Immagini che parlano – Le foto di San Giuseppe Allamano

 


Negli archivi dell’Imc ci sono oltre cento lastre di vetro e alcune stampe d’epoca che ritraggono il fondatore. La canonizzazione è l’occasione per rivisitare questo materiale e capire quali sono gli originali, quali le copie e controllarne la qualità o provvedere ai necessari restauri. Un lavoro sfidante, ma anche ricco di stimoli e sorprese.

Difficile dire se Giuseppe Allamano fosse allergico alle foto o no, visto che a quei tempi non si scattavano con la facilità a cui siamo abituati oggi e, soprattutto, richiedevano molto più tempo per ognuna. È certo, però, che fosse molto interessato all’uso della fotografia, tanto che, quando con il canonico Giacomo Camisassa nel 1899 fondò la rivista «La Consolata» (da cui nel marzo 1928 nacque la nostra Missioni Consolata), si rivolse ai migliori specialisti, allora a Vienna, per far fare i cliché di piombo e ottenere una qualità di stampa tanto alta da rendere la bellezza delle immagini in maniera superba.

Le fotografie erano poi una parte essenziale dei resoconti che lui chiedeva ai missionari dal Kenya.

Una breve storia

8 maggio 1902, San Allamano alla partenza dei primi 4 missionari

La prima foto che ritrae Giuseppe Allamano risale a prima del 1873, anno della sua ordinazione sacerdotale. Lo si intravede nella foto di gruppo con i suoi compagni di corso. C’è poi una fototessera di lui giovane sacerdote. Il suo formato ovale è un indizio interessante, visto che anche il suo amico e collaboratore don Giacomo Camisassa è ritratto in una di formato simile che porta il timbro dell’Esposizione generale italiana tenutasi di Torino del 1884. Che siano andati insieme all’esposizione dove, tra le molte meraviglie, venivano presentate anche le ultime novità fotografiche? È poi per amore dello zio, don Giuseppe Cafasso (1811-1860), che nel 1895 Allamano si sottopone a una serie di foto per presentarne il nuovo ritratto dipinto da Enrico Reffo (1831-1917). In quel momento aveva una terribile cefalea che gli faceva chiudere l’occhio sinistro (fatto che si vede poi in molte foto). Dei primi anni della sua vita sacerdotale abbiamo solo alcune fotografie generiche in cui lui è presente in mezzo ad altri. Ad esempio una foto lo ritrae con alcuni uomini che avevano partecipato agli esercizi spirituali al santuario di sant’Ignazio e lo avevano convito a fare una passeggiata con loro sui monti vicini.

Ci volle la partenza dei primi missionari nel 1902 per farlo posare insieme ai partenti di maggio in due foto, una da solo con il volto pieno di gioia (particolare foto qui sopra), e una con Camisassa ormai suo stretto collaboratore nel santuario della Consolata e confondatore del nuovo istituto. Un’altra foto è con il gruppo partente a dicembre.

Poi posò diverse altre volte. Uso il verbo «posare» pensando ai lunghi tempi di esposizione e all’immobilità allora necessaria per ottenere buone foto. Due di esse sono particolarmente significative. La prima risale al 1906-1907, quando nel suo studio a Rivoli si fece fotografare mentre compilava il «Direttorio» di vita dell’Istituto. La seconda è del 1923 quando gli fecero fare una serie di foto per la celebrazione del suo 50° di sacerdozio.

Allamano si era anche fatto fotografare nel 1911 al santuario di sant’Ignazio vicino al pilone dedicato alla Consolata che lui aveva appena fatto costruire. E nel 1914, quando un gruppo di seminaristi andarono a visitarlo nella sua casa di Rivoli, durante una delle loro passeggiate del giovedì (che allora era vacanza da scuola), e lo convinsero a posare per loro. Nel 1916 l’occasione per una bella foto di gruppo fu la visita del cardinale Cagliero alla Casa Madre. Ci sono poi alcune altre pose di cui non conosciamo la ragione e il tempo preciso.

Un incontro speciale

Non è, però, questa cronologia delle foto che ritraggono Giuseppe Allamano il cuore di quanto desidero condividere con voi. In questi tempi prima della canonizzazione ho speso molte ore a rivedere, studiare e restaurare tutte le foto del nostro santo che abbiamo in archivio. È stata un’esperienza sfidante dal punto di vista professionale, ma forse, e molto di più, è stata anche un’occasione unica per un incontro ravvicinato molto profondo con lui.

Guardarsi negli occhi

Parto dalla foto che è stata scelta come immagine ufficiale per la canonizzazione. È quella che fu usata nel 1923 per il 50° anniversario di sacerdozio di Giuseppe Allamano.

Ho tra le mani una bella lastra di vetro da 13×18 cm. Con lo scanner posso fare la scansione anche solo del dettaglio del volto, dimenticando il resto della figura. Guardo il risultato, e con mia grande sorpresa scopro che l’occhio sinistro è pesantemente ritoccato e la pelle del viso piena di rigacce. Una maschera, non un bel volto. I ritocchi sulla lastra furono fatti per risolvere due problemi: nascondere lo strabismo causato da una delle sue solite emicranie e rendere il volto più luminoso nella stampa. Il ritocco sul volto fu fatto con tratti di matita, mentre un graffio puntiforme nell’occhio raddrizzava la pupilla.

Non vi dico quante ore ho lavorato per liberare quel volto dai segni di matita e ripristinare l’occhio, ma il momento più bello ed emozionante è stato quello in cui ho ingrandito il lavoro finito e ho guardato dritto nei suoi occhi, anzi lui ha guardato dritto nei miei. È stato come averlo lì davanti a me, faccia a faccia, occhi negli occhi. Non servivano parole. Mi sono sentito amato da lui.

E poi vedere quel volto così pulito, è stato come potergli dare una carezza e un abbraccio, sentendo il calore della sua guancia sulla mia (foto qui sotto).

Guardare a destra

La statuetta della Consolata cara ad Allamano

C’è un particolare che ricorre in quasi tutte le foto che ritraggono Allamano: il suo sguardo è rivolto sistematicamente a destra. Mi sono detto che quella probabilmente era un’abitudine del tempo, forse per non distrarsi e non sbattere le palpebre durante i lunghi tempi di esposizione. Ricordo che anche mio padre, nato nel 1910, aveva l’abitudine di mettersi in posa così. Ma forse, per Allamano c’era qualche ragione in più.

Nelle otto foto del suo 50° si nota una costante: lui è sempre rivolto verso la statuetta della Consolata (foto qui accanto) che sta alla sua destra. Come non pensare alla richiesta dei due fratelli, Giacomo e Giovanni, di sedersi uno alla destra e l’altro alla sinistra di Gesù? Normalmente la destra era il posto del primo ministro, della persona più importante dopo il re.

E forse qui, in questo insistente guardare di Giuseppe Allamano a Maria, stando seduto o in piedi alla sua sinistra, è rappresentata la sua relazione con lei. Da una parte il suo sguardo dice quanto Maria sia centrale nella sua vita, dall’altra dice a Lei che lui è il suo servo fedele, un umile servo, come lei è stata umile serva del Signore.

Ma forse c’è anche un altro significato nel suo porsi alla destra di Maria, dalla parte del suo cuore. È l’atteggiamento del bambino in braccio alla Madre, il bambino che sa di essere amato. Servo sì, ma anche figlio di una Madre amorosa, in cui riporre totale fiducia. Una Madre che ha a cuore ogni persona del mondo, in particolare i più piccoli e i più poveri.

Abito semplice

1923, una delel foto per il 50° di messa. Notare l’abito, la statuetta delle Consolata e il Regolamento ai piedi della Madonna.

Un altro messaggio ce lo danno gli abiti. Ci sono alcune foto dove Allamano indossa di dovere gli abiti da cerimonia, come durante le processioni. Altre volte veste l’abito formale del canonico della cattedrale di Torino, con tricorno e tutto il resto, come nelle foto della partenza dei primi missionari. Con quell’abito che lo identifica con la sua Chiesa di Torino, forse vuole dirci che non è tanto lui che manda i missionari, ma la tutta Chiesa. Ancora una volta, è nelle foto «ufficiali» del suo 50° di sacerdozio che ho colto un messaggio potente sulla sua umiltà e semplicità.

In quell’occasione, non si presentò dopo essersi rivestito con i suoi abiti migliori, quelli che avrebbero meglio espresso il suo rango nella Chiesa di Torino: rettore del principale santuario della città, canonico della cattedrale, responsabile del convitto ecclesiastico, e anche fondatore dei Missionari e Missionarie della Consolata. No, si presentò con una talare di tutti i giorni, come uno che è stato chiamato per le foto senza preavviso, mentre era indaffarato nel lavoro (foto qui accanto). La talare è lisa, evidentemente stropicciata, e forse anche un po’ stretta, tanto che si intravedono i segni delle bretelle che indossa sotto. E lui non pare a disagio, imbarazzato, sminuito nella sua dignità. Anzi. Sembra sentirsi proprio bene come il servo di Maria, l’ultimo servo, onorato solo proprio dal poterla servire in umiltà. Un uomo che davvero non si cura dell’apparenza, ma punta alla sostanza.

Paternità e tenerezza

Allamano accanto al pilone della Consolata al Santuario di Sant’Ignazio il 17 agosto 1911. Doveva essere con lui solo, ma il piccolo Vittorio si intrufolò.

San Giuseppe Allamano non era certo smanioso di farsi fotografare, ma conosceva bene il valore della fotografia. Per questo nel seminario volle anche il laboratorio fotografico (sopravvissuto fino agli anni Settanta) dove i futuri missionari avrebbero studiato e praticato la fotografia aiutati da professionisti della città. In questo contesto accettò diverse volte di posare proprio per far piacere ai suoi amati chierici. Basta guardare alla foto del 17 agosto 1911 al pilone della Consolata presso il santuario di sant’Ignazio. Dal suo occhio chiuso si capisce che stava avendo uno dei suoi attacchi di emicrania, ma non si tirò indietro e accettò anche la birbonata del giovane Vittorio Merlo Pich che volle farsi fotografare con lui intrufolandosi nella foto (ragazzo in primo piano foto accanto).

La sua disponibilità a lasciarsi fotografare si vede poi nel suo volto rilassato della foto del 1914 con gli studenti sotto il grande cedro della villa di Rivoli, oppure in quella del 1915, quando cede alle insistenze del chierico Mario Borello, oppure, infine, nella simpatica foto di lui, ormai anziano, che sorride divertito al fotografo, ancora una volta nel giardino di Rivoli.

Lo spirito ve lo do io

C’è poi un ultimo elemento che le foto mi suggeriscono. Diverse volte Allamano diceva ai suoi missionari: «Lo spirito ve lo do io», per sottolineare come dovessero avere uno stile missionario specifico e non agire di istinto secondo i gusti di ciascuno o seguire modelli presi a prestito da altri. Ci sono diverse foto che sottolineano questo e che dicono ai suoi missionari: «Non siete gente qualsiasi, ma Missionari della Consolata».

Nella foto della partenza del primo gruppo, ad esempio, lui ha saldamente in mano il Regolamento dell’Istituto. Significative poi sono le due foto che lo riprendono allo scrittoio a Rivoli, dove non sta scrivendo un testo qualsiasi, ma il Direttorio dell’Istituto, un documento che vuole precisare l’identità e lo stile dei suoi missionari. In più, nelle foto del 50° di messa il Regolamento è sempre in evidenza.

Statuetta della Consolata e testo del Regolamento: i suoi due amori, la Madre di Gesù e la Missione, gli stessi che devono plasmare la vita dei suoi missionari e di ogni sacerdote.

Gigi Anataloni

 

Potete osservare le foto del nostro santo, oltre che su questo numero di MC, sul sito a lui dedicato.
giuseppeallamano.consolata.org/




Tutti per la missione


«Per la Giornata missionaria mondiale (20 ottobre, ndr) di quest’anno ho tratto il tema dalla parabola evangelica del banchetto nuziale (cfr. Mt 22,1-14). Dopo che gli invitati hanno rifiutato l’invito, il re, protagonista del racconto, dice ai suoi servi: “Andate ora ai crocicchi delle strade e tutti quelli che troverete, chiamateli alle nozze” (v. 9). Riflettendo su questa parola chiave, nel contesto della parabola e della vita di Gesù, possiamo mettere in luce alcuni aspetti importanti dell’evangelizzazione. Essi si rivelano particolarmente attuali per tutti noi, discepoli-missionari di Cristo, in questa fase finale del percorso sinodale che, in conformità al motto “Comunione, partecipazione, missione”, dovrà rilanciare la Chiesa verso il suo impegno prioritario, cioè l’annuncio del Vangelo nel mondo contemporaneo».

Così scrive papa Francesco nel suo messaggio per la Giornata missionaria mondiale (Gmm) 2024, sottolineando tre aspetti strettamente correlati tra loro: l’andare e invitare tutti alla festa, la festa che è espressione della vocazione alla gioia e alla fraternità, celebrata al banchetto della vita, il banchetto che deve coinvolgere tutti come protagonisti.

La Gmm di quest’anno vedrà, tra l’altro, la canonizzazione di Giuseppe Allamano, fondatore dei Missionari e delle Missionarie della Consolata, di due suore (una canadese e un italiana), di otto frati minori (sette spagnoli e uno austriaco) e tre fratelli siriani trucidati a Damasco nel 1860. Una celebrazione di universalità che ricorda come tutta la Chiesa è missionaria.

Se oggi celebriamo la Giornata missionaria mondiale, lo dobbiamo anche a GiuseppeAllamano che nel 1912 promosse una petizione prendendo spunto dal Pime (Pontificio istituto missioni estere, all’epoca Seminario lombardo per le missioni estere) che, a Milano, già dal 1910 viveva la «domenica missionaria» annuale. A quel tempo la missione era sentita come qualcosa che sottraeva persone ed energie alle Chiese locali, per cui tanti vescovi ostacolavano chi voleva partire come missionario. Per Allamano, sacerdote diocesano lungo tutto l’arco della vita, però, la missione non era qualcosa che impoveriva, ma parte fondante la Chiesa stessa, qualcosa che doveva coinvolgere ogni cristiano proprio perché battezzato. Sarebbe poi arrivato il Concilio Vaticano II con il documento Ad gentes, a ratificare questa verità.

Tornando a una sottolineatura di papa Bergoglio nel messaggio citato, si osserva che anche la Gmm si inserisce nel percorso del Sinodo. Non potrebbe che essere così. Il «rilancio» della Chiesa – della sua sorgiva e fondante vocazione a portare il Vangelo nelle strade del mondo – passa proprio attraverso il suo profilo missionario. Francesco consegna dunque alla Chiesa universale domande ineludibili: come essere Chiesa sinodale in missione? Come rinnovare l’impegno missionario di tutti? Questo «tutti» si rivela elemento centrale.

Il «cambiamento d’epoca» che stiamo vivendo, con profonde sollecitazioni antropologiche e nuove sfide per il senso religioso, richiede il coinvolgimento e la risposta – matura, generosa, gioiosa e, appunto, missionaria – di ogni cristiano, uomo o donna, per trovare modalità nuove e creative di annunciare il Vangelo all’umanità del terzo millennio.

«La missione per tutti richiede l’impegno di tutti», scrive ancora Francesco. «Occorre perciò continuare il cammino verso una Chiesa tutta sinodale-missionaria a servizio del Vangelo. La sinodalità è di per sé missionaria e, viceversa, la missione è sempre sinodale. Pertanto, una stretta cooperazione missionaria risulta oggi ancora più urgente e necessaria nella Chiesa universale come pure nelle Chiese particolari. Sulla scia del Concilio Vaticano II e dei miei predecessori, raccomando a tutte le diocesi del mondo il servizio delle Pontificie opere missionarie, che costituiscono i mezzi primari sia per infondere nei cattolici, fin dalla più tenera età, uno spirito veramente universale e missionario, sia per favorire una adeguata raccolta di sussidi a vantaggio di tutte le missioni e secondo le necessità di ciascuna». Un invito, quello del Papa, che ridà senso e coraggio e concreta prospettiva alla missione oggi.

Fesmi (Federazione stampa missionaria italiana)

 




Un santo tra noi. La canonizzazione di Giuseppe Allamano

Sommario


Una luce per gli Yanomami

Il miracolo di Allamano raccontato dalla testimone diretta

Foresta amazzonica brasiliana. Una missione molto «particolare». Un incidente come tanti. Un uomo tra la vita e la morte. Gli sciamani scoprono che esiste uno spirito al di sopra di tutto. Cronaca e riflessioni su un accadimento eccezionale.

Catrimani, Roraima, 7 febbraio 1996. «Come tutte le mattine ero andata al posto di salute a lavorare. In quei giorni, in missione c’eravamo solo io e fratel Antonio Costardi. Lui si stava occupando della strada che in quel periodo ci collegava, attraverso la foresta, alla Br170 che portava a Boa Vista. Le mie consorelle erano in città a seguire alcuni incontri. Oltre a noi, c’era la cuoca». Chi parla è suor Felicita Muthoni Nyaga, missionaria della Consolata e infermiera keniana, a Catrimani dal 1995 al 2000, poi a Boa Vista fino al 2002 per coordinare il settore della salute indigena, a livello dello Stato di Roraima, in particolare la prevenzione della malaria.

L’incidente

«Verso le 9 di mattina venne da me il cognato di Sorino, uno yanomami che abitava alla maloca (casa comunitaria, ndr) vicino alla pista di atterraggio della missione. Non chiedeva un mio intervento, ma voleva piuttosto un fucile o una pistola, dicendo che noi “bianchi” abbiamo sempre armi da fuoco. Io risposi che no, noi missionarie e missionari non ne abbiamo. Vedendolo correre via trafelato, mi insospettii e gli corsi dietro. La cuoca mi vide e venne anche lei».

Giunta davanti alla maloca suor Felicita si trovò di fronte a uno spettacolo sconvolgente: «Subito vidi un lago di sangue, poi notai che c’era un ferito che respirava ancora. Dovevo fare qualcosa. Chiesi dell’acqua e iniziai a lavare quell’uomo. Mi resi conto che il cuoio capelluto era quasi totalmente scoperchiato. Intanto ho fatto chiamare fratel Antonio».

L’uomo che giaceva nel suo sangue era Sorino Yanomami. Era stato aggredito alle spalle da un giaguaro, mentre era a caccia di uccelli a circa due chilometri da casa. L’animale gli aveva azzannato la testa, aprendogli il cranio. Sorino era però riuscito a reagire, lo aveva tenuto a bada con una freccia, e poi era tornato alla maloca cadendo esanime davanti all’entrata.

Continua suor Felicita: «Abbiamo messo Sorino in un’amaca e, con il pick up di fratel Antonio, lo abbiamo portato al punto di salute della missione, dove ho potuto iniettargli del plasma. Intanto ho parlato via radio (l’unico collegamento che si aveva con la capitale, nda) con suor Rosa Aurea Longo a Boa Vista e le ho chiesto se poteva mandare urgentemente un aereo. Suor Rosa mi ha detto che tutti gli aerei erano in volo, perché quel mattino, c’erano state diverse emergenze. Bisognava aspettare».

Sciamani

Nel frattempo, c’era stato il passa parola e, verso mezzogiorno, alla missione erano arrivati una quindicina di sciamani (capi spirituali e guaritori, nda) e circa duecento yanomani da tutte le maloche del circondario. Avevano capito che Sorino stava per morire, ed erano venuti per fare il rito sciamanico che accompagna lo spirito del defunto nel mondo degli antenati. Nel mentre, altri uomini si erano armati per andare a caccia del giaguaro.

«Sono andata da tutta questa gente e ho detto loro: “Sorino è ancora vivo, aspettiamo l’aereo e lo mandiamo in ospedale a Boa Vista”. Loro hanno risposto: “No, non può andare in città. È molto grave, abbiamo visto il suo cervello fuori dalla testa, e il giaguaro ne ha mangiato una parte. Ma una persona senza un pezzo di cervello non può vivere”. Dissi loro: “Tutto questo è vero, ma Sorino è ancora vivo e dobbiamo provare a salvarlo”. Ma loro insistettero: “No perché gli spiriti vengono a prenderlo, lui deve dire il suo sì per lasciare il suo corpo e andare con loro. Questo non può succedere fuori dalla foresta”.

Io ero arrivata da poco a Roraima e non capivo questo concetto. Inoltre mi facevo tradurre, perché ancora non parlavo bene la loro lingua.

In tutta questa confusione, gli uomini mi hanno puntato addosso decine di frecce. Io avevo paura e ho iniziato a piangere. Allora, le donne che erano con loro, mi hanno circondata per proteggermi: “Felicita non piangere, non avere paura, loro non ti tireranno le frecce. Sono molto arrabbiati con il giaguaro. Gridano perché non vi capite”».

Suor Felicita riuscì a sottrarsi da quella situazione pericolosa con la scusa di andare a controllare il ferito in infermeria. «Sorino aveva ripreso un po’ di energia grazie alla trasfusione. Mi ha preso la mano e cercava di stringerla, ma non ci riusciva. Ho messo l’orecchio vicino alla sua bocca e lui mi ha sussurrato: “Felicita, tu adesso sei la mia mamma. Loro dicono che io devo andare con gli spiriti, ma io non voglio, fai qualche cosa perché io voglio vivere”.

Dunque mi trovavo in mezzo tra lui, che voleva vivere, e gli altri che volevano mandarlo dagli spiriti».

Nel frattempo, verso le 14, l’aereo era arrivato. Gli yanomami si erano dispersi. Era rimasto solo Kalera, un amico stretto del ferito, che chiese di poterlo accompagnare a Boa Vista. Suor Felicita e la cuoca lo portarono all’aereo e i due partirono.

«Ho quindi cercato la moglie di Sorino, che era andata ad avvisare alcuni parenti a una maloca a tre chilometri da lì. Quando è arrivata le ho detto: “Helena, tuo marito è molto grave e l’ho mandato a Boa Vista in ospedale”. C’era anche la mamma di Sorino con lei e si sono messe a piangere».

Suor Felicita alla missione di Catrimani nel 1998

«Se lui muore, ti uccidiamo»

Ma quando suor Felicita tornò alla missione trovò una sorpresa: «Il gruppo di Yanomami era di nuovo lì. Mi hanno chiesto: “Felicita dov’è Sorino?” E io: “L’ho mandato a Boa Vista”. “Perché? Non ascolti gli sciamani? Sorino non può morire lontano dalla foresta”. “Perché?”, replicai. “Perché in questo modo il suo spirito non troverà mai casa. L’unica porta per l’aldilà la trova se è in compagnia degli altri spiriti. Ma fuori dalla foresta, nessuno lo può accompagnare. Allora tornerà qui, non troverà la porta e rimarrà a vagare in eterno. Sarà arrabbiato perché non potrà mai riposare e causerà problemi a noi vivi”.

In quel momento mi sono resa conto che avevo fatto una violenza grave alla loro cultura. Avevo invaso una sfera nella quale non sarei dovuta entrare. Quando c’è in gioco la vita, sono loro che devono agire e non gente da fuori.

Allora gli sciamani mi hanno detto: “Entra nella tua casa. Non ti possiamo uccidere adesso perché Sorino non è morto, ma queste frecce le lasciamo qua – hanno piantato diversi dardi davanti a casa -, e se lui morirà, con queste ti uccideremo”.

Io ho risposto: “Va bene”. E sono rimasta sotto questa minaccia. Alcuni giovani si sono fermati a sorvegliare che non uscissi di casa».

Suor Felicita aveva avvisato il pronto soccorso e spiegato la situazione e anche il rischio per la sua vita. I medici erano già pronti e, appena Sorino arrivò, lo operarono per circa quattro ore. Poi, in coma, fu messo in terapia intensiva.

Le suore a Boa Vista decisero di seguire da vicino il ricovero, per cui suor Maria da Silva Ferreira, portoghese, stava con lui di giorno, mentre suor Lisadele Mantoet, italiana, lo vegliava di notte.

Suor Felicita, intanto era in contatto con Boa Vista via radio tutti i giorni per avere notizie.

La richiesta al padre

Fino a quel momento suor Felicita era intervenuta soprattutto come infermiera. «Non avevo pensato molto, avevo agito. Adesso, entrata in casa, sono andata direttamente nella cappella e ho guardato il quadro dell’Allamano. In quel momento ho pensato: “Io ho un padre, è qui”. Ero arrabbiata, avevo tanta paura e tremavo. Ho pensato: “Allamano dimmi una cosa, quando hai fondato questa congregazione, l’hai voluta proprio per i non battezzati? Sapevi che avremmo vissuto tutte queste difficoltà? E in questo momento dove sei? Tu ci sei?”. Quando ho fatto questa domanda ho sentito come una coperta che mi avvolgeva, un calore diverso. Avevo la febbre alta, per lo stress e lo shock.

Allora ho detto: “Ascolta Gesù, per intercessione di Giuseppe Allamano voglio chiederti solo una cosa. Sorino è andato a Boa Vista, è molto grave. Se lì lo potranno curare, io ti chiedo che guarisca completamente e torni come prima. Se torna con delle menomazioni, come una paralisi, non potrebbe vivere nella foresta come cacciatore e pescatore. Se non guarisce, è meglio che muoia.

E se lui deve morire, chiedo anche la grazia per sopportare questa freccia che mi colpirà”.

Inoltre, mi chiedevo: “È questo davvero il nostro posto di missione? Il nostro carisma? Solo una guarigione completa di Sorino può darci una risposta”.

Questa preghiera l’avrei rifatta ogni giorno senza aggiungere nulla. Ho acceso una candela che avrei mantenuto viva. E sentivo di aver fatto tutto».

Era il 7 febbraio, data di inizio della novena per la festa di Giuseppe Allamano, il 16. A Boa Vista la dedicarono alla guarigione del ferito. Inoltre, suor Maria Costa, superiora della casa, diede una reliquia del fondatore a suor Maria da Silva, che la mise sotto il cuscino di Sorino.

Sour Felicita e suor Aurea nella maloca preparano medicine.

L’imponderabile

Il 16 sera Sorino stava morendo. Tutti gli strumenti davano i parametri vitali prossimi allo zero. Era con lui suor Lisadele che pensò: “Devo sentire suor Maria Costa per organizzare il recupero di suor Felicita, prima che si sappia della morte del paziente”.

Il mattino del 17 arrivò suor Maria e parlarono per organizzare il viaggio a Catrimani e salvare la consorella.

Sorino con la sua moglie Helena Yanomami

Verso mezzogiorno suor Maria sentì qualcosa di strano. Guardò il malato e lui girò la testa e le disse: “Maria, perché piangi?”. Poi aggiunse: “Ho fame”. Era successo qualcosa di incredibile.

Sorino era molto debole e la ferita non migliorava. Però aveva parlato.

Suor Felicita, saputo del miglioramento, organizzò il viaggio della madre e della moglie di Sorino a Boa Vista, che il 20 febbraio lo raggiusero. Dopo la terapia intensiva, a marzo Sorino fu portato alla casa di cura degli indigeni, sempre a Boa Vista, per la riabilitazione. L’8 maggio rientrò a Catrimani, accompagnato da suor Giuseppina Morelli, l’amministratrice.

«Io ho chiamato tutti i capi e gli sciamani. Qualcuno diceva: “Arrivano solo le ossa”; oppure: “Non sappiamo cosa arriva”. Sono venuti con le loro frecce, armati per la guerra. Poi l’aereo è atterrato. Sorino è sceso piano ed è subito venuto da me. Mi ha detto: “Felicita voglio farti vedere il cammino che ho fatto dall’incidente alla maloca”. C’erano ancora delle tracce e lì ci ha raccontato con precisione la dinamica dell’accaduto».

«Questo popolo è prezioso»

Il medico che aveva operato Sorino ha confermato che la parte di cervello lesa era quella del coordinamento motorio, che avrebbe dovuto rendere impossibile a Sorino camminare e parlare. Non si spiega dunque scientificamente, neppure come il ferito fosse riuscito a camminare fino alla maloca.

«Penso che noi siamo stati strumento di Dio. Sorino sarebbe potuto morire in quel momento, quando è stato attaccato, e invece lo ha salvato. Il Signore voleva dire qualcosa a questa gente e a tutti noi: “Questo popolo è prezioso per me, siete il mio popolo anche se non siete battezzati”».

Sono passati 28 anni e Sorino è ancora vivo. Lui e sua moglie Helena, che non hanno avuto figli, sono stati famiglia per molti bambini yanomami abbandonati, per motivi vari, dei quali le suore si sono occupate. «Almeno quindici», ricorda suor Felicita. Anche Sorino aveva la sua missione.

Nel 1998 gli sciamani convocarono un’assemblea aperta a missionari cattolici e protestanti ed enti governativi. Durante l’incontro uno di loro raccontò il sogno fatto la notte prima (spesso gli yanomami si affidano al sogno per comunicare messaggi): lui saliva una scala lunghissima verso il cielo e in fondo c’era una luce fortissima, più potente di qualsiasi luce mai vista prima. «È quella la luce che ha detto a Felicita di agire come ha fatto, ovvero di mandare Sorino in città – conclusero gli sciamani -. Suor Felicita è uno sciamano di questo spirito, il più potente di tutti».

Marco Bello

Giovedì primaverile 1915 a Rivoli. Durante una delle visite degli studenti e chierici da Torino, l’Allamano si lascia fotografare dal chierico Borello Mario.


Un cuore grande per tante opere

Giuseppe Allamano, sintesi di una vita esemplare

Un giovane sacerdote della Torino del XIX secolo. Qualcuno capisce i suoi talenti e lo fa diventare formatore. Poi arriva la Consolata e pure Giacomo Camisassa. Infine, non senza difficoltà, la fondazione e la cura di due istituti missionari.

Giuseppe Allamano, quarto di cinque fratelli, nacque il 21 gennaio 1851 a Castelnuovo d’Asti, paese natale di san Giuseppe Cafasso, suo zio, e di san Giovanni Bosco. Rimasto orfano di padre quando non aveva ancora tre anni, crebbe sotto l’influsso determinante della madre Maria Anna Cafasso, sorella del santo, e dello zio, don Giovanni Allamano, fratello del papà.

Terminate le scuole elementari, nell’autunno del 1862 entrò nell’oratorio salesiano di Valdocco, a Torino, dove rimase quattro anni, compiendo gli studi ginnasiali. Qui incontrò il cardinale Guglielmo Massaia che raccontò agli studenti della sua missione in Etiopia. Sentendosi chiamato al sacerdozio diocesano, lasciò Valdocco, per entrare nel seminario di Torino. La sua decisione di entrare nel seminario diocesano incontrò un inatteso ostacolo in famiglia. Furono i fratelli, non la mamma, a opporsi, non perché fossero contrari alla vocazione sacerdotale, ma perché volevano che prima frequentasse il liceo pubblico. Il giovane Giuseppe, convinto com’era, ebbe una sola risposta per i fratelli: «Il Signore mi chiama oggi… non so se mi chiamerà ancora fra due o tre anni».

Così nel 1866 entrò nel seminario. Fin dal primo anno si manifestò la fragilità fisica che sarebbe perdurata tutta la vita, mettendola più volte in pericolo. Il periodo di preparazione al sacerdozio fu molto positivo.

Formatore di preti

Ricevuta l’ordinazione sacerdotale il 20 settembre 1873, Allamano avrebbe desiderato darsi al ministero pastorale, ma fu destinato alla formazione dei seminaristi, prima come assistente (1873-1876), poi come direttore spirituale del seminario maggiore (1876-1880). Quando l’arcivescovo monsignor Lorenzo Gastaldi gli comunicò la destinazione, lui balbettò rispettosamente un’obiezione: «La mia intenzione era di andare vicecurato e poi forse parroco in qualche paesello». Ed ecco la benevola risposta: «Volevi andare parroco? Se è solo per questo, ecco, ti do la parrocchia più insigne della diocesi: il seminario!». Come educatore di candidati al sacerdozio, si distinse per la fermezza nei principi e la soavità nel chiederne l’attuazione.

In questo compito, gli furono unanimemente riconosciute ottime qualità che lo resero un vero «maestro nella formazione del clero». Proseguì nello stesso tempo gli studi, conseguendo la laurea in teologia presso la facoltà teologica di Torino (30 luglio 1876), e l’abilitazione all’insegnamento universitario (12 giugno 1877). In seguito, fu nominato membro aggiunto della facoltà di diritto canonico e civile, e ricoprì pure la carica di preside in ambedue le facoltà.

Davanti alla chiesetta di Wambogo, oggi Gikondi, nel 1907

 

Arriva la Consolata

Nell’ottobre 1880 fu nominato rettore del santuario della Consolata di Torino. Da allora fino alla morte, la sua attività si svolse sempre all’ombra del santuario mariano dell’archidiocesi. Anche questa nuova destinazione costò molto ad Allamano, sacerdote di appena 29 anni. Più tardi, lui stesso riferì la conversazione con l’arcivescovo: «Ma monsignore, io sono giovane», disse con confidenza filiale, ricevendo questa risposta paterna e incoraggiante: «Vedrai che ti vorranno bene lo stesso. È meglio giovane, se fai degli sbagli hai tempo a correggerli».

Si associò come primo collaboratore il sacerdote Giacomo Camisassa, che aveva conosciuto e apprezzato in seminario quando era direttore spirituale. Lo invitò scrivendogli parole che lasciano intravedere il progetto pastorale: «Veda, mio caro, faremo d’accordo un po’ di bene, e procureremo di onorare col Sacro Culto la cara nostra madre Maria Consolatrice». La loro fraterna collaborazione sacerdotale sarebbe durata tutta la vita, nel rispetto vicendevole del ruolo di ciascuno e nella condivisione di ideali. Possiamo constatare il mirabile esempio di amicizia e di collaborazione apostolica tra questi due sacerdoti, oltre che dalle opere realizzate insieme, anche dalle parole che Allamano ebbe a dire dopo la morte del Camisassa: «Era sempre intento a sacrificarsi, pur di risparmiare me»; «Con la sua morte ho perso tutte e due le braccia»; «Erano 42 anni che eravamo insieme, eravamo una cosa sola»; «Tutte le sere passavamo nel mio studio lunghe ore…»; «Abbiamo promesso di dirci la verità e l’abbiamo sempre fatto».

Il santuario, fatiscente materialmente e decaduto spiritualmente, sotto la direzione di Giuseppe Allamano riprese vita. Con l’attiva collaborazione del Camisassa, lo trasformò in un gioiello d’arte, splendente di marmi e d’oro, come si presenta tutt’oggi. Ne curò l’attività pastorale, liturgica e associativa. Poco per volta il santuario divenne centro di spiritualità mariana e di rinnovamento cristiano per la città e la regione. Allamano vi contribuì anche con il carisma di cui fu dotato da Dio di consigliare e confortare. Persone di ogni ceto sperimentarono, infatti, i segreti della sua mente illuminata e del suo grande cuore.

Can. Giacomo Camisassa durante la visita il Kenya, 1911-12.

I talenti

Come ebbe ad osservare il cardinale Jean-Marie Villot, Allamano divenne «punto di riferimento per quanti vedevano in lui il sacerdote vero, che sembrò investito di una missione provvidenziale per una diocesi come Torino: la missione di consigliare e dirigere, incoraggiare e ammonire, ridare alle anime con la grazia del sacramento della confessione la gioia e la pace della ritrovata amicizia con Dio, esortare a ogni opera apostolica».

Oltre a essere rettore del santuario della Consolata, Allamano era anche rettore del santuario di Sant’Ignazio, presso Lanzo Torinese, con annessa una casa per esercizi spirituali. Questo centro di spiritualità era molto famoso, avendo predicato in esso per tanti anni lo zio don Giuseppe Cafasso. Qui Allamano trovò un campo privilegiato per la formazione dei sacerdoti e dei laici attraverso gli esercizi spirituali. Come testimoniò un suo stretto collaboratore, il canonico G. Cappella: «Volle sempre dirigerli personalmente, e mentre li dirigeva voleva pure farli, perché diceva: “Non voglio solo essere cascata, che dà agli altri, ma anche conca per ricevere le grazie del santo ritiro” […]».

Con l’obiettivo di dare un modello specialmente ai sacerdoti, raccolse memorie su Cafasso, ne pubblicò la vita e gli scritti, e ne intraprese la causa di canonizzazione, che portò fino alla beatificazione, il 3 maggio 1925. Lo confidò candidamente lui stesso: «Ho introdotto questo processo, posso dire, non tanto per affezione o parentela, quanto per il bene che può produrre l’esaltazione di quest’uomo, affinché quelli che leggeranno le sue virtù, divengano bravi sacerdoti, bravi cristiani e voi bravi missionari».

Nel 1882 Giuseppe Allamano ottenne la riapertura del Convitto ecclesiastico (biennio di formazione in pastorale per il clero in preparazione del lavoro nelle parrocchie, ndr) e lo diresse fino alla morte. Ebbe molto a cuore la formazione spirituale, intellettuale e pastorale dei giovani sacerdoti, aggiornandola alle nuove esigenze. Inculcò soprattutto il fine ultimo della vocazione sacerdotale: la salvezza dei fratelli.

Visione e comunicazione

Giuseppe Allamano era coinvolto, inoltre, direttamente o indirettamente, in tante altre opere apostoliche. Fu canonico della cattedrale, membro di commissioni e comitati, superiore religioso delle Visitandine e delle Suore di San Giuseppe. Intensa fu la sua opera in occasione di varie celebrazioni di anniversari e durante la Prima guerra mondiale per l’assistenza ai profughi, ai sacerdoti e seminaristi che prestavano servizio militare.

Allamano seppe collaborare con le più svariate forme di apostolato, come testimonia il canonico Baravalle che viveva con lui al santuario: «Le forme più moderne dell’apostolato cattolico, come quello della buona stampa, […] non solo erano da lui tenuti in molta considerazione e molto apprezzati, ma largamente aiutati con somme di denaro, che a quei tempi erano abbastanza vistose». In particolare, Allamano sostenne il giornalismo cattolico non solo quando era più giovane, nel pieno del suo apostolato, ma sempre, fino alla morte. Ebbe un ruolo di ispirazione e incoraggiamento pure nella fondazione del quotidiano cattolico francese «La Croix», il cui fondatore, padre Paul Bailly, nel 1883 sostò al Santuario della Consolata. Nel 1899 fonda il mensile «La Consolata», che nel 1928 dà origine a «Missioni Consolata».

I primi missionari a Zanzibar, maggio 1902, da sx, Falda fratel Luigi, Gay padre Tommaso, Mons Emil August Allgeyer, padre Luz, spiritano , Perlo padre Filippo e Lusso fratel Celeste

Missione

Animato da questo intenso zelo apostolico, unito a un vivo senso della missione della Chiesa, Allamano allargò i suoi orizzonti al mondo intero. Sentì l’urgenza del mandato di Cristo di portare a tutti il Vangelo. Trovava innaturale che nella sua Chiesa, feconda di tante istituzioni di carità, ne mancasse una dedicata unicamente alle missioni. Decise di rimediarvi. In questo modo avrebbe aiutato coloro che erano animati dall’ideale missionario a realizzarlo e avrebbe avuto modo di suscitarlo in altri. La fondazione dell’istituto dei missionari non sorse all’improvviso nella sua mente; maturò nel suo spirito attraverso una lunga preparazione spirituale e non si attuò che superando grandi prove e contraddizioni. Non ci sono dubbi che il cammino della fondazione è stato impegnativo e faticoso per Giuseppe Allamano, già così occupato nel Santuario, nel Convitto, a Sant’Ignazio e per la causa del Cafasso.

Nel 1891 gli sembrò giunto il momento di attuare il suo progetto di fondare un istituto missionario per sacerdoti e fratelli laici, ma lo potrà realizzare soltanto con l’ascesa alla cattedra di San Massimo del cardinale Agostino Richelmy, suo compagno di seminario e amico. In lui trovò condivisione piena di ideali e sostegno. Gli indugi furono rotti definitivamente da un intervento della Provvidenza. Nel gennaio 1900, una malattia contratta assistendo una povera donna in una soffitta ghiacciata, lo portò in fin di vita. La guarigione, ritenuta un miracolo della Consolata, fu per lui il segno che l’istituto si doveva fondare. L’anno seguente, il 29 gennaio 1901, nacque l’Istituto Missioni Consolata. La motivazione profonda della fondazione va cercata nel suo stesso spirito. Padre Lorenzo Sales, il suo primo biografo e figlio affezionato, affermò che la radice della fondazione sta nella santità di Allamano, il quale spiegava: «Non avendo potuto essere io missionario, voglio che non siano impedite quelle anime che desiderano seguire tale via». Ci furono poi delle ragioni contingenti, concrete che influirono a dare inizio all’opera, quali il desiderio di continuare la missione del cardinale Massaia, come pure lo spirito missionario e le insistenze di alcuni sacerdoti convittori.

L’8 maggio 1902 partirono per il Kenya i primi quattro missionari, due sacerdoti e due laici, seguiti a dicembre da altri quattro. Ben presto, vista la necessità della presenza femminile nelle missioni, Allamano ottenne dai superiori del Cottolengo alcune suore Vincenzine, che affiancarono i Missionari della Consolata in Kenya, a partire dal 1903.

Giuseppe Allamano, dietro insistenza del neoeletto vicario apostolico, Filippo Perlo (uno dei primi quattro e figura fondamentale nell’istituto, ndr), d’accordo con il suo arcivescovo e confortato dal parere del cardinale Girolamo Gotti, prefetto di Propaganda Fide, e da quello del Papa Pio X, il 29 gennaio 1910 diede inizio all’Istituto delle Missionarie della Consolata.

Ai suoi figli e figlie dedicò le cure più assidue, attraverso contatti personali, lettere, incontri formativi. Convinto che alla missione si deve dare il meglio, ebbe di mira la qualità più che il numero. Voleva evangelizzatori preparati, «santi in modo superlativo», zelanti fino a dare la vita. Il suo motto era: «Prima santi, poi missionari», intendendo il «prima» non in senso temporale, ma come valore prioritario e assoluto.

Intorno al 1912 si fa promotore dell’istituzione di una Giornata missionaria mondiale, celebrata poi dal 1926. Per lui, sacerdote diocesano, la missione era dimensione essenziale della Chiesa.

Giuseppe Allamano morì il 16 febbraio 1926 presso il santuario della Consolata e fu beatificato il 7 ottobre 1990 da Giovanni Paolo II. Il 20 ottobre sarà canonizzato da papa Francesco e dichiarato ufficialmente Santo.

*rielaborazione di testi di Francesco Pavese,
a cura di Marco Bello


I 10 comandamenti di Allamano

Dieci «comandamenti» sono stati scritti da monsignor Luis Augusto Castro Quiroga (missionario della Consolata colombiano) e ci offrono una sintesi del pensiero di Giuseppe Allamano. Si tratta di un distillato di consigli e insegnamenti ai suoi missionari e missionarie, ma validi e utili per chiunque.

  1. Cercate solo Dio e la sua volontà.
  2. Innalzatevi sulle idee limitate che predominano nell’ambiente.
  3. Amate una religione che vi promette un’altra vita, ma che vi rende più felici sulla terra.
  4. Scegliete la mansuetudine come cammino di trasformazione.
  5. Trasformate l’ambiente (le strutture), non solo gli uomini.
  6. Siate conca, non canale, con i beni spirituali; canale e non conca con i beni materiali.
  7. Fate bene il bene, ma senza fare rumore.
  8. Non dite mai non tocca a me.
  9. Prima di tutto, santi.
  10. Siate forti, virili ed energici nella missione.

Per una presentazione di questi «comandamenti», leggi «Pillole Allamano», di padre Ugo Pozzoli, pubblicate su MC nel 2014.


L’arte dell’incontro

Il metodo missionario della Consolata

Per raggiungere obiettivi concreti occorre un metodo di lavoro. I missionari e le missionarie della Consolata ne hanno elaborato uno. Si tratta di una trasposizione del metodo di Allamano basato su quattro pilastri fondamentali.

Il modo in cui una persona svolge le sue attività decide se avrà successo o meno. Una cosa è sapere bene cosa fare, avere l’energia e l’intelligenza per farlo, un’altra cosa è avere la strategia giusta per raggiungere un determinato obiettivo. Stiamo parlando di «un metodo», ovvero di una procedura particolare per realizzare qualcosa. Una metodologia chiara è necessaria ogni volta che si realizza un progetto, perché fornisce un approccio strutturato al lavoro, garantisce l’affidabilità del modo di lavorare e migliora le conoscenze in quel particolare campo.

Un metodo missionario

Questo spiega il motivo per cui i primi missionari della Consolata avevano bisogno di un buon metodo per fare qualche passo avanti nell’evangelizzazione del Kenya. Il fondatore li aveva avvertiti di non aspettarsi risultati rapidi. Infatti, aveva detto loro di evitare la tentazione di pensare che le cose sarebbero state facili o che i risultati sarebbero stati immediati. Dovevano prendersi il tempo necessario per fare dei piani, attuarli gradualmente e valutarli senza fretta. In realtà, quello che oggi chiamiamo metodo missionario della Consolata, è un’attualizzazione del metodo pedagogico di Giuseppe Allamano. Questo prevedeva «l’incontro», «la creazione di relazioni» e «lo scambio produttivo reciproco». In una parola, possiamo chiamare quel metodo missionario «incontro».

Il fondatore era un padre per i suoi missionari: amava intensamente ciascuno di loro, tanto da lasciare un ricordo indelebile fin dal primo contatto. Su questo punto le testimonianze dei primi missionari sono concordi: ognuno di loro si è sentito compreso e amato dal fondatore, con l’irripetibile creatività dell’amore.

Le sue relazioni e il suo metodo pedagogico erano animati e incentrati su un dialogo fiducioso e amorevole. Aveva rapporti stretti con i singoli missionari e missionarie, ma anche con le comunità (seminario minore, seminario maggiore, novizi). Era in contatto con chi era vicino e con chi era lontano. Mentre alcuni missionari erano in Africa, altri erano nell’esercito e altri ancora erano alla Casa Madre. Allamano seguiva, formava e dirigeva anche altri gruppi che erano sotto la sua cura pastorale. Questo stretto contatto con la gente è ciò che ha ispirato e costituito il metodo che i missionari hanno usato nella missione.

Contatto

Utilizzando i consigli che Giuseppe Allamano dava dall’Italia, i missionari in Africa si impegnarono in lezioni di catechismo nei villaggi, nell’insegnamento delle cose elementari nelle scuole all’aperto (le lezioni si facevano sotto gli alberi), nella visita ai villaggi per socializzare e creare relazioni con la gente, e infine nell’assistenza ai malati. Questo è ciò che è stato conosciuto come il «metodo dei Missionari della Consolata». Come si vede, era piuttosto particolare. Implicava un grande contatto con la gente. Proprio come aveva dimostrato personalmente Allamano nel suo lavoro a Torino, i missionari e le missionarie dovevano relazionarsi strettamente con le persone. Era l’unico modo per conoscere i loro bisogni, approfondire le loro aspettative, scoprire le loro paure, creare un legame di fiducia, ecc. Sebbene i Missionari della Consolata fossero accusati da altri istituti missionari di dedicarsi a pratiche «mondane» invece che a «salvare le anime», il metodo missionario della Consolata era certamente efficace. Non si sarebbe potuto evangelizzare persone che non comprendevano. Questo metodo ha dato grandi risultati e frutti duraturi nell’evangelizzazione, nella fondazione e nel servizio della Chiesa in Africa, in primo luogo per la validità intrinseca del metodo stesso, e in secondo luogo per la dedizione e lo spirito di coloro che lo hanno attuato, sotto la saggia guida del fondatore. Questo è un altro modo per dire che un metodo da solo non basta. Coloro che lo mettono in pratica devono essere seri e dediti al loro lavoro. In altre parole, non si può separare il lavoro da svolgere, il metodo da utilizzare e il carattere (e la personalità) di coloro che devono svolgere il lavoro.

Corea del Sud. Club degli studenti cattolici nella Hanbat National University di Daejeon con padre Godfrey Boriga durante un incontro di preghiera.

Quattro pilastri

Il metodo missionario della Consolata aveva e ha quattro elementi chiave. In primo luogo, richiedeva l’apprendimento della lingua locale del popolo. Ancora oggi, la lingua è la chiave di ogni società. Conoscere la lingua facilita molte cose, elimina inutili conflitti e incomprensioni e crea una base credibile per qualsiasi impegno. Consapevoli di ciò, i primi missionari della Consolata si sono assicurati di essere in grado di comunicare con la popolazione locale. Secondo elemento: il metodo esige il rispetto della cultura delle popolazioni locali. I missionari hanno subito scoperto che dovevano amare la cultura dei Kikuyu e dei Meru. Questo significava essere disposti a mangiare cibo locale ogni volta che era necessario e, più in generale, a trattare le persone con rispetto. Consapevoli che non avrebbero potuto evangelizzare qualcuno che li vedeva come colonialisti, i missionari della Consolata hanno imparato a rispettare le diverse culture. Il terzo elemento: l’ambiente familiare. Giuseppe Allamano ha sempre parlato di «spirito di famiglia». Si assicurava sempre di far sentire a casa il suo interlocutore. Questo era il suo segreto. Le persone si sentivano felici, rilassate e amate in sua presenza. Allo stesso modo, come parte della loro strategia di evangelizzazione, i Missionari della Consolata facevano in modo che la gente si sentisse parte di una più grande famiglia di Dio.

Quarto e ultimo punto del metodo dei Missionari della Consolata: trasformare il paese, non solo attraverso l’insegnamento religioso, ma anche formando la popolazione all’agricoltura, all’allevamento del bestiame e alle abilità manuali. Come avrete notato, la strategia (o metodo) dei missionari della Consolata in Africa (e poi in America Latina e Asia) rispecchia lo stile di vita di Giuseppe Allamano. Egli credeva che l’opera di una persona riflettesse sé stessa. Questo spiega perché è vero che il metodo pedagogico di Allamano, che è la spina dorsale del metodo missionario della Consolata, era finalizzato alla santità. Non si trattava solo di fare ripetutamente un’azione per farla apparire come una strategia o un fatto. Si trattava di presentare sé stessi in qualsiasi cosa si facesse.

Jonah Mulwa Makau


«Un albero gigantesco»

Giro del mondo con le missionarie e i missionari della Consolata

Un sogno, una volontà che diventa progetto. Tanto impegno e preghiere. E poi arrivano le condizioni favorevoli. Così Giuseppe Allamano ha fatto partire da Torino i primi quattro missionari. Oggi, dopo 122 anni, è una presenza in 4 continenti.

La mattina dell’8 maggio 1902 Giuseppe Allamano accompagna i primi quattro missionari della Consolata alla stazione di Porta Nuova, a Torino. Sono i sacerdoti Tommaso Gays, Filippo Perlo e i fratelli Luigi Falda e Celeste Lusso. Le cronache dicono che, dopo aver impartito loro la sua benedizione, Allamano si allontana rapidamente, per non mettersi a piangere. Giacomo Camisassa, invece, come previsto, prende il treno con loro, e li accompagna fino a Marsiglia dove si imbarcano il 10 maggio alla volta di Zanzibar. Lì arrivano diciotto giorni dopo. I quattro sono accolti dal vicario apostolico, lo spiritano monsignor Emil August Allgeyer e dal console italiano, il cavaliere Giulio Pestalozza. I «nostri» sono presi in carico dai padri Spiritani. Padre Filippo Perlo, in una delle prime lettere racconta: «[…] il 28 maggio al levar del sole comparve in vista l’isola di Zanzibar. L’impero dei monsoni è cessato d’un tratto e il mare è calmo. Impressionati ancora dalle deserte e bruciate sponde del canale di Suez e dalle rocche brulle e cupe del capo Guardafui, restiamo ammirati e confortati dallo splendore e ricchezza di vegetazione di Zanzibar» (cfr. La Consolata, settembre 1902).

Da Zanzibar, il 6 giugno, vanno in nave a Mombasa, e da lì in treno fino a Nairobi (14 giugno). Sono sempre accompagnati da monsignor Allgeyer, che sarà con loro fino alla destinazione finale.

La scelta del villaggio di Tuthu (del capo Karoli o Karuri che aveva richiesto missionari per costruire la prima scuola), nel centro del Kikuyu a oltre 2000 metri di altitudine, come prima missione dei quattro della Consolata è dettata da necessità e opportunità. La necessità di avere missionari cattolici nella nuova provincia, il fatto che monsignor Allgeyer non ha abbastanza personale.

La carovana parte per il Kikuyu il 20 giugno, giorno della Consolata. Oltre al vicario apostolico, ne fa parte il padre Hemery, anch’esso spiritano, che parla un po’ della lingua locale. In treno fino a Naivasha (la ferrovia Mombasa-Kampala è in costruzione), poi a piedi, il gruppo si dirige a Nord Est, passando attraverso le montagne dell’Aberdare dove i missionari soffrono il freddo. Arrivano a destinazione la sera del 28 giugno.

«L’indomani celebriamo la santa messa […]: è l’inaugurazione della Missione della Consolata che si impianta nel Kikuyu, a circa due giornate di viaggio dalla base del monte Kenya a 2050 metri sul livello del mare. Sarà la più alta missione del vicariato di monsignor Allgeyer», scrive ancora Perlo nei suoi diari.

Questa è la storia dell’inizio delle «missioni della Consolata» nel mondo.

Da lì, nel 1916 comincia l’avventura in Etiopia, tre anni più tardi è la volta del Tanzania, e nel 1926, anno della morte del fondatore, l’apertura ufficiale della missione in Mozambico.

Il salto continentale nelle Americhe avviene nel 1937, in Brasile, inizialmente a scopo di animazione vocazionale, e nel 1946 in Argentina e via di seguito. L’Istituto Missioni Consolata (Imc) arriva in Asia nel 1988, con l’apertura in Corea del Sud.

Centoventidue anni dopo

Oggi i missionari e le missionarie della Consolata sono presenti in 33 Paesi di quattro continenti: Africa (14 Paesi), Americhe (9 Paesi), Asia (5) ed Europa (5). E se i primi missionari erano perlopiù piemontesi, adesso si contano 904 missionari di 25 nazionalità e 474 missionarie di 15 nazionalità.

Una presenza importante, multietnica e multiculturale, diffusa nel mondo, ma soprattutto in presa diretta con i popoli e le genti emarginati o di frontiera. Abbiamo voluto fare un ideale giro del pianeta per raccogliere alcune brevi riflessioni di missionari e missionarie della Consolata del 2024 per unirle idealmente a tutte le vite spese per la missione dalla fondazione dei due isituti in poi.

Padre Francesco Bernardi, missionario italiano in Tanzania

L’attualità del messaggio di Giuseppe Allamano è l’audacia, che è più del coraggio. San Paolo, missionario, usa il termine greco «parresia».

Giuseppe Allamano è un audace. Lo è stato fin da ragazzo. Giuseppe studia nell’Oratorio di don Giovanni Bosco. Ma il 16 agosto 1866 pianta in asso il suo maestro e se ne va, insalutato ospite. È domenica, giorno per recarsi in chiesa e non per scappare. Poi, è solo un ragazzo di 15 anni. Ma è un audace, contro il suo carismatico educatore.

Padre Igino Tubaldo (storico di Giuseppe Allamano) insinua che c’era troppo rumore nell’oratorio. Così Giuseppe fugge, perché «il rumore non fa il bene, e il bene non fa rumore». Questo è Allamano.

Lavoro in Tanzania e ritengo che necessiti di maggiore audacia missionaria. Ma non solo questo Paese.

Il 2 settembre 1908 il fondatore scriveva a fratel Benedetto Falda, missionario in Kenya: «La nostra Missione andrà innanzi e prospererà, perché è opera di Dio e di Maria Consolata. Passeranno gli uomini… cadranno pure alcune foglie, ma l’albero benedetto dal Santo Padre prospererà e verrà un albero gigantesco. Io ne ho prove prodigiose in mano».

Oggi i missionari e le missionarie della Consolata costituiscono «un albero gigantesco», grazie alla Consolata, come pure grazie agli italiani e ai marocchini, ai boliviani e ai colombiani, ai mongoli e ai coreani, alla gente di Taiwan nonché a quella del Kazakistan, grazie a uomini e donne che si spendono in 33 nazioni del mondo.

La missione è da viversi in «unità di intenti» fra tutti, nonostante le difficoltà.

Sono parole dell’audace san Giuseppe Allamano.

Padre Daniele Giolitti, missionario italiano in Mongolia

L’attualità del messaggio di Giuseppe Allamano, a partire dalla mia esperienza missionaria in Mongolia e in Italia, mi pare di poterla riassumere come un preciso stile missionario, improntato su tre principali caratteristiche: profondità nelle relazioni, forte spiritualità e lavoro manuale.

La missione, secondo lo stile «allamaniano», richiede una profonda dedizione e preparazione per incontrare persone e culture talvolta molto diverse dalla nostra. Per far questo occorre coltivare una spiritualità fatta di preghiera e di meditazione della Parola di Dio. Inoltre, per costruire ponti di pace e di dialogo, più che mai urgenti in questa nostra epoca, Giuseppe Allamano voleva che i suoi missionari «si sporcassero le mani», cioè che, come ha fatto lui, ci impegnassimo nella promozione umana e nei progetti di sviluppo.

La proclamazione di Allamano santo mi fa pensare al suo motto più famoso che ha lasciato a noi missionari: «Prima santi, poi missionari». Lui è stato davvero un grande santo e forse un precursore dei tempi: dalla sua profonda esperienza spirituale al Santuario della Consolata di Torino e dal suo grande impegno sociale, è nata l’idea della missione in tutto il mondo, fatta di contemplazione nell’azione. In Mongolia questa dimensione contemplativa è molto sentita, a contatto con religioni antiche quali il buddhismo e lo sciamanesimo.

Nella capitale mongola Ulaanbaatar, con gli altri missionari, pensiamo di vivere il grande momento della canonizzazione del nostro fondatore facendo conoscere la sua figura nelle quattro parrocchie della città, organizzando momenti di preghiera con la gente e traducendo in lingua mongola una sua breve biografia. Infine, però, penso che il modo migliore per viverlo sia quello di mettere in pratica ciò che lui stesso ha vissuto: un’esperienza di Dio che si estende a tutto il mondo. Questo è Vangelo. Questa è missione.

Sr Natalina Stringari in Bolivia

Suor Nadia Leitner, missionaria argentina in Bolivia

Nel 2016 sono arrivata per la prima volta a Vilacaya, in Bolivia, come prenovizia, una giovane donna che stava appena iniziando a conoscere il carisma, la missione ad gentes e tutta la sua ricchezza. I miei occhi cominciavano ad aprirsi, io nascevo al mondo missionario. L’impatto culturale e le sfide spaventavano le mie scelte, ma il sogno della missione e di poter condividere la vita mi dava la forza di continuare a camminare. Ed è stato così che durante gli anni di formazione mi sono lasciata riempire dal carisma e incoraggiare a svuotarmi per vivere la volontà di Dio.

Vivere oggi il tempo di santità, come missionaria della Consolata a Vilacaya, mi chiede di lasciare le mie idee per aprirmi all’incontro reale con gli altri. Mi trovo di fronte a una realtà missionaria impegnativa, ed è qui che il carisma acquista forza e coraggio e trova il suo spazio per insegnarmi a vivere in modo creativo il processo di inculturazione, di promozione umana e di ascolto. Mi rende chiaro che non cammino da sola, ma, come voleva Allamano, in famiglia, in comunità.

La santità di Giuseppe Allamano è una grande gioia e un orgoglio, ma è anche un invito concreto a vivere in fedeltà e in profondità il mio essere missionaria della Consolata, a camminare ogni giorno verso la mia santità.

Padre Oscar Liofo Tongombe, missionario congolese in Brasile

Lavoro nella diocesi di Roraima, nella città di Boa Vista, dove sono vicario parrocchiale.

Per me il messaggio di Giuseppe Allamano è la consolazione del popolo di Dio, soprattutto nella situazione che sta vivendo lo stato di Roraima con le migrazioni e la lotta delle popolazioni indigene. Portare consolazione significa avere uno zelo missionario nel servire i nostri fratelli e sorelle e nel lavorare per la promozione della vita umana.

La canonizzazione del fondatore è una grazia per tutto l’istituto e per tutta la Chiesa e rafforza ulteriormente la missione e la presenza dell’Imc in Amazzonia, poiché il miracolo è avvenuto proprio qui. È un momento di grande riflessione e meditazione sulla chiamata missionaria. Questo evento ha ulteriormente incoraggiato i missionari e la Chiesa a non rinunciare a quest’opera di consolazione. Penso che dovremmo vivere questo momento con devozione, preghiera e anche grande gioia.

Ivo Lazzaroni, missionario laico italiano in Congo Rd

Il messaggio di Giuseppe Allamano, sempre attuale e ricco di virtù cristiane, mi invita a cercare ogni giorno la qualità nell’essere e nel servizio missionario che svolgo nel nostro ospedale Notre Dame della Consolata di Neisu. La qualità nel migliorare la vita di chi mi circonda ogni giorno, nel fare bene il bene, la pazienza, e lo sforzo di vivere seriamente e umilmente ogni attimo della giornata.

Vivere questo messaggio è una sfida a livello personale, è vivere il Vangelo. Per me è la manifestazione della condivisione, della solidarietà umana, un cammino di fraternità che non conosce limiti e frontiere. A maggior ragione in un contesto di povertà economica come l’ospedale, dove la gran parte dei nostri pazienti fa fatica a pagarsi le medicine. Con la nostra presenza, cerchiamo di vivere questo messaggio, la vicinanza a chi soffre, e di curare i malati non solo con cure di qualità, ma con la consolazione, formando il nostro personale, più con l’esempio che con le parole.

Un altro aspetto fondamentale che sto vivendo, del messaggio di Allamano è la fiducia totale nella Provvidenza. In tutti questi anni di missione vivo e sperimento l’aiuto ricevuto da molti, per migliorare la qualità di vita di tante persone che incontro ogni giorno.

La canonizzazione mi fa pensare ai miei genitori, a mia mamma, ottantacinquenne e con una devozione particolare per Allamano, alla sua vita semplice e piena di sacrifici, alla sua pazienza e ricerca di una qualità di vita migliore per noi figli, al suo fare il bene nel silenzio.

Penso che la canonizzazione del fondatore possa trasmettere a ognuno di noi una forza spirituale maggiore, nel vivere il suo messaggio per essere d’esempio a quanti ci circondano nella ricerca continua di fare bene il bene.

19 Maggio 2002 : sx, Suor Maria Ines Patigno , Fedrigoni padre Paolo , Marengo padre .Giorgio , Suor Lucia Bartolomasi hanno appena ricevuto il Mandato per la Mongolia.

Suor Emma Piera Casali, missionaria italiana in Mozambico e Guinea-Bissau

Per me Giuseppe Allamano è un ammirabile missionario. Anche se non ha avuto la gioia di lavorare direttamente in missione, ha saputo offrire ai suoi missionari e missionarie una metodologia valida, feconda, dallo sguardo aperto alle sfide e allo sviluppo in ogni tempo, in armonia con le diverse realtà che incontriamo nel nostro mondo.

Lui voleva che le sue missionarie vivessero in intima comunione con Cristo, Figlio e primo missionario del Padre, che dessero priorità alla testimonianza di vita, all’ascolto, alla preparazione della persona, alla conoscenza della realtà per programmare e valutare insieme, in comunione e unità d’intenti.

Nei miei sessanta anni di vita missionaria, ho sperimentato la fecondità della sua metodologia quando sapevo sedermi accanto al fratello o la sorella in attento ascolto e interessamento, dimostrando che in quel momento la cosa più importante era la sua storia, i suoi problemi e per questo nasceva la fiducia, la confidenza e il desiderio sincero di conoscersi.

Quando nella catechesi, negli incontri di formazione, ho cercato di far precedere all’annuncio di Gesù Cristo la conoscenza, i desideri, i progetti, le reazioni delle persone, ho toccato con mano la validità e l’efficacia di tale metodologia. Questo metodo anche oggi è attuale: il mondo moderno non ha fame e sete di bravi predicatori, ma bensì di autentici testimoni.

Vivendo e applicando questa metodologia nella mia vita missionaria ho potuto vedere come il Signore, per mezzo nostro, trasforma l’ambiente e il cuore delle persone.

Padre Marcos Sang Hun Im, missionario coreano in Argentina

Come sappiamo, Giuseppe Allamano aveva il sogno di andare in missione, ma a causa della sua salute non ha potuto realizzarlo. Invece di rinunciare a sognare, ha conservato il desiderio nel suo cuore ardente. Con il passare del tempo, il Signore gli ha proposto un altro modo per realizzarlo: inviare altri in missione. Secondo l’esperienza della vita missionaria, non sempre possiamo realizzare tutto ciò che vogliamo o avere il successo che speriamo. Per questo a volte siamo delusi di non vedere subito i frutti dei nostri sforzi. La testimonianza di Allamano ci dice chiaramente che il lavoro missionario è opera del Signore. Egli ne è il soggetto e il protagonista, mentre noi siamo solo dei servitori. Se il nostro sogno coincide con quello del Signore, Egli lo realizzerà a tempo debito secondo la sua via attraverso tutto il nostro essere. Attendere i tempi del Signore con pazienza e fiducia è il messaggio importante di oggi.

Normalmente la gente ha sentito il nome del nostro fondatore citato dai Missionari della Consolata. Anche io l’ho sentito per la prima volta quando ho contattato un animatore vocazionale. Adesso, grazie alla canonizzazione, il suo nome si è diffuso di più e veniamo cercati da luoghi dove non siamo mai stati, da chi vuole conoscere la sua vita. Così il mondo non solo vuole conoscere il nuovo santo, ma desidera anche conoscere i suoi figli, che sono missionari. Questo è un grande momento per noi per dare testimonianza, incoraggiare e ricordare la vocazione missionaria.

Padre José Fernando Flórez Arias, missionario colombiano in Amazzonia

La spiritualità dei Murui-Muina (popolo nativo dell’Amazzonia) dice che il futuro è alle spalle e il passato davanti, e anche se sembra strano, ha una sua logica: quello che è successo lo vediamo (è davanti) quello che non è successo non lo vediamo (è dietro). In questa prospettiva, camminiamo in avanti per trovare le radici che oggi rendono possibile la santità del nostro fondatore. Radici che hanno a che fare con il territorio in cui Giuseppe Allamano ha voluto manifestare la sua santità, territorio sacro chiamato Panamazzonia, condiviso da Bolivia, Perù, Ecuador, Colombia, Venezuela, Guyana francese, Guyana, Suriname e Brasile.

Il miracolo di Allamano nel contesto amazzonico dovrebbe portarci a riflettere sulla nostra missione in questi territori. Farci sentire che il giaguaro oggi sta mangiando una parte del nostro cranio, come per lo Yanomami Sorino, e intendo il cuore, poiché i nonni Murui, al contrario di «penso quindi sono», dicono «sento quindi sono».

Per questo è importante addolcire il cuore affinché ciò che arriva alla ragione sia un pensiero significativo e si traformi in una Parola di vita, cioè una parola che su fa realtà, diventando prassi.

Forse la nostra parola in Amazzonia ha bisogno di un nuovo risveglio, di una nuova alba, di un passaggio del cuore, di sentire Dio in mezzo alle diverse culture amazzoniche perché ci chiediamo: dove ci sta mandando lo Spirito in Amazzonia?

Suor Immaculate Nyaketcho, missionaria ugandese in Liberia

L’attualità del messaggio di Giuseppe Allamano la percepisco nel suo invito a una santità vissuta nel fare bene il bene senza rumore, e la trovo nel lavoro missionario di ieri e di oggi. Questo si realizza attraverso i missionari e le missionarie che hanno incarnato questa spiritualità nella loro vocazione e missione, alcuni anche al costo della loro vita. Hanno portato consolazione e Gesù a tantissimi popoli e culture in diverse parti del mondo: quante chiese, scuole, ospedali, progetti economici e formazione.

Oggi, nel mio lavoro missionario in Liberia, dove la nostra presenza è molto piccola, il messaggio di Giuseppe Allamano si attualizza nel dare testimonianza di consolazione e facendo al meglio possibile il nostro servizio tra i giovani nella scuola, in parrocchia, nelle famiglie. Come Allamano ci dice, non è il fare tanto che conta, ma farlo bene, vivendo con il popolo nella sua realtà, affinché anche i nostri fratelli sperimentino la consolazione data al mondo dal Padre per mezzo del figlio Gesù.

La canonizzazione del fondatore è un grande dono che la Chiesa fa a noi famiglia della Consolata e al mondo intero. Oggi stiamo perdendo la spiritualità del fare bene il bene. Siamo molto presi dalla quantità, piuttosto che dalla qualità delle nostre azioni e del nostro vivere. Ma la canonizzazione ci chiama a una forma di santità che può essere vissuta da tutti, ovunque, facendo solo il bene. Senza rumore.

Padre Giuseppe Auletta in Argentina

Padre Giuseppe Auletta, missionario italiano in Argentina

L’attualità di san Giuseppe Allamano ha a che vedere con la presa spontanea e immediata nel cuore della gente. Un esempio in tal senso l’ho avuto un po’ di anni fa. Nel gennaio 1990 stavamo realizzando un’intensa missione nella colonia Aborigen Chaco, abitata dagli indigeni Qom (Tobas), con i giovani appartenenti a Jumico (juventus misionera de la Consolata).

L’attività consisteva nel visitare i «ranchos» (abitazioni più che precarie) cercando di combattere la malattia di Chagas provocata da un insetto chiamato vinchuca, che danneggia soprattutto il cuore. Durante la visita offrivamo alla famiglia un’immaginetta del nostro fondatore. In una pausa dell’attività, una donna ci ha sorpresi con una richiesta: avere nella comunità una chiesetta. Alla domanda di chi volesse come patrono, la donna ha risposto: san Giuseppe. Ascoltando la richiesta, una nostra missionaria della Consolata chiede: «Volete che sia San Giuseppe artigiano?». «No – ha replicato la donna -. Vogliamo che sia san Giuseppe il missionario». Finalmente avevamo capito che si riferiva a Giuseppe Allamano. E così abbiamo costruito una chiesetta allo stile dei ranchos nella colonia Aborigen Chaco. Credo che, pur nella sua semplicità e sintonia con l’incarnazione in quella realtà, il nostro già santo – diciamolo senza aspettare il 20 ottobre prossimo – abbia avuto la prima cappella a lui dedicata. Vedo in questa esperienza una dimostrazione di come il nostro fondatore mette radici nel cuore della gente, attraverso il servizio umile e concreto di noi missionari.

La canonizzazione del fondatore è basata e decisa dalla prova di un miracolo che ha beneficiato un indigeno Yanomami. Il miracolo si trasforma in segno che conferma il carisma ad gentes affidatoci dal fondatore ma anche la scelta del camminare insieme con i popoli indigeni, condividendo la lotta di sopravvivenza, i sogni e la grande spiritualità e saggezza che essi ci offrono.

Padre Luiz Carlos Emer, missionario brasiliano a Roraima in Brasile

Già prima del Concilio Vaticano II, il desiderio e l’insegnamento di Giuseppe Allamano era che i suoi missionari portassero il messaggio della Buona Novella attraverso la visita alle comunità e la vicinanza alla gente semplice, conoscendo così da vicino la loro vita e le loro difficoltà. È stata un’intuizione profetica che mi ha segnato e mi ha sempre accompagnato nel mio lavoro missionario. Il metodo di lavoro di Allamano, rafforzato dalla teologia latino-americana che poneva l’accento su Gesù come liberatore integrale della persona, mi ha portato a cercare e privilegiare le periferie e i poveri nel mio lavoro missionario. Questo ha fatto nascere in me il desiderio e la ricerca di lavorare con i più emarginati e, per quanto possibile, di vivere come loro.

È importante notare che nel corso dei miei 37 anni di sacerdozio ho anche scoperto e imparato a valorizzare l’insegnamento sul primato della santità nella vita del missionario: l’amore e la vicinanza a Dio come condizione fondamentale per una vita missionaria significativa e fruttuosa.

Il riconoscimento ufficiale da parte della Chiesa di Giuseppe Allamano come uomo di Dio, guidato dallo Spirito Santo, diventa un forte stimolo a valorizzare e interiorizzare ancora di più la sua vita e i suoi insegnamenti.

Con la canonizzazione, penso di renderlo più presente nella mia preghiera, nel mio studio e nella mia spiritualità e, di conseguenza, di farlo conoscere meglio alla gente, presentandolo non solo come un intercessore, ma anche come un uomo che ha vissuto il suo tempo con visione e profezia.

Suor Arelis Maritza Rocha Garcia, missionaria colombiana in Italia

Grande persona di profonda umanità, ieri e oggi, Giuseppe Allamano è sempre attuale. La sua presenza lungo il mio cammino di vita, sia nella formazione, sia nelle diverse missioni e nei servizi che ho fatto, è stata importante. Io mi sono identificata con il suo contesto di vita di famiglia, la sua storia mi ha incoraggiata, il suo sguardo al Dio della Provvidenza mi ha toccata fin da subito. La sua paterna attenzione di ascolto e il suo amore mi hanno sollevata fino ad oggi. Non posso dimenticare le tante volte che l’ho invocato chiedendo aiuto e facendolo partecipe della mia fragilità e delle sfide in gioco, e lui mi ha fatto sentire il suo «Nunc Coepi» (adesso comincio, ndr). Così, con speranza, mi sono messa in piedi e ho continuato il mio percorso, ma con tanta fiducia nella sua compagnia.

La sua comprensione delle realtà umane che io non capivo, mi è giunta attraverso le sue lettere, scritte alle nostre sorelle, nelle quali manifestava la sua presenza umana, il suo modo gentile di gestire le cose e il suo sguardo compassionevole. Un cuore riconoscente dei doni che Dio dà a ognuno, non per sé stesso ma per il bene comune e della missione. Solo così si può vivere il bene fatto bene, nella quotidianità semplice e modesta come lui ci vuole.

Penso che il nostro fondatore, con la sua personalità, mi chieda di sorprendermi di come Dio agisce dove noi meno pensiamo. Questo lo vediamo guardando il miracolo a Sorino Yanomami. Non posso non pensare al carisma che lui ha donato a me e a tutti noi. Quanta grazia e responsabilità allo stesso tempo.

Marco Bello

Padre Diego Cazzolato con un monaco buddhista in Corea del Sud.


Conversazione, «alla mano», con Giuseppe

Quattro modi di essere, ammiro in te:
la tua umanità fragile ed energica
la tua fiducia nella volontà di Dio
la tua disponibilità a servire
la tua perseveranza creativa nell’azione.
Li voglio tutti e quattro per me.

Quattro idee che ho letto in te mi ispirano:
oggi è il mio tempo e qui il mio spazio
la santità è il mio obiettivo e la mia strada
vivo localmente e penso globalmente
la missione è il mio luogo e la mia opportunità.
Tutte e quattro le idee voglio renderle reali.

Quattro relazioni che hai coltivato mi attraggono:
con Dio nella contemplazione e nella preghiera
con Maria Consolata, in affettuosa complicità
con Giacomo Camisassa, amico nell’amicizia di lavoro
con la Chiesa locale e universale nella sinodalità.
Voglio coltivarle anche io tutte e quattro.

Quattro compiti che hai intrapreso attirano la mia attenzione:
studiare con passione per il ministero
incoraggiare l’apertura della Chiesa alla cattolicità
formare persone, comunità e sacerdoti
accompagnare la famiglia, gli istituti e il Santuario.
Voglio occuparmi di tutti e quattro.

Quattro frasi emblematiche, mi ricordo di te:
«Fare bene, farlo bene e senza fare rumore», qualità totale
«Il bene non fa rumore e il rumore non fa bene», etica professionale
«prima i santi, poi i missionari», spiritualità umanizzante
«proclameranno la mia gloria alle nazioni», uscire qui, là e ovunque.
I quattro ispirano la mia vita e il mio lavoro quotidiano.

Quattro icone sacramentali, vi hanno ispirato:
– la santa famiglia Cafasso, con Giuseppe (lo zio) e Mariana (la madre)
– quella tenera Maria, con il suo santuario della Consolata
– quel Gesù biblico, fatto Eucaristia sulla tavola e sulla croce
– quella Chiesa locale, aperta al cattolicesimo.
Tutti e quattro mi suscitano ammirazione, ispirano, occupano e preoccupano.

Salvador Medina
missionario della Consolata colombiano


Come si diventa santi
Il processo di canonizzazione

La «Causa di beatificazione e canonizzazione» riguarda un fedele cattolico che in vita, in morte e dopo morte ha goduto fama di santità, di martirio, o di offerta della vita.

La canonizzazione è solo l’ultimo gradino di una scala che ne presuppone altri: il candidato, per diventare ufficialmente santo, deve essere prima proclamato servo di Dio, poi venerabile, poi beato.

Fase diocesana

È chiamato servo o serva di Dio il fedele cattolico di cui è stata iniziata la Causa di beatificazione e canonizzazione. Il postulatore, appositamente nominato (ad esempio dall’istituto religioso, ndr), raccoglie documenti e testimonianze che possano aiutare a ricostruire la vita e la santità del soggetto. La prima fase inizia, quindi, con l’apertura ufficiale di un’inchiesta in diocesi e il candidato viene definito servo di Dio.

Occorre dimostrare che la persona ha praticato le virtù a un livello molto elevato, superiore alla media. La ricostruzione viene fatta seguendo due piste: ascoltando le testimonianze orali delle persone che lo hanno conosciuto e possono raccontare con precisione fatti, eventi, parole; raccogliendo i documenti e gli scritti riguardanti il servo di Dio.

Tutte le informazioni vengono raccolte e poi sigillate nel corso di una sessione di chiusura, presieduta dal vescovo della diocesi coinvolta.

Fase romana

A questo punto si chiude la «fase diocesana» dell’inchiesta e tutto il materiale viene consegnato a Roma al Dicastero delle cause dei santi che, tramite un suo relatore, guiderà il postulatore (persona incaricata di istruire il processo di beatificazione prima e di canonizzazione poi, ndr) nella preparazione della Positio, cioè del volume che sintetizza le prove raccolte in diocesi. È la cosiddetta «fase romana» del processo. La Positio deve dimostrare con sicurezza la vita, le virtù o il martirio e la relativa fama del servo di Dio. Studiata da un gruppo di consulenti teologi del dicastero, è poi sottoposta al giudizio dei vescovi e cardinali membri del dicastero. Al giudizio positivo, il Papa autorizza la promulgazione del decreto sull’eroicità delle virtù, sul martirio del servo di Dio, o sull’offerta della vita, che così diviene venerabile.

Dalla tappa intermedia alla canonizzazione

La beatificazione è la tappa intermedia, in vista della canonizzazione. Se il candidato viene dichiarato martire, diventa subito beato, altrimenti è necessario che venga riconosciuto un miracolo, dovuto alla sua intercessione.

Questo evento miracoloso in genere è una guarigione ritenuta scientificamente inspiegabile, giudicata tale da una commissione medica. Importante, ai fini del riconoscimento, è che la guarigione sia completa e duratura, in molti casi anche rapida. Sul miracolo si pronunciano anche i vescovi e cardinali, e il Papa autorizza il decreto. Il venerabile può essere beatificato.

La fase successiva è la canonizzazione. Si deve attribuire al beato l’intercessione efficace in un secondo miracolo avvenuto in un momento successivo alla beatificazione.

Per stabilire chi è santo, quindi, la Chiesa utilizza sempre un accertamento canonico: se in passato si poteva diventare santi semplicemente per acclamazione popolare, da vari secoli esistono norme specifiche, per evitare confusioni e abusi. Il postulatore è incaricato di dimostrare la santità del candidato, mentre dall’altro lato, il promotore della fede, verifica testimonianze e documenti.

A esito positivo, è poi il Papa che autorizza la promulgazione del Decreto sul miracolo accertato e fissa la data di canonizzazione.

M.B.


Hanno firmato il dossier

Francesco Pavese
Missionario della Consolata (02/04/1930-3/5/2020), con un dottorato in diritto canonico svolse la sua missione come formatore. Postulatore generale dal 2002 al 2012, a lui si devono svariati testi di approfondimento sugli aspetti teologici e spirituali di Giuseppe Allamano.

Jonah Mulwa Makau
Missionario della Consolata keniano, è stato responsabile del Cam a Torino, missionario in Tanzania come formatore, da due anni è a Roma nell’ufficio storico.

Si ringraziano
Le missionarie e i missionari che hanno partecipato con il loro contributo per l’articolo «Un albero gigantesco». Giacomo Mazzotti, postulatore generale. Gigi Anataloni, per l’archivio fotografico. Suor Alessandra Pulina e suor Stefania Raspo per la collaborazione.

A cura di
Marco Bello, giornalista, direttore editoriale di MC.

Festa della Consolata a Loyangallani, Kenya

 




Allamano Santo il 20 ottobre 2024

Durante il Concistoro Ordinario Pubblico questo lunedì 1° luglio, Papa Francesco ha annunciato che la canonizzazione del Beato Giuseppe Allamano, fondatore degli Istituti Missionari della Consolata, si terrà domenica 20 ottobre 2024 a Roma, giornata missionaria Mondiale.

Il miracolo attribuito all’intercessione del Beato Giuseppe Allamano è avvenuto nella foresta amazzonica brasiliana, nello Stato di Roraima, dove Sorino, uomo dell’etnia Yanomami, fu attaccato da un giaguaro che lo ferì gravemente alla testa, aprendo la scatola cranica; era il 7 febbraio 1996, primo giorno della novena del Beato Giuseppe Allamano.

Trasportato all’Ospedale di Boa Vista, accudito dalle Missionarie della Consolata, che non cessavano di chiedere la sua guarigione per intercessione del Padre Fondatore, Sorino ha miracolosamente recuperato la salute in pochi mesi, e vive tutt’ora nella sua comunità indigena.

L’inchiesta diocesana per lo studio del presunto miracolo è avvenuta nel marzo 2021 a Boa Vista, mentre l’iter del Dicastero delle Cause dei Santi si è concluso il 23 maggio 2024, con l’approvazione del decreto di riconoscimento del miracolo.

È un momento molto significativo per la famiglia missionaria della Consolata, composta da Padri, Fratelli, Suore, Laici e Laiche.

Suor Renata Conti e Padre Giacomo Mazzotti, che attualmente accompagnano la postulazione, parlano sul significato della Canonizzazione del Beato Allamano.

[youtube https://www.youtube.com/watch?v=Gq5fQvOGPuM?feature=oembed&w=500&h=281]

In un messaggio i Superiori generali dei due Istituti, Padre James Lengarin, IMC, e Madre Lucia Bortolomasi, MC, scrivono:

“La sua Canonizzazione è per tutti noi un dono immenso che ci invita ad ascoltarlo, ad attingere sempre di più alla ricchezza della sua santità. Siano i nostri occhi e il nostro cuore fissi sul nostro Fondatore per ascoltarlo e guardare alla sua santità che ci stimola a continuare in modo serio e profondo la sua missione” (per il testo integrale della lettere delle due direzioni generali, rimandiamo al sito consolata.org).

di Suor Stefania Raspo e Padre Jaime C. Patias, comunicazione MC e IMC
da https://www.consolata.org




Pillole «Allamano» 7: Canali e conche


Siate conche, non canali, con i beni spirituali
Siate canali, non conche, con i beni materiali

Un medico cinese (ma sarebbe stato d’accordo con lui anche il mio vecchio pediatra) direbbe che la medicina ha bisogno di un approccio «olistico» se vuole essere efficace e portare a un benessere effettivo dell’individuo. Detto in parole povere, essa deve coinvolgere ogni aspetto riguardante l’essere umano, tanto materiale quanto spirituale.

La pillola di questo mese è un medicamento antico che punta a offrire una cura completa, un ritrovato che il nostro «farmacista» Giuseppe Allamano ha ereditato da una tradizione lontana. Antico non significa necessariamente antiquato, superato o, per usare un termine farmaceutico – visto che si parla pur sempre di pillole – scaduto. I rimedi della nonna rivelano, talvolta anche oggi, la loro efficacia, nonostante noi, gente super sofisticata del 21° secolo, facciamo fatica a crederlo.

Lo spunto per riflettere su questo consiglio che l’Allamano ci offre lo troviamo in un passo del Sermone 18 al Cantico dei Cantici di san Beardo da Chiaravalle. In esso il santo, dottore della Chiesa e maestro di spiritualità medievale, mette in guardia coloro che vogliono effondere lo Spirito prima che esso venga in loro infuso. In breve, secondo Beardo, lo Spirito Santo compie in noi una duplice operazione: infusione ed effusione. La prima ci fortifica interiormente, a nostro vantaggio e per la nostra crescita spirituale. Attraverso l’infusione dello Spirito in noi, riceviamo doni come fede, speranza e carità, doni che sono nostri, che servono alla nostra salvezza. Altri doni (per esempio, scienza, sapienza, profezia, guarigione, lingua, ecc.) li riceviamo per il bene spirituale del prossimo, per donarli a chi ne ha bisogno. Di fatto, ricorda Beardo, essi non sono indispensabili per la nostra salvezza, ma ci sono concessi a beneficio altrui, per compiere verso il nostro prossimo un atto di misericordia che serva da aiuto in un cammino di crescita spirituale.

I primi doni, quelli infusi, sono condizione affinché i secondi possano convertirsi in strumenti di salvezza. È necessario essere ripieni dello Spirito prima di poterlo effondere, sostiene Bernardo. A poco servirebbero il dono della parola o quello della scienza se per mancanza di carità non li condividessimo con il nostro prossimo; ugualmente sterile sarebbe però la persona che volesse condividere i suoi talenti senza fondarli su una solida base spirituale. Solo in questo modo i doni condivisi saranno in grado di dissetare, sanare, esortare, far crescere nella fede, dare speranza, riempire di amore. Bernardo teme la superficialità e per questa ragione definisce la persona saggia come colei che è capace di essere conca, vasca, piuttosto che canale. Il canale, infatti, nel momento in cui riceve riversa, mentre la conca raccoglie, aspetta di essere piena e comunica della sua abbondanza. Purtroppo, è l’amara constatazione di san Bernardo, si hanno nella Chiesa molti più canali che conche; molte più persone che vogliono trasmettere ciò che non hanno, insegnare quanto non hanno imparato, parlare prima di ascoltare, indicare ad altri cammini che non si sono mai percorsi, né si saprebbe come iniziare a esplorare. Dai tempi di Beardo, passando per quelli di Giuseppe Allamano fino ad arrivare ai giorni nostri, le cose non sono cambiate più di tanto. Risuonano profetiche ed attuali le parole dell’esortazione apostolica Evangelii Nuntiandi, scritta ormai quasi 40 anni fa e giustamente riproposta con insistenza in questi ultimi tempi, in cui papa Paolo VI ricordava a tutti come, in materia di evangelizzazione, il mondo fosse molto più interessato all’ascolto dei testimoni piuttosto che dei maestri (EN 41).

Le persone che incontriamo sono completamente disincantate nei confronti di parole pur belle ma vuote. Le parole piene, al contrario, sono quelle che non girano semplicemente nella bocca, ma ricevono la loro forza dal cuore. La conca in cui sono custodite le rende cristalline e pure, permette ai detriti di depositarsi sul fondo lasciando che le mani che si racchiudono per bere attingano all’acqua più pura. A volte anche le buone azioni possono essere piene di detriti e persino l’esercizio della misericordia corre il rischio di essere frainteso, equivocato e abusato se non scaturisce da una fonte profonda e ricca.

Giuseppe Allamano raccoglie le parole di Bernardo e le fa sue. Professore di morale per molti anni, sa per esperienza che il bene è un oggetto fragile e va trattato con dolcezza e delicatezza. Se lo si porge con poco garbo si può rompere facilmente e solo con difficoltà può essere riparato. Lo vediamo anche noi oggi. Ne facciamo esperienza quotidiana entrando in contatto con persone ferite dalla banalità di un cristianesimo di facciata, raccogliendo storie che narrano promesse di grazia tradite, incontri col nulla camuffati da esperienze di fede, bisogni reali affrontati a colpi di bla bla bla e mai soddisfatti. A volte sono le nostre stesse debolezze a fare strage delle speranze altrui, a tradie le aspettative; non lo si può evitare, è lo scotto che si deve pagare al fatto di essere umani e fallibili. Questa fragilità può essere però limitata. L’apertura allo Spirito è la prima attitudine da coltivare se si vuole essere fonti vive. Tuttavia, sappiamo bene che tale apertura non potrà aver luogo se non si ricercano momenti di preghiera, silenzio e incontro con Cristo in grado di permetterci di accogliere il dono del suo Spirito. Occorre trovare spazi che permettano l’echeggiare della Parola nel profondo di noi stessi, anche se ciò potrà essere causa di sofferenza. La Parola, infatti, è spada a doppio taglio, che penetra e purifica, divide, pota, converte (cf. Eb 4,12).

La nuova evangelizzazione, di cui tanto si parla in questi ultimi tempi, altro non è che un modo credibile di presentare la Buona Notizia di sempre. Oggi, in effetti, la gente non ha bisogno di tante parole. Bastano 64 battute per lanciare un tweet nel ciberspazio ed essere letto da centinaia, migliaia, milioni di followers (Papa Francesco ha 14 milioni di persone che lo seguono su Twitter). La differenza la fanno il contenuto e ciò che sta sotto a esso. Le banalità possono risultare interessanti e anche divertenti, ma alla fine stancano. C’è bisogno di genuinità, di schiettezza, di verità per vivere la propria missione in modo autentico ed efficace.

 

Trattenere i beni spirituali, arricchirsi di essi è un atto di misericordia e non di egoismo. Chi si fa conca dei doni dello Spirito automaticamente dona con generosità, perché è lo Spirito stesso che, infuso, effonde grazia su grazia, annunciando ciò che deve e non ciò che vuole, senza risparmiare le verità scomode, senza ammiccare al mondo per paura di non piacere.

Giuseppe Allamano prende il consiglio di San Bernardo, lo completa e lo propone ai suoi missionari in una versione riveduta e corretta che ci fa vedere la sua originalità di pensiero: «S. Bernardo dice che noi a riguardo del prossimo dobbiamo essere conche e non solo canali […], ma in questo [beni materiali] dobbiamo essere solamente canali e non conche, e questo lo dico io» (Conferenze IMC, III, pagg. 46-47).

«E questo lo dico io!». Giuseppe Allamano è un sacerdote che desidera fortemente che i suoi siano persone spiritualmente ricche; vuole però anche che la loro spiritualità non si converta in uno spiritualismo eccessivo, avulso dalla realtà. I beni materiali vanno condivisi, lasciati andare alla corrente del canale che scorre e non trattiene, ma irriga e feconda il campo di tutti nella logica del «gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date». La missione è annuncio di un dono, del regalo che Dio fa al mondo tanto amato: l’unico suo Figlio offerto per la salvezza di tutti (Gv 3, 16). Un mondo scettico, qual è quello di oggi, deve essere aiutato a credere, e per questa ragione deve poter vedere il dono. Non possiamo trattenerlo, nascondendolo alla vista di chi lo cerca, a volte con ansia o con disperazione. Giuseppe Allamano voleva che i suoi missionari fossero sacramentini, che avessero uno spirito eucaristico, che fossero pane spezzato per calmare la fame delle genti. Per decenni i Missionari e le Missionarie della Consolata ne hanno seguito l’invito e si sono fatti essi stessi dono, aiutati dalla generosità di tanti amici e benefattori che, pur senza partire fisicamente per la missione, ne hanno sostenuto lo svolgersi e lo sviluppo, talvolta a prezzo di grandi sacrifici.

Giuseppe Allamano ha parlato al cuore di molti, con il suo spirito semplice e diretto, e oggi continua a parlare anche a noi, invitandoci a essere segni di uno stile di vita alternativo a quello che il mondo propaganda, esortandoci a non stancarci di dare. La crisi che stiamo vivendo suggerirebbe forse di trasformarci in conca anche per quanto riguarda i beni materiali, perché «non si può mai sapere …». In effetti oggi il cristiano è chiamato a fidarsi maggiormente della Provvidenza anche nel nostro Occidente che, fino a poco tempo fa, dispensava i più dal doverlo fare con radicalità. Del resto, la vita stessa di Giuseppe Allamano è stata un canto alla Provvidenza, la storia di un uomo che si è fidato di Dio, investendo tutto quanto aveva nel progetto missionario al quale si sentiva chiamato. «Bisogna fidarsi della Provvidenza e meritare i suoi aiuti», sosteneva. «Mai ho perso il sonno per questioni di denaro», ha detto più volte ai suoi missionari, testimoniando con la sua esperienza che il dare senza risparmio, senza se e senza ma, paga i suoi dividendi nel modo misterioso che solo Dio conosce.

Inutile dire che essere una conca ripiena di spirito aiuta a comprendere la sapienza nascosta dietro alla necessità di essere anche canale in cui scorrono copiosamente e generosamente i beni che vogliamo condividere con il nostro prossimo.

Ugo Pozzoli

Ugo Pozzoli




Pillole «Allamano» 6. Siate forti, energicie virili nell’apostolato


Poche settimane fa, un mio caro confratello portoghese mi comunicava che la madre superiora di un convento di suore contemplative gli aveva affidato il compito di preparare alcune «palestre» che potessero aiutare spiritualmente le sorelle della comunità. Associare però l’età media delle monache nonché agli acciacchi che non le risparmiano alle «palestre» che le attendevano mi ha fatto pensare che, forse, qualcosa non andava. Premetto che il confratello portoghese parla italiano in maniera pressoché perfetta, ma, pur essendo lui stesso un atleta, qualcosa mi faceva dubitare del fatto che gli fosse stato chiesto di far fare della ginnastica alle suore, e che piuttosto mi trovavo dinnanzi a uno dei tanti «falsi amici» di cui le nostre lingue neolatine sono ricche. Con il termine «palestra» in portoghese si intende infatti una conferenza e, per estensione al nostro gergo religioso, una breve giornata di ritiro e meditazione spirituale.

Ho ripensato a questo piccolo qui pro quo riflettendo sul titolo della «pillola» allamaniana di questo mese: «Siate forti, virili, energici», tutta roba da palestra, verrebbe da dire. Che il culto del fitness, del muscolo scolpito che tanto di moda va in questi giorni, sia proposto dal nostro Fondatore come modello per l’evangelizzatore? Certamente questo non è il caso … o forse sì, almeno in parte.


Oggi mi concedo qualche riga di questo articolo seduto nella cappella della nostra comunità di Yeokgok, una delle tante città satellite dell’hinterland di Seul, capitale della Corea del Sud. Sono le sei e mezza del mattino e attendo che arrivino le prime persone che parteciperanno alla messa delle 7. Già da almeno un quarto d’ora, come ogni giorno, alcune donne hanno iniziato a fare ginnastica aerobica nel giardinetto pubblico antistante. Si tratta di persone che nel giro di poche ore verranno risucchiate e triturate nel ritmo impressionante della macchina produttiva coreana, ma che non disdegnano la possibilità di perdere un po’ di tempo e un po’ di peso in un’attività fisica che permetterà loro di affrontare gli stress di un difficile quotidiano con energia e benessere. Tutte le mattine quelle donne sono lì, a fare palestra.

Quante volte mio fratello ha provato a convincermi della necessità di fare lo stesso, lui che da una vita fa e fa fare sport. La sua specialità è scalare rocce, cercando appigli infinitesimali, appoggiando i piedi sull’inesistente. Per far ciò c’è bisogno di energia, forza, ma soprattutto di grande disciplina, cosa che ti aiuta a contemplare il bello in ciò che altri vedono soltanto come inutile fatica, fino al punto da diventare un testimonial di questo benessere.

Tempo fa avevo l’occasione di passare sovente davanti a una di quelle palestre che mettono i muscoli dei propri clienti in vetrina. La miglior pubblicità la facevano proprio loro, impiegati, studenti e casalinghe, sbuffando come treni su cyclette ancorate saldamente al suolo, ma immaginariamente lanciate verso la volata finale della Parigi – Roubaix. La loro fatica e lo sforzo visibile diventavano un messaggio immediatamente percepibile: anche tu ce la puoi fare, entra, suda e starai bene.

Giuseppe Allamano sapeva che una missione esigente come quella che attendeva i suoi missionari poteva essere portata avanti soltanto grazie a un fisico capace di reggere le difficoltà di una vita spartana e a uno spirito forte, volitivo, intransigente. Soprattutto, era convinto che disporre di queste caratteristiche presupponeva una grande disciplina e tanto allenamento. Prima di lui, lo stesso san Paolo aveva detto qualcosa di simile parlando della sua missione, della volontà che lo animava a fare tutto per il Vangelo, e a farlo per tutti (cfr. 1Cor 9, 22-23). Anche lui prevedeva la necessità di un allenamento spietato: «Io dunque corro, ma non come chi è senza mèta; faccio il pugilato, ma non come chi batte l’aria, anzi tratto duramente il mio corpo e lo trascino in schiavitù perché non succeda che dopo avere predicato agli altri, venga io stesso squalificato» (1Cor 9, 26-27). Chiaramente, qui c’è in gioco ben di più che il semplice benessere fisico.

E noi, non potremmo dire la stessa cosa parlando della missione che ci attende oggi? Che cosa potrebbe voler significare «essere energici, forti e virili nell’apostolato» per noi, cristiani e missionari nell’Europa attuale? Il termine «virili» a noi suona male perché sembra escludere tutte le missionarie che operano per la causa e la diffusione del Vangelo. Useremo perciò il termine nella sua accezione più vasta che comprende varie sfumature, tutte utili a chiarire il concetto che l’Allamano vuole trasmetterci: forza, maturità, risolutezza, coraggio, determinazione. Del resto, l’Allamano voleva che le sue stesse missionarie potessero avere queste caratteristiche ben marcate in modo da poter affrontare il rigore della missione dei suoi tempi con sufficiente disinvoltura.

Un missionario con queste caratteristiche è dunque un missionario capace di compiere un lavoro adesso o di essere potenzialmente in grado di poterlo fare in futuro, consapevole e convinto di ciò in cui crede, perseverante nella sua missione e con la forza fisica e spirituale sufficiente per portarla avanti.

Detto così, assumere la pillola di questo mese parrebbe un lavoro per Superman, ma non lo è. La miglior prova di questo è che ci è prescritta dallo stesso Allamano, un uomo forte ed energico spiritualmente, ma fisicamente limitato al punto da dover rinunciare ai suoi sogni missionari di gioventù per dedicarsi a un’attività che, geograficamente parlando, non si sposterà mai molto dalla sua Torino.

Giuseppe Allamano scopre un modo suo di essere missionario, con un’inventiva e una capacità di visione davvero grandi. Crea e dirige l’avventura evangelizzatrice dei suoi missionari e delle sue missionarie a partire dal Santuario della Consolata. Una volta capito e individuato il fine della sua vocazione, energia, forza, determinazione e perseveranza vengono messi completamente al servizio della missione che si concretizzerà nella fondazione di due Istituti missionari e nell’invio di tanti altri preti, fratelli e suore.

Personalmente si riserva di frequentare altre frontiere, più nascoste e a volte più insidiose, quelle che si snodano nei meandri del cuore dell’uomo. Fisicamente, la missione non lo porta lontano ma spiritualmente arriva dappertutto. L’energia che gli occorre per portare avanti tutto il suo lavoro è sempre molta. Ci vuole allenamento, perseveranza, fatica; anche il lavoro spirituale ha bisogno di ore di palestra.

Una missione così caratterizzata impedisce a coloro che la vivono di presentarsi al mondo come persone accidiose, fiacche, indecise, deboli. L’Allamano rifuggiva le mezze volontà, il non essere né caldi né freddi. La passione riscalda e il Vangelo se servito tiepido e senza sale viene facilmente lasciato nel piatto. Nessuno vuole imporre la propria fede, ma proporla con appassionata e instancabile determinazione, questo sì.

Il missionario in Europa si affaccia a un contesto culturale liquido, e al contatto con esso il rischio di trasformarsi in poltiglia o fango è più che reale. Non è facile annunciare Gesù Cristo con la forza, l’energia e la determinazione di un San Paolo senza correre il rischio di essere banalizzato, cancellato o, ciò che succede in massima parte, totalmente ignorato. In una società come la nostra dove trionfa la legge del «mi piace», dove molti sposano il relativismo pensando che sia l’unica condizione per poter essere veramente liberi, essere Vangelo non è facile: annunciare un messaggio eterno e vedersi rimossi nello spazio di un click è sicuramente un’esperienza che non fa piacere. La rapidità che il mondo d’oggi richiede per competere è sicuramente un elemento da non sottovalutare. Sono rapide e frenetiche le relazioni, lo è la routine di una famiglia, lo è il tempo che porta un giovane dalla pubertà alla noia del déjà-vu, senza più riti di passaggio a segnare una crescita graduale.

È un mondo che non va demonizzato. In fondo è la realtà in cui tutti sguazziamo. È un mondo, anzi, che richiede energie per essere capito e studiato, fortezza per sostenerne l’impatto, determinazione e perseveranza per poter offrire una narrazione differente, un messaggio basato sulla solita storia di Gesù, così vecchia e allo stesso tempo così straordinariamente nuova.

Giuseppe Allamano voleva che i suoi si dedicassero senza risparmio allo studio dell’ambiente e della cultura. Quanto valga tutto ciò per la cultura Occidentale di oggi, così incredibilmente ricca e altrettanto incredibilmente sfuggente, è sotto gli occhi di tutti. La prima regola per entrare con discrezione e educazione in una cultura è quella di imparare la lingua delle persone che la vivono. Bisogna dedicarsi con energia a imparare i linguaggi della nostra società, quello dei giovani, della comunicazione, il nuovo linguaggio dei poveri.

Come «palestra» ed esercizio per temprarsi all’attività missionaria Giuseppe Allamano suggeriva anche il lavoro manuale, quello che allena alla fatica e alla costanza, insegnando nel contempo a sporcarsi le mani. Credo che questa dimensione del lavoro vada riscoperta e vissuta perché è alla base di quella straordinaria rete di gratuità e di volontariato che è stata capace di costruire solidarietà e chiesa per tanti anni e che si sta purtroppo perdendo.

Francesco, il nostro papa, si pone su questa linea energica e vigorosa. Nel magistero di Francesco si ritrovano con forza molti temi della missione di sempre, ripetuti con insistenza proprio per dare coraggio agli agenti dell’evangelizzazione: uomini e donne di ogni età, invitati a uscire con il sorriso sulle labbra dalle loro case per annunciare Gesù Cristo al mondo, con addosso il fuoco della missione, con la passione per Cristo e il suo Vangelo. Un’immagine, quella del «fuoco della missione» che appartiene al gergo di Giuseppe Allamano, tanto attuale ieri come oggi.

È interessante notare come nella prospettiva di Francesco perdano abbastanza di significato le categorie di prima o seconda evangelizzazione. L’importante è uscire e annunciare; la differenza la fa il soggetto che riceve l’annuncio. Ciò che è veramente importante è la qualità dell’apostolato, che deve essere fedele, pieno di zelo, coerente e convinto; in altre parole «forte, energico e virile», e per questo motivo bisognoso di tanta, tanta «palestra».

Ugo Pozzoli

 




Pillole «Allamano» 5: Trasformare l’ambiente, non solo gli uomini


L’unica pretesa, se possiamo definirla tale, di questa serie di «pillole» consiste nel raccogliere alcune suggestioni che provengono dal nostro Fondatore e provare ad applicarle alla vita di oggi. Il tutto nella convinzione che nella profonda spiritualità di Giuseppe Allamano esistano elementi capaci di trascendere il tempo in cui sono stati vissuti in prima persona da lui e di dire qualcosa di illuminante per la missione cui siamo chiamati oggi in Europa.

Il dinamismo di un carisma, ovvero quel dono di Grazia che Dio concede a qualcuno in particolare affinché possa essere messo al servizio della comunità, si manifesta soprattutto attraverso la sua incarnazione nel vissuto quotidiano. Un carisma, infatti, si evolve quando viene assunto e trasmesso attraverso scelte concrete che lo modellano sulla realtà di cui si è protagonisti. Così è stato per i primi missionari, che hanno ricevuto una formazione speciale direttamente dalla bocca di Giuseppe Allamano, e sono stati capaci di tradurla in azione. Così è stato anche per l’Allamano che si è venuto formando lui stesso, gradualmente, con ciò che i suoi missionari gli condividevano attraverso diari, lettere e dialoghi personali. Tutto questo materiale veniva da lui nuovamente offerto, arricchito dalle sue considerazioni. Oggi, questo stile improntato a una narrazione missionaria può essere utile all’impegno diretto di ogni cristiano nell’evangelizzazione dell’Europa, ad esempio per fare distinzioni, chiarificare termini, sintetizzare esperienze passate di evangelizzazione che possono diventare maestre di vita.

«Puntate alla trasformazione dell’ambiente» è una frase che potrebbe oggi apparire ambigua e generare qualche perplessità. Nel corso della storia, in molte occasioni, l’impatto del missionario con l’ambiente in cui è vissuto o ha operato è stato giudicato in modo negativo, poco rispettoso delle culture, delle persone, ecc. In altre parole, il missionario è stato accusato di aver tradito l’ambiente nel tentativo di trasformarlo. Inutile aprire una discussione che ci porterebbe a remare in mari troppo lontani e vasti, senza il tempo e la pretesa di affrontare in poche righe quelli che sono da sempre temi molto complessi di missionologia. È molto più utile narrare storie missionarie, documentando gli innumerevoli esempi di missione «ben fatta», ma anche le esperienze negative, nelle quali l’attenzione verso l’altro, i suoi reali bisogni e la sua cultura sono stati effettivamente calpestati da un’azione inopportuna. Non per niente, una delle pillole che Giuseppe Allamano ci obbligherà ad assumere prossimamente sarà proprio quella che invita a «fare bene» il bene, e a non fidarsi solamente delle buone intenzioni.

Nella teologia cristiana, la cura dell’ambiente non si discosta da quella della persona, piuttosto la comprende. Nella sua condizione di essere creato, l’uomo è chiamato a vivere in spirito «ecologico», dove il termine ecologia va letto nella sua accezione più ampia, ovvero come scienza che regola l’insieme di relazioni tra gli esseri viventi e l’ambiente in cui vivono, nonché la qualità di tali relazioni. Si parla qui di ecologia della vita quotidiana, o di ecologia sociale.

Una casa in ordine (il termine greco οίκος, da cui deriva la parola ecologia, significa appunto casa)1 consente all’essere umano di vivere bene, in armonia con ciò che lo circonda, mentre una casa disordinata genera caos, malessere e frustrazione. Bisogna saper «vestire» il proprio ambiente, sentirlo come una seconda pelle, qualcosa che ci appartiene, ci definisce e ci realizza rendendoci felici.

La pillola di questo mese suggerisce una cosa molto semplice, che non vuole assolutamente penalizzare l’essere umano: trasformare l’ambiente significa renderlo più vicino al modello che l’uomo si propone per essere veramente felice insieme ai suoi simili. Lo sfruttamento dell’ambiente, inteso come ambiente naturale, da parte di pochi crea obbligatoriamente una disarmonia nella vita di molti, e ciò, come direbbe il racconto della creazione nel libro della Genesi, non è «cosa buona». Trasformare l’ambiente significa quindi distruggere quei meccanismi e quelle strutture che impediscono all’uomo di essere ciò che è chiamato a essere. In molti casi queste sono strutture di peccato, costruite per guadagnare e schiavizzare, sfruttare e godere, alla faccia degli altri, soprattutto di coloro che non possono scegliere, non si possono difendere e per questa ragione restano sempre ai margini, esclusi.

Giuseppe Allamano aveva ben chiaro il fatto che l’opera di evangelizzazione è tanto più efficace quanto più è in grado di incidere sull’ambiente in cui le persone sono immerse e vivono. Le Conferenze di Murang’a, organizzate nel 1904 dai primi missionari della Consolata in Kenya per pianificare la vita missionaria e scegliere le linee metodologiche da seguire, sono il frutto del continuo dialogo fra l’Allamano e i suoi missionari, e sottolineano l’intima relazione fra la persona e l’ambiente. Il metodo di evangelizzazione che nasce a Murang’a si radica nel Dna della spiritualità trasmessa dall’Allamano, e diventa la base dello stile missionario della Consolata, esportato da allora in tutto il mondo. Il tratto distintivo è l’attenzione al quotidiano delle persone: la salute, l’educazione, il modo di produrre, gestire, mantenersi grazie a un’economia sostenibile. Questi aspetti, uniti alla valorizzazione di elementi come le relazioni familiari e comunitarie, il ruolo della donna, il rispetto della persona nei suoi diritti e nella sua cultura e religione, puntano a creare comunità armoniche, felici e aperte ad accogliere il messaggio del Vangelo.

Tale metodo fondato sulla promozione umana non solo viene approvato dall’Allamano, ma viene da lui difeso con forza da critiche estee: «In passato, alcuni si permisero di criticare il nostro metodo di evangelizzazione, quasi ci occupassimo troppo del materiale con pregiudizio del bene spirituale; si diceva che bisognava predicare e battezzare e non occuparsi di altro. Ma dopo la pubblicazione del decreto di approvazione e le conferenze di Monsignore e di padre Gabriele (Filippo Perlo e suo fratello Gabriele, ndr.) mutarono parere e molti di buona fede lo confessarono».

Giuseppe Allamano ha certamente in mente le visite ai villaggi che i missionari fanno con costanza e, con esse, le opere sociali che iniziano a svilupparsi come segno di promozione umana. Si tratta di interventi che vengono però fatti con un’attenzione speciale alla cultura, alle vere esigenze della gente. Può la missione della Chiesa in Europa nutrirsi di questa intuizione profonda dell’Allamano? Credo che alcuni aspetti vadano tenuti presenti e possano aiutarci a riflettere sul senso della missione nel vecchio continente.

La missione in Europa deve cambiare perché l’Europa stessa è cambiata. Il contesto missionario di oggi è totalmente differente da quello che l’Allamano conobbe a suo tempo. Aspetti sociali, demografici, culturali, religiosi si intersecano e si aggrovigliano rendendo ogni discernimento più difficile. Ma di fronte a questa complessità occorre fornire a noi stessi una risposta chiara in merito alla nostra identità. Come fecero i primi missionari della Consolata in Kenya, occorre definire chi siamo noi oggi.

Di questi tempi, si parla molto di nuova evangelizzazione per l’Occidente, orientata a incontrare quelle fasce della popolazione ormai scristianizzate per invogliarle a «ritornare». È altrettanto certo, però, che oggi l’Europa si sta sempre più trasformando in un contesto anche di «prima evangelizzazione».

Per poter trasformare l’ambiente dobbiamo conoscerlo, e la miglior forma di conoscenza è l’incontro diretto, il contatto personale che crea empatia, e genera apertura. Giuseppe Allamano era un uomo illuminato, pretendeva dai suoi studio e applicazione perché intuiva molto bene come il contesto andasse innanzitutto capito. Lo studio delle lingue, ad esempio, era conditio sine qua non per poter andare avanti nel cammino di formazione, al punto da diventare per il Fondatore una discriminante vocazionale. L’idea di fondo era chiara: senza il possesso della lingua, strumento principale di comunicazione, come si poteva entrare in un contatto profondo con una cultura? Oggi lo stesso si potrebbe dire dei mille linguaggi che si parlano in Europa, tra cui, non ultimi, quello digitale, della comunicazione, scientifico, ecc.

Trasformare l’ambiente significa proporre un paradigma alternativo, che sia significativo, offra risposte adeguate, rappresenti una sfida al modello dominante.

Infine, trasformare l’ambiente significa dare uno spirito nuovo. Per anni il nostro continente si è attaccato all’illusione che il benessere economico potesse sopperire all’assenza di senso in cui si dibattevano e dibattono tuttora molte esistenze. Oggi, però, quell’illusione si è rivelata per ciò che era, una bolla di sapone che, scoppiando, ha infranto il nostro sogno: siamo senza soldi, ma continuiamo a doverci gestire le nostre solitudini, i nostri piccoli o grandi deserti familiari, gli effetti delle nostre morali deboli, il tutto condito dalla frustrazione di vedere chiudere attività, progetti e speranze. Stiamo mandando in cassa integrazione la nostra idea di futuro: serve uno spirito nuovo, che dia un movimento fresco e originale al continente e motivi una profonda ecologia della vita quotidiana.

La missione può fare la sua parte; del resto, si fonda su una speranza che la trascende e che rappresenta l’oggetto del suo stesso annuncio.

Qualche altra «pillola» dell’Allamano potrà aiutarci a capire e vivere meglio questo momento di trasformazione.

Ugo Pozzoli

 

1) È interessante notare che in alcune cosmologie andine, come quella dei Nasa della Colombia, lo spazio dove vivono gli esseri viventi viene definito «casa piccola», in contrapposizione alla «casa grande», abitata dagli spiriti.

 




Pillole «Allamano» 4: la mansuetudine come strada di trasformazione


4. Una scelta controcorrente: la mansuetudine come strada di trasformazione


Al termine del Gran Premio di Australia, primo appuntamento stagionale con la Formula Uno, Beie Ecclestone, storico deus ex machina del circo a quattro ruote, ha dichiarato la sua profonda delusione per l’impatto dei nuovi motori turbo V6, insolitamente silenziosi rispetto ai modelli precedenti. «Ridateci il rumore», ha lamentato l’anziano patron, dando voce ai nostalgici del frastuono provocato dalle rombanti monoposto lanciate in pista a tutta velocità.

In effetti, risulta difficile pensare a una gara di automobilismo in sordina: è come se il rumore, a cui siamo troppo abituati, fosse parte della sua essenza. Il rombo del motore esprime la potenza della vettura, ne annuncia l’arrivo, ne segnala l’eccitante passaggio, ne saluta il veloce schizzare via.

Pare una metafora della nostra vita quotidiana, in cui il rumore è onnipresente: a volte inconsapevolmente prodotto, altre volte ricercato con determinazione e un velo di arroganza. Un leone ruggisce, non miagola, e una macchina da corsa deve fare rumore se vuole essere considerata come tale. Oggi il nostro quotidiano è popolato da ruggiti continui. Si ruggisce in politica con la stessa foga che una volta era riservata alle discussioni da bar del lunedì mattina. Si ruggisce nei talk show televisivi, dove si fa a gara a chi gonfia di più le vene del collo, a chi punta il dito più vicino alla faccia della controparte, a chi la spara più grossa, e sovente più grassa. La misura è diventata virtù rara, bisogna esagerare, pur di battere, annichilire l’avversario. La pretesa di aver ragione e di imporre tale convinzione con la forza ci porta a essere molto più irascibili di una volta, agli incroci come in famiglia, a scuola come sul lavoro.

Chi urla forse non crede nella forza delle proprie opinioni e sente di doverle imporre con un surplus di rumore, proprio come quei ragazzi che truccano la marmitta del loro motorino per farlo rimbombare, nemmeno avessero da dominare con il manubrio uno Space Shuttle. Va da sé che chi deve ricorrere agli effetti speciali per far valere le proprie ragioni è naturalmente più portato a esagerare, a far diventare il dialogo una pura e semplice serie di monologhi, a trasformare il conflitto in una battaglia (che si spera resti nella sfera del verbale e non trascenda nel fisico; anche se si sa bene che «da cosa nasce cosa» …). «Il meglio del meglio non è vincere cento battaglie su cento – scrive Sun Tzu, nel suo celebre saggio L’Arte della guerra – ma bensì sottomettere il nemico senza combattere». Nonostante la reverenda età (è stato scritto circa 2.500 anni fa) il testo di Sun Tzu continua ad attrarre frotte di ammiratori, soprattutto per le applicazioni che ne vengono date nel campo del management. Tuttavia, la gara a chi urla più forte e a chi mena più duro sembra confermarsi come consolidata prassi e avere molto più appeal nella vita di tutti i giorni.

È certo che la tradizione spirituale dell’Oriente, in particolare attraverso il taoismo (ai cui principi si ispira L’Arte della guerra), ha sviluppato tutta una serie di insegnamenti che tengono in grande considerazione la possibilità di un’altra via, fondata su concetti completamente diversi: piccolo, calmo, silenzioso; e su apparenti contraddizioni del tipo: ciò che è morbido vince ciò che è duro, ciò che è debole trionfa su ciò che è forte. Strano a dirsi, eppure le arti marziali si fondano proprio su queste idee, ed è meglio non contraddire al riguardo una cintura nera con un certo numero di Dan all’attivo.

Non dobbiamo però guardare troppo lontano per vedere ribaditi concetti analoghi. Dobbiamo bensì aguzzare lo sguardo e scrutare con attenzione, perché ciò che stiamo cercando non si manifesta nel rumore, nella gazzarra, nella luce accecante del glamour. Il mite va scovato negli anfratti anonimi e silenziosi del quotidiano. Se lo cercheremo in questo modo, lo troveremo impegnato a dare la sua personale interpretazione di «un mondo diverso», a dirci con la sua vita che guidare la propria esistenza per altri cammini non solo è possibile, ma pure gratificante.

Giuseppe Allamano fu certamente una persona di questo tipo, e la pillola che ci suggerisce di prendere questo mese ha origine nella sua disposizione d’animo, nello stile con cui scelse di vivere la propria vita: «Scegliete la mansuetudine come strada di trasformazione». Nonostante ci sia una leggera differenza di significato, mitezza e mansuetudine possono essere utilizzati come sinonimi. Di certo nel pensiero del Fondatore questo si verifica.

Chi suggerisce una distinzione interessante fra i due concetti è Norberto Bobbio, che alla mitezza ha dedicato un breve saggio in forma di elogio. Riconoscendo che la distinzione è problematica e forse addirittura eccessiva, Bobbio sceglie di parlare nel suo saggio di mitezza e non di mansuetudine in quanto vede nella prima una maggior profondità di significato rispetto alla seconda. Il termine mansueto è detto in primis degli animali, e solo in senso derivato è applicato agli uomini, mentre mitigare si rifà prevalentemente ad atti, atteggiamenti, azioni o passioni umane. Inoltre, «la mansuetudine – scriveva il filosofo torinese – è una disposizione dell’animo dell’individuo che può essere apprezzata come virtù indipendentemente dal rapporto con gli altri. Il mansueto è l’uomo calmo, tranquillo, che non si adonta per un nonnulla, che vive e lascia vivere, e non reagisce alla cattiveria gratuita, per consapevole accettazione del male quotidiano, non per debolezza. La mitezza, invece, è una disposizione dell’animo umano che rifulge solo alla presenza dell’altro: il mite è l’uomo di cui l’altro ha bisogno per vincere il male dentro di sé» (cfr. Norberto Bobbio, Elogio della mitezza e altri scritti morali, Il Saggiatore, Milano 2014, pag. 34). Sembrerebbe di leggere in Bobbio un maggior apprezzamento della mitezza intesa come perfezione dell’atteggiamento mansueto maturata nella relazione con l’altro, nella dimensione sociale e politica dell’essere umano.

Per Giuseppe Allamano questa sottile distinzione non esiste, al punto che usa i due determini indifferentemente. Per lui, il discepolo/missionario deve essere mansueto, come lo è la pecora con il pastore, ma deve vivere la sua mansuetudine al servizio attivo del prossimo, in particolare di colui che più necessita di essere consolato. L’esempio da seguire non può essere che quello di Cristo, uomo mite per eccellenza. È Gesù stesso a parlare di sé come di una persona mite: «Venite a me voi tutti, affaticati e oppressi (…) perché sono mite e umile di cuore» (Mt 11,29). La mitezza deve quindi diventare caratteristica anche per il discepolo di Cristo che in virtù di ciò è chiamato beato e fatto erede della terra.

Nella mitezza di Cristo sono condensati i due pilastri teologici della Buona Novella: il Padre e il Regno. I due elementi vanno insieme e costituiscono le basi anche per l’annuncio cristiano di oggi: l’essere «ammansito» da Dio non rende la persona buona per sé, ma la rende buona «per gli altri», esattamente come, da laico, suggeriva Norberto Bobbio. L’uomo mansueto, o mite, è dunque tutto il contrario di come a volte può essere considerato: ovvero, come una persona passiva, succube, indolente, timida, indecisa, «senza spina dorsale», senza niente da dire, senza energie, né risorse. Al contrario, il mite affida al lavoro silenzioso, benevolente e perseverante tutto l’umano sforzo rivolto alla costruzione del Regno. Il resto è una fiducia sconfinata nella Provvidenza di Dio.

 

Attraverso l’immagine della mitezza, la pillola del mese ci dice che non serve affannarsi, tantomeno urlare o litigare. Non serve neppure affermare con forza le proprie idee nella convinzione che siano le uniche capaci di cambiare le sorti del mondo. Pensiamo a quanto la Chiesa stessa abbia bisogno oggi di tornare a riflettere su questo valore, su questa virtù morale capace di costruire veri percorsi di pace. Il nuovo papato ci obbliga a guardarci dentro, a cambiare l’atteggiamento da maestro in quello di discepolo e testimone. Avremo qualcosa da insegnare quando saremo capaci di ascoltare di più e di imparare da ciò che ascoltiamo; sapremo essere guide illuminate, nel momento in cui saremo capaci di metterci al passo dell’umanità, per comprenderne il ritmo di marcia.

Ne «La Vita Spirituale», citando San Basilio, Giuseppe Allamano definisce la mitezza come la più importante virtù per chi ha a che fare con il prossimo. Come abbiamo già sottolineato, sicuramente questa affermazione nasce dall’esperienza personale, nel contatto con la gente maturato nei lunghi anni passati al Santuario della Consolata, e diventa insegnamento anche per i missionari che si trovano in Africa: «Mi sta a cuore la mansuetudine – sono le sue parole – (…) Quando si tratta di salvare un’anima si pensi che una parola secca basta a impedirne la conversione, forse per sempre. Esaminiamo dunque noi stessi per vedere se abbiamo questa mansuetudine, se l’abbiamo sempre, se l’abbiamo con tutti» (Cfr. Giuseppe Allamano, VS, pp. 464-470).

Scegliendo la mitezza, come Giuseppe Allamano ci insegna attraverso la sua stessa vita, i suoi missionari e le sue missionarie sapranno imboccare la strada della trasformazione. Se un giorno grazie a questa virtù saremo in grado di ereditare la terra, è altresì vero che il mondo che vogliamo possiamo iniziare a costruirlo poco per volta. Oggi più che mai siamo alla ricerca di una nuova narrativa che racconti storie di pace e benessere, perché è solo e soltanto su queste prerogative che vorremmo costruire la nostra esistenza di domani.

Ugo Pozzoli

 




Pillole «Allamano» 3: una religione che rende felici qui  


3. Amate una religione che vi offre le promesse di un’altra vita e vi rende più felici sulla terra. Se una pillola non aiuta a star bene, perché prenderla? Questo semplice e lapalissiano principio vale anche per le pillole dell’Allamano: prima di somministrarle bisogna essere perlomeno convinti del loro effetto benefico. La bontà di un prodotto va certificata con tanto di risultati. La pillola di questo mese parla di felicità, il fine ultimo del cammino esistenziale di ognuno. Tutti gli uomini desiderano la felicità e si sforzano di raggiungerla, anche se molte volte danno all’oggetto della loro ricerca un nome diverso. Esiste davvero una pillola che aiuti a essere felici, visto e considerato che molte persone non si possono, oggi, dichiarare certamente tali?


Colui che crede dovrebbe avere una risposta pronta da offrire, una soluzione in grado di soddisfarlo nel suo percorso di ricerca e pronta per essere condivisa con tutti: il cammino di fede fa dire al credente che la meta agognata non può essere altri che Dio, che è lui la vera felicità. Il desiderio di Dio, per il cristiano, è scolpito a chiare lettere nel cuore dell’uomo, e Dio, da par suo, non smette un secondo di attirare a sé la sua creatura, proprio perché la vuole felice.

Chiaramente ci si trova di fronte a una difficoltà: se Dio è la felicità e il suo profondo desiderio è che tutti gli uomini siano felici, perché, di fatto, la cosa non si verifica? In effetti, il cristiano è convinto che non sia sufficiente il puro e semplice sforzo dell’uomo per raggiungere Dio-felicità: la felicità è grazia, dono. Tuttavia, per ricevere tale regalo, l’uomo deve collaborare attraverso delle scelte che gli permettano di aprirsi alla grazia, dono gratuito di Dio. L’azione umana non è l’unica né la principale causa del conseguimento della felicità, ma è tuttavia indispensabile proprio perché il dono di Dio possa essere liberamente accolto. Questa, in poche parole, è la teoria; in pratica le cose non sono così semplici. Oggi, in effetti, il mondo Occidentale è abbastanza scettico rispetto a quanto passa la Chiesa in materia. In uno dei suoi ultimi saggi, il filosofo Umberto Galimberti analizza il fenomeno della «perdita del sacro» che colpisce la cristianità in generale, rendendo il cristianesimo, agli occhi di coloro ai quali si rivolge, una religione dal cielo «vuoto», che rivela il nulla. La de-sacralizzazione del mondo ha fatto perdere all’uomo la fiducia nella possibilità di un Dio trascendente, totalmente altro. Se Dio è felicità, secondo Galimberti, da questa felicità il mondo si è separato, ne ha decretato la morte, l’ha rescissa dalla propria storia.

Dire che la felicità risiede in Dio a un interlocutore che da Dio si è separato potrebbe significare iniziare un dialogo tra sordi che non porta a nulla. Eppure, se ci pensiamo con attenzione, molte delle catechesi e delle omelie che ascoltiamo, o dei contenuti religiosi che portiamo nelle nostre discussioni di tutti i giorni sono impostati su questo postulato, calato dall’alto come una verità che è inoppugnabile per chi crede, ma che lascia invece le altre persone scettiche o, nella maggior parte dei casi, completamente indifferenti.

La pillola dell’Allamano di questo mese, ci aiuta ad affrontare il tema da un altro punto di partenza, sicuramente più evangelico, con un approccio pedagogico «dal basso», che tiene conto delle persone e non solamente delle nostre convinzioni personali. Curiosamente, la formulazione non è propriamente «farina del suo sacco», ma ha bensì un’origine addirittura papale.

La frase contenuta nella pillola di oggi, è stata scritta da Giuseppe Allamano in una lettera indirizzata ai missionari del Kenya, datata 2 ottobre 1910. In quella lettera l’Allamano ricordava che se desideravano conseguire frutti dovevano far sì che il loro lavoro fosse: perseverante, concorde e illuminato. I primi due aggettivi non necessitano qui di grande approfondimento, mentre è proprio a proposito dell’ultima caratteristica che il fondatore ci offre la sua pillola.

L’accento è posto sul metodo missionario: l’Allamano vuole che esso parta da un contatto ravvicinato con la gente, con i suoi bisogni e i suoi problemi. Tale metodo aveva avuto la necessaria consacrazione con il Decreto di approvazione da parte di Propaganda Fide e con le parole benedicenti di papa Pio X, riportate dall’Allamano nella lettera citata. Con le sue parole, lodando e approvando il metodo missionario dell’Istituto, il pontefice esprimeva il seguente concetto: «Bisogna degli indigeni fae tanti uomini laboriosi per poterli fare cristiani: mostrare loro i benefici della civiltà per tirarli all’amore della fede: ameranno una religione che oltre le promesse d’altra vita, li rende più felici su questa terra». Più felici su questa terra: prima di fare il cristiano occorre fare l’uomo, un uomo «laborioso», capace di apprezzare i «benefici della civiltà» ed essere quindi anche attratto all’amore della fede.

Un approccio di questo tipo impegna oggi il cristiano a due livelli. Il primo è quello della testimonianza. I cristiani sono chiamati a essere testimoni della loro fede come possibilità per vivere una vita felice. Come scrive Enzo Bianchi, priore del monastero di Bose, nel suo saggio Le vie della Felicità. Gesù e le beatitudini (Rizzoli, Milano 2010): «Noi cristiani dovremmo saper mostrare a tutti gli uomini, umilmente ma risolutamente, che la vita cristiana non solo è buona, segnata cioè dai tratti della bontà e dell’amore, ma è anche bella e beata, è via di bellezza e di beatitudine, di felicità. Chiediamocelo con onestà: il cristianesimo testimonia oggi la possibilità di una vita felice? Noi cristiani ci comportiamo come persone felici oppure sembriamo quelli che, proprio a causa della fede, portano fardelli che li schiacciano e vivono sottomessi a un giogo pesante e oppressivo, non a quello dolce e leggero di Gesù Cristo (cfr. Mt 11,30)?».

Chi vive nel concreto la logica delle beatitudini assume in sé uno stile di vita, copiato sulla matrice dello stile di vita incarnato da Cristo. Siamo, certamente, al limite del paradosso cristiano. La sequela di Cristo è esigente, significa passare per la porta stretta e abbracciare la croce che può assumere, nel concreto, diversi aspetti: servizio, sofferenza, impegno radicale e senza compromessi, persino martirio. Ciononostante, le beatitudini, la Magna Charta del cristiano, sono, in sé, una vera e propria chiamata alla felicità.

In una società come la nostra dove l’indifferenza e il relativismo esprimono una chiara mancanza di senso nei percorsi esistenziali delle persone, le beatitudini sono un aiuto a vivere con consapevolezza la propria vita, nella ricerca di un perché capace di illuminare di senso il nostro agire, vivere e morire, e, una volta realizzato, portare quindi alla felicità.

Il secondo livello consiste invece nello sforzo di agevolare coloro che incontrano più difficoltà a essere felici. È il livello della consolazione, del mettersi, cioè, a fianco e camminare con coloro che sempre rimangono ai margini, attardati a causa del peso di esistenze faticose. Come fare a pronunciare la parole felicità di fronte a qualcuno che vive una «vita di scarto» o si sente in cuor suo di sprecare la propria esistenza? Eppure sono proprio queste le persone che esigono un inizio di felicità già su questa terra. Lo esige il senso di giustizia che sta alla base di una vita serena, pacifica e, di conseguenza, felice. Il povero che non riesce a uscire dal ciclo di miseria in cui è entrato, il malato che si scontra con l’impossibilità di curare la sua infermità o di lenire la sofferenza, l’afflitto che non riesce a sciogliere il nodo che gli attanaglia il cuore, non possono accontentarsi, loro e gli altri come loro, di ripetersi «piove sempre sul bagnato».

La Scrittura ci dice che piove sui giusti e sugli ingiusti e nel rispetto di questa verità non può mancare l’impegno del cristiano a trovare il modo di far sentire felice, già in questo mondo, le persone che soffrono.

La pillola non può essere un palliativo. Il Vangelo non serve come placebo. Papa Francesco, sin dall’inizio del suo pontificato è stato molto in sintonia con questo approccio e ha pubblicato la sua prima Esortazione apostolica intitolandola «Il Vangelo della gioia». Il cristiano deve essere un uomo gioioso, felice della sua scelta, della sua vocazione e del sì detto senza ripensamenti al Signore. Tale gioia, sperimentata in questa vita e testimoniata nel quotidiano, diventerà motivo di speranza e gioia per gli altri, aprendo finestre nelle chiuse camere di dolore e dando scampoli di vita felice a chi invece aveva ormai perso la speranza di ritrovare una ragione per andare avanti.

Altre vie non sono possibili se vogliamo che la felicità fragile ed episodica che possiamo sperimentare in questa vita porti alla felicità solida e duratura promessaci da Dio come premio per il «sì» da noi dato al suo programma di salvezza. Per esempio, l’illusione occidentale di essere felici grazie al benessere, alla possibilità di pagare occasionali momenti di beatitudine sta venendo meno giorno dopo giorno. La crisi che l’Europa (e non solo) sta attraversando mette a dura prova la pretesa di poter eternamente difendere a costo zero l’agio e il benessere costruiti in questi anni.

Il consiglio spirituale che l’Allamano ci propone per questo mese ci invita invece a scoprire, con le persone che incontriamo, che la felicità si costruisce insieme, giorno dopo giorno, nella buona e nella cattiva sorte, facendo uscire dalla nebbia un raggio di sole alla volta, fino a ottenere la previsione di una giornata finalmente serena.

Ugo Pozzoli

 




Pillole «Allamano» 2: Elevatevi sopra le idee ristrette dell’ambiente


Stacco dalla parete e riprendo in mano, per sfogliarlo con calma, il calendario che quest’anno la rivista MC ha dedicato al beato Allamano. Riguardo le immagini del volto del Fondatore, vecchie fotografie che i moderni strumenti della tecnica hanno saputo ripulire dalle inevitabili tracce del tempo. Vi è ritratto Giuseppe Allamano da giovane, coi chierici, con i primi missionari partenti per l’Africa, poi uomo maturo e, infine, anziano. I dodici mesi dell’anno ripercorrono la storia di una vita sacerdotale. Io la contemplo filtrandola attraverso i suoi sguardi, tentando di mettere a fuoco il volto buono e paterno che tante testimonianze di chi l’ha conosciuto riportano con insistente piacere.

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A ben guardare, però, scorgo nelle immagini anche il piglio risoluto, deciso, di colui che è buono con sincerità, non per debolezza o convenienza. Il volto del Beato Allamano non ha nulla di debole e comunica serenità e determinazione. Non so se altri lettori siano stati attratti, sfogliando il calendario, da questa caratteristica del suo viso. Forse sono io che ci ricamo sopra eccessivamente, lasciandomi guidare dalla mia sensibilità. Può darsi, non lo posso escludere. Mi sembra in ogni caso che lo sguardo del fondatore lasci intravedere qualcosa di lui, del suo modo di essere e di intendere la vita. Gli occhi sono lo specchio dell’anima, recita un antico adagio.

La pillola di questo mese non fa riferimento a una frase di Giuseppe Allamano, semmai a un atteggiamento da lui tenuto nei confronti della vita e della realtà nelle quali si è trovato a operare. A una certa fragilità fisica, cosa che gli impedì a suo tempo di essere missionario sul campo, e alle difficoltà di ogni tipo incontrate nel suo lungo ministero sacerdotale, l’Allamano opponeva una volontà di ferro, alimentata da una fiducia incrollabile nella provvidenza divina e nella presenza consolatrice e matea della Madonna. I suoi occhi trasmettono tenerezza, ma allo stesso tempo acutezza e determinazione.

Se le fotografie che lo ritraggono, nel loro complesso ne collocano la figura in un tempo e in un contesto preciso, lo sguardo sembra bucare le immagini e proiettarsi al di là di esse, verso spazi che trascendono gli ambienti del torinese da cui, salvo per pochi ed eccezionali viaggi, l’Allamano non si è mai mosso. I suoi sono occhi che viaggiano, perché seguono le rotte di un cuore costantemente orientato verso luoghi da consolare, lungo tragitti mai scontati.

Giuseppe Allamano ha lo sguardo profondo, vive la sua fede e il suo ministero in un’obbedienza matura e responsabile, rispettando la tradizione e l’autorità in un modo dinamico e creativo, senza mai sottomettersi alla legge del «si è sempre fatto così». Sono tantissimi gli episodi in cui prende posizione e con «delicata fermezza» va avanti per la sua strada, pronto, se lo vede necessario, a dare uno scossone allo status quo. Oggi, questo sguardo si rivolge a noi, chiamati a vivere la missione in Europa. Mi sembra di scorgere la presenza del volto dell’Allamano mentre leggo il messaggio di papa Francesco per la Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato, celebrata il 19 gennaio scorso. «La Chiesa, rispondendo al mandato di Cristo “Andate e fate discepoli tutti i popoli”, è chiamata ad essere il Popolo di Dio che abbraccia tutti i popoli, e porta a tutti i popoli l’Annuncio del Vangelo, poiché nel volto di ogni persona è impresso il volto di Cristo». Che bella immagine ampia e inclusiva della missione. Missione che oggi ci spinge non soltanto ad andare, ma anche a ricevere e a essere accoglienti. Il volto di Giuseppe Allamano riflette il volto di Cristo e il suo sguardo tradisce il desiderio di farlo emergere con forza dal volto di chi incontra, vicino o lontano… anche del migrante o del rifugiato.

Mi sembra di poter dire che papa Francesco sarebbe piaciuto al nostro fondatore… e viceversa. Se si fossero incontrati si sarebbero probabilmente scambiati due battute in piemontese, giusto per fare conoscenza, e poi avrebbero cercato di capire come far brillare il volto di Cristo impresso in ogni persona, partendo dalla realtà concreta in cui essa vive, ma senza lasciarsi imbrigliare. I primi mesi del pontificato di Francesco sono una testimonianza viva della bontà della pillola allamaniana di questo mese, prescritta con continuità in quasi tutti i suoi interventi, nel tentativo di plasmare una cristianità matura e responsabile, un popolo di Dio che cammina in uscita. Scrive papa Francesco nella sua recente esortazione apostolica Evangelii Gaudium: «La Chiesa “in uscita” è la comunità di discepoli missionari che prendono l’iniziativa, che si coinvolgono, che accompagnano, che fruttificano e festeggiano […]. La comunità evangelizzatrice sperimenta che il Signore ha preso l’iniziativa, l’ha preceduta nell’amore (cfr. 1 Gv 4,10), e per questo essa sa fare il primo passo, sa prendere l’iniziativa senza paura, andare incontro, cercare i lontani e arrivare agli incroci delle strade per invitare gli esclusi» (Francesco, EG n. 24).

Prendere l’iniziativa senza paura può voler dire, a volte, scrollarsi di dosso l’opinione dominante. La notizia, per essere tale, è novità, e la buona notizia non sfugge a questa regola. Ecco perché, rivolgendosi ai giovani universitari la prima domenica di Avvento, papa Francesco ha ricordato loro l’impegno di essere testimoni coraggiosi di una diversa narrativa del mondo: «Se non vi lascerete condizionare dall’opinione dominante, ma rimarrete fedeli ai principi etici e religiosi cristiani, troverete il coraggio di andare anche contro corrente». Concetto chiaro, questo, anche nel pensiero spirituale di Giuseppe Allamano. L’idea dominante diventa un’idea ristretta, anche quando si certifica come figlia della globalizzazione. È il grande paradosso in cui l’umanità si dibatte e che trova i suoi accenti più acuti nella nostra cara Europa. In un mondo in cui sembra valere tutto e il contrario di tutto, in cui a livello di valori si sopravvive bene grazie al più smaccato relativismo, in realtà campa bene solo e soltanto chi si adegua a una cultura che privilegia ciò che è esteriore, facilmente e immediatamente conseguibile, veloce, apparente, provvisorio. Le logiche che, al contrario, propongono narrative differenti, impostate sul locale, sul partecipativo, sul lento ma sicuro procedere, sulla libertà di poter scegliere, sul discernimento comunitario vengono ostacolate, cassate, a volte irrise e perseguitate.

La missione è ciò che aiuta il cristiano ad alzare la testa, a elevarsi sopra le mentalità ristrette e a esprimere qualcosa di inedito. La missione nasce dalla novità del Vangelo e lo porta con sé per costruire un mondo nuovo, migliore. La missione non sopporta idee dominanti perché vive sotto il dominio dello Spirito di Dio. La missione offre volti nuovi alla nostra teologia, che cessa di ristagnare quando si concede al confronto con l’altro. La missione rinnova e rafforza la fede, attraverso il dono della propria esperienza di Cristo a chi ancora non ne ha mai sentito parlare o l’ha completamente smarrito dai propri orizzonti. La missione vivifica la nostra spiritualità, perché la mette a confronto con la realtà, per non farla viaggiare a quote siderali mentre la gente cammina a lato delle strade. Quale missione, allora, in questa Europa che cambia? Quale progetto missionario per orientare la nostra azione? Quale pista da percorrere ci attende? Il dove, il come e il quando lo diranno il contesto e il discernimento che ciascuno farà alla luce della Parola di Dio e del proprio carisma. Questo discernimento sfida particolarmente proprio noi missionari, chiamati a trovare un modo significativo e attuale di essere autentici religiosi e testimoni di evangelizzazione. Ci troviamo di fronte a domande scomode che ci obbligano a una riflessione che potrà forse chiederci precise scelte di vita. Quali sono le idee ristrette che oggi condizionano i nostri ambienti e costringono noi, le nostre comunità, le nostre famiglie a vivere «imbrigliati», incapaci di essere persone «in uscita»? Quali sono queste idee ristrette che impediscono di incontrarsi con gli altri con un messaggio vero, che dica qualcosa, che abbia un minimo di senso, che susciti qualche domanda e, magari, apra uno spiraglio verso il futuro e la salvezza promessa? Cosa dobbiamo fare per elevarci al di sopra di esse, per propoe di alternative e liberanti? L’uomo che riuscì a fondare due Istituti missionari, pur restando rettore del Santuario a lui affidato e senza mai mettere piede in missione, avrebbe senz’altro qualcosa da dire. Merita ancora ritornare al calendario e provare a vedere se riusciamo a farci ispirare ancora un po’ dallo sguardo di Giuseppe Allamano. Se riuscissimo poi a vedere dove punta, noteremmo come quegli occhi dimorino a lungo sul quadro della Madonna Consolata e sul tabernacolo. Non ci conviene precorrere i tempi; queste sono altre pillole che Giuseppe Allamano ci consiglierà di prendere e, ben lo sappiamo, ogni cura deve rispettare la giusta posologia.

Ugo Pozzoli