La santità che scuote


Il 20 ottobre scorso Giuseppe Allamano è diventato ufficialmente santo. Pellegrini da 35 paesi hanno raggiunto Roma per l’evento. Missionarie e missionari della Consolata di tante nazionalità erano presenti. È stata una grande festa di famiglia. Reportage.

Roma, 19 ottobre. È già buio quando fuori dalla Chiesa Nuova di Santa Maria in Vallicella, a pochi passi da piazza Navona, incontriamo un brulicare di gente. A guardare bene, e ad ascoltare la cacofonia di voci, ci sono persone da diverse parti del mondo. Si abbracciano, parlano, cercano qualcuno di conosciuto, prima di entrare alla veglia che inizierà tra poco. È il popolo di Giuseppe Allamano, che si è riunito da 35 paesi di quattro continenti, perché il 20 ottobre, il sacerdote torinese fondatore dei missionari e delle missionarie della Consolata, sarà canonizzato da papa Francesco, ovvero, diventerà ufficialmente santo.

Intanto la chiesa si riempie, è stracolma e molti sono in piedi o seduti per terra nell’area davanti all’altare. I cori Tatanzambe di Nervesa (Tv) e Massawe di Bevera (Lc), uniti per l’occasione, suonano e cantano in kiswahili.

Verso le 20 suor Alessandra Pulina, direttrice di Andare alle genti, prende la parola per spiegare il programma della serata. Con lei, condurrà padre Edwin Osaleh, missionario in Marocco.

 

La veglia abbia inizio

Il benvenuto è di suor Lucia Bortolomasi, madre generale delle missionarie della Consolata, anche a nome di padre James Lengarin, superiore generale dei missionari. Di colpo la chiassosa e variopinta assembela si zittisce. «Che gioia indescrivibile, quanti sentimenti abitano il nostro cuore. […]

Alcuni di noi hanno varcato oceani, attraversato continenti, viaggiato giorni per arrivare qui. […] è necessario fermarci tutti insieme a preparare il cuore. per sintonizzarci a quanto sta accadendo sotto i nostri occhi e coglierne il senso più profondo».

Suor Lucia ricorda la beatificazione di Allamano, nel 1990 e riflette sul significato di essere riconosciuto santo: «Questo riconoscimento ufficiale varca i confini della nostra famiglia, diventando un modello rivolto ai fedeli della Chiesa tutta. Da domani Allamano è un po’ meno nostro e sempre più di tutti».

Suor Lucia richiama la santità che il fondatore chiedeva ai suoi: «Non miracoli, ma fare tutto bene. Farci santi nella via ordinaria» e ricorda i tanti missionari e missionarie che sono rimasti ai loro posti, in missione, e quelli che non sono potuti venire perché impediti dall’età o dalla malattia. Suor Lucia fa, infine, un richiamo alla responsabilità: «siamo tutti chiamati a operare con sempre maggiore dedizione».

Dopo di lei, parla monsignor Giacomo Martinacci, rettore del santuario della Consolata doi Torino, che ricorda i 47 anni a guida di Giuseppe Allamano.

Per ogni intervento lei due guide della veglia, fanno sintesi in inglese, spagnolo, portoghese.

Raccontare il miracolo

Viene il momento di parlare del miracolo che ha portato alla canonizzazione di Giuseppe Allamano. La guarigione di Sorino Yanomami, nella missione di Catrimani, a Roraima, in Brasile, nel 1996. Sorino, a caccia nella foresta, era stato aggredito da un giaguaro, che aveva causato gravi ferite alla scatola cranica.

La dottoressa Roberta Barbero ha seguito dal punto di vista medico la vicenda. Racconta come abbia vissuto il contrasto tra il ruolo di medico, che ha bisogno di osservare, misurare, e il suo essere donna di fede, alla quale bastano le testimonianze.

Racconta, ad esempio, come a volte si sia sentita isolata dalla comunità scientifica, quando raccontava il caso, perché lo scienziato fa fatica ad andare oltre a quello che si può misurare: «Le guarigioni inspiegabili avvengono, e l’atteggiamento della medicina è quasi come quello di chi subisce un affronto». Ma «la fede può fare la differenza. Questa guarigione ha cambiato il mio modo di vedere le cose, e anche di testimoniare la mia fede all’interno di un ambiente che non sempre permette questa apertura».

Si alza poi suor Felicita Muthoni Nyaga, la testimone più diretta dell’evento occorso nel febbraio 1996 a Roraima. Prende il microfono e va verso la gente. Tra le centinaia di persone, adesso, cala un silenzio assoluto: sono tutti con il fiato sospeso per ascoltare la sua storia (vedi dossier MC ottobre 2024). Quando conclude dicendo che Sorino «è un uomo che non è registrato all’anagrafe, né nei nostri registri di battesimo, ma c’è, Dio lo ha visto», scoppia un lungo applauso. L’atmosfera è diventata caldissima.

Parlano ancora i vescovi di Roraima: quello attuale, monsignor Evaristo Spleger, e alcuni predecessori e vicari, monsignor Roche Paloschi, e monsignor Raimundo Vanthay Neto.

Gli interventi sono intervallati da canti del coro in diverse lingue.

Testimonianze

Dopo un breve saluto di monsignor Alessandro Giraudo, vescovo ausiliario dell’arcidiocesi di Torino, si susseguono alcune testimonianze di laici e laiche.

Toccante è quella di Nadia, ragazza marocchina musulmana di Oujda, dove è operativo il centro per migranti coordinato da padre Edwin.

Una preghiera del cardinale Giorgio Marengo conclude la serata.

Sono le dieci passate, i pellegrini chiassosi defluiscono lentamente dalla Chiesa Nuova. Si vede la stanchezza di chi è arrivato da lontano, ma si sente l’entusiasmo, e molta attesa per quello che avverrà domani.

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Piazza san Pietro, 20 ottobre

È festa grande

Fino dalle 7 del mattino, a giorno non ancora fatto, lunghe code di pellegrini aspettano ai controlli della polizia necessari per entrare nella piazza.

Nella coda, tra la gente che si stropiccia gli occhi, si sentono decine di lingue: portoghese, spagnolo, francese, inglese, italiano, kiswahili. Ma c’è anche l’Asia, con la Corea, la Mongolia e Taiwan.

Su alcune asticelle viene issata l’immagine di Giuseppe Allamano, nella sua versione colorata o «pop art», che resta un riferimento tra la marea di teste.

Oggi saranno, infatti, «canonizzati» anche Elena Guerra, Marie-Léonie Paradis e gli undici martiri di Damasco (Manuel Ruiz e compagni). Ci si distingue anche per il foulard, bianco ma colorato con le 35 bandiere dei paesi dove lavorano i missionari e le missionarie della Consolata, e con il volto di Allamano e l’immagine della Consolata. L’organizzazione ha anche previsto per tutti un badge verde con il logo studiato specificamente per questo giorno.

Entriamo tra i primi, dopo il controllo con il metal detector. La platea davanti alla scalinata di San Pietro è ancora da riempire.

I pellegrini sono assonnati, ma nei volti si nota la gioia e l’eccitazione. Molti si salutano, si abbracciano. È spesso un rivedersi dopo anni, talvolta un incontrarsi per la prima volta, entrando subito in sintonia.

Intanto si è fatto giorno. È nuvoloso, ma non piove.

È un momento di attesa, e si approfitta per farsi foto, video, scambiarsi un contatto o un sorriso. Vediamo una folta delegazione dall’Uganda, poi la bandiera del Kenya (primo paese di missione dei Missionari della Consolata). Il Congo Rdc è presente, così come la Costa d’Avorio. A un certo punto compare la bandiera del Marocco: è il gruppo di Oujda, del quale fanno parte alcune migranti subsahariane.

Vediamo il gruppo dei laici della Consolata del Portogallo, con le magliette del loro 25° anno di esistenza. E poi tantissime suore, di svariate età e nazionalità. Così metà della piazza, quella con i posti a sedere, si è riempita.

Intanto, alla sinistra dell’altare si siedono cardinali, vescovi e sacerdoti. Alla destra, invece, le autorità e i diplomatici.

Francesco accolto dai suoi

Dopo il rosario in latino, inizia uno scampanio, poi il coro ufficiale intona alcuni canti diffuse con i potenti altoparlanti. L’attesa si fa più intensa tra le migliaia di persone venute da tutto il pianeta, spaccato di umanità.

Alle 10,20, quasi all’improvviso, arriva papa Francesco sulla sua carrozzina e si siede sulla poltrona papale. Tenue, quasi sotto voce, sul lato destro della platea, un gruppo di pellegrini intona: «Papa Francesco, papa Francesco». Altri iniziano, è come se il coro si spostasse nello spazio antistante alla basilica, e intanto diventa «papa Francisco», per culminare con un grande applauso. Nel frattempo è comparso un pallido sole.

Scorgiamo evidente, in prima fila nel gruppo delle autorità, il presidente Sergio Mattarella.

La celebrazione ha inizio. Vengono lette le brevi biografie dei nuovi santi. Quando è nominato Giuseppe Allamano, parte un applauso dalla piazza.

«Vince non chi domina, ma chi serve per amore», dice il Papa nella sua omelia, a commento del Vangelo del giorno (Mc 10,35-45).

«Gesù svela pensieri nel nostro cuore smascherando, talvolta, i nostri desideri di vanità e di potere». E poi ci insegna lo «stile di Dio», ovvero il «servizio». Le parole magiche per il Papa sono: «Vicinanza, compassione e tenerezza, applicate all’azione di servire. […] A questo dobbiamo anelare».

Uno stile che nasce dall’amore e non ha una scadenza o un limite.

«I nuovi santi hanno vissuto questo stile di Gesù: il servizio», continua il Papa.

Allamano e gli Yanomami

All’Angelus il pontefice mette l’accento sui popoli indigeni: «La testimonianza di san Giuseppe Allamano ci ricorda la necessaria attenzione verso le popolazioni più fragili e vulnerabili. Penso in particolare al popolo Yanomami, nella foresta amazzonica brasiliana, tra i cui membri è avvenuto proprio il miracolo legato alla sua canonizzazione. Faccio appello alle autorità politiche e civili affinché assicurino la protezione di questi popoli e dei loro diritti fondamentali e contro ogni forma di sfruttamento della loro dignità e dei loro territori».

Il nome «Yanomami», dunque, echeggia in piazza san Pietro, proprio grazie al nuovo santo.

Papa Francesco conclude con un giro in carrozzina a salutare i cardinali, per poi salire sulla papamobile, e fare un lungo percorso nella piazza. I pellegrini e i fedeli hanno oramai lasciato le loro sedie e si accalcano alle transenne per salutare il Santo Padre.

Dopodiché, inizia il lento deflusso di migliaia di persone, mentre gruppi di svariate nazionalità e lingue si fanno le ultime foto sulla piazza, con lo sfondo della basilica di san Pietro sulla cui facciata spicca lo stendardo di san Giuseppe Allamano.

Chiediamo a padre James Lengarin, superiore dei missionari della Consolata, le sue impressioni: «È stata una bellissima giornata. Quando si nominava san Giuseppe Allamano, dalla piazza si alzava un urlo di gioia. Il Papa ha ancora parlato di lui all’Angelus, sottolineando il suo spirito missionario: oggi è anche la Giornata missionaria mondiale».

«Poi ci siamo trovati tutti al Teresianum (la Pontificia università teologica), per festeggiare. Eravamo più di 1.300 persone da tutto il mondo. Questo ci fa vedere come il cuore della Consolata sia vivo». Gli chiediamo come si sente a essere il successore di un santo: «Mi sento come uno dei suoi figli, ma anche come frutto della missione. Io vengo da una popolazione di pastori nomadi. Vuole dire che Allamano aveva questa attenzione per le persone che di solito sono emarginate, alla periferia del mondo. Io adesso mi sento animatore dei miei fratelli».

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Roma, 21 ottobre

«Coraggio, avanti»

Lunedì pomeriggio i pellegrini di san Giuseppe Allamano si trovano nuovamente tutti insieme per una celebrazione di ringraziamento nella splendida cornice della basilica di san Paolo fuori le mura.

La messa inizia con una danza africana realizzata da suore e novizie, che scalda subito l’atmosfera. Sfilano vestite con colori africani, a dominante azzurra. Dietro alle danzatrici, fanno il loro ingresso centodieci sacerdoti vestiti di bianco, due fratelli missionari, seguiti da ventidue vescovi e, in ultimo, dal cardinale Giorgio Marengo. È lui che, con la sua solita semplicità, ma al tempo stesso profondità, prende la parola: «Questa mattina, alla sessione del sinodo, sono andato a ringraziare il Santo Padre, che era lì con noi, per il dono della canonizzazione. Mi ha colpito, perché, sedutomi davanti a lui, mi ha preso le mani e mi ha detto “Coraggio, avanti”. Quello che ci diceva sempre san Giuseppe Allamano».

Continua il cardinale: «Oggi è un giorno di ringraziamento per san Giuseppe Allamano. È il primo giorno nel quale possiamo chiamarlo così». Le sue parole, quasi emozionate, scatenano l’euforia dei presenti.

Tra questi spicca una folta delegazione di fedeli di Roraima, lo stato del Brasile dove è avvenuto il miracolo della guarigione dell’indigeno yanomami Sorino. Sono riconoscibili da una maglietta fatta per l’occasione, con la scritta in portoghese: «Annunziate la mia gloria alle nazioni» (Is 66,19), e con i loghi della diocesi di Roraima e quello ufficiale della canonizzazione. Poi tante fedeli africane, con vestiti dai tipici colori sgargianti, e moltissime religiose. Ci sono anche i laici missionari della Consolata, e i tanti amici del nuovo santo venuti da quattro continenti. Quasi tutti hanno al collo il foulard della canonizzazione.

Iniziano le letture. Poi il salmo viene recitato da uno studente e una studentessa missionari, e il coro risponde cantando in maniera soave: «Popoli tutti, lodate il Signore».

Dopo la seconda lettura, parte di nuovo il coro, diretto dall’accalorato padre Douglas Lukunza del Kenya. I musici – tastiera, batteria, due djembé (tamburi africani) e pure un bravo violino – sono altri studenti missionari, tutti africani. Il coro variegato segue i movimenti del direttore, che non si limita a muovere le braccia, ma praticamente balla. Una danza contagiosa, che in pochi secondi prende tutti i presenti e, chi più chi meno, inizia a muoversi a ritmo di musica. E parte l’entusiasmo della grande festa.

Un punto di partenza

Con la preghiera dei fedeli torna la calma. Alcuni lettori e lettrici si alternano nelle diverse lingue: italiano, inglese, portoghese, spagnolo, coreano, kiswahili e francese. A leggere quest’ultima è una ragazza migrante del Burkina Faso, attualmente a Oujda in Marocco. La sua è una supplica toccante, forse perché nasce dall’esperienza personale: chiede di pregare affinché i governi rendano più vivibili i Paesi del mondo, in modo che i giovani non siano più costretti a partire.

Durante la cerimonia di ringraziamento, come nei giorni precedenti, il collegamento con l’Amazzonia è forte: all’offertorio, oltre al pane e al vino, viene portato anche un tipico copricapo indigeno, fatto di piume blu e gialle del grande pappagallo ara, mandato da coloro, spiega la voce di commento, «che sono assetati di fede e di giustizia».

Ma oltre alla festa, il ringraziamento è pure un momento di riflessione, stimolata dalle parole, talvolta provocatorie, del cardinale Marengo che nella sua omelia si è soffermato sull’importanza della contemporaneità: l’impegno deve essere «una successione continua di oggi e qui», e occorre «attingere la forza per la missione dalla contemplazione».

«Dobbiamo dircelo: la sua santità (di Allamano, ndr) ci deve scuotere, altrimenti non ci gioverà. I nostri istituti attraversano un momento delicato della loro storia, con incertezze nei cammini del mondo. Oggi non è solo un punto di arrivo, deve essere anche un punto di ripartenza».

Considerando il percorso e gli sforzi fatti per arrivare a questa canonizzazione, «tutto sarà ripagato se prenderemo sul serio questo oggi, l’avere gli occhi fissi sul Signore, teneramente amato e servito da san Giuseppe Allamano, e realizzeremo davvero il suo desiderio di vederci famiglia della Consolata che si vuole bene e che arde di zelo apostolico».

La cerimonia si avvia alla conclusione con il canto del Magnificat in versione africana, danzato e cantato da tutti i presenti. Il cardinale incensa lo stendardo con il volto di Giuseppe Allamano, che pare sorridente come non mai. Anche lui, oramai coinvolto nella festa per il nuovo santo.

Marco Bello

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Quando «piccolo» è grande


Sorino, chi è costui? Come don Abbondio con Carneade, forse ci facciamo questa domanda, visto che oggi il suo nome è sulla bocca di tutti dopo che Giuseppe Allamano è stato riconosciuto santo per aver guarito proprio lui.
Ma al tempo del miracolo, trent’anni fa, Sorino era per noi un signor nessuno. Uno Yanomami inesistente, uno dei tanti indigeni dell’Amazzonia che l’anagrafe del suo Paese ignorava (e continua a ignorare). Un signor nessuno, che però è diventato segno di vita e speranza per tutti gli ultimi della terra.

Come lui, anche quel bambino nato 2030 anni fa in una stalla di Betlemme era nessuno. Amato, però, curato e protetto dai suoi genitori e accolto dai marginali della storia, i pastori. Era un bambino inerme, Gesù. Eppure da subito ha dato fastidio ai potenti del tempo che hanno cercato di eliminarlo.

Quel nessuno, finito in croce come uno schiavo, è oggi Luce del mondo, Parola di vita, Via alla più vera e autentica umanità, quella a misura di Dio.

Sorino era un nessuno per il mondo, ma un unico per Dio il quale, complice Giuseppe Allamano, lo ha fatto rinascere alla vita dopo un terribile incontro con un giaguaro nel fitto della foresta amazzonica, lontano dagli occhi di tutti.

Là il Signore ha voluto porre un segno della santità di Giuseppe Allamano, per confermare ancora una volta il senso più vero del suo sogno missionario: un miracolo in favore di un nessuno e un non cristiano per ricordare che la Buona Notizia trova la sua realizzazione nei più poveri, umili e dimenticati della terra. È là, nella piccolezza e nel nascondimento, che nasce il mondo nuovo, non nei palazzi degli Erode di ieri e di sempre e neppure nei templi (stadi, arene, platee social) dei nuovi idoli di oggi.

Il piccolo seme del futuro cresce in mezzo agli ultimi della terra. Come un tempo la più radicale rivoluzione è iniziata con un bambino figlio di umili lavoratori di un villaggio di periferia, che da adulto è stato ucciso come uno schiavo su una croce piantata fuori dalle mura della città, così ora la guarigione di Sorino ci ricorda che la vera luce per il mondo continua a germinare nella piccolezza e nelle periferie.

I piccoli e i «nessuno» del mondo diventano maestri di vita, come la bimba di nove anni che si carica sulle spalle la sorellina di cinque ferita dalle bombe a Gaza per portarla all’ospedale.

Dio ha sempre avuto un occhio speciale per i nessuno di questo mondo. Grazie a essi ha scritto la storia della nostra salvezza. Basta ricordare Noè, Abramo, Giuseppe, Davide, Geremia, Ester, e tanti altri fino a Maria e Giuseppe, Giovanni Battista, gli apostoli, e fino a noi.

Mi colpisce la bellezza della logica del nascondimento e della piccolezza che unisce la nascita di Gesù e il miracolo accordato a Sorino.
È una potente contestazione dell’apparire, dell’ostentazione, del protagonismo, della voglia di imporsi e dominare che ha contagiato il nostro mondo. È l’antidoto alla tentazione di richiudersi in se stessi, di difendere i propri confini, di vedersi al centro di tutto. È un invito a guardare oltre, ad aprirsi alla sorpresa, a superare le paure dell’altro.

Sorino, una volta guarito, è diventato, insieme a sua moglie, «casa di accoglienza» per tanti bambini orfani, spesso resi tali da malattie e uccisioni provocate dall’invasione dei territori indigeni da parte di chi vuole rapinarne le risorse. Una risposta di squisito amore ai bisogni del suo popolo.

Il bambino di Betlemme ha portato nel mondo una nuova proposta di vita che insegna agli uomini a scoprirsi veri fratelli e sorelle, tutti figli e figlie dello stesso Padre.

San Giuseppe Allamano ha mandato nel mondo i suoi missionari e missionarie per continuare questa rivoluzione, per rendere reale il sogno di Dio di un’umanità che viva nella pace e nell’amore qui e ora, nell’attesa della grande festa di famiglia che ci aspetta in cielo, la sua casa.

Una rivoluzione senza armi e violenze, nella quale «il bene è fatto bene» a favore di tutti da persone che «prima sono sante e poi missionarie».

 




Giuseppe Allamano santo


I 20 ottobre scorso i Missionari, le Missionarie, i Laici della Consolata, la Chiesa torinese e quella universale hanno vissuto l’immensa gioia della canonizzazione di Giuseppe Allamano. Il lungo cammino che ha portato a proclamarne la santità è iniziato il 7 ottobre 1990, quando san Giovanni Paolo II l’ha dichiarato «Beato».

Il miracolo attribuito alla sua intercessione si riferisce alla guarigione miracolosa dell’indigeno Sorino Yanomami che, assalito il 7 febbraio 1996, da un giaguaro nella foresta amazzonica di Roraima (Brasile), nonostante la copiosa emorragia di sangue e le lesioni al cervello, non solo è sopravvissuto, ma ha potuto anche riprendere la sua vita normale senza alcuna conseguenza del trauma subito.

Il significato di questo miracolo conferma l’attualità degli insegnamenti di Giuseppe Allamano e il cammino missionario che la Chiesa sta seguendo. Come Dio guarda con cura a tutti gli uomini, l’Allamano, fondatore di una famiglia missionaria ad gentes, ha fatto suo lo stesso sguardo e lo ha infuso nei suoi discepoli. Così, sotto l’impulso dello Spirito, ha formato i primi missionari e missionarie per una missione incarnata nella realtà e oggi, tramite il miracolo avvenuto per sua intercessione, ha mostrato di accompagnare i suoi figli e la Chiesa tutta a vivere la missione con uno stile universale, audace e prudente, aperto all’incontro e al dialogo con le culture e i popoli.

I Missionari e le Missionarie della Consolata hanno vissuto i giorni di attesa della canonizzazione del loro santo fondatore con una intensa preparazione spirituale, affinché questo evento diventasse per i due Istituti e per la Chiesa intera un’occasione di rinnovamento nella grazia carismatica.

La canonizzazione di Giuseppe Allamano è stata un dono immenso che invita ad ascoltare il fondatore per attingerne la ricchezza. «Ecco, o miei cari, la santità che io vorrei da voi: non miracoli ma far tutto bene. Farci santi nella via ordinaria. Il Signore, che ha ispirato questa fondazione, ne ha anche ispirate le pratiche, i mezzi per acquistare la perfezione e farci santi. Se egli ci vorrà sollevare ad altre altezze, ci penserà lui, noi non infastidiamoci. I santi sono santi non perché abbiano fatto dei miracoli, ma perché “bene omnia fecerunt” (hanno fatto bene ogni cosa)».

padre Sergio Frassetto

Padre Barlassina visita un villaggio kikuyu e cura gli occhi dei bambini


Murang’a 2 – seconda parte

Presentiamo la seconda parte della relazione storica di monsignor Giovanni Crippa sulle «Conferenze di Murang’a» (vedi la prima parte in Mc – agosto/settembre 2024, pagg. 70-71) tenute dai primi missionari giunti in Kenya, dal 1° al 3 marzo 1904. Quanto in esse venne proposto era frutto dell’esperienza già collaudata nella vita quotidiana dei missionari. Dal confronto di questa realtà con i principi appresi in Italia e con i metodi sperimentati da altri missionari, il gruppo di «principianti» del Kikuyu cercò un proprio metodo di evangelizzazione.

Un nuovo metodo di evangelizzazione

Scartati altri metodi o perché si sarebbero protratti troppo nel tempo o perché considerati troppo onerosi, i missionari riuniti a Murang’a elaborarono un proprio piano di evangelizzazione così formulato: «Dato il carattere e i costumi degli Akikuyu, i mezzi migliori per iniziare le nostre relazioni con essi pare si possano ridurre ai seguenti: catechismi – scuole – visite ai villaggi – ambulatori alla missione – formazione d’ambiente».

Con i catechismi, che richiesero quasi subito la formazione di un corpo di catechisti, si inculcavano le prime nozioni di religione naturale. Le scuole miravano a formare una èlite che avrebbe coadiuvato i missionari nell’approccio con i Kikuyu. Gli ambulatori, che segnarono la prima attività a favore degli indigeni in missione, venivano intesi come mezzo per rendere credibile il missionario e assicurargli la simpatia della gente. Le visite ai villaggi, che ricordavano il metodo del cardinale Guglielmo Massaia, assunsero caratteristiche proprie: servivano alla conoscenza reciproca ed erano il mezzo più valido per l’enunciata formazione dell’ambiente, consistente nell’istruire la popolazione in modo che in massa fosse preparata a ricevere il battesimo, qualora si desse il caso di pericolo di morte.

A Murang’a si stabilirono norme che riguardavano anche la vita interna di missione e comprendevano, tra l’altro, la compilazione di un «Diario di missione», il modo con cui scrivere la lingua Kikuyu e la relazione trimestrale che ogni superiore di missione doveva inviare a Torino.

Unità di intenti

«Per i Missionari della Consolata nel Kikuyu le conferenze tenute a Murang’a nel 1904 segnarono un punto di riferimento anche per molti anni successivi, sebbene siano state ripetute con regolarità annuale. Il Fondatore, a Torino, le incoraggiava e ne vagliava i risultati che venivano di volta in volta approvati. Il principio della “uniformità” fu ritenuto necessario nella prima evangelizzazione e condiviso da tutti. Per attuarlo si escogitò il “Rapporto serale”».

Ogni sera, padri, fratelli e suore delle singole missioni si incontravano per informarsi reciprocamente sul lavoro della giornata, correggerne i difetti, orientarne le prospettive per il giorno seguente e far conoscere a tutti lo stato del settore assistito. Il lavoro così inteso diveniva un efficace strumento di comunicazione interpersonale e di orientamento della pastorale e favoriva l’«unità di intenti» che l’Allamano voleva tra i suoi. Esso arricchiva dell’esperienza comune soprattutto i missionari nuovi arrivati e permetteva al superiore di missione non solo di controllare il lavoro di tutti, ma anche di sostenere le iniziative più valide e di intervenire nelle emergenze più impellenti.

La missione esige un metodo

L’Allamano non ebbe e non poteva avere una metodologia missionaria: in missione non andò mai. Ebbe però un metodo per fare apostolato che così egli stesso descrisse: «… datevi toto corde et omnibus viribus all’opera dell’evangelizzazione. È per questo speciale fine che per farvi santi sceglieste la via delle missioni, preferendo il nostro istituto a tante altre Congregazioni che attendono ad altri ministeri. Ma perché il vostro lavoro ottenga il frutto desiderato deve avere tre qualità, che sia perseverante, concorde ed illuminato» (Lettera ai missionari del Kenya, 2 ottobre 1910).

Perseveranza: è richiesta dall’esigenza di far sorgere e crescere la fede. Non fu facile convertire il Kikuyu, la delusione per una realtà diversa e dura è espressa costantemente nei diari.

Per perseverare occorre affezionarsi alla gente, imparare a volere bene, avere viscere di carità. Prima che con la parola, si evangelizza con la bontà.

Concordia: «L’unione di mente e di cuore – continua l’Allamano – mentre rende leggera la fatica, fa la forza ed ottiene la vittoria».

Il missionario che non ricerca la concordia, secondo il fondatore, «lavorerà invano e forse distruggerà il bene fatto dagli altri». «Lavorate concordi e Dio benedirà le vostre fatiche». Non siamo noi o gli altri, ma Dio che deve dire bene (benedire) del nostro lavoro.

Illuminato: «Vengo al terzo carattere del vostro lavoro, quello che chiamo illuminato riguardo al metodo da seguire. Bisogna degli indigeni farne tanti uomini laboriosi per poi poterli fare cristiani: mostrare loro i benefizi della civiltà per tirarli all’amore della fede: ameranno una religione che oltre a offrire le promesse dell’altra vita, li rende più felici su questa terra» (2 ottobre 1910).

Fu così che i primi missionari della Consolata nel Kenya, sebbene giunti in Africa da poco più di un anno, riuscirono a darsi delle norme da seguire nel lavoro apostolico. La via, tracciata con un impegno quotidiano costante, avanzò sotto la guida lontana dell’Allamano, e la trazione in loco di padre Filippo Perlo, che indirizzarono l’opera dei missionari verso l’unico fine di giungere presto alla conversione dei Kikuyu.

+ Giovanni Crippa, Imc
Vescovo di Ilhéus


Roraima: diocese in festa

Il miracolo attribuito san Giuseppe Allamano è avvenuto nella missione Catrimani, appartenente alla diocesi di Roraima, nel nord del Brasile. Il vescovo della diocesi, monsignor Evaristo Pascoal Spengler, ha pubblicato un messaggio indirizzato al popolo di Dio della sua diocesi e alla famiglia Consolata, in cui esprime la sua gioia per il «lieto annuncio della canonizzazione del beato Giuseppe Allamano, fondatore dei missionari e delle missionarie della Consolata, presenti nella nostra Chiesa di Roraima dal 1948».

Ha scritto il vescovo: «Questo è il Dio misericordioso ancora una volta all’opera nella nostra storia. Dio non si stanca mai di sorprenderci con il suo amore e la sua bontà».

Questo miracolo è motivo di gioia per i missionari e le missionarie, ma lo è anche per la chiesa di Roraima «perché si riconosce l’intercessione del beato Allamano a favore dell’indigeno yanomami Sorino, che vive nella nostra diocesi, nella missione Catrimani, nel territorio indigeno del popolo yanomami di Roraima.

La guarigione miracolosa dell’indigeno, in un momento in cui le cure tradizionali e la scienza medica potevano solo attendere la sua morte, è stata il frutto della fervente preghiera delle Missionarie della Consolata, che hanno chiesto aiuto al loro fondatore, il beato Giuseppe Allamano nel primo giorno della novena a lui dedicata».

Il messaggio ricorda i passi compiuti durante il processo, prima nella fase diocesana, e racconta come si è svolto. Si sottolinea inoltre che «l’annuncio della canonizzazione del beato Giuseppe Allamano è motivo di consolidamento dell’opzione evangelizzatrice della missione Catrimani, di conferma della storia dell’alleanza della nostra diocesi di Roraima con i popoli indigeni e un motivo di benedizione e di speranza per la nostra diocesi, che celebra 300 anni di evangelizzazione in queste terre di Macunaíma».

Infine, il vescovo di Roraima ha annunciato che «istituiremo una commissione nella nostra diocesi per celebrare il dono della fecondità dell’annuncio del Vangelo tra noi, confermato dal miracolo operato sul nostro fratello Sorino, per intercessione di san Giuseppe Allamano».

 


Io carmelitana

Sono una povera e anziana carmelitana scalza dell’ex Carmelo Sacro Cuore in Torino, nata e vissuta a Torino in prossimità del Santuario della Consolata, imparando fin dalla mia fanciullezza a invocare la Vergine Consolata.

Quando il canonico Allamano fu dichiarato «beato», nel nostro Carmelo ci fu grande gioia, e lo festeggiammo con entusiasmo, come si gioisce per un dono fatto a una persona cara. Per più di cento anni, infatti, i padri della Consolata sono saliti tutte le mattine da corso Ferrucci fino al nostro Carmelo, non senza fatica, ma con una grande fedeltà: non un giorno ci è mancata la celebrazione della santa Messa, né il dono dell’Eucaristia, e tante volte anche quello di poter accedere al Sacramento del perdono amministrato con piena disponibilità e tanta misericordia.

Attendevamo con speranza questo giorno in cui il beato Allamano sarebbe stato proclamato santo e il nostro cuore esulta di gioia e gratitudine al Signore perché il nostro desiderio è stato esaudito.

Quello che scrivo vuole essere una umile testimonianza della santità, fecondità e amore che i suoi figli e le sue figlie sanno portare e donare al mondo.

C’è infine un legame profondo tra il nostro monastero e i figli dell’Allamano: per settantacinque anni abbiamo condiviso la nostra vita con la cara suor Teresina del Bambino Gesù, sorella di sangue di padre Giovanni Calleri, l’eroico missionario della Consolata morto martire in Amazzonia.

Suor Maria Luisa del Volto Santo
Carmelitana scalza

 




Il popolo di san Giuseppe Allamano in festa

 

Roma, 21 ottobre. «Questa mattina, alla sessione del sinodo, sono andato a ringraziare il Santo Padre, che era lì con noi, per il dono della canonizzazione», racconta il cardinale Giorgio Marengo, in chiusura alla sua omelia della messa di ringraziamento. Nella splendida cornice della basilica di san Paolo fuori le mura, si ritrovano i missionari, le missionarie e centinaia di pellegrini che domenica 20 ottobre hanno partecipato alla canonizzazione di Giuseppe Allamano. «Mi ha colpito – continua Marengo -, perché, sedutomi davanti a lui, mi ha preso le mani e mi ha detto “Coraggio, avanti”. Quello che ci diceva sempre san Giuseppe Allamano».

La celebrazione inizia con una danza africana realizzata da suore e novizie, che scalda subito l’atmosfera. Sfilano vestite con colori africani, a dominante azzurra. Dietro alle danzatrici, fanno il loro ingresso centodieci sacerdoti vestiti di bianco, due fratelli missionari, seguiti da ventidue vescovi e, in ultimo, dal cardinale Marengo. È lui che, con la sua solita semplicità, ma al tempo stesso profondità, prende la parola: «Oggi è un giorno di ringraziamento per san Giuseppe Allamano. È il primo giorno nel quale possiamo chiamarlo così». Le sue parole, quasi emozionate, scatenano l’euforia dei presenti.

Roma, basilica di San Paolo fuori le mura, 21 ottobre 2024. Messa di ringraziamento per la canonizzazione di San Giuseppe Allamano (Foto ©Marco Bello).

Sono di tanti Paesi, svariate lingue e culture a ritrovarsi, oggi pomeriggio, nella basilica.

Spicca una folta delegazione di fedeli di Roraima, lo stato del Brasile dove è avvenuto il miracolo della guarigione dell’indigeno yanomami Sorino. Sono riconoscibili per la maglietta che indossano, con il motto dell’Istituto Missioni Consolata scritto in portoghese: «Annunziate la mia gloria alle nazioni» (Is 66,19), e con i loghi della diocesi di Roraima e quello ufficiale della canonizzazione. Poi tante fedeli africane, con vestiti dai tipici colori sgargianti, e moltissime religiose. Ci sono anche i laici missionari della Consolata, e i tanti amici del nuovo santo venuti da quattro continenti. Quasi tutti hanno al collo il foulard realizzato per la canonizzazione.

Roma, basilica di San Paolo fuori le mura, 21 ottobre 2024. Messa di ringraziamento per la canonizzazione di San Giuseppe Allamano (Foto ©Marco Bello).

Iniziano le letture. Poi il salmo viene recitato da uno studente e una studentessa missionari, e il coro risponde cantando in maniera delicata «Popoli tutti, lodate il Signore».

Dopo la seconda lettura, parte di nuovo il coro, diretto dall’accalorato padre Douglas Lukunza del Kenya. I musicisti – tastiera, batteria, due djembé (tamburi africani) e pure un bravo violino – sono altri studenti missionari, tutti africani. Il coro variegato segue i movimenti del direttore, che non si limita a muovere le braccia, ma dirige il canto ballando con tutto il corpo. Una danza che, in pochi secondi, contagia tutti i presenti. È l’espressione dell’entusiasmo della grande festa.

Roma, basilica di San Paolo fuori le mura, 21 ottobre 2024. Messa di ringraziamento per la canonizzazione di San Giuseppe Allamano (Foto ©Marco Bello).

Con la preghiera dei fedeli torna la calma. Alcuni lettori e lettrici si alternano nelle diverse lingue: italiano, inglese, portoghese, spagnolo, coreano, kiswahili e francese. A leggere quest’ultima è una ragazza migrante del Burkina Faso, attualmente a Oujda in Marocco (dove c’è una missione della Consolata). La sua è una supplica toccante, forse perché nasce dall’esperienza personale: chiede di pregare affinché i governi rendano più vivibili i Paesi del mondo, in modo tale che i giovani non siano più costretti a partire.

Anche durante questa celebrazione di ringraziamento, come nei giorni scorsi, il collegamento con l’Amazzonia è forte: all’offertorio, oltre al pane e al vino, viene portato anche un tipico copricapo indigeno, fatto di piume blu e gialle del grande pappagallo ara, mandato da coloro, spiega la voce di commento, «che sono assetati di fede e di giustizia».

Ma oltre alla festa, il ringraziamento è pure un momento di riflessione, stimolata dalle parole, talvolta provocatorie, del cardinale Marengo che nella sua omelia si sofferma sull’importanza della contemporaneità: l’impegno deve essere «una successione continua di oggi e qui», e occorre «attingere la forza per la missione dalla contemplazione».

Roma, basilica di San Paolo fuori le mura, 21 ottobre 2024. Messa di ringraziamento per la canonizzazione di San Giuseppe Allamano (Foto ©Marco Bello).

«Dobbiamo dircelo: la sua santità (di Allamano, ndr) ci deve scuotere, altrimenti non ci gioverà. I nostri istituti attraversano un momento delicato della loro storia, con incertezze nei cammini del mondo. Oggi non è solo un punto di arrivo, deve essere anche un punto di ripartenza».

Considerando il percorso e gli sforzi fatti per arrivare a questa canonizzazione, «tutto sarà ripagato se prenderemo sul serio questo oggi, l’avere gli occhi fissi sul Signore, teneramente amato e servito da san Giuseppe Allamano, e realizzeremo davvero il suo desiderio di vederci famiglia della Consolata che si vuole bene e che arde di zelo apostolico».

Roma, basilica di San Paolo fuori le mura, 21 ottobre 2024. Messa di ringraziamento per la canonizzazione di San Giuseppe Allamano (Foto ©Marco Bello).

La cerimonia si avvia alla conclusione con il canto del Magnificat in versione africana, danzato e cantato da tutti i presenti. Il cardinale incensa lo stendardo con il volto di Giuseppe Allamano, che pare sorridente come non mai. Anche lui, oramai coinvolto nella festa.

La messa di ringraziamento conclude la fase romana delle celebrazioni per la canonizzazione di san Giuseppe Allamano, iniziate con la veglia di preghiera di sabato 19 ottobre.

Nei prossimi giorni seguiranno eventi e celebrazioni a Castelnuovo don Bosco (At), paese natale di Allamano (il 23 ottobre) e a Torino, alla Consolata (il 24) e nella chiesa del santo in corso Ferrucci 18 (il 25).

Marco Bello

HIGHLIGHTS MESSA DI RINGRAZIAMENTO (Fr. Adolphe Mulenguzi)

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Roma, basilica di San Paolo fuori le mura, 21 ottobre 2024. Messa di ringraziamento per la canonizzazione di San Giuseppe Allamano (Foto ©Jaime Patias).

 

Roma, basilica di San Paolo fuori le mura, 21 ottobre 2024. Messa di ringraziamento per la canonizzazione di San Giuseppe Allamano (Foto ©Jaime Patias).

 

Roma, basilica di San Paolo fuori le mura, 21 ottobre 2024. Messa di ringraziamento per la canonizzazione di San Giuseppe Allamano (Foto ©Jaime Patias).

 

Roma, basilica di San Paolo fuori le mura, 21 ottobre 2024. Messa di ringraziamento per la canonizzazione di San Giuseppe Allamano (Foto ©Jaime Patias).

 

Roma, basilica di San Paolo fuori le mura, 21 ottobre 2024. Messa di ringraziamento per la canonizzazione di San Giuseppe Allamano (Foto ©Jaime Patias).

 

Roma, basilica di San Paolo fuori le mura, 21 ottobre 2024. Messa di ringraziamento per la canonizzazione di San Giuseppe Allamano (Foto ©Jaime Patias).

 

Roma, basilica di San Paolo fuori le mura, 21 ottobre 2024. Messa di ringraziamento per la canonizzazione di San Giuseppe Allamano (Foto ©Jaime Patias).

 

Roma, basilica di San Paolo fuori le mura, 21 ottobre 2024. Messa di ringraziamento per la canonizzazione di San Giuseppe Allamano (Foto ©Jaime Patias).

 

Roma, basilica di San Paolo fuori le mura, 21 ottobre 2024. Messa di ringraziamento per la canonizzazione di San Giuseppe Allamano (Foto ©Jaime Patias).

 

Roma, basilica di San Paolo fuori le mura, 21 ottobre 2024. Messa di ringraziamento per la canonizzazione di San Giuseppe Allamano (Foto ©Jaime Patias).

 

Roma, basilica di San Paolo fuori le mura, 21 ottobre 2024. Messa di ringraziamento per la canonizzazione di San Giuseppe Allamano (Foto ©Jaime Patias).

 

Roma, basilica di San Paolo fuori le mura, 21 ottobre 2024. Messa di ringraziamento per la canonizzazione di San Giuseppe Allamano (Foto ©Jaime Patias).




Giuseppe Allamano è santo

 

Oggi, 20 ottobre 2024, Giuseppe Allamano è ufficialmente santo. La messa di proclamazione, in piazza San Pietro, è stata intensissima.

Città del Vaticano. Fin dalle 7 del mattino, a giorno non ancora fatto, lunghe code di pellegrini aspettano ai controlli della polizia, necessari per entrare nella piazza.

Il popolo di Giuseppe Allamano è arrivato dai quattro continenti il giorno prima. Nella coda, tra la gente che si stropiccia gli occhi, si sentono decine di lingue: portoghese, spagnolo, francese, inglese, italiano, kiswahili. Ma anche l’Asia c’è, con la Corea, la Mongolia e Taiwan.

Su alcune bacchette viene issata l’immagine del futuro santo, nella sua versione colorata o «pop art», che resta un riferimento tra la marea di teste.

Oggi saranno, infatti, «canonizzati», termine tecnico, anche Elena Guerra, Marie-Léonie Paradis e gli undici martiri di Damasco (Manuel Ruiz e compagni).
Ci si distingue anche per il foulard, bianco ma colorato con le 35 bandiere dei paesi dove lavorano i missionari e le missionarie della Consolata, e con l’effige di Allamano e della Consolata.
L’organizzazione ha anche previsto per tutti un badge verde con il logo studiato ad hoc per questo giorno.

Entriamo tra i primi, dopo il controllo metal detector.
La platea davanti alla scalinata di San Pietro è ancora da riempire.
I pellegrini sono assonnati, ma si vede la gioia e l’eccitazione. Molti si salutano, si abbracciano. È spesso un rivedersi dopo anni, talvolta un incontrarsi per la prima volta, entrando subito in sintonia.

Intanto si è fatto giorno. È nuvoloso, ma non piove.
È ancora un momento di attesa, e si approfitta per farsi delle foto, dei video, scambiarsi un contatto o un sorriso.

Vediamo una folta delegazione dall’Uganda, poi la bandiera del Kenya (primo paese di missione dei Missionari della Consolata). Il Congo Rdc è presente, così come la Costa d’Avorio.
A un certo punto compare la bandiera del Marocco: è il gruppo di Oujda, del quale fanno parte anche alcune migranti subsahariane.
Vediamo anche il gruppo dei laici della Consolata del Portogallo, con le magliette del loro 25° anno di esistenza. E poi tantissime suore, di svariate età e nazionalità.

Così metà della piazza, quella con i posti a sedere, si è riempita.
Intanto, alla sinistra dell’altare si siedono cardinali, vescovi e sacerdoti. Alla destra, invece, le autorità e i diplomatici.

Dopo il rosario in latino, inizia uno scampanio, poi il coro ufficiale intona alcune canzoni diffuse con i potenti altoparlanti in tutta la piazza.
L’attesa si fa più intensa tra le migliaia di persone da tutto il pianeta, spaccato di umanità.

Alle 10,20, quasi all’improvviso, arriva Papa Francesco sulla sua carrozzina e si siede sulla poltrona papale. Tenue, quasi sotto voce, sul lato destro della platea, un gruppo di pellegrini intona: «Papa Francesco, papa Francesco». Altri iniziano, è come se il coro si spostasse nello spazio antistante alla basilica, e intanto diventa «Papa Francisco», per culminare con un grande applauso.

Nel frattempo è comparso un tenue sole.
Scorgiamo evidente, in prima fila del gruppo di sedie delle autorità, il presidente Sergio Mattarella.

La celebrazione ha inizio. Vengono lette le brevi biografie dei nuovi santi. Quando è nominato Giuseppe Allamano, parte un applauso dalla piazza.

«Vince non chi domina, ma chi serve per amore», dice il Papa nella sua omelia, a commento del Vangelo del giorno.
«Gesù svela pensieri nel nostro cuore smascherando, talvolta, i nostri desideri di vanità e di potere».
E poi ci insegna lo «stile di Dio», ovvero il «servizio». Le parole magiche per il Papa sono: «Vicinanza, compassione e tenerezza, applicate all’azione di servire. […] A questo dobbiamo anelare».
Uno stile che nasce dall’amore e non ha una scadenza o un limite.
«I nuovi santi hanno vissuto questo stile di Gesù: il servizio», continua il Papa.

All’Angelus papa Francesco mette l’accento sui popoli indigeni: «La testimonianza di san Giuseppe Allamano ci ricorda la necessaria attenzione verso le popolazioni più fragili e vulnerabili. Penso in particolare al popolo Yanomami, nella foresta amazzonica brasiliana, tra i cui membri è avvenuto proprio il miracolo legato alla sua canonizzazione. Faccio appello alle autorità politiche e civili affinché assicurino la protezione di questi popoli e dei loro diritti fondamentali e contro ogni forma di sfruttamento della loro dignità e dei loro territori».

Il nome «Yanomami», dunque, echeggia in piazza san Pietro, proprio grazie al nuovo Santo.

Papa Francesco conclude con un giro in carrozzina a salutare i cardinali, per poi salire sulla papamobile, e fare un lungo percorso nella piazza. I pellegrini e i fedeli hanno oramai lasciato le loro sedie e si affollano alle transenne per salutare il Santo Padre.

Una volta passato, inizia il lento deflusso di alcune migliaia di persone, mentre gruppi di svariate nazionalità e lingue si fanno le ultime foto sulla piazza, con lo sfondo della Basilica di San Pietro sulla quale spicca lo stendardo di san Giuseppe Allamano.

testo di Marco Bello
foto di Jaime Patias

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Pillole «Allamano» /10. Prima di tutto santi


Carissimo Padre, buon Natale.
Uso l’appellativo Padre invece di Canonico (oggi un po’ demodé), o di Rettore (troppo accademico), per sottolineare la paternità spirituale che hai avuto e continui ad avere su di noi, missionari e missionarie della Consolata. Grazie per queste pillole di spiritualità che, oggi come ieri, ci aiutano a dare un senso alla nostra vita, per poterne essere i protagonisti e non dei comprimari. I tuoi consigli hanno permesso a missionari e missionarie di camminare diritti e spediti durante tanti anni e in moltissime parti del mondo; crediamo che possano servire anche a noi, nella nostra Europa attuale, per riproporci come persone che hanno a cuore il Regno di Dio, e lo vogliono promuovere lì dove si trovano. In fin dei conti, questo è lo spirito con cui abbiamo provato ad assumerle durante questi mesi e chissà se ci aiuteranno ad alzare un po’ il tiro, iniziando da questo periodo natalizio.

A Natale si dovrebbe essere tutti più buoni o, come forse suggeriresti tu stesso, un pochino più santi. Ti è sempre piaciuta questa parola: santo.  Hai parlato tanto di santità, ma soprattutto hai vissuto in modo da rendere esplicito, visibile, toccabile con mano ciò che cercavi di esprimere a parole. Hai soprattutto cercato di mostrare che la santità è nient’altro che il coronamento di un cammino nella fede «fatto bene», con rispetto del ruolo che si occupa nel mondo, senza pensare di essere Dio, ma soltanto povere creature che cercano di fare al meglio la Sua volontà (a dirla tutta, se c’è qualcosa che veramente contraddice lo spirito del Natale è proprio questa tendenza a credersi dei padreterni; altro che spirito dell’incarnazione!).

La Torino dei tuoi tempi poteva vantare degli esempi di santi mica da ridere: ci si sarebbe potuta fare una squadra di calcio con tanto di riserve contando tutte le persone che hanno dato la loro vita per la causa del Vangelo, e a tale ragione sono assurti alla gloria degli altari. Altri ancora hanno vissuto la loro vita cristiana in maniera più nascosta, o forse meno «eroica», e non vengono ricordati liturgicamente, ma hanno comunque lasciato un segno che rimane vivo ancora oggi, eredità di una vita dedicata a Dio e al servizio dei fratelli. Alcuni parlano di loro come «santi sociali», proprio per sottolineare il loro forte impegno al servizio dei poveri del tempo, fra i giovani, gli operai, i carcerati, gli ammalati…

Molti li hai incontrati tu stesso di persona. In particolare non si può non citare le due figure a te più vicine, non fosse altro per la comune provenienza, visto che eravate tutti originari di Castelnuovo, in provincia di Asti: Giuseppe Cafasso, tuo zio, e Giovanni Bosco. Oggi il tuo paese, adagiato sulle colline del Basso Monferrato astigiano, ha preso il nome di Castelnuovo don Bosco, dal concittadino più famoso, anche se dovrebbe essere battezzato «Castelnuovo dei Santi» perché ben quattro (va aggiunto infatti anche Domenico Savio) sono i santi che lì hanno avuto i loro natali in uno spazio di tempo davvero ristretto.

Santi vicini, santi in famiglia, santi le cui vite si sono sfiorate lasciando segni indelebili sulle altrui esistenze. Sì, diciamo che sei anche stato un po’ fortunato ad avere la possibilità di entrare in contatto con persone di quel calibro. Da loro hai attinto molto, pur conservando una tua precisa personalità, che non si è confusa né con lo spirito, né tantomeno con la missione altrui. Da Giovanni Bosco, anche se soltanto per un breve periodo di tempo, sei andato a scuola nell’Oratorio da lui fondato, luogo da cui poi ti sei allontanato alla chetichella, per non dare un dispiacere a chi ti aveva ospitato fra i suoi ragazzi e che probabilmente, vedendo la pasta di cui eri fatto, aveva iniziato a pensare che un giorno avresti potuto dargli una bella mano. Del resto, non lo hai fatto per capriccio (le persone capricciose non ti sono mai andate troppo a genio e non ti sei stancato di ripeterlo in continuazione a tutti coloro che erano affidati alla tua formazione), ma per seguire quella che a te sembrava essere la tua strada, indirizzandoti verso il Seminario metropolitano di Torino.

A Giuseppe Cafasso devi sicuramente molto di più, pur avendolo personalmente incontrato tutto sommato poche volte. Hai respirato sin da piccolo la sua presenza e hai sempre saputo e creduto di avere un «Santo zio» in famiglia, al punto che quando è stata l’ora ti sei dedicato anima e corpo, fra mille altre cose, anche ai processi di beatificazione e canonizzazione, dando così alla Chiesa intera un modello di prete a cui ispirarsi.

Creazione di David Ongaro per la chiesa di Maria Regina delle Missioni in Torino: san Giuseppe Allamano con i suoi santi. Da sinistra a destra: s. Chiara regge con lui il quadro della Consolata, s. Ignazio di Loyola, s. Caterina da Siena, s. Giovanni Bosco, s. Francesco di Sales, s. Teresa d’Avila, s. Francesco, s. Teresina di Gesù Bambino, s. Fedele da Sigmaringen, s. Giuseppe Benedetto Cottolengo, s. Francesco Saverio e s. Giuseppe Cafasso, suo zio.

La santità che hai conosciuto tu, di cui hai fatto esperienza diretta vedendola riflessa nelle esistenze degli altri, era la conseguenza di una vita buona, vissuta bene, con sacrificio, determinazione, fede, perseveranza. Dio lancia il seme, e questo cade in una terra più o meno fertile. Nel vostro caso terra fertilissima, perché preparata, lavorata, concimata quotidianamente con la pazienza e anche la fatica del contadino. Niente di eccezionale, verrebbe da dire, una santità alla portata di tutti, fatta di piccoli gesti buoni ripetuti nel tempo. È la santità di tante nostre famiglie, quella che non fa rumore ma permette al bene di incunearsi nel tessuto della società e lo fa scorrere a dispetto di tanti messaggi a esso contrari, segnali di male, morte, disperazione che mettono in pericolo la speranza.

L’eccezionalità sta appunto in questo lavoro costante su di sé, sulla propria crescita umana e spirituale. «Vivere l’ordinario in modo straordinario» è il motto che hai proposto a chi guardava a te come modello di uomo e prete. Lo hai attinto dalla spiritualità di San Giuseppe Cafasso, ma lo hai fatto diventare come parte del tuo stile di vita. Il tuo punto di riferimento era Cristo, ma il tuo terreno di gioco è sempre stato il quotidiano, le ventiquattro ore della giornata, cui dare un senso, giorno dopo giorno, con l’Eucaristia a fare da metronomo: preparazione, celebrazione e ringraziamento; e così via, in una serie continua di istanti in cui la vita dell’uomo si fonde in quella di Dio.

Il santo è la persona che vive in profondità questa unione di Dio con la sua storia passata, presente e futura; è colui o colei che permette a Dio di incarnarsi nel suo vissuto, di vivere nella sua famiglia, di frequentare la stessa scuola o di interessarsi degli stessi problemi di lavoro degli altri. Il santo è la persona della porta accanto, quella capace di praticare iniezioni di bene con la sua presenza discreta e silenziosa, che permette a Dio di essere Dio, e lo fa lasciando che questi entri nella propria vita, concedendogli spazio e diventando a sua volta strumento di salvezza.

Caro don Giuseppe, tu sei stato questo tipo di persona per molti tuoi contemporanei, che istantaneamente hanno riconosciuto in te i segni di una presenza più grande. Il tuo spirito di preghiera, l’amore per l’eucaristia, la relazione cuore a cuore con Maria Consolata. Tuttavia, la tua santità ha assunto dei connotati speciali che restano un’eredità unica per noi missionari e per tutti gli amici che, a vario titolo e in varie occasioni, si sono avvicinati al nostro carisma e ne sono rimasti affascinati.

Innanzitutto, la tua è stata una santità extra large; hai guardato oltre i confini di Torino, dell’Italia, più in là sempre e comunque. Sicuramente più in là dei tuoi comodi – avresti potuto infatti vivere un’esistenza decisamente tranquilla e rilassata invece di perdere pace, salute e soldi nel correre dietro all’ideale missionario – a cui hai però volentieri rinunciato per rispondere all’imperativo che sentivi dentro di te di annunciare a tutti la consolazione del Vangelo. In questo momento storico in cui la chiesa è invitata a uscire, ad andare alle periferie, a essere lì dove la gente si trova, a non perdere la voglia di annunciare, ci offri un modello di santità molto attuale. Dà coraggio pensare che hai vissuto in maniera totale la tua missionarietà senza mai allontanarti, se non per brevi viaggi, dal tuo amato Santuario della Consolata. Sei un invito vivente per tante persone e famiglie che forse non ce la fanno proprio a trovare tempo e risorse per «partire» e vivere la loro vocazione missionaria in terre lontane. C’è chi dona partendo e chi parte donando. Da sempre la missione si è nutrita del dono del tempo, dei beni materiali, della preghiera di tanti benefattori che pur senza oltrepassare l’uscio di casa hanno reso l’attività dei missionari possibile, partecipando a tutti gli effetti, pienamente, della missione della chiesa.

Inoltre la tua è stata una santità «inclusiva», che si è nutrita e arricchita dei contributi di culture nuove e lontane, di cui leggevi attraverso i racconti dei tuoi missionari. Il senso di vicinanza all’altro che hai trasmesso ai tuoi, l’enfasi posta sulla necessità di imparare, e imparare bene, le lingue straniere per meglio comunicare con le persone, la passione di capire l’altro per entrare nel profondo della sua cultura, con rispetto, in punta di piedi… sono elementi che hanno caratterizzato il tuo insegnamento e restano parte di quello spirito che sempre hai voluto trasmettere personalmente ai tuoi missionari. I nostri confratelli che lavorano in Asia sempre ripetono l’importanza di essere sul posto, presenti, sussurrando il Vangelo, con tatto, rispetto e discrezione, senza imporre, ma proponendo coraggiosamente la buona notizia di Gesù.

In questo mondo così controverso e contraddittorio, alla cui tensione verso la globalità rispondono movimenti di chiusura e intolleranza assolutamente non evangelici, la ferma delicatezza della tua parola è garanzia di un messaggio di accoglienza e di fraternità che rincuora e dà coraggio.

Grazie caro Padre per quest’ultima tua pillola che, in fondo, contempla tutte le altre. Siate santi missionari; anzi, «prima santi, poi missionari», come ripetevi instancabilmente allora e continui a ripetere anche a noi oggi. Ai nostri giorni il tuo appello assume una valenza particolarmente pregnante perché immettersi in un cammino di santità significa andare due volte contro corrente. Mentre noi missionari e missionarie della Consolata desideriamo profondamente che tu, già beato, possa essere riconosciuto finalmente santo, tu vuoi soprattutto che siamo noi a santificarci, anche senza riconoscimento ufficiale da parte della chiesa. Ci chiedi soltanto di condurre una vita evangelicamente certificata e di testimoniare con coerenza i valori del Vangelo attraverso il carisma speciale che ci hai lasciato.

Penso che, corroborati da un anno di pillole ricostituenti da te fornite, possiamo tentare di metterci su questo cammino chiedendoti, ancora una volta, di essere padre e guida dei tuoi missionari e degli amici fraterni che ne accompagnano le iniziative apostoliche. Siamo convinti che, diventando più santi, noi spianeremo anche a te la strada per il riconoscimento universale della tua santità. Prendi questo nostro impegno come un piccolo regalo di Natale. E ancora tanti auguri.

Ugo Pozzoli


Tutte le 10 parole

Per finire con gioia

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Pillole «Allamano» /9. Non dire mai non tocca a me


Ho visto di recente, insieme ad altri missionari che lavorano in Europa, il film «Terraferma» di Emanuele Crialese, premio della giuria al Festival del cinema di Venezia 2011. Racconta la storia di una famiglia di pescatori che vive in un’isola al largo della Sicilia e che, insieme alla comunità del posto, si trova a vivere un conflitto fra tradizione e modernità. Gli abitanti sono infatti intrappolati nel dilemma: continuare con una vita di pesca o aprirsi al turismo e, di conseguenza, al consumismo di marca occidentale? Quello che si preannuncia all’inizio del film come un conflitto generazionale (c’è un’eco dei Malavoglia nella storia narrata) assume connotati nuovi con l’irruzione dell’emergenza migranti che viene a sconvolgere la vita degli abitanti e il loro rapporto con il mare.

Non tutti gli isolani sono inclini a sopportare passivamente la marea umana che si abbatte sulle loro spiagge. Il turismo, la nuova dimensione appena scoperta e che apre le porte a un futuro di minori sacrifici e stenti, viene messo a dura prova da questa ennesima sfida che arriva dal mare. Eppure, in mezzo a tutto il marasma che sconvolge la placida esistenza della gente del posto, si viene a creare uno spazio favorevole per la solidarietà e l’altruismo. Tanto il codice del mare, che non prevede di lasciar morire un uomo in balia delle onde, come il senso di fraternità che tocca l’animo dei protagonisti investono gli abitanti dell’isola di un imprevedibile e nuovo senso di responsabilità.

È inutile dire che la storia fittizia di «Terraferma» ricalca quella purtroppo vera e sofferta di Lampedusa. Come non ricordare del resto i gesti di accoglienza dei lampedusani, per altro lodati anche dal Papa? Si tratta di gesti compiuti da gente semplice, sovente povera, messa in crisi da una situazione diventata ingestibile. Nonostante tutto, di fronte all’emergenza per molti di loro è impossibile dire: «Non tocca a me».

Per la (nostra) generazione cresciuta a pane e Alberto Sordi è costato rinunciare al mito dell’italiano «tutto sommato brava gente», sempre pronto a redimersi da una vita da brigante grazie a un atto di eroismo finale e catartico con cui prende finalmente e responsabilmente in mano la propria vita. Basta avere la possibilità di andare un po’ in giro per il mondo, oppure la magnanimità di incontrare chi da fuori viene a vivere nel nostro paese, per capire che non siamo più buoni o meno buoni di tanta altra gente. Anche qui in Italia c’è chi incassa la testa fra le spalle e tira diritto senza voltarsi, lasciando che l’altrui persona badi a se stessa, risolva i suoi problemi da sola. Anche qui c’è chi pensa: «Chissenefrega, io cosa c’entro … non ho tempo, non mi sento, non sono capace e, alla fine della fiera, non sono problemi miei!». Se così non fosse, e non fosse sempre stato, Giuseppe Allamano non avrebbe avuto bisogno di dare, all’epoca, una pillola dei cui effetti benefici si sente il bisogno anche oggi.

Certamente l’ambito a cui preferibilmente l’Allamano si riferiva era quello formativo dei missionari della Consolata. Tante sono le volte in cui ricorreva questa espressione, segno dell’importanza che egli dava all’aspetto della partecipazione alla vita comunitaria ai fini della missione e alla dimensione della responsabilità personale. «Non dire mai non tocca a me» è infatti più di una raccomandazione, è un appello alla responsabilità e alla vocazione cristiana, prima ancora che religiosa e missionaria. Anzi, proprio perché indirizzato alla compartecipazione nella vita sociale e alla creazione di migliori relazioni fra le persone, questo appello puntava a una crescita che doveva essere innanzi tutto umana.

In un mondo dove si considera etico chi osserva il principio di reciprocità, la radicalità di questa pillola è un elemento che spariglia le carte, confonde, mette in crisi. Il do-ut-des è un regolatore sociale potente. «Io do perché tu mi hai dato» oppure «do perché aspetto di ricevere». Se contravvengo a questa consuetudine vengo punito. In questo contesto, io dirò «tocca a me» soltanto quando sarà il mio turno, aspettando che tu abbia fatto il tuo e Tizio il suo; in caso contrario mi sentirò autorizzato, e giustamente, a non fare assolutamente niente. Se tu vuoi che io faccia, inizia tu a fare quanto ti compete. Meglio che nulla, verrebbe da dire; meglio che l’inazione dovuta a pigrizia (non ne ho voglia), a ignoranza non contrastata (non sono capace), alla pretesa di un diritto acquisito (non l’ho mai fatto, non vedo perché dovrei farlo ora, non mi compete), ecc. La lista potrebbe essere lunga. Quante meravigliose ragioni per dire: «Non tocca a me!».

Kenya, quattro che hanno preso sul serio il loro compito: padre Giacomino Camisassa, uno dei primi catechisti, suor Irene (ora beata) e mons Filippo Perlo

Nel mondo del lavoro, dove relazioni e competenze sono regolate da un contratto, diventa più difficile uscire da schemi di reciprocità che stanno normalmente alla base di un qualsiasi accordo fra le parti. Non mancano per fortuna esempi, anche se pochi, di circoli virtuosi operati in alcuni luoghi in cui il datore di lavoro fa un po’ più di quello che gli spetta e il dipendente non si tira indietro nei momenti del bisogno. Questi pochi, ma illuminati esempi ci dicono che rifiutare «il non tocca a me» può diventare persino eversivo se ci si crede, se si entra in una dinamica differente, se si spezza il vincolo del do-ut-des.

Non sfuggono elementi abbastanza contraddittori che caratterizzano il momento attuale e lo rendono complesso, articolato, difficile da decifrare. Da una parte sembra evidente che la gratuità stenta a imporsi nelle relazioni fra le persone. Tutto va pagato, retribuito, tutto ha un prezzo: ti do se mi dai o, al massimo, darai. Se non s’intravedono possibilità di guadagno, gratificazione, crescita, ci si sgancia: «Non tocca a me, sorry». Questo, verrebbe da dire, capita anche nelle migliori famiglie!

Oggi, purtroppo, si avverte infatti un crescente disimpegno a vari livelli. La persona ne accusa le conseguenze, senza però rendersi conto del ruolo che lei stessa potrebbe positivamente giocare, o senza forse avere il coraggio di fare il primo passo per dare alle relazioni un indirizzo differente. La famiglia è il primo ambito in cui tale disimpegno appare evidente e tale fenomeno assume aspetti devastanti, per le ripercussioni che si hanno in molti altri ambiti. La scuola sente il disimpegno della famiglia, così come la comunità cristiana, ecc. Tutti gli ambiti educativi sono coinvolti e ciascuno reclama un’attenzione maggiore dell’altro, mettendo a nudo un circolo, questa volta decisamente vizioso, da cui sembra impossibile uscire.

Per contro, bisogna anche sottolineare una certa reazione a questo modo diffuso di interpretare la vita. Da poco l’Istat ha pubblicato uno studio sul volontariato oggi in Italia, evidenziando come, nonostante notevoli differenze fra una zona e l’altra del paese, il tasso percentuale di persone impegnate in attività di volontariato sia oggi aumentato notevolmente. Sono più di 6 milioni gli italiani di età superiore ai 14 anni che hanno svolto nel 2013 un’attività di volontariato. Oltre 4 milioni di essi lo ha fatto in collaborazione con organizzazioni di vario tipo, mentre i restanti hanno prestato servizio direttamente, in maniera indipendente, a favore di altre persone, di comunità o dell’ambiente. Il tasso di volontariato è oggi pari al 12,6 per cento della popolazione, ovvero un italiano su 8. Dà speranza a pensare che nel 1993 il tasso era del 6,9 per cento e raggiungeva il 10% nel 2011.

Dati incoraggianti che ci dicono che esiste dunque una via per interpretare la realtà in modo differente; il cristiano dovrebbe esserne innanzitutto cosciente e saperla indicare a tutti in modo chiaro e luminoso. Nel Vangelo, infatti, la logica del rapporto padrone–dipendente viene spezzata per sempre. L’uomo è figlio, non servo. Partecipa degli utili «chiunque avrà lasciato case, o fratelli, o sorelle, o padre, o madre, o figli, o campi per il mio nome, riceverà cento volte tanto e avrà in eredità la vita eterna», Mt 19, 29, ma è anche chiamato a farsi carico degli oneri. In particolare, deve condividere la «politica aziendale» ed essere pronto a sacrificarsi per i beni di famiglia («se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua», Lc 9, 23). Il cristiano è invitato a essere coerede del creato di cui è parte, ma di cui è anche custode responsabile, project manager del lavoro di redenzione di Dio.

Ciò significa imparare a dire dei sì e dei no, significa assumere delle responsabilità sentendosi piloti e non passeggeri della propria vita e di quanto ci circonda. Le famiglie (o le comunità religiose, a cui Giuseppe Allamano si rivolgeva direttamente) sono ottimi banchi di prova per vedere se uno cresce in questa dimensione o se rimane fermo a mercificare diritti e doveri cercando di farli quadrare in bilancio, riuscendo magari pure a guadagnarci qualche cosa.

«Non dire mai non tocca a me, perché tocca a tutti». L’Allamano lo raccomandava anche ai missionari partenti, come un lascito importante, una di quelle cose da mettere in valigia, magari all’ultimo momento, ma da non dimenticare assolutamente. «Dobbiamo essere tutti uniti fra noi», interessandoci delle cose comuni, superando la mentalità di chi si vede realizzato solo ed esclusivamente nel compito che gli viene dato. Parafrasando un esempio da lui fatto: il gas lasciato acceso è un pericolo per la casa, forse nessuno è stato incaricato di spegnerlo, e allora che cosa si fa? Ci si adopera in un’azione preventiva o si aspettano i pompieri perché tanto «tocca a loro»?

Oggi, sta purtroppo diventando stereotipata l’immagine del religioso accomodato nella sua vita e, proprio per questo motivo, accomodante nei confronti di tutto ciò che minaccia la vita del Regno. Il ripetere «non tocca a me» ammazza lo spirito stesso della vita religiosa che presuppone la sequela di qualcuno, Cristo, che ha rifiutato la tentazione del «passi da me questo calice» per farsi carico, responsabile fino in fondo della missione affidatagli. Giuseppe Allamano, che vedeva nella vocazione missionaria la perfezione di quella religiosa e sacerdotale, non tollerava spiriti tiepidi, non desiderosi di dare il 101% alla causa del Vangelo.

Non si può non leggere nella pillola di questo mese il desiderio profondo di vedere una cristianità con le maniche rivoltate, pronta a offrire impegno, creatività e testimonianza in tutti gli aspetti della vita in comune. «Tocca a me» partecipare della vita politica del mio paese, contribuire a migliorare l’educazione dei figli, creare modelli di convivenza pacifici e solidali sul territorio, inventare strategie di economia sostenibile o scegliere che tipo di ambiente voglio lasciare a chi verrà dopo di me.

È un’illusione pensare che il girare la testa dall’altra parte lasci le cose come stanno. Sul lungo termine le cose peggiorano e s’incancreniscono, così come i cuori diventano più aridi, incapaci di dare, di aprirsi all’altro, di creare qualcosa di nuovo.

Nella sua famosa «Lettera ai giudici», Don Milani ricordava questo come uno dei principi fondanti della sua pedagogia: «Su una parete della nostra scuola c’è scritto grande I care. È il motto intraducibile dei giovani americani migliori. “Me ne importa, mi sta a cuore”. È il contrario del motto fascista “Me ne frego”». Di sicuro, per il priore di Barbiana il principio era irrinunciabile e rimaneva valido anche di fronte alla tentazione di una vita più comoda, ma meno realizzante: «Stasera ho provato a mettere un disco di Beethoven per vedere se posso ritornare al mio mondo e alla mia razza e sabato far dire a Rino: – Il priore non riceve perché sta ascoltando un disco –. Volevo anche scrivere sulla porta – I don’t care più –, ma invece me ne care ancora, molto.» (Lettera di Don Milani a Francuccio Gesualdi, 4 aprile 1967).

Ugo Pozzoli


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Pillole «Allamano» 8: Fare bene il bene … e senza rumore


«I miei anni sono più pochi, ma fossero pur molti, voglio spenderli in fare il bene e farlo bene: io ho l’idea del Ven. Cafasso, che il bene bi sogna farlo bene, e non rumorosamente» (Conferenze IMC, I, 116).

Un tempo si usava portare a scuola un quaderno, lasciarlo nelle mani dei compagni affinché ciascuno a turno potesse scrivere un messaggio, un augurio o fare semplicemente una decorazione come ricordo. Ovvia mente anche l’insegnante era chiamata in causa e doveva corredare le pagine di tutti gli alunni con un saluto, un disegno, una massima beneaugurante. Ricordo a questo proposito una storiella che si raccontava in casa, forse proprio nel pe riodo in cui era iniziato questo scambio di diari anche con i compagni miei e di mio fratello. La maestra di non ricordo più quale membro della nostra famiglia aveva restituito il quaderno al mio povero parente con tre o quattro pagine strappate e diverse cancellature ancora visibili, segno evidente che l’operazione le era costata fatica e si era dimostrata più complicata del previsto. Il risultato di tanto sforzo, condensato in una massima scritta a incoraggiamento morale del mio congiunto, prendeva forma alla fine di tutta quella devastazione. Era una sorta di testamento spirituale che potesse rimanere a imperitura memoria del corpo docente (cosa che di fatto avvenne), il cui testo recitava: «Fai bene ciò che fai!». Era chiaro l’intento educativo che sottolineava l’importanza di mettere impegno nel fare le cose, agendo in modo consapevole e non trasandato. Peccato che in quell’occasione alla predica non fosse seguita un’applicazione adeguata. Sulla necessità di fare il bene, in effetti, vi sono poche controversie. Il problema, semmai, è riuscire a farlo bene.

Il primo articolo della «Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo» recita: «Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratel lanza». Mi sembra interessante il fatto che prima di elencare e affermare i diritti inalienabili dell’essere umano, il testo dica ciò l’essere umano è (libero, uguale agli altri in fatto di dignità e diritti, razionale e dotato di coscienza…), ed esprima il mandato uni versale ad agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza. L’articolo termina dunque con un appello a costruire il bene comune, a «fare il bene» perché valore condiviso, di tutti, universale. «Fare il bene» è un’attività che appartiene alla sfera dell’umano, alla legge naturale che regola l’ordine delle cose di questo mondo. Il bene non è soltanto un’idea tra scendente che va al di là del quotidiano, la realtà dove l’individuo vive ed agisce, ma anche ciò che l’uomo mette in pratica per vivere in maniera armonica la sua vita sociale e politica. Quella di questo mese è dunque una pillola che può essere assunta da chiunque, credente o non cre dente, per il solo fatto che punta alla felicità del l’uomo nella sua dimensione personale e sociale, in dipendentemente dalle convinzioni di carattere filosofico, culturale o religioso. Del resto, chi non vorrebbe poter condurre una vita armonica, felice e se rena?

Chiaramente, letto in ottica cristiana, il consiglio di Giuseppe Allamano assume una profondità ulte riore. Il precetto di fare il bene si radica nella mis sione propria dell’uomo di continuare l’opera crea trice e redentiva di Dio. Dio crea, e vede che quanto creato è buono. Questa bontà deve essere preservata perché il disegno di Dio non comprende il male, se non come frutto di un esercizio improprio della libertà dell’uomo. Anzi, nel progetto originale, l’uomo viene nominato il custode della creazione, creato a immagine e somiglianza di Dio, creato buono per fare il bene.

Tuttavia, basta poco per rendersi conto come le cose non funzionino esattamente così. Anzi, basta vivere in maniera cosciente per costatare come il male imponga spesso la sua presenza, una presenza misteriosa che non si può comprendere fino in fondo e, per questa ragione, tanto più angosciante. Fiumi di parole si sono scritte e si scrivono sul problema del male; ma anche lì dove pare che una scintilla di ragione riesca a imporsi sul buio, un’ingiusti zia, un lutto, un atto di cattiveria gratuita, una malattia fanno improvvisamente piombare nel buio del mistero chi cerca di capire.

Cristo è la risposta di Dio all’esistenza del male. Gesù non spiega, ma carica sulle sue spalle la croce e assume su di sé il male del mondo, esprimendo con la sua azione la massima espressione di bene: dare la vita per i propri fratelli. Fare il bene sempre e comunque è la risposta di Dio all’esistenza del male. Lasciarsi vincere dal risentimento o dalla disperazione di fronte a una situazione di dolore significa, per quanto umanamente comprensibile, fare il gioco del male, lasciarsi avvolgere dalle sue spire, restarne imprigionato. Rispondere con il bene dà un senso nuovo alla nostra vita. È la logica dell’a more incondizionato, del perdono e della riconcilia zione con se stessi, gli altri, il mondo ciò che costruisce e conserva il bene.

Decembre 1902, partenza delsecondo gruppo di missionari per il Kenya

Fare il bene …e farlo bene

Tuttavia, il bene è fragile e va trattato con cura. Non solo: il confine tra bene e ciò che non lo è risulta essere molto più labile di quanto si possa pensare. Sul fatto che sia ne cessario, anzi imperativo, fare il bene ci possiamo trovare quasi tutti d’accordo. Più difficile è stabilire confini di quando il bene è di fatto tale, o di quanto non lo è. Il bene imperfetto non è un bene. L’unico bene è quello fatto bene e perché sia veramente tale occorre farlo con prudenza e con sapienza. Un atto può essere buono o cattivo in sé, ma vi sono al tri fattori importanti, che vanno tenuti in conto. L’intenzione di chi compie l’atto non inficia la bontà dell’atto, che in sé continua a essere buono o cattivo, ma un’intenzione non retta fa indubbiamente perdere punti morali alla mia azione. Il narcotrafficante colombiano Pablo Escobar è stato in sé un grande benefattore e molti poveri hanno beneficiato del suo aiuto. Tuttavia, sebbene migliaia di persone ne scortarono il feretro il giorno del suo funerale, le biografie non lo ricordano esattamente come un angelo della carità. Parimenti, inutile dirlo, una buona intenzione non può convertire un atto cattivo in qualcosa di diverso. Rubare, ammazzare, giurare il falso sono sempre atti in sé non buoni, in dipendentemente dalle intenzioni di chi li compie. Detto questo, salta immediatamente all’occhio l’im portanza di un terzo elemento: quello delle circo stanze. La lettura sapiente di queste ultime è ciò che ci aiuta ad avere tutti gli elementi affinché si possa fare il bene e farlo davvero bene. Atti buoni, sostenuti da intenzioni altrettanto buone e gene rose, possono diventare occasione di un bene non fatto bene e creare situazioni di dipendenza nelle persone che vorremmo fare oggetto del nostro bene, oppure non rispondere agli effettivi bisogni della situazione su cui si vuole intervenire. O ancora, si può fare una buona azione, con rettissima intenzione, ma farlo con tale malagrazia, prepotenza, sufficienza, arroganza, paternalismo, ecc. da far risultare il nostro bene un completo fallimento. È chiaro che sull’argomento si potrebbero spendere fiumi di inchiostro. Pensiamo a quante esperienze si potrebbero raccogliere facendo raccontare episodi di vita vissuta in cui il bene non è stato fatto bene. Genitori, insegnanti, religiosi… Chiunque nella sua vita ha avuto modo di relazionarsi con gli altri potrebbe, raccontandosi, arricchire il campionario di errori, più o meno involontari, commessi nel tenta tivo di fare del bene.

Giuseppe Allamano desiderava che i suoi missionari potessero salvaguardarsi da questo rischio. Da uomo pratico qual’era, si dimostrava cosciente del fatto che la perfezione non apparteneva a questo mondo, ma allo stesso tempo cercava di preparare i suoi alle esigenze della missione, che richiedeva, perché molto impegnativa, delle risposte eccellenti.

Giuseppe Allamano, vero innamorato della preghiera, era anche cosciente che quest’ultima dovesse essere «aiutata» dalla persona stessa ad incarnarsi nelle situazioni che avevano bisogno di essere toccate e illuminate. Alcune sue insistenze di ventano per noi un insegnamento importante per poter fare bene il bene da compiere.

La prima è l’attenzione che egli vuole i suoi missionari mettano nel conoscere la realtà che li circonda. Conoscere bene lingua, cultura, storia, usi e costumi di un posto aiuta ad analizzare le circostanze e prevedere le conseguenze dei nostri atti. Fare il bene bene presuppone conoscere l’altro. Per fare ciò bisogna innanzitutto essere presenti, stare con l’altro lì dove egli vive. Questo vale per un genitore con i figli, così come per un educatore con le persone che gli sono affidate o per un prete con la sua comunità. Le relazioni «toccata e fuga» si nutrono di buone in tenzioni, ma nella maggior parte dei casi non sanno esprimere un bene ben fatto. Anche lo studio aiuta e Giuseppe Allamano era oltremodo esigente in merito con i suoi missionari a conoscere il contesto e a operare bene. La lunga permanenza dell’Allamano in confessionale, esercizio in cui era pignolo con i preti a lui affidati, lo aveva poi reso esperto nell’arte dell’ascolto. Chi l’ha conosciuto e ne ha dato testimonianza ha ricordato come si fosse sentito da lui ascoltato e, per questo motivo, capito. Fare il bene costa: fatica, tempo, energie e a volte anche denaro. Eppure, quante risorse e quante opportunità sono andate sprecate per aver semplicemente equivocato il bisogno vero dell’altro, per non averlo saputo ascoltare.

Vi sono poi due consigli specifici per fare bene il bene che Giuseppe Allamano trae da suo zio San Giuseppe Cafasso, a cui deve molto della sua ricchezza spirituale, e sono diretti a migliorare la persona in quanto tale, affinché questa ponga attenzione ai dettagli del proprio agire, per permettere al bene di rendersi evidente togliendo spazio al male. Oggi, usando un termine a noi più familiare, potremmo dire che l’Allamano consigliava la pratica del discernimento: mettersi davanti a Gesù e chiedersi come lui si sarebbe comportato in una determinata situazione, arricchendo così la lettura della realtà con quell’abbandono nella fede che dovrebbe guidare ogni azione del buon cristiano. Dopodiché, una volta identificato il come agire, buttarsi a capofitto, «come se quell’azione fosse l’ultima della vostra vita», affinché la mancanza di determinazione o di energia non debba successivamente penalizzare i buoni effetti del nostro fare il bene.

Si capisce che per Giuseppe Allamano «fare il bene bene» significa soprattutto «essere bene». Formarsi al bene permette di dare agli altri ciò che si è, con naturalezza, spontaneità, competenza… amore. Essere bene vuole anche dire volere il bene dell’altro in quanto altro, escludendo o non considerando i benefici, le grazie, i favori che ne potrei conseguire come agente del bene. Escludere i secondi fini per mette di vivere il bene con la vera umiltà di chi vuole farlo perché l’altro e soltanto l’altro ne possa beneficiare. Forse è vero che il bene non lo si fa: il bene in quanto tale è, e noi lo possiamo soltanto rappresentare, convertendolo magari anche in un qualcosa di concreto. Nel nostro delirio di occidentali tutti dediti al fare, il non essere protagonisti del bene che facciamo, ma lasciare diventare gli altri protagonisti del bene che noi semplicemente testimoniamo, sarebbe una rivoluzione copernicana, di quelle di cui sono capaci i Santi, come Giuseppe Al lamano.

Una volta stabilito questo si capisce perfettamente che il bene deve essere «silenzioso», deve sapersi presentare alla ribalta senza pompa e senza trombe. pubblicizzare incessantemente ciò che facciamo non aiuta a essere migliori di ciò che siamo, anzi! Il bene fa fatto bene… e senza rumore.

Ugo Pozzoli

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Immagini che parlano – Le foto di San Giuseppe Allamano

 


Negli archivi dell’Imc ci sono oltre cento lastre di vetro e alcune stampe d’epoca che ritraggono il fondatore. La canonizzazione è l’occasione per rivisitare questo materiale e capire quali sono gli originali, quali le copie e controllarne la qualità o provvedere ai necessari restauri. Un lavoro sfidante, ma anche ricco di stimoli e sorprese.

Difficile dire se Giuseppe Allamano fosse allergico alle foto o no, visto che a quei tempi non si scattavano con la facilità a cui siamo abituati oggi e, soprattutto, richiedevano molto più tempo per ognuna. È certo, però, che fosse molto interessato all’uso della fotografia, tanto che, quando con il canonico Giacomo Camisassa nel 1899 fondò la rivista «La Consolata» (da cui nel marzo 1928 nacque la nostra Missioni Consolata), si rivolse ai migliori specialisti, allora a Vienna, per far fare i cliché di piombo e ottenere una qualità di stampa tanto alta da rendere la bellezza delle immagini in maniera superba.

Le fotografie erano poi una parte essenziale dei resoconti che lui chiedeva ai missionari dal Kenya.

Una breve storia

8 maggio 1902, San Allamano alla partenza dei primi 4 missionari

La prima foto che ritrae Giuseppe Allamano risale a prima del 1873, anno della sua ordinazione sacerdotale. Lo si intravede nella foto di gruppo con i suoi compagni di corso. C’è poi una fototessera di lui giovane sacerdote. Il suo formato ovale è un indizio interessante, visto che anche il suo amico e collaboratore don Giacomo Camisassa è ritratto in una di formato simile che porta il timbro dell’Esposizione generale italiana tenutasi di Torino del 1884. Che siano andati insieme all’esposizione dove, tra le molte meraviglie, venivano presentate anche le ultime novità fotografiche? È poi per amore dello zio, don Giuseppe Cafasso (1811-1860), che nel 1895 Allamano si sottopone a una serie di foto per presentarne il nuovo ritratto dipinto da Enrico Reffo (1831-1917). In quel momento aveva una terribile cefalea che gli faceva chiudere l’occhio sinistro (fatto che si vede poi in molte foto). Dei primi anni della sua vita sacerdotale abbiamo solo alcune fotografie generiche in cui lui è presente in mezzo ad altri. Ad esempio una foto lo ritrae con alcuni uomini che avevano partecipato agli esercizi spirituali al santuario di sant’Ignazio e lo avevano convito a fare una passeggiata con loro sui monti vicini.

Ci volle la partenza dei primi missionari nel 1902 per farlo posare insieme ai partenti di maggio in due foto, una da solo con il volto pieno di gioia (particolare foto qui sopra), e una con Camisassa ormai suo stretto collaboratore nel santuario della Consolata e confondatore del nuovo istituto. Un’altra foto è con il gruppo partente a dicembre.

Poi posò diverse altre volte. Uso il verbo «posare» pensando ai lunghi tempi di esposizione e all’immobilità allora necessaria per ottenere buone foto. Due di esse sono particolarmente significative. La prima risale al 1906-1907, quando nel suo studio a Rivoli si fece fotografare mentre compilava il «Direttorio» di vita dell’Istituto. La seconda è del 1923 quando gli fecero fare una serie di foto per la celebrazione del suo 50° di sacerdozio.

Allamano si era anche fatto fotografare nel 1911 al santuario di sant’Ignazio vicino al pilone dedicato alla Consolata che lui aveva appena fatto costruire. E nel 1914, quando un gruppo di seminaristi andarono a visitarlo nella sua casa di Rivoli, durante una delle loro passeggiate del giovedì (che allora era vacanza da scuola), e lo convinsero a posare per loro. Nel 1916 l’occasione per una bella foto di gruppo fu la visita del cardinale Cagliero alla Casa Madre. Ci sono poi alcune altre pose di cui non conosciamo la ragione e il tempo preciso.

Un incontro speciale

Non è, però, questa cronologia delle foto che ritraggono Giuseppe Allamano il cuore di quanto desidero condividere con voi. In questi tempi prima della canonizzazione ho speso molte ore a rivedere, studiare e restaurare tutte le foto del nostro santo che abbiamo in archivio. È stata un’esperienza sfidante dal punto di vista professionale, ma forse, e molto di più, è stata anche un’occasione unica per un incontro ravvicinato molto profondo con lui.

Guardarsi negli occhi

Parto dalla foto che è stata scelta come immagine ufficiale per la canonizzazione. È quella che fu usata nel 1923 per il 50° anniversario di sacerdozio di Giuseppe Allamano.

Ho tra le mani una bella lastra di vetro da 13×18 cm. Con lo scanner posso fare la scansione anche solo del dettaglio del volto, dimenticando il resto della figura. Guardo il risultato, e con mia grande sorpresa scopro che l’occhio sinistro è pesantemente ritoccato e la pelle del viso piena di rigacce. Una maschera, non un bel volto. I ritocchi sulla lastra furono fatti per risolvere due problemi: nascondere lo strabismo causato da una delle sue solite emicranie e rendere il volto più luminoso nella stampa. Il ritocco sul volto fu fatto con tratti di matita, mentre un graffio puntiforme nell’occhio raddrizzava la pupilla.

Non vi dico quante ore ho lavorato per liberare quel volto dai segni di matita e ripristinare l’occhio, ma il momento più bello ed emozionante è stato quello in cui ho ingrandito il lavoro finito e ho guardato dritto nei suoi occhi, anzi lui ha guardato dritto nei miei. È stato come averlo lì davanti a me, faccia a faccia, occhi negli occhi. Non servivano parole. Mi sono sentito amato da lui.

E poi vedere quel volto così pulito, è stato come potergli dare una carezza e un abbraccio, sentendo il calore della sua guancia sulla mia (foto qui sotto).

Guardare a destra

La statuetta della Consolata cara ad Allamano

C’è un particolare che ricorre in quasi tutte le foto che ritraggono Allamano: il suo sguardo è rivolto sistematicamente a destra. Mi sono detto che quella probabilmente era un’abitudine del tempo, forse per non distrarsi e non sbattere le palpebre durante i lunghi tempi di esposizione. Ricordo che anche mio padre, nato nel 1910, aveva l’abitudine di mettersi in posa così. Ma forse, per Allamano c’era qualche ragione in più.

Nelle otto foto del suo 50° si nota una costante: lui è sempre rivolto verso la statuetta della Consolata (foto qui accanto) che sta alla sua destra. Come non pensare alla richiesta dei due fratelli, Giacomo e Giovanni, di sedersi uno alla destra e l’altro alla sinistra di Gesù? Normalmente la destra era il posto del primo ministro, della persona più importante dopo il re.

E forse qui, in questo insistente guardare di Giuseppe Allamano a Maria, stando seduto o in piedi alla sua sinistra, è rappresentata la sua relazione con lei. Da una parte il suo sguardo dice quanto Maria sia centrale nella sua vita, dall’altra dice a Lei che lui è il suo servo fedele, un umile servo, come lei è stata umile serva del Signore.

Ma forse c’è anche un altro significato nel suo porsi alla destra di Maria, dalla parte del suo cuore. È l’atteggiamento del bambino in braccio alla Madre, il bambino che sa di essere amato. Servo sì, ma anche figlio di una Madre amorosa, in cui riporre totale fiducia. Una Madre che ha a cuore ogni persona del mondo, in particolare i più piccoli e i più poveri.

Abito semplice

1923, una delel foto per il 50° di messa. Notare l’abito, la statuetta delle Consolata e il Regolamento ai piedi della Madonna.

Un altro messaggio ce lo danno gli abiti. Ci sono alcune foto dove Allamano indossa di dovere gli abiti da cerimonia, come durante le processioni. Altre volte veste l’abito formale del canonico della cattedrale di Torino, con tricorno e tutto il resto, come nelle foto della partenza dei primi missionari. Con quell’abito che lo identifica con la sua Chiesa di Torino, forse vuole dirci che non è tanto lui che manda i missionari, ma la tutta Chiesa. Ancora una volta, è nelle foto «ufficiali» del suo 50° di sacerdozio che ho colto un messaggio potente sulla sua umiltà e semplicità.

In quell’occasione, non si presentò dopo essersi rivestito con i suoi abiti migliori, quelli che avrebbero meglio espresso il suo rango nella Chiesa di Torino: rettore del principale santuario della città, canonico della cattedrale, responsabile del convitto ecclesiastico, e anche fondatore dei Missionari e Missionarie della Consolata. No, si presentò con una talare di tutti i giorni, come uno che è stato chiamato per le foto senza preavviso, mentre era indaffarato nel lavoro (foto qui accanto). La talare è lisa, evidentemente stropicciata, e forse anche un po’ stretta, tanto che si intravedono i segni delle bretelle che indossa sotto. E lui non pare a disagio, imbarazzato, sminuito nella sua dignità. Anzi. Sembra sentirsi proprio bene come il servo di Maria, l’ultimo servo, onorato solo proprio dal poterla servire in umiltà. Un uomo che davvero non si cura dell’apparenza, ma punta alla sostanza.

Paternità e tenerezza

Allamano accanto al pilone della Consolata al Santuario di Sant’Ignazio il 17 agosto 1911. Doveva essere con lui solo, ma il piccolo Vittorio si intrufolò.

San Giuseppe Allamano non era certo smanioso di farsi fotografare, ma conosceva bene il valore della fotografia. Per questo nel seminario volle anche il laboratorio fotografico (sopravvissuto fino agli anni Settanta) dove i futuri missionari avrebbero studiato e praticato la fotografia aiutati da professionisti della città. In questo contesto accettò diverse volte di posare proprio per far piacere ai suoi amati chierici. Basta guardare alla foto del 17 agosto 1911 al pilone della Consolata presso il santuario di sant’Ignazio. Dal suo occhio chiuso si capisce che stava avendo uno dei suoi attacchi di emicrania, ma non si tirò indietro e accettò anche la birbonata del giovane Vittorio Merlo Pich che volle farsi fotografare con lui intrufolandosi nella foto (ragazzo in primo piano foto accanto).

La sua disponibilità a lasciarsi fotografare si vede poi nel suo volto rilassato della foto del 1914 con gli studenti sotto il grande cedro della villa di Rivoli, oppure in quella del 1915, quando cede alle insistenze del chierico Mario Borello, oppure, infine, nella simpatica foto di lui, ormai anziano, che sorride divertito al fotografo, ancora una volta nel giardino di Rivoli.

Lo spirito ve lo do io

C’è poi un ultimo elemento che le foto mi suggeriscono. Diverse volte Allamano diceva ai suoi missionari: «Lo spirito ve lo do io», per sottolineare come dovessero avere uno stile missionario specifico e non agire di istinto secondo i gusti di ciascuno o seguire modelli presi a prestito da altri. Ci sono diverse foto che sottolineano questo e che dicono ai suoi missionari: «Non siete gente qualsiasi, ma Missionari della Consolata».

Nella foto della partenza del primo gruppo, ad esempio, lui ha saldamente in mano il Regolamento dell’Istituto. Significative poi sono le due foto che lo riprendono allo scrittoio a Rivoli, dove non sta scrivendo un testo qualsiasi, ma il Direttorio dell’Istituto, un documento che vuole precisare l’identità e lo stile dei suoi missionari. In più, nelle foto del 50° di messa il Regolamento è sempre in evidenza.

Statuetta della Consolata e testo del Regolamento: i suoi due amori, la Madre di Gesù e la Missione, gli stessi che devono plasmare la vita dei suoi missionari e di ogni sacerdote.

Gigi Anataloni


Per vedere tutte le foto di San Allamano

Potete osservare tutte le foto del nostro santo sul sito a lui dedicato attraverso una presentazione pdf completamente revisionata e aggiornata.
https://giuseppeallamano.consolata.org/index.php/guardare-san-giuseppe-allamano-negli-occhi




Tutti per la missione


«Per la Giornata missionaria mondiale (20 ottobre, ndr) di quest’anno ho tratto il tema dalla parabola evangelica del banchetto nuziale (cfr. Mt 22,1-14). Dopo che gli invitati hanno rifiutato l’invito, il re, protagonista del racconto, dice ai suoi servi: “Andate ora ai crocicchi delle strade e tutti quelli che troverete, chiamateli alle nozze” (v. 9). Riflettendo su questa parola chiave, nel contesto della parabola e della vita di Gesù, possiamo mettere in luce alcuni aspetti importanti dell’evangelizzazione. Essi si rivelano particolarmente attuali per tutti noi, discepoli-missionari di Cristo, in questa fase finale del percorso sinodale che, in conformità al motto “Comunione, partecipazione, missione”, dovrà rilanciare la Chiesa verso il suo impegno prioritario, cioè l’annuncio del Vangelo nel mondo contemporaneo».

Così scrive papa Francesco nel suo messaggio per la Giornata missionaria mondiale (Gmm) 2024, sottolineando tre aspetti strettamente correlati tra loro: l’andare e invitare tutti alla festa, la festa che è espressione della vocazione alla gioia e alla fraternità, celebrata al banchetto della vita, il banchetto che deve coinvolgere tutti come protagonisti.

La Gmm di quest’anno vedrà, tra l’altro, la canonizzazione di Giuseppe Allamano, fondatore dei Missionari e delle Missionarie della Consolata, di due suore (una canadese e un italiana), di otto frati minori (sette spagnoli e uno austriaco) e tre fratelli siriani trucidati a Damasco nel 1860. Una celebrazione di universalità che ricorda come tutta la Chiesa è missionaria.

Se oggi celebriamo la Giornata missionaria mondiale, lo dobbiamo anche a GiuseppeAllamano che nel 1912 promosse una petizione prendendo spunto dal Pime (Pontificio istituto missioni estere, all’epoca Seminario lombardo per le missioni estere) che, a Milano, già dal 1910 viveva la «domenica missionaria» annuale. A quel tempo la missione era sentita come qualcosa che sottraeva persone ed energie alle Chiese locali, per cui tanti vescovi ostacolavano chi voleva partire come missionario. Per Allamano, sacerdote diocesano lungo tutto l’arco della vita, però, la missione non era qualcosa che impoveriva, ma parte fondante la Chiesa stessa, qualcosa che doveva coinvolgere ogni cristiano proprio perché battezzato. Sarebbe poi arrivato il Concilio Vaticano II con il documento Ad gentes, a ratificare questa verità.

Tornando a una sottolineatura di papa Bergoglio nel messaggio citato, si osserva che anche la Gmm si inserisce nel percorso del Sinodo. Non potrebbe che essere così. Il «rilancio» della Chiesa – della sua sorgiva e fondante vocazione a portare il Vangelo nelle strade del mondo – passa proprio attraverso il suo profilo missionario. Francesco consegna dunque alla Chiesa universale domande ineludibili: come essere Chiesa sinodale in missione? Come rinnovare l’impegno missionario di tutti? Questo «tutti» si rivela elemento centrale.

Il «cambiamento d’epoca» che stiamo vivendo, con profonde sollecitazioni antropologiche e nuove sfide per il senso religioso, richiede il coinvolgimento e la risposta – matura, generosa, gioiosa e, appunto, missionaria – di ogni cristiano, uomo o donna, per trovare modalità nuove e creative di annunciare il Vangelo all’umanità del terzo millennio.

«La missione per tutti richiede l’impegno di tutti», scrive ancora Francesco. «Occorre perciò continuare il cammino verso una Chiesa tutta sinodale-missionaria a servizio del Vangelo. La sinodalità è di per sé missionaria e, viceversa, la missione è sempre sinodale. Pertanto, una stretta cooperazione missionaria risulta oggi ancora più urgente e necessaria nella Chiesa universale come pure nelle Chiese particolari. Sulla scia del Concilio Vaticano II e dei miei predecessori, raccomando a tutte le diocesi del mondo il servizio delle Pontificie opere missionarie, che costituiscono i mezzi primari sia per infondere nei cattolici, fin dalla più tenera età, uno spirito veramente universale e missionario, sia per favorire una adeguata raccolta di sussidi a vantaggio di tutte le missioni e secondo le necessità di ciascuna». Un invito, quello del Papa, che ridà senso e coraggio e concreta prospettiva alla missione oggi.

Fesmi (Federazione stampa missionaria italiana)