriva al Signore per le anime senza badare alla salute, al pericolo.

Presto beata

La beatificazione di questa missionaria del Vangelo (probabilmente in ottobre o novembre di quest’anno, ndr), ci aiuta a ricordare che le missioni hanno il loro centro nell’annuncio della salvezza nel nome di Gesù. Suor Maria Carola non era una dotta, un’intellettuale, ma con il suo annuncio toccò i cuori della gente, perché ella stessa era stata toccata nel cuore dalla grazia dello Spirito. E lo fece nel modo che le era più naturale, senza tanti artifici o metodi speciali. […]

«Per la salvezza delle anime»

Merita ricordare che suor Maria Carola lavorò instancabilmente per la salvezza delle anime, attraverso uno zelo e una dedizione incondizionata, fino al dono della sua vita. Oggi il termine «anima» sembra essere diventato una prerogativa esclusiva della psicologia e il parlare della «salvezza delle anime» sembra una cosa antiquata. […] Suor Maria Carola si preoccupava dell’uomo intero, delle sue necessità fisiche e spirituali. Con il suo esempio e il suo messaggio ci ricorda che «noi non ci preoccupiamo soltanto del corpo, ma proprio anche delle necessità dell’anima dell’uomo: delle persone che soffrono per la violazione del diritto o per un amore distrutto; delle persone che si trovano nel buio circa la verità; che soffrono per l’assenza di verità e di amore. Ci preoccupiamo della salvezza degli uomini in corpo e anima».

Quante anime salvate. Quanti bambini salvati da morte sicura. Quante ragazze e donne difese nella loro dignità. Quante famiglie formate e custodite nella verità dell’amore coniugale e famigliare. Quanti incendi di odio e di vendetta estinti con la forza della pazienza e la consegna della propria vita. E tutto vissuto con grande zelo apostolico e missionario. Le persone che ebbero la grazia di incontrarla fecero l’esperienza di una donna e di una consacrata che non solo compiva coscienziosamente il suo lavoro, ma che non apparteneva più a se stessa. Una disponibilità continua, una dedizione rinnovata ogni giorno ai piedi dell’altare, una consegna fino al sacrificio supremo della vita per la riconciliazione e la pace.

Ella avrebbe voluto sacrificarsi per tutti, dicendo, più coi fatti che con la parola: «Darò a tutti le mie forze finché avrò vita e poi morirò contenta». «Sono tutte anime, sono nostre le anime di tutto il mondo».

L’esame delle ragazze che desiderano ricevere il battesimo.

Suor Carola: madre

Dalle testimonianze (raccolte per la causa di beatificazione, ndr) traspare un tratto distintivo di suor Carola: quello della maternità. Donandosi interamente a Dio, lei non aveva certo rinunciato al sublime senso della maternità, anzi lo rivendicava a sé con tutto il suo peso, le sue conseguenze, le angosciose trepidazioni. Con la tenace capacità di sperare a ogni costo, fu madre per tutti. Erano in tanti a riconoscere che la maternità che suor Carola manifestava verso tutti era un riflesso vivo della bontà della Madre di Dio e della sua cura per ogni suo figlio.

C’è una fotografia di suor Carola che è come l’icona della sua vita: quella in cui tiene tra le sue mani due neonati (foto pag. 24), quasi a significare che le sue mani furono grembo di vita. Questa suora cottolenghina servì l’amore e la difesa della vita, soprattutto la più fragile e vulnerabile, camminando nella via tracciata da san Giuseppe Benedetto Cottolengo. Una donna che testimoniò i misteri cristiani dell’incarnazione e della redenzione: nella fotografia, la capanna sullo sfondo ci ricorda la grotta di Betlemme; le mani di suor Carola, che custodiscono e mostrano le due creature, sono come la mangiatoia che accolse il neonato Figlio di Dio fatto uomo nell’umiltà e nella povertà della nostra condizione. La croce che la missionaria porta sul petto è il richiamo a una vita consegnata e consumata nella grazia di Gesù Salvatore a favore di tutti gli uomini e di tutti i popoli. Le donne e le madri che accompagnano suor Carola rappresentano la sua dedizione per la difesa, la promozione della dignità della donna. Colpisce infine come in questa immagine suor Carola appaia così conformata alla missione e alla gente a lei affidata da assumere lei stessa tratti quasi africani.

Passaggio del Mar Rosso

La sua esistenza, vissuta nel segno della fede e della missione, terminò tra le acque del Mar Rosso dove il suo corpo fu lasciato a causa della morte sopravvenuta il 13 novembre 1925. Un mare che ricorda l’esodo, il cammino verso la terra promessa. Suor Carola visse un battesimo che la configurò pienamente al Signore Gesù nel suo sacrificio pasquale. Fu una donna redenta e collaboratrice della redenzione fino al dono totale di sé, quasi in una specie di olocausto come profeticamente aveva pregato il giorno della sua prima professione religiosa e come aveva scritto nella domanda per poter partire come missionaria. Soprattutto all’Africa, ferita d’ogni parte da germi d’odio e di violenza, da conflitti e da guerre, questa donna proclama la speranza della vita radicata nel mistero pasquale, esorta a perseverare nella speranza che dona il Cristo risorto, vincendo ogni tentazione di scoraggiamento. […]

Suor Carola ci dice che la Chiesa annuncia la Buona Novella non solamente attraverso la proclamazione della Parola che ha ricevuto dal Signore, ma anche mediante la testimonianza della vita, grazie alla quale i discepoli di Cristo rendono ragione della fede, della speranza e dell’amore che sono in essi.

Grazie alla testimonianza evangelica e cottolenghina di suor Maria Carola Cecchin «le persone devono percepire il nostro zelo, mediante il quale diamo una testimonianza credibile per il Vangelo di Gesù Cristo. Preghiamo il Signore di colmarci con la gioia del suo messaggio, affinché con zelo gioioso possiamo servire la sua verità e il suo amore».

Pierluigi Cameroni

* Letteralmente mware indica una ragazza non sposata, con allusione alla sua bellezza e vitalità. Abbiamo scritto la parola all’italiana, come si pronuncia, perché nella grafia inglese, imposta nei primi decenni del 1900, si scrive mwari. Una suora è una donna non sposata.


Testi tratti e adattati da:

  • «Carola Cecchin: donna di comunione e di pace», commemorazione della venerabile suor Maria Carola di don Pierluigi Cameroni, postulatore generale della Famiglia salesiana di don Bosco, Torino, Cottolengo, 28 novembre 2021.
  • rivista Incontri;
  • sito web del Cottolengo: www.cottolengo.org
    e delle suore cottolenghine: www.suorecottolengo.it

Ringraziamo suor Antonietta Bosetti, postulatrice della causa di beatificazione di suor Carola, per averci fornito il materiale e le informazioni necessarie.

Le foto sono dell’Archivio fotografico IMC, scattate probabilmente da monsignor Filippo Perlo.


Amare sino alla fine

Breve biografia

Fiorina Cecchin nasce a Cittadella (Pd) il 3 aprile 1877, da Francesco Cecchin e Antonia Geremia, settima di dieci figli, di cui i primi due morti in tenerissima età. Fiorina apprende dai suoi cari – dalla mamma in primo luogo – ad amare il Signore e a pregare ogni giorno.

Non ha nulla di particolare che la distingua dalle compagne, anzi viene descritta «senza foggia e colore», non bella fisicamente, ma semplice e determinata. Ama la solitudine e la preghiera. A 18 anni matura il desiderio di consacrarsi. Il suo parroco si rivolge alle suore del Cottolengo di Bigolino (Tv), dove è subito accettata e incaricata di prendersi cura di un gruppo di bambine orfane, servizio che svolge con tenerezza e cuore di mamma. La superiora accoglie la sua richiesta di abbracciare la vita religiosa per essere unicamente di Dio e del prossimo e l’accompagna a Torino, alla Piccola Casa.

Il 27 agosto 1896, entra nella Congregazione delle Suore di san Giuseppe Cottolengo (dette anche Suore Vincenzine della Piccola Casa della Divina Provvidenza). Veste l’abito religioso e inizia il noviziato il 2 ottobre 1897 prendendo il nome di suor Maria Carola. Nell’Epifania del 1899 fa la professione religiosa.

Per qualche anno, dal 1899 al 1905, presta servizio in qualità di cuoca a Giaveno, nel collegio affidato agli Oblati di Maria dove è ammirata per «l’obbedienza, l’umiltà, il suo spirito di preghiera, virtù rese attraenti dalla sua carità perché sempre disposta a sacrificare se stessa per essere di sollievo e conforto a tutti». Viene poi trasferita nella cucina centrale della Piccola Casa di Torino, dove serve, con dedizione esemplare, le suore che ritornano in Casa Madre per cure. Lì vede partire per il Kenya il primo gruppo di otto suore Vincenzine (il 25 aprile 1903) e poi il secondo di dodici (il 24 dicembre 1903) per coadiuvare i primi Missionari della Consolata che avevano sentito l’esigenza di avere personale femminile per l’evangelizzazione.

Il 19 marzo 1904 fa domanda scritta di poter partire anche lei per le missioni. La richiesta è accolta e il 28 gennaio 1905, a 28 anni, parte con la terza spedizione formata da sei suore cottolenghine e da tre missionari.

Arrivata a Mombasa il 19 febbraio, in treno raggiunge Limuru, appena oltre Nairobi, sull’altopiano che si affaccia alla Rift Valley. Lì si ferma alcuni mesi per ambientarsi. A fine giugno viene mandata a Tuthu (scritto Tuso, all’italiana), la prima missione fondata nel giugno 1902, dove rimane fino all’agosto del 1909 e conosce bene anche il gran capo dei Kikuyu, Karòli. Va poi per circa un anno a Iciagaki, e dal luglio 1910 fino alla fine del 1916 è a Mogoiri, dove lavora con padre Gaudenzio Barlassina, già incontrato a Tuthu.

Nel 1916 è trasferita a Wambogo (che diventerà poi Gekondi). La Prima guerra mondiale infuria anche in Africa, gli Inglesi, per la loro guerra, arruolano a forza oltre 500mila carriers (portatori), dei quali ne muoiono oltre 200mila. I missionari e le missionarie, comprese le Missionarie della Consolata arrivate in Kenya nel 1913, come la beata Irene Stefani, partono per curarli negli ospedali da campo in Kenya e Tanganyka. Parte anche suor Rachele da Wambogo e suor Carola prende il suo posto.

Nel settembre 1920 passa dalla terra dei Kikuyu al Meru, dall’Ovest all’Est del Monte Kenya. Nuova terra, un nuovo popolo e nuova lingua da imparare.

A Tigania (Meru), superiora di una comunità di quattro suore, si dimostra donna saggia e prudente, «attiva ma non dissipata, seria ma non ruvida, schietta ma non imprudente; era di una pietà così soda e soave insieme da mostrare la santa libertà di spirito che le era tutta propria; con la stessa disinvoltura afferrava il mestolo o il rosario; era sempre la stessa con le consorelle, con gli estranei, con i missionari, sia nei giorni di tregua che nelle incombenze più difficili e più pressanti». Ma qui, oltre i disagi e le fatiche, una malattia dolorosa e debilitante, diagnosticata come enterocolite sanguigna, le procura gravi sofferenze. Lei però è sempre pronta, sempre disponibile a uscire, a visitare i malati nei villaggi, a catechizzare con le parole e i gesti le giovani, i poveri. Tigania vede i suoi ultimi eroismi e la sua totale immolazione al Signore. Davvero, come Gesù, «amò i suoi sino alla fine» (Gv 13,1).

Dal 1919 in poi, i superiori della Piccola Casa dispongono il rientro delle suore a Torino, per gravi dissapori soprattutto con monsignor Filippo Perlo, vicario apostolico, parzialmente risolti grazie all’intervento di papa Benedetto XV. Il vescovo Perlo, pur riluttante, obbedisce all’ordine del papa, e le suore rientrano in Italia a gruppi di otto. Suor Maria Carola, pur sofferente ormai da anni, è l’ultima a lasciare l’amata missione con la consorella suor Crescentina Vigliano. Dopo 290 km a piedi fino a Nairobi, raggiunge in treno Mombasa dovei si imbarca sul piroscafo Porto Alessandretta il 25 ottobre 1925, destinazione Italia, Torino Piccola Casa.

Durante il viaggio si aggrava e muore il 13 novembre sullo stesso piroscafo ed è sepolta nel Mar Rosso nel tratto compreso tra Massaua e Suez. Ha 48 anni.

Gigi Anataloni

In evidenza i luoghi dove suor Carola ha operato. Cartina dell’area attorno al monte Kenya disegnata da padre Michel Camisassi negli anni ’30.




Noi e Voi, dialogo lettori e missionari

Iqbal Masih

Caro padre,
le allego il testo, rimaneggiato, che ho scritto su Iqbal Masih ed è stato pubblicato da Avvenire l’anno scorso in occasione dei 25 anni dal suo martirio (il 16 aprile 1995). Lo ripropongo a voi come stimolo al contributo della Chiesa nella mobilitazione contro lo sfruttamento del lavoro minorile in questo anno 2021 che l’Onu dedica all’eliminazione del lavoro minorile nel mondo. Grazie per l’attenzione e per la rivista: una lettura alternativa sulle criticità e speranze mondiali, apprezzata più di altre dal sottoscritto di cultura laica e di orientamento comunista. Cordiali saluti

Giovanni Seclì
Lecce, 30/04/2021

Volentieri riporto qui quanto scritto dal sig. Giovanni. La realtà del lavoro minorile – a cui abbiamo dedicato «Cooperando» del mese di aprile – è ancora una piaga aperta. Come Iqbal, altri ragazzi e ragazze di quel paese, e non solo, hanno pagato (e continuano a pagare) con la vita o la prigione, il diritto a un’infanzia senza lavoro schiavo e senza matrimoni precoci, liberi di andare a scuola per una buona educazione e di celebrare la loro fede senza paura di persecuzioni.
(Titoletti e note sono nostri).

Agnello pasquale

Nel giorno di Pasqua del 1995 veniva ucciso in Pakistan Iqbal Masih di soli 12 anni. Già era diventato testimone-simbolo mondiale (quando nel 1994 aveva ricevuto il Reebook Human rights award a Boston negli Usa, ndr) della lotta contro lo sfruttamento schiavistico di centinaia di milioni di bambini solo in Asia. La sua uccisione lo ha trasformato in martire: sia per il suo impegno sociale a favore dei bambini dall’«infanzia negata» e contro lo sfruttamento dei lavoratori, sia per il suo essere un cattolico della Chiesa caldea.

Sicuramente la sua appartenenza alal Chiesa, legata alla sua educazione familiare, professata in situazione di emarginazione socioreligiosa (la comunità cristiana è soprattutto composta da persone delle caste inferiori che fanno i lavori più umili), aveva alimentato e sorretto la sua indignazione contro le ingiustizie e la sua eroica lotta per l’emancipazione umana di bambini strumenti-schiavi della produzione. Probabilmente la sua testimonianza cristiana era stata una concausa delle dinamiche che avevano favorito l’assassinio.

In quel giorno di Pasqua di 26 anni fa (16 aprile 1995) mentre in bicicletta andava a messa – così si tramanda (putroppo non esiste una versione coerente di quanto è successo, ndr) – Iqbal è stato strappato dalla terra per risorgere nella memoria e nel cuore di miliardi di esseri umani, rigenerando in essi il messaggio universale di liberazione umana.

Schiavo a 5 anni

La sua condizione di vita sfruttata – a partire dai 5 anni in una fabbrica di mattoni, per proseguire in una di tappeti, venduto dalla famiglia indigente (per un debito di poco più di 7 dollari, ndr) – si era trasformata a 10 anni in denuncia e in testimonianza, smuovendo l’opinione pubblica internazionale e favorendo alcuni provvedimenti politici nel Pakistan (e non solo) di limitazione delle pesanti condizioni di lavoro minorile, a danno soprattutto di schiavi-bambini, secondo una prassi secolare perpetrata da proprietari di laboratori tessili di tappeti e di altri settori di lavoro ancor più duro.

Intolleranza religiosa

Il conseguente risentimento nei suoi confronti probabilmente era stato accentuato dal clima di intolleranza religiosa prevalente in Pakistan (soprattutto con l’introduzione della Sharja nel 1991) verso la minoranza cristiana, presente in particolare nella regione del Punjab; situazione purtroppo perdurante anche nel XXI sec., con il rigurgito di fondamentalismi, risposta perversa anche alla violenta ingerenza politica e militare perpetrata dall’Occidente in diverse regioni soprattutto del terzo mondo.

Testimone e martire?

Il suo martirio si inquadra all’interno di tale contesto; per questo Iqbal Masih va riproposto come testimone di giustizia, di solidarietà, di costruzione di una comunità fraterna, di attuazione del messaggio evangelico all’interno della sua nazione, dalle perduranti drammatiche criticità sociali: miseria e sfruttamento, mancanza dei diritti elementari all’istruzione e alla sanità, conflitti etnici, intolleranza religiosa a danno della minoranza cristiana – riesplosa nella persecuzione di Asia Bibi, per fortuna sottratta alla pena di morte grazie all’impegno internazionale e anche alla resipiscenza della giustizia del Pakistan.

Appello alla Chiesa

Per tali motivi, in occasione dei 25 anni (oggi 26, ndr) del martirio di Iqbal Masih, la Chiesa cattolica deve riproporne un forte e ricco ricordo, rivivificando il suo messaggio: un’onda lunga figlia di una vita breve ma senza tempo. Monito e modello insieme per un cammino di giustizia sociale, da Masih testimoniato in modo coraggioso, consapevole e insieme spontaneo e «ingenuo».

Iqbal Masih aveva compiuto ad appena dodici anni il «miracolo» di trasformare leggi e pratiche ataviche, cause del male sociale dello sfruttamento schiavistico minorile, liberando, almeno in parte, milioni di bambini da una condizione di miseria umana e materiale. Una missione di testimonianza del Vangelo, riproposto anche da lui quale strumento di conversione e di liberazione umana; un messaggio vissuto, importante e profetico non meno di quello di altri martiri, immolati per la confessione dei valori umani e cristiani.

Per la comunità cristiana del Pakistan, dalla tradizione plurisecolare e dalla presenza non esigua, seppur minoritaria, la riscoperta e la valorizzazione del messaggio di Iqbal Masih potrebbe essere uno strumento di promozione di forti valori sociali da essa testimoniati e rappresentare anche un percorso di dialogo tra fedi e culture in quella nazione e civiltà antica, nobile, ma anche lacerata.

Giovanni Seclì

Da vedere, il film: Iqbal – Bambini senza paura,
Regia: Michel Fuzellier, Babak Payami, 2015.


L’autibiografia di santa Teresa d’Avila

Carissimo Direttore,
siamo la comunità delle monache carmelitane scalze di Legnano (Mi) che riceve regolarmente la vostra rivista MC. Complimenti per i contenuti che toccano sempre realtà snobbate dagli altri organi di informazione. Ci permettiamo di segnalare la nuova traduzione della «Vita di Santa Teresa» fatta da noi e da un esperto, lavoro che ci ha viste impegnate per due anni. Siamo coscienti che il nostro non è un libro «prettamente missionario», ma Teresa «era missionaria» e questo può forse essere un requisito per pubblicizzare il libro sulla vostra rivista. Grazie e un caro saluto.

Le sorelle del Carmelo
di Legnano, 16/04/2021

Il libro è disponibile nelle librerie o si può richiedere alle Edizioni OCD, Via Vitellia, 14 – 00152 Roma

La mia vita

Una nuova traduzione dell’autobiografia di Teresa di Gesù

L’autobiografia di Teresa è probabilmente il suo libro più conosciuto, e più volte è stata tradotta, studiata, approfondita e pregata. È un libro dove l’autrice non racconta soltanto i fatti accaduti nella sua vita, ma soprattutto ci rende partecipi, in maniera sempre più coinvolgente, della sua storia di amicizia con Dio. Lo fa in modo non convenzionale, lasciando spazio senza censure ai due protagonisti: il Dio paradossalmente misericordioso che ella ha imparato a conoscere, e Teresa stessa, donna pienamente inserita nel suo contesto e spinta costantemente da un’irrefrenabile ansia di libertà e di felicità. Teresa è vivace, esuberante, appassionata; altre volte pacata, riflessiva; altre ancora preoccupata, incerta, dubbiosa. In tutto e per tutto una donna moderna che non si è sottratta al tentativo di dare un senso alla propria vita e che ha trovato questo senso nello sguardo per lei sorprendente con cui Dio, in Gesù, l’ha guardata.

L’autobiografia è il racconto complesso e avvincente di tutta questa avventura. Avventura che non è restata nel confine intimo della sua coscienza, ma che si è tradotta in azione, in un’esperienza contagiosa per molte delle persone che l’hanno incontrata… fino ai nostri giorni.

Per questo più di due anni fa abbiamo iniziato a dare concretezza ad un sogno che avevamo da molto tempo: poter tenere tra le mani una nuova traduzione della Vita di santa Teresa che fosse più fruibile dagli uomini e dalle donne di oggi, riscoprendo Teresa come era all’origine, ripulita dalle inevitabili incrostazioni che la storia aveva aggiunto.

Lettura con ascolto

Quando si legge il testo spagnolo, si ha proprio l’impressione di avere Teresa lì, presente, che sta parlando, perché la sua è una prosa fluente e discorsiva. Qualcuno a volte dice che Teresa scrive come parla. Forse è più corretto dire che parla attraverso i suoi scritti. E proprio questa prospettiva è stata la bussola che ci ha guidato nel lavoro di questi due anni. Ciò si è tradotto nel tentativo di consentire anche al lettore italiano di trasformare l’esperienza della lettura in esperienza di ascolto.

Una scelta di libertà

Sono molti gli aspetti dell’esperienza di Teresa che la rendono a noi vicina, malgrado i secoli che da lei ci separano. Teresa è stata una bambina affascinata dalle cose di Dio. È stata poi un’adolescente inquieta, che con fatica cercava il suo posto nel mondo. Giovane donna, ha deciso di entrare in monastero: una scelta fatta non solo per il desiderio di donarsi a Dio, ma anche per il desiderio di non essere schiava di un uomo, come accadeva a tutte le donne sposate della sua epoca. Ha trascorso i primi venti anni di vita in clausura logorata da un conflitto interiore che è diventato anche malattia del corpo, malattia tanto grave che a un certo punto è rimasta come morta per più giorni, tanto che le hanno preparato la tomba. Quando si è risvegliata ci ha messo anni a esercitare nuovamente il suo corpo anche ai movimenti più elementari: ella stessa ci racconta che all’inizio, per parecchi mesi, riusciva a camminare solo a gattoni.

L’incontro con Gesù

Poi, dopo anni passati in questa situazione di lento recupero, finalmente è avvenuto l’incontro nuovo con Gesù, da cui scaturisce la vita nuova di Teresa. E davvero è stata un’altra vita quella che Teresa ha vissuto da lì in poi. Non solo perché lentamente ha trovato un nuovo equilibrio interiore, un nuovo rapporto con sé stessa, con gli altri e con Dio. Quell’esperienza, infatti, si è trasformata in un modo nuovo di vivere nella storia, quella quotidiana del monastero e quella «grande» della Spagna del suo tempo.

Un progetto alternativo

Un po’ per volta ha preso forma il desiderio di fondare una comunità diversa da tutte quelle già esistenti: poche monache di clausura, che in spazi che fossero a misura d’uomo, coltivassero intensamente la amicizia con Dio e fra di loro. Potrebbe apparire poca cosa ai nostri occhi, ma letto nel contesto e nell’atmosfera di allora è stato invece un progetto altamente alternativo. Il piccolo numero è sinonimo di familiarità. La clausura è strumento di libertà, perché al di là delle grate nessun uomo comanda, e le monache possono essere le registe della loro vita.

Uno stile missionario

L’orizzonte spirituale che ha nutrito quell’esperienza era quello duplice dell’Europa di allora: da un lato c’era la lacerazione della Chiesa che stava vivendo lo scisma della Riforma luterana. Teresa ha risposto senza lanciare scomuniche, ma impegnandosi in un progetto di unità e amicizia all’interno delle mura del monastero. Dall’altro c’era lo slancio missionario della Chiesa del XVI secolo, orientato soprattutto all’America latina, con tutte le contraddizioni che ciò comportava. Teresa ne era ben consapevole e portava nel cuore le lacerazioni che quell’opera di evangelizzazione, spesso accompagnata dalla violenza della guerra, produceva nei popoli indigeni.

Dottore della Chiesa

Cinquantuno anni fa, nel 1970, papa Paolo VI conferì a Teresa il titolo di Dottore della Chiesa. Fu la prima donna a riceverlo, la prima donna, nella storia della Chiesa, alla quale fu riconosciuta ufficialmente una dottrina autorevole, meritevole di essere ascoltata da ogni cristiano e soprattutto interessante per la vita di ciascuno di noi. L’autobiografia è il primo tassello di quell’eredità che ella ci consegna. I tempi duri in cui viviamo mettono anche noi di fronte a sfide inedite che a volte ci sorprendono e forse rischiano di paralizzarci un po’. Crediamo che Teresa possa essere una buona compagna di cammino in questa incessante ricerca di senso che riguarda ogni uomo. Per questo siamo molto felici di poter contribuire con questa nuova traduzione dell’opera.

Il Carmelo di Legnano

 

Ospitiamo ben volentieri questa presentazione, anche perché santa Teresa d’Avila, con santa Teresa di Lisieux, era particolarmente cara al nostro fondatore, il beato Giuseppe Allamano, che l’ha proposta ai suoi missionari e missionarie come modello di vita apostolica e di santità.

Padre Francesco Pavese, nel suo libro «Scegliendo fior da fiore» (Edizioni Missioni Consolata, Torino 2014), ha raccolto le note dell’Allamano sui suoi santi preferiti. Di santaTeresa d’Avila l’Allamano sottolineava tre aspetti in particolare:
• l’amore verso Dio,
• la capacità di ricominciare («nunc coepi», ora comincio) senza scoraggiarsi mai,
• il prendere come modello di vita «san Paolo che non poteva fare a meno di aver sempre sulla bocca il nome di Gesù».




Aria di miracolo

Nel mese di marzo scorso, è stata celebrata a Roraima (Brasile) l’inchiesta diocesana sulla guarigione «miracolosa» di Sorino Yanomami (un indigeno della foresta amazzonica), ottenuta attraverso la preghiera e l’intercessione del nostro beato Fondatore. I superiori generali dei missionari/e della Consolata hanno scritto: «Questo è un “miracolo missionario” molto in sintonia con lo spirito dell’Allamano per il quale santità e missione vanno insieme, sono facce della stessa moneta, nella missione la santità trova una casa, nella santità la missione trova il suo significato e i propositi più profondi. La speranza è che questo miracolo, così significativo per noi, sia riconosciuto dalla Chiesa e sia uno stimolo per noi e per tutti a crescere nell’amore per la missione ad gentes che il nostro Fondatore ci ha indicato come finalità specifica dei nostri Istituti e loro ragione di essere».

E il vescovo di Roraima, dom Mário Antônio da Silva, nella messa conclusiva dell’intensa settimana del «Processo diocesano», con commosso entusiasmo del cuore (e della voce), così ha ricordato: «Rivolgiamo lo sguardo al beato Giuseppe Allamano, ringraziando Dio per il dono della sua vita, della sua vocazione, e della sua opera missionaria. Egli, pur restando sacerdote diocesano a Torino, ha fondato gli istituti dei missionari e missionarie della Consolata. Molte volte mi hanno chiesto quante volte l’Allamano fosse venuto a Roraima e ho dovuto rispondere che storicamente non è mai arrivato fin qui. Ma lui è stato presente a Roraima per mezzo dei suoi missionari e missionarie per più di 70 anni, con il carisma, l’amore, l’impegno per la vita dei più poveri, dei popoli indigeni, dei popoli delle regioni più interne o che vivono lungo i fiumi, ai bordi delle strade e della periferia delle nostre città…

E questo “sacerdote diocesano” mi ha toccato il cuore, quando ho letto nei suoi scritti: “Maria, la Consolata, con la sua tenerezza penetra nelle intenzioni del suo Divino Figlio, sa quanto gli costiamo, sa che Gesù vuole la salvezza di tutti. Per questo, il desiderio più ardente della Madonna è che tutte le persone siano salvate; ed è per questo che Gesù è venuto nel mondo e lei, che è sempre stata unita a Lui, non può desiderare altro. E la Consolata – ci insegna ancora il beato Allamano – è nostra madre tenerissima che ci ama come la pupilla dei suoi occhi». Cos’è la tenerezza? La tenerezza è la capacità di amare, risvegliare la gioia nella persona amata, senza interesse, nella gratuità, nella vicinanza, nella docilità e – perché no? – nella gioia e nella santità».

padre Giacomo Mazzotti

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Tesoriere e segretario della Consolata

Per la rubrica «Cammino di santità» continueremo ad attingere ai numerosi e approfonditi scritti di padre Francesco Pavese, scomparso il 3 maggio 2020.

L’Allamano, più di una volta si è autodefinito «segretario» e «tesoriere» della Consolata. Ovviamente, sono termini che vanno presi in senso analogico, perché il tono con cui sono stati pronunciati era decisamente familiare. Esprimono, però, una convinzione dell’Allamano stesso, che possiamo capire dal suo pensiero sulla Madonna e poi dal contesto nel quale si è espresso parlando sia ai missionari che alla gente.

Non c’è dubbio che l’Allamano abbia vissuto un’intensa spiritualità mariana. Sapeva partecipare interiormente a tutti i misteri riguardanti Maria, e ogni sua festa, anche la più popolare, diventava motivo di riflessione e di incoraggiamento per impegnarsi nel bene.

La dottrina che sta alla base della sua spiritualità mariana risente molto della sua esperienza al Santuario della Consolata. Parlando della Madonna, infatti, ha spesso valorizzato la liturgia della festa della Consolata, e in particolare la colletta della messa, nella quale si leggono queste parole: «Signore Gesù Cristo, che nella tua ineffabile provvidenza hai disposto che ricevessimo ogni cosa per mezzo di Maria, tua SS. Madre, concedici benigno (ecc.)».

L’Allamano ha illustrato le parole di questa orazione richiamandosi alla mariologia di san Bernardo: «La Madonna, dice san Bernardo, è un acquedotto e una fontana. Una fontana perché tutte le grazie ci vengono di lì. “Hai voluto che ricevessimo ogni cosa per mezzo di Maria”. E poi un acquedotto perché tutto deve passare di lì. La Madonna è questo canale che porta a noi la grazia di Dio».

In altra occasione, parlando sullo stesso argomento, si espresse con termini simili: «Nessuna grazia il Signore ha voluto che venisse a noi, se non per mezzo di Maria, essa è tesoriera e dispensatrice». Ecco, per la prima volta, il termine «Tesoriere», ma riferito alla Madonna. Secondo l’Allamano, Maria è «tesoriera», in quanto ha l’incarico, per esplicita volontà di Dio, di dispensare le grazie ai fedeli.

Giuseppe Allamano credeva di avere un rapporto privilegiato di collaborazione con Maria, quasi prolungando questa sua funzione di dispensare i favori di Dio. La sua attiva e prolungata presenza di primo responsabile al Santuario, forse corroborata dall’esperienza personale di grazie ricevute, probabilmente lo induceva a convincersi che tra la Consolata e lui si erano come create un’intesa e una collaborazione speciali.

Si noti, però, che l’Allamano per lo più faceva precedere al titolo di «Tesoriere» quello di «Segretario», forse proprio per precisare questa sua funzione di totale subordine. In pratica, pensava di aiutare la Consolata a concedere i favori alla gente, prendendo nota delle varie necessità.

I contesti nei quali l’Allamano ha parlato di sé come «Segretario» e «Tesoriere» della Consolata aiutano a capire che cosa intendesse usan- do questi termini.

Nel 1922, durante la novena della Consolata, l’Allamano chiese alle suore che pregassero la Madonna per due intenzioni che in quel periodo gli stavano a cuore: perché la Santa Sede approvasse il miracolo per la beatificazione dello zio Giuseppe Cafasso e, perché approvasse definitivamente le Costituzioni dell’Istituto.

Ecco le sue parole, che sembrano quasi uno sfogo a motivo del ritardo che gli pareva di notare: «Pregate la Madonna che ci faccia questo regalo. Del resto, non perderemo la pace per quello se la Madonna non crede di darcelo. In sostanza io son qui [al santuario] tesoriere, segretario, e dovrei avere il diritto di prendere le grazie principali ed invece… Tutti vengono a dire: Io ho ricevuto questa grazia…; io ho avuto questa… Ed io? Io registro sempre, ma pregate che il Signore faccia la sua santa volontà: è poi tutto lì, vedete!». Come appare evidente, è un santo che si confida alle sue figlie, preoccupato sì, ma totalmente affidato alla volontà di Dio.

Due anni dopo, nel notiziario della Casa Madre inviato alle sorelle in missione, scrivendo sul miracolo del Cafasso che, a Roma, aveva avuto esito favorevole, si legge: «19 febbraio: giornata eucaristica alla Consolata per il ven. Cafasso. Tutti gli allievi e allieve di Casa Madre portano il loro contributo di preghiere fiduciosi di vedere presto innalzato agli onori degli altari il caro Venerabile.

L’amatissimo Padre [Allamano] lo troviamo così sollevato e lieto. Ci dice di averli già fatti lui i patti con la Madonna: “Tutte le preghiere – le ho detto – che oggi i missionari e le missionarie faranno per don Cafasso, rivolgetele a loro e fateli santi subito, incominciando dagli ultimi entrati, e credo che la Madonna avrà fatto così. Io sono il suo segretario, il suo tesoriere ed ho il diritto di essere ascoltato prima degli altri”. E noi ci siamo presentate alla Madonna sicure che la sua benedizione feconderà i nostri sforzi costanti per corrispondere ai grandi desideri dell’amato Padre». Questa volta, il suo rapporto privilegiato con la Madonna lo valorizzò in favore della qualità dei suoi figli e figlie che, in realtà, erano quanto di più prezioso egli avesse.

Questa autodefinizione dell’Allamano ci porta a credere che noi, missionari e missionarie della Consolata, abbiamo l’esperienza della continua ed efficace intercessione del nostro Padre Fondatore presso Dio e la SS. Consolata. Il suo benevolo aiuto ci fu stato assicurato da lui stesso, quando ci disse: «Per voi dal Paradiso farò più di quanto ho fatto sulla terra».

Questa non è stata solo la nostra esperienza. Quando era in vita, molti ricorrevano a lui, perché fosse lui stesso ad intercedere direttamente presso la Consolata. Padre Giuseppe Giacobbe, sacerdote dottrinario che riceveva le confidenze dell’Allamano, disse ai suoi confratelli che l’Allamano era un «Santo che consola e porta la Consolata in saccoccia».

padre Francesco Pavese


Processo di canonizzazione del beato Allamano

Dal 7 al 15 marzo 2021, si è svolta a Boa Vista (Brasile), nella diocesi di Roraima, la fase diocesana della causa di canonizzazione del beato Giuseppe Allamano, fondatore dei missionari e delle missionarie della Consolata, per il riconoscimento della guarigione miracolosa dell’indigeno Sorino Yanomami, attribuita all’intercessione del beato.

Domenica 7 marzo, l’evento è iniziato nella parrocchia della Consolata di Boa Vista con la celebrazione eucaristica presieduta dal vescovo diocesano di Roraima, dom Mário Antônio da Silva.

Alle 10 si è svolta la sessione pubblica di apertura del processo. Il collegio del tribunale era composto dal vescovo dom Mário Antônio da Silva, padre Lucio Nicoletto, vicario generale della diocesi, padre Raimundo Vantuir Neto, cancelliere della curia, padre Michelangelo Piovano, missionario della Consolata, notaio, Elizabete Sales de Lucena Vida, segretaria della curia e il dottor Augusto Affonso Botelho Neto, medico.

Oltre al collegio erano presenti padre Giacomo Mazzotti, missionario della Consolata, postulatore per la causa di canonizzazione del beato, il diacono Augusto Monteiro e le suore, missionarie della Consolata, Renata Conti postulatrice Mc e Maria José.

Iniziando la sessione, dom Mário si è detto onorato nell’aprire il tribunale diocesano per le cause dei santi con il compito di svolgere le necessarie indagini sulla causa di canonizzazione del beato Giuseppe Allamano. Padre Giacomo Mazzotti ha quindi presentato ufficialmente la petizione per aprire il processo sul presunto miracolo della guarigione di Sorino Yanomami, attribuito al beato Allamano.

Di seguito ha avuto luogo il giuramento dei componenti il collegio tribunalizio e, chiudendo la sessione, Dom Mário ha chiesto l’aiuto della preghiera a tutti coloro che avrebbero seguito il processo.

L’attività della Corte è proseguita per tutta la settimana con l’ascolto dei testimoni e ha avuto come momento particolare l’adorazione eucaristica e il canto dei vespri con il clero, i religiosi e le religiose locali, venerdì 12 marzo.

Lunedì 15 marzo, alle 8,30 si è svolta la sessione pubblica di chiusura del processo e alle 19 la celebrazione finale di ringraziamento nella cattedrale.

Ora, gli atti sono stati trasmessi alla Congregazione per le Cause dei santi, in Vaticano.

Suor Maria da Silva Ferreira

«È un momento davvero emozionante – racconta sr. Maria, missionaria della Consolata portoghese e testimone del presunto miracolo, avvenuto 25 anni fa -. Per certi aspetti si tratta di una data storica. Naturalmente, nessuno ha in animo di anticipare i tempi della canonizzazione di Giuseppe Allamano, ma vale la pena fin d’ora di raccontare le circostanze della presunta guarigione miracolosa. Era il 7 febbraio di 25 anni fa. L’indigeno Sorino, nella foresta, venne assalito da un giaguaro, che con forza gli strappò il cuoio capelluto. Ricordo che si ruppe in parte la scatola cranica, ci fu una fuoriuscita di materiale cerebrale e Sorino perse la vista. Furono momenti di grande concitazione, chiamammo i medici e non si pensava di poterlo salvare. Iniziava in quei giorni la novena del beato Giuseppe Allamano e lo invocammo per la guarigione di questa persona. Fu trovato improvvisamente guarito e già allora si gridò al miracolo».

All’epoca, i missionari e le missionarie della Consolata erano molto presi dall’attività con il popolo Yanomami e, stranamente, nessuno ha pensato di andare avanti con il riconoscimento della guarigione. Il Sinodo per l’Amazzonia è stato importante per risvegliare il ricordo di questo fatto. Tra il popolo Yanomami non ci sono quasi cristiani, e il riconoscimento del miracolo sarebbe anche un riconoscimento dal Cielo della nostra pluridecennale attività al fianco di questa etnia, nel nome del dialogo e della promozione umana. In ogni caso, il beato Allamano diceva di fare le cose “bene, senza rumore e senza fretta”. Ed è quello che accade con questa causa».

Don Lucio Nicoletto

missionario fidei donum padovano, vicario generale della diocesi di Roraima, e delegato episcopale nell’inchiesta diocesana sul presunto miracolo di Sorino Yanomami, conosce bene i missionari e le missionarie della Consolata e conferma: «Roraima è cresciuta assieme ai padri e alle suore, grazie alle loro istituzioni educative. Sono stati dei missionari a tutto campo per cui, domenica 7 marzo, inizio del processo diocesano, in una certa maniera si è celebrato un riconoscimento della presen-za dell’Istituto, si è vissuto un atto di fede; per noi “miracolo” non è un fatto fuori dal normale, è riconoscere l’azione di Dio nella vita di ogni giorno, che agisce quando trova il cuore aperto delle persone. La gratitudine si esprime anche attraverso questo segno, che ora viene analizzato e comprovato.

Sorino, infatti, pur non conoscendo il messaggio cristiano, riconosce il bene che ha ricevuto, soprattutto grazie alle cure e all’attenzione delle suore che lo hanno sostenuto e hanno pregato per lui, dandogli così la possibilità di riprendere la vita che conduce-va prima dell’incidente, dopo che il giaguaro gli aveva fracassato il cranio». Un fatto sul quale, dopo 25 anni esatti, si indaga, per scoprire se davvero Dio ha visitato, guarito e salvato Sorino, umile e fiero abitante dell’immensa foresta amazzonica brasiliana.

padre Sergio Frassetto




I Perdenti 61. Salvo D’Acquisto, donare la vita

 

testo di don Mario Bandera |


Dopo le convulse settimane che fecero seguito all’8 settembre 1943, periodo nel quale la macchina bellica italiana si sfasciò, prima ancora che il paese potesse riprendersi dal collasso, uomini e donne dal carattere nobile seppero trovare nelle loro coscienze e nelle loro qualità di fondo le forze che permisero al nostro paese di risollevarsi e di guardare con fiducia al futuro. In questo contesto, il giovane vicebrigadiere Salvo D’Acquisto fu capace di assumere il ruolo gigantesco e pur umile di un martire cristiano. Per capire meglio la vicenda di questo giovane bisogna ricostruire l’episodio accaduto il 23 settembre di quell’anno a Palidoro, una località sulla costa tirrenica a pochi chilometri da Roma. Truppe naziste avevano occupato la zona e un reparto di paracadutisti tedeschi della 2ª Fallschirmjäger-Division (2ª divisione cacciatori) era accasermato presso alcune vecchie postazioni già in uso alla Guardia di Finanza nelle vicinanze della località Torre Perla di Palidoro.

Qui, nel tardo pomeriggio del 22 settembre 1943, alcuni di loro, mentre ispezionavano l’antica torre saracena in riva al mare, usata dalla Finanza come deposito di materiale illegale sequestrato ai pescatori, furono investiti da un’esplosione, probabilmente causata da un ordigno rudimentale usato da pescatori di frodo, a suo tempo sequestrato dai finanzieri. Due paracadutisti morirono e altri due rimasero feriti.

Quel che realmente accadde non si conosce ancora con precisione, ma certo la reazione dei soldati fu immediata e dura, pensando a un attacco di partigiani.

Salvo, com’era la situazione generale in quel momento?

Nella zona, abitata prevalentemente da gente impoverita dalla guerra, non operavano gruppi partigiani. A Torrimpietra si tirava avanti con fatica, tanto che io stesso avevo spesso condiviso le razioni della caserma con i più poveri.

Che ci faceva un napoletano come te in quella zona?

Nato nel ‘20, ero cresciuto nel quartiere del Vomero. Avevo cercato di studiare, partecipavo alla vita della parrocchia e mi piaceva cantare, ma presto avevo dovuto cominciare a lavorare con un mio zio. Quando a 18 anni ho ricevuto la cartolina di leva, ho scelto di entrare nei carabinieri, come già diversi miei parenti avevano fatto. Entrato nel ’39, nel 1940 mi hanno mandato con il mio reparto in Libia, dove sono anche stato ferito a una gamba. Rientrato nel 1942, a settembre ho frequentato il corso accelerato per allievi ufficiali a Firenze e ne sono uscito come vicebrigadiere. Ho chiesto io stesso di essere mandato in una stazione di periferia per essere più vicino ai poveri. Mi hanno mandato a Torrimpietra, non lontano da Fiumicino. In breve avevo conosciuto quasi tutti. Poi è successo quel terribile incidente.

Dopo la morte dei soldati, che accadde?

Quel 22 settembre 1943, la sera tardi, dopo lo scoppio della bomba, poiché i soldati non parlavano italiano, hanno cercato del personale della polizia italiana per fare le indagini e trovare i colpevoli. A Palidoro non c’era la stazione dei Carabinieri, il comando più vicino era a Torrimpietra. Là mi hanno prelevato, perché al momento ero il militare più alto di grado in quanto il maresciallo comandante era assente.

Cosa hai fatto, allora?

Pressato dal comandante tedesco, che mi aveva dato tempo solo fino al mattino, ho provato a fare delle ricerche per capire cosa fosse successo, ed è apparso subito chiaro che si era trattato di un incidente e non di un attentato. Ma il comandante dei parà tedeschi non ne volle sapere. Era un tipo che aveva già usato violenza sulla gente in altri luoghi e voleva un colpevole a tutti i costi. Ha quindi scatenato i suoi che hanno prelevato 22 ostaggi tra la popolazione della borgata, assolutamente presi a caso. Tra loro, nella retata, c’erano perfino un venditore ambulante e un commerciante di Santa Marinella che passavano casualmente in quel momento sull’Aurelia.

Quindi, ti venne ordinato di individuare tra i prigionieri l’autore dell’attentato.

Dopo aver interrogato gli ostaggi, cercai in tutti i modi di far capire al comandante tedesco che nessuno di loro poteva essere un attentatore, perché era chiaro che era stato un incidente. La loro risposta fu rabbiosa. Mi presero a pugni e a calci, lasciandomi svenuto sul pavimento. Mi ripresi qualche momento dopo, in tempo per ascoltare questa affermazione urlata da un ufficiale nazista: «Se il colpevole non salta fuori, morirete tutti».

Quindi, portarono via gli ostaggi?

Anch’io fui costretto a salire sul camion con loro. Ci portarono ai piedi della Torre di Palidoro. Sulla sabbia erano già piantate, rigorosamente in fila, cinque vanghe di modello militare; dietro di esse un drappello di soldati con i mitra imbracciati. Dovevamo scavarci la fossa.

Condannati senza nemmeno un processo?

No, ci fu una farsa di processo: l’ufficiale passò davanti a tutti noi ostaggi ben allineati, e a ciascuno domandò se fosse l’autore dell’attentato. Ottenne evidentemente una serie di «no» terrorizzati. Dopo questa parodia, l’ufficiale nazista tracciò una lunga riga sulla sabbia col frustino e disse: «Va bene, scavatevi la fossa».

© Report Difesa

Il lavoro di scavo durò quel tanto da far maturare nella coscienza di Salvo D’Acquisto la sua decisione. D’Acquisto aveva quasi 23 anni, ma era già una personalità decisa, anche se «prima» appariva perfino timido e incolore.
Fece chiamare l’ufficiale e si proclamò autore dell’attentato e unico responsabile di tutto. Quindi, Salvo ebbe appena il tempo di gridare «Viva l’Italia», e una raffica di mitragliatore lo colpì. Il suo corpo cadde senza vita nella fossa già scavata. Un ufficiale si chinò sulla vittima e sparò il colpo di grazia alla testa del giovane; alcuni soldati tedeschi poi coprirono con terra e sabbia il cadavere.

Il suo corpo rimase sepolto lì per una decina di giorni, poi due donne della zona lo dissotterrarono e gli diedero degna sepoltura presso il cimitero di Palidoro.

L’autoaccusa di Salvo D’Acquisto è stata considerata un grande atto di eroismo che gli è valsa una medaglia d’oro al valor militare e il processo di canonizzazione iniziato nel 1983. Le sue spoglie, riportate a Napoli nel 1947 e tumulate presso il sacrario militare di Posillipo, si trovano oggi nella basilica di santa Chiara a Napoli.

Don Mario Bandera

 


Diventerà davvero beato?

 

Una risposta possibile da questi passaggi tratti da articoli di due giornali cattolici (il testo completo è reperibile online).

 

Sin qui dunque l’eroe. Per giunta l’eroe morto disarmato invece che con le armi in pugno. E il santo? La questione della santità? Il 23 settembre 1983, quarantesimo anniversario della morte, l’allora ordinario militare Gaetano Bonicelli disse: «Salvo D’Acquisto ha fatto il suo dovere in grado eroico, ben oltre quello che il regolamento gli chiedeva. Ma perché l’ha fatto? Forse, in quel momento tragico, gli sono risuonate nel cuore le parole di Cristo: “Non c’è amore più grande che dare la vita per chi si ama”. Ma anche se la memoria del testo evangelico non l’ha aiutato, la forte educazione cristiana ricevuta in famiglia e nella scuola gli ha fatto cogliere l’essenziale del Vangelo». Parole con le quali il presule avviava la causa di canonizzazione di quel giovane autore di un gesto da martire che, come afferma oggi anche il fratello Alessandro, ebbe certo presente l’onore dell’Arma, la fedeltà alla patria, ma pure si abbandonò a Dio che quel «giorno di amore supremo» attinse in un campo dove aveva seminato. Una semina iniziata in famiglia, nelle scuole e negli ambienti religiosi delle Figlie di Maria Ausiliatrice, poi dei Gesuiti e dei Salesiani, frequentati sin dall’infanzia e dall’adolescenza. Dove affiora la prima educazione, non sfuggita nella documentazione per la causa di beatificazione svoltasi presso l’Ordinariato militare d’Italia, con un supplemento d’inchiesta nella diocesi di Napoli, dal 1983 al 1991, mentre nel 1999 si è resa necessaria una nuova inchiesta per indagare la possibilità del martirio (come per Massimiliano Kolbe). […]

Di lui, le cui spoglie riposano nella basilica di santa Chiara a Napoli dal 1986, resta in ogni caso la sintesi fatta da Giovanni Paolo II: «Ha saputo testimoniare la fedeltà a Cristo e ai fratelli. Ecco perché può definirsi un santo che ha contribuito per costruire la civiltà dell’amore e della verità».

Marco Roncalli
da Avvenire 14/10/2020

 

Dopo un rallentamento, sembra che la causa di beatificazione per «offerta della vita» abbia ripreso slancio. Mons. Gabriele Teti, postulatore della causa ed ex carabiniere, racconta che Salvo «a Roma incontrò un amico con il quale aveva fatto il corso da carabiniere. Dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, ci fu un grosso gruppo di Carabinieri che passò alla clandestinità, per combattere i tedeschi a Roma. un commilitone lo invitò a lasciare la divisa per unirsi ai partigiani. Rispose che il suo dovere era tutelare l’ordine, la sicurezza e l’incolumità delle persone che gli erano state affidate e che il suo compito non era di andare via». Salvo era nato e cresciuto in una famiglia molto religiosa. Confida il postulatore: «Già nell’infanzia piccoli episodi fanno capire la sua indole. Tornando da scuola, donò le sue scarpe a un bambino che incontrava e che era scalzo. Un’altra volta si avventò a salvare un bambino che stava per finire sotto un treno». La causa di beatificazione si è arenata sul problema del martirio. Ora il sacrificio di Salvo rientra più facilmente nella categoria «offerta della vita», criterio introdotto da Papa Francesco l’11 luglio 2017 con il motuproprio Maiorem hac dilectionem: «Sono degni di speciale considerazione e onore quei cristiani che, seguendo più da vicino le orme e gli insegnamenti del Signore Gesù, hanno offerto volontariamente e liberamente la vita per gli altri e hanno perseverato fino alla morte in questo proposito. L’eroica offerta della vita, suggerita e sostenuta dalla carità, esprime una vera, piena ed esemplare imitazione di Cristo ed è meritevole di quella ammirazione che la comunità dei fedeli è solita riservare a coloro che volontariamente hanno accettato il martirio di sangue o hanno esercitato in grado eroico le virtù cristiane». Il «dono della vita» è simile ma non uguale al martirio.

Pier Giuseppe Accornero
da La Voce e Il Tempo, 19/10/2020