KENYA – Come fermare la tramissione dell’HIV

In Africa, i disastri dell’Aids non dipendono soltanto dalla mancanza di medicinali (introvabili o troppo cari), ma anche dall’ignoranza e dai comportamenti degli uomini. Intanto, anche qui, i convegni medici si tengono sempre in lussuosi hotel a 5 stelle… Un duro atto d’accusa dal Kenya.

Dal 21 al 26 settembre si è tenuta a Nairobi, in Kenya, la 13.ma «Conferenza internazionale sull’Aids e infezioni trasmesse sessualmente» (Icasa). La conferenza è stata giudicata un «successo» dalle autorità, ma non tutti sono d’accordo.

Commenta un osservatore locale, il dottor I.K.W. «Govei, Organizzazioni non governative ed Onu organizzano conferenze, seminari e fiere quasi quotidianamente, su diverse tematiche, con l’Hiv/Aids sempre in primo piano. La maggioranza di questi convegni sono permeati da grande ipocrisia.
Le conferenze sono invariabilmente tenute in alberghi o ritrovi turistici a “5 stelle”. La spesa di una settimana per un singolo delegato sarebbe sufficiente per comprare i farmaci anti-retrovirali per almeno 100 persone per un anno.

I delegati, alla fine della conferenza, se ne vanno, dopo aver goduto di una eccellente “vacanza” in luoghi esotici, a spese altrui, e presto si dimenticheranno delle decisioni prese. In questa conferenza non sembra che alcun delegato o gruppo abbia ufficialmente visitato le baraccopoli o alcun villaggio rurale dove l’epidemia è rampante».

Quasi tutti gli studi presentati, statistiche ecc., non sono altro che «fotocopie retoriche» di quello che tutti ormai sanno. Le multinazionali farmaceutiche partecipano solo per la pubblicità che ne derivano, e si tengono ben stretti i brevetti con i quali producono i farmaci anti-retrovirali che gli ammalati disperatamente ricercano.

Molti dei professionisti, medici, ecc., finita la «vacanza», non vedono l’ora di ritornare alle loro lucrose pratiche, ossia curare la gente che può pagare lautamente. Gli ammalati delle zone rurali rimangono abbandonati come prima.

Cosa capita effettivamente a livello di «strada»? Scrive sul Washington Post la giornalista Martha Blunt: «Incontrai Stella in un bar di Nairobi. Bellina, dal corpo snello, mi diceva di avere 18 anni, ma sembrava più giovane. Rimasta orfana non riesce a trovare lavoro, tuttavia ha abbastanza da mangiare, un posto per dormire e porta dei vestiti decenti. Mentre beviamo qualcosa, arriva il “benefattore” di Stella, un sessantenne ben vestito con la fede nuziale, e abbastanza corpulento, che cerca di allontanarmi dalla sua “fidanzata”».

I sociologi dicono che si tratta del fenomeno di «sesso attraverso le generazioni» diventato comunissimo nei paesi africani; altri lo chiamano The kiss of death from sugar daddies («Il bacio della morte ricevuto dal “paparino”»); oppure in swahili baba sukari o baba mkate. In cambio di sesso le ragazze ricevono vestiti, la retta scolastica, da mangiare e, presto o tardi, l’infezione dell’Hiv.

La girandola è micidiale: le ragazze passeranno il virus al prossimo «paparino», che lo passerà alla moglie, la quale infetterà il prossimo neonato.
Il fenomeno è semplicemente la manifestazione, in termini modei, dell’atavica pratica della poligamia. Per generazioni, l’uomo africano benestante prendeva la prima moglie da ventenne, la seconda da trentenne, la terza da quarantenne, la quarta da cinquantenne e via di seguito. Ogni moglie doveva essere in età procreativa, ossia dai 13 anni in avanti. Questa usanza, ancora diffusa nelle zone rurali, è praticamente impossibile tra i ceti educati e urbanizzati. Di qui la pratica della «ragazza» sistemata in qualche angolo della metropoli.

Statistiche più o meno attendibili riferiscono che un terzo delle ragazze teen-agers (adolescenti) in Africa Orientale sono Hiv positive. Gli uomini credono che le ragazze giovanissime non comportino rischi e le medesime pensano lo stesso verso l’uomo benestante. A parte le relazioni sessuali «civili» di cui sopra, l’altra causa maggiore d’infezioni tra le minorenni sono gli abusi perpetrati sulle ragazzine nell’ambito familiare. La pratica è largamente diffusa tanto nelle campagne come nei centri urbani. Molte di queste giovanissime, rimaste orfane a causa dell’epidemia Aids, per forza si adattano a vivere con i parenti, in stato di virtuale schiavitù.

Una bambina orfana di 12 anni, intervistata dagli osservatori di Human Rights Watch, cosí rispondeva: «Mio zio, per farmi cedere, mi batteva con un cavo elettrico. Prima di andare ad abitare con gli zii, stavo con altri parenti. Il mio fratellastro mi violentava già quando avevo 9 anni».

MILIONI DI INFETTATI

Già dalle prime battute della conferenza di Nairobi risultava evidente che i farmaci anti-retrovirali, anche se venduti a basso prezzo, non sarebbero sufficienti a fermare l’epidemia. Toccherebbe ai governi acquistarle a prezzo speciale dalle aziende farmaceutiche e distribuirle gratis ai più bisognosi.

Diversi delegati hanno accusato certi paesi ricchi di sovvenzionare le conferenze per motivi politici, senza provvedere le medicine urgentemente indispensabili. La conferenza di Nairobi ha attratto 7.000 partecipanti da 109 paesi, che in 100 sedute hanno prodotto oltre 300 documenti scientifici, utili per gli archivi ma non tanto per gli ammalati. La 14.ma conferenza si terrà ad Abuja, in Nigeria, nel 2005.

Le statistiche aggiornate, per quel che valgono, parlano di 30 milioni d’africani infetti dal virus, sui 42 milioni nel mondo. Nell’Africa nera circa 2.4 milioni di persone sono morte d’Aids nel 2002. In Kenya circa 3 milioni sarebbero infetti, con oltre 500 mila morti fino ad oggi. Tuttavia le statistiche locali vanno prese per quel che valgono. I dati pubblicati sono molto approssimativi. Nelle zone rurali la gente normalmente muore di «malaria»…

Per quanto riguarda il Kenya, la conferenza ha prodotto una serie di direttive di carattere penale e legislativo, ma non ha promesso molto circa la possibilità di fornire i farmaci anti-retrovirali a tutte le persone infette. Evidentemente occorrono grandi capitali, che solo gli aiuti dall’estero possono fornire. Una nota positiva è quella che l’esercito americano, l’anno prossimo, in Kenya, inizierà una campagna di prove cliniche per un vaccino in via di sviluppo negli Usa.

INTANTO, IN SWAZILAND…

Cosa fanno gli altri governi in Africa per tenere sotto controllo la piaga dell’Aids? Per esempio, il Swaziland ha uno dei tassi d’infezione Hiv più alti del mondo.
Nel settembre 2001, il giovane monarca re Mswati III, di 35 anni, educato in Inghilterra, decretava un bando che proibiva le relazioni sessuali a tutte le donne sotto i 23 anni. Tuttavia, il giovane monarca, che aveva già «sposato» 11 ragazze, s’invaghiva della 12.ma poche settimane dopo aver scelto la numero 11: la diciottenne Nomonde Fihlawas, che aveva appena vinto la corona di miss Swaziland 2003.

Evidentemente il re contravveniva al suo decreto, emanato nel settembre 2001. Il Parlamento, in seduta speciale, lo condannava a pagare la «multa» di un bue grasso, senza dover rinunciare alla nuova «moglie».
Per chi si interessa di antropologia minore africana, riassumiamo il «modus operandi» con il quale il re del Swaziland si sceglie le «regine». La fidanzatina n. 11, una 17enne di nome Noliqhwa Ntentensa, verrà «sposata» regolarmente non appena avrà compiuto i 18 anni. Ntentensa è stata scelta dal monarca (l’anno scorso, 2002) dopo aver scrutinato una video cassetta di ragazze semi nude, che ogni anno partecipano alla tradizionale «danza delle canne» in onore della regina madre. Per la reed dance di quest’anno (2003) il re Mswati ha partecipato di persona.

Così ha commentato l’inviato speciale dell’agenzia di stampa Reuters: «Ludzidzini (Swaziland), venerdì 5 settembre 2003. Decine di migliaia di ragazzine hanno danzato, a seni scoperti, davanti al re sperando di attrarre la sua attenzione e diventare la sua prossima “moglie”. Quest’anno alla reed dance hanno partecipato un numero record di 50.000 teenagers. Nella scelta “reale” lo stato di verginità della ragazza è di rigore assoluto».

Questa «cerimonia» tuttavia attrae critiche da tutte le parti. Il piccolo regno africano è immerso nella povertà e devastato dall’epidemia dell’Aids. Una ragazza 17enne intervistata così ha risposto: «Sono stanca di essere povera. Spero che il re si accorga di me». Una grossa polemica era scoppiata dopo la danza del 2001. La madre di una ragazza aveva denunciato la scomparsa di sua figlia dal cortile della scuola, rapita, a quanto si diceva, dalle guardie del palazzo e forzata a vivere nel medesimo come «dama di compagnia». La bufera si era smorzata dopo pochi giorni. Ancora una volta aveva vinto il «palazzo».

Giorgio Ferro




INDIA – Il vaccino di Sabin arriva a domicilio


In India, Pakistan, Afghanistan, Nigeria, Niger, Egitto e Somalia, la malattia è ancora endemica. Ma…

È partita all’inizio dell’anno una delle più grandi campagne di vaccinazione della storia: il nemico è il virus della poliomielite. Quest’anno il vasto territorio indiano, e soprattutto lo stato dell’Uttar Pradesh, epicentro dell’epidemia del 2002, verrà percorso in lungo e in largo da migliaia tra volontari e operatori sanitari che andranno porta a porta a trovare e vaccinare tutti i bambini con meno di cinque anni: ben 165 milioni.
Già nel mese di gennaio e di febbraio oltre 33 milioni di bimbi hanno inghiottito le famose goccine del vaccino orale, il Sabin (vedi box). Un’altra massiccia spedizione è partita ad aprile, per raggiungee altri 98 milioni in 10 stati indiani, un’altra a giugno e altre due sono previste per i mesi di settembre e ottobre. Sei giorni dunque, chiamati National Immunisation Days, giornate nazionali di immunizzazione, nel corso del 2003, in cui i genitori hanno la possibilità di portare i loro figli in luoghi predisposti per sottoporli alla vaccinazione, seguiti nelle settimane successive da visite a casa delle famiglie che non si sono presentate.
Saranno raggiunti villaggi sperduti e affollate periferie urbane, né verranno dimenticati aeroporti, ferrovie e stazioni di pullman. Altrettante giornate sono previste per il 2004, il tutto per interrompere la diffusione del temibile virus responsabile della malattia (vedi box).
Nei primi mesi di quest’anno anche in Iraq, sulla bocca di tutti purtroppo per ben altri motivi, è partita una campagna di vaccinazione contro la poliomielite, che ha coinvolto oltre 14.000 operatori sanitari impegnati nel raggiungere 4 milioni di piccoli iracheni. L’Iraq ha avuto il maggior numero di casi di malattia nel 1999, riportati a zero l’anno successivo grazie agli sforzi dell’Unicef e dell’Oms.

«POLIO FREE»?
Una imponente organizzazione di uomini e di mezzi era l’unica risposta possibile di fronte ai numeri sconcertanti che hanno segnato l’anno passato e messo in allarme tutte le strutture sanitarie di controllo a livello mondiale. L’India infatti, contrariamente al resto del mondo e soprattutto a realtà come l’Europa (dichiarata l’estate scorsa polio free, libera cioè dalla malattia), ha visto impennarsi il numero di casi sul suo territorio, passati da 268 nel 2001 a sei volte tanto nel 2002; ad aprile di quest’anno se ne contavano già 55. Ma pur coprendo oltre l’80 per cento dei nuovi casi di poliomielite nel mondo, ha al suo fianco altri sei paesi dove la malattia non è ancora sotto controllo: con l’India, Pakistan, Afghanistan e Nigeria coprono oltre il 95 per cento dei casi mondiali, ma i restanti si dividono tra Niger, Egitto e Somalia. Non è ancora il momento dunque di cantare vittoria, e l’esperienza indiana ne è la triste prova.
L’Uttar Pradesh, che conta una popolazione di 170 milioni di abitanti, rappresenta la zona cruciale, da cui l’epidemia di poliomielite si è diffusa alle altre parti del paese e a cui è stato attribuito circa il 65 per cento dei nuovi casi di poliomielite del 2002. In questo stato del nord dell’India nascono ogni mese 300.000 bambini, ma solo il 23 per cento veniva regolarmente vaccinato, per il gran numero di parti avvenuti a domicilio e quindi sfuggiti al controllo sanitario.

VACCINAZIONE DI MASSA
La sfida alla poliomielite, per relegarla a malattia del passato come è successo per il vaiolo dopo il 1979, è stata lanciata nel 1988 con la partenza della Global Polio Eradication Iniziative (Gpei). L’iniziativa procede grazie all’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), al Rotary Inteational, all’Unicef e ai Centers for Disease Control statunitensi insieme con i ministri della salute degli stati membri dell’Oms, donazioni governative, fondazioni, Banca mondiale, Unione europea, donazioni private, altre agenzie delle Nazioni Unite e Organizzazioni non governative. L’obiettivo finale, da raggiungere entro il 2005, è la scomparsa della malattia, e quindi la protezione di tutti i bambini dalle conseguenze invalidanti e talora mortali dell’infezione (vedi box). Per meglio capire le dimensioni dell’intervento, basti pensare che nel 2001 circa 10 milioni di volontari hanno aiutato a vaccinare 575 milioni di bambini.
Rispetto alla partenza dell’iniziativa, nel 1988, i paesi dove la poliomielite è endemica sono passati da 125 a 7, come si è detto prima, mentre tre delle sei regioni dell’Oms (America, Europa e Pacifico occidentale) sono state certificate come libere dalla malattia.
È decisamente un buon risultato, ma non basta. Non è pensabile che nel 2002, con la disponibilità ormai da svariati anni di un vaccino efficace che ha permesso la scomparsa della poliomielite nella maggior parte del mondo, circa 1.900 persone siano state infettate, con il possibile corteo di disturbi permanenti: paralisi di gambe o braccia, atrofia di diversi muscoli e così via finanche alla morte. Sono ancora troppi i bambini vaccinati in modo incompleto (cioè con tre dosi o meno, quando ne sono necessarie quattro). La causa più importante di questo aumento di casi indiani registrato lo scorso anno è dunque da imputare a un fallimento delle politiche vaccinali, che non hanno portato a una vaccinazione completa della popolazione a rischio, primi fra tutti i più piccini, che non sono stati protetti in modo adeguato dal virus.
Ma la situazione non è semplice, soprattutto in Uttar Pradesh, e il gruppo di vaccinatori potrà incontrare diversi ostacoli sul suo cammino: non solo la dispersione dei bimbi indiani sul territorio, da cercare fin nei più piccoli villaggi o nelle grandi città, ma anche l’idea presente nelle comunità musulmane che il vaccino possa essere pericoloso per la salute dei loro piccoli, che possa renderli sterili o impotenti. Si era infatti diffuso il timore che il vaccino facesse parte di un piano del governo, di una sorta di programma di controllo delle nascite per limitare la popolazione musulmana in una nazione a maggioranza indù. Questo sembra aver portato ad avere in Uttar Pradesh ben il 60 per cento di nuovi casi di poliomielite proprio fra le comunità musulmane, nonostante rappresentino solo il 17 per cento della popolazione di questo stato indiano. Ma vi sono esempi positivi nel mondo che, pur di fronte a innegabili difficoltà, fanno ben sperare (vedi box).

IL DILEMMA
DEI LABORATORI
La Commissione Globale per la Certificazione dell’eradicazione della poliomielite (Global Commission for the Certification of the Eradication of Poliomyelitis) dichiarerà il mondo «polio free», libero dalla polio, quando non saranno registrati nuovi casi di malattia per almeno tre anni consecutivi in tutte le parti della Terra e quando i laboratori in possesso dell’agente infettivo responsabile della malattia avranno predisposto misure di protezione appropriate.
Allora il virus selvaggio (da tenere ben distinto da quello attenuato utilizzato per la preparazione del vaccino orale tipo Sabin), cioè capace di dare la poliomielite con tutto il suo terribile corteo di disturbi e menomazioni, dovrà essere presente solo in laboratorio. E seguirà, forse, la storia già percorsa e non ancora conclusa, anzi da poco tornata alla ribalta, dal virus del vaiolo, per il quale ci siamo tutti posti diversi interrogativi: siamo di fronte a un microrganismo da eliminare completamente dalla faccia della terra o da conservare almeno in laboratorio per un aspetto culturale, di conservazione di una forma di vita, o magari di sicurezza mondiale nel caso sia necessario nuovamente il vaccino. Non vi è certezza infatti su quali e quanti siano i laboratori che possiedono questi ceppi virali, e quindi in quali mani possano eventualmente cadere.

UN TUFFO NEL PASSATO

Benché già su una stele egizia vi fosse una testimonianza degli effetti dell’infezione poliomielitica, la prima descrizione clinica ufficiale della malattia risale al 1789, ad opera del medico britannico Michael Underwood. Dovranno però passare altri cinquant’anni prima che venga formulata una teoria sulla contagiosità del morbo, e quindi sulla sua trasmissione da una persona all’altra; addirittura un secolo perché negli Stati Uniti venga documentata la prima comparsa significativa di “paralisi infantile”, poi identificata come poliomielite.
Nel 1908 due medici austriaci ipotizzarono l’origine virale dell’infezione, ma bisognerà aspettare Jonas Salk, nel 1955, per avere il primo vaccino, utilizzando il virus della poliomielite ucciso, da somministrare con un’iniezione intramuscolare. Sei anni dopo Albert Sabin propose il vaccino orale in gocce, preparato con virus vivi attenuati, diventato rapidamente quello di scelta per i programmi nazionali di immunizzazione.
Va.Co.
LA VITTORIA È POSSIBILE

Una speranza di fronte a numeri che non vorremmo leggere e a situazioni che ci fanno scuotere la testa con una sensazione di impotenza c’è, e viene dalla Repubblica Democratica del Congo. È infatti lì che tutti coloro che si stanno impegnando nella battaglia contro la poliomielite in India (e negli altri sei Pesi in cui la malattia è ancora presente) possono guardare con fiducia. La Repubblica Democratica del Congo, nonostante il prolungato stato di guerra che si spera concluso con l’accordo di pace firmato il 2 aprile di quest’anno, sta infatti percorrendo la strada verso la dichiarazione di paese libero dall’incubo della poliomielite; l’ultimo caso risale al 29 dicembre del 2000 ed è quindi passato da poco il secondo anno senza malattia.
Questa vittoria è importante perché ottenuta in uno stato che, seppur con difficoltà e povertà diverse dall’India, presenta certo più affinità di un qualsiasi paese occidentale. Non solo. La positiva esperienza percorsa per l’eradicazione della poliomielite viene adesso sfruttata per una nuova campagna di vaccinazione contro il morbillo, tuttora causa di decessi prevenibili col vaccino, sostenuta dall’Unicef e dall’Organizzazione mondiale della sanità, che sembra aver già raggiunto oltre tre milioni di bambini (che si stima rappresentino il 96% di quelli da proteggere).

NESSUNA TERAPIA, SOLO PREVENZIONE

La poliomielite è una malattia molto infettiva causata da un virus che invade il sistema nervoso. Viene trasmessa per via fecale-orale: il virus viene eliminato con le feci della persona infetta e può così infettare altri soggetti, soprattutto in condizioni di scarsa igiene e di sovraffollamento, certamente comuni in India. Può essere trasmessa anche per via respiratoria o dalla mamma al figlio subito dopo la nascita.
Non esistono terapie e gli effetti invalidanti della malattia sono irreversibili; è possibile soltanto prevenirla con la vaccinazione, che stimola il sistema immunitario a produrre anticorpi specifici contro il virus che proteggono dall’infezione.
Il poliovirus attacca in particolare le cellule nervose che controllano il movimento dei muscoli. In un caso ogni 200-250 la malattia porta a una paralisi, più spesso alle gambe, con perdita della possibilità di movimento volontario. Quando vengono colpiti i muscoli che controllano la respirazione, l’infezione può causare la morte o costringere il paziente in un polmone d’acciaio per tutta la vita per poter respirare (condizione certo improbabile nei paesi in via di sviluppo).

Valeria Confalonieri



KENYA- Anche gli africani hanno il mal di denti


Questa è la storia dell’Apa, una piccola associazione di dentisti italiani, che, quando possono, fanno i volontari in Africa.

Il Kenya, uno degli stati più belli del continente nero, è spesso preso come immagine oleografica dell’Africa letteraria o turistica. A molti richiama alla memoria i romanzi di Hemingway o Karen Blixen, oppure le immagini viste nei documentari televisivi e nelle agenzie di viaggio: tribù quasi «primitive», grandiosi paesaggi naturali, savane e foreste abitate da animali feroci.
Anch’io, fino a qualche anno fa, così immaginavo il Kenya e quando, nel 1992, i missionari della Consolata mi invitarono a lavorare come dentista volontario nel loro Consolata Hospital di Nkubu, uno sperduto villaggio del Kenya equatoriale, non esitai a dare la mia disponibilità.
Gli immensi scenari erano un’attrattiva irresistibile e l’idea di offrire gratuitamente la mia professione a persone che avevano necessità di cure dentarie, ma impossibilità di ottenerle, mi appagava la coscienza. Certo non mi sarei mai immaginato di trovarmi immerso in una natura così fantastica, ma soprattutto di fronte a una miseria così diffusa e profonda, accettata dagli africani con stupefacente dignità.
In realtà, chiunque abbia visitato il Kenya, come del resto gran parte dell’Africa, al di fuori dei lussuosi villaggi turistici o lontano dalle classiche rotte turistiche, avrà constatato l’estrema povertà che colpisce la stragrande maggioranza della popolazione. Milioni e milioni di persone che vivono dimenticate nel loro tragico presente ed escluse da ogni benevolo futuro. Abitano villaggi sperduti, desolanti suburbi a ridosso delle grandi città o spaventose baraccopoli che non hanno nulla da offrire, se non povertà, fame, malattie.
Quando per la prima volta ho visto la miseria in cui versa l’Africa, i bambini affamati che cercano cibo fra i rifiuti delle discariche, la gente che muore come le mosche per l’Aids (700 al giorno solo in Kenya) o per malattie curabili (come la malaria o la tubercolosi), i giovani che non potranno mai imparare a leggere e scrivere per indisponibilità di mezzi e di scuole, la mia vita è un po’ cambiata e con i miei amici mi sono chiesto se noi non potevamo fare qualcosa.

POVERTÀ E INDIFFERENZA
Sì, la povertà, una parola scomoda, complessa nelle sue implicanze, che non definisce soltanto uno stato di indigenza materiale, ma una più tragica e vasta realtà che caratterizza gran parte della popolazione del nostro pianeta; in espansione anche nei paesi ricchi, ma nel Sud del mondo rappresenta un problema di vera e propria sopravvivenza.
Per quale ragione i media continuano ad ignorare la miseria africana che si consuma così nell’indifferenza generale? Perché la tragedia delle Torri gemelle di New York, ha riempito per mesi le pagine dei giornali e i programmi televisivi, ma nessuno parla mai dei 9.000 bambini (fonti Unicef) che ogni giorno in Africa muoiono per malattie da denutrizione? Forse esistono morti di serie A e morti di serie B? Forse bisogna produrre immagini shock, affinché i media parlino della piaga della fame?
Ormai mi sono reso conto che esistono almeno due modi di vedere l’Africa: il primo tristemente realistico; l’altro mediato dai sistemi informativi di massa che, quasi sempre per ragioni economico-politiche, dipingono il continente con toni erroneamente ottimistici. Ma poiché ho avuto la ventura di conoscere la prima Africa e la gente stupenda che la abita, con alcuni amici ho pensato che anche noi, nel nostro piccolo mondo di odontorniatri, potevamo fare qualcosa; senza pensare a progetti faraonici o a chissà quali grandi mete, ma così, in semplicità, e soprattutto senza quella fastidiosa ostentazione o senso di superiorità che caratterizza una parte del volontariato umanitario.
Perché interessarsi dei poveri dell’Africa, mi si chiede, quando sono tanti i poveri qui in Italia, alcuni dei quali provenienti proprio dal continente nero? È vero. Però da noi fortunatamente non si muore di fame e chiunque può accedere a un ospedale per farsi curare o può frequentare una scuola elementare per imparare a leggere e scrivere, a meno che non viva nella clandestinità.
È altresì vero che l’Africa è flagellata da malattie ben più gravi che non le malattie dentali, basti pensare alla lebbra, la malaria, la febbre gialla, la poliomielite e oggi l’Aids, la nuova malattia dei poveri che sta causando in questo continente la più devastante epidemia a memoria storica. Se però consideriamo che la patologia dentale è la più diffusa al mondo, in quanto ne colpisce il 95% della popolazione, viene da sé che il «mal di denti» è una pena aggiuntiva per persone già martoriate da fame, analfabetismo, siccità, penuria di mezzi, sfruttamento.

«AMICI PER L’AFRICA»
In questo contesto, nel 1999, dopo anni che già si lavorava in Kenya come dentisti volontari, noi colleghi medici, insieme ad amici di vecchia data, abbiamo pensato di fondare un gruppo di volontariato odontorniatrico, che abbiamo chiamato Apa.
Queste tre lettere sono l’acronimo di «Amici per l’Africa», ma «apa» è anche una parola che in lingua swahili significa «giuramento», una felice coincidenza suggeritaci da un missionario, che richiama un patto di amicizia tra noi e l’Africa. Un giuramento per un impegno di amicizia fra odontorniatri e professionisti del dentale, che ha l’ambizioso proposito di coniugare professione medica e volontariato, nel complesso mondo della povertà africana. Non un’associazione dalle idee grandiose (che poi magari non trovano realizzazione), bensì un gruppo agile e consolidato di colleghi e vecchi amici, ognuno con un proprio ruolo preciso, che non intende far l’elemosina agli africani, ma condividere tempo, mezzi, capacità professionali, con riguardo alle loro diversità e senza sensi di superiorità nei confronti di alcuno.
Mentre nel mondo occidentale vi è abbondanza di dentisti e di tutte le più sofisticate tecniche di cura, in quello che genericamente è ancora definito «Terzo mondo», il ridotto numero di professionisti, l’elevato costo delle apparecchiature e dei materiali odontorniatrici, rendono di fatto impossibile la cura dei denti alla maggioranza delle persone. Questo spiega perché la percentuale di dentisti ammonti, per esempio, a 1 su 1.000 abitanti in Italia, mentre in Kenya si riduca drasticamente a 1 su 200.000, in prevalenza concentrati nelle grandi città.
Oggi lavoriamo in 5 ambulatori, che sono ubicati alla periferia di Nairobi, a ridosso delle bidonville di Kahawa e di Embul Bul, e in zone rurali del Kenya centro-settentrionale (Nkubu, Sagana e Isiolo). Si trovano all’interno di strutture ospedaliere o di ambulatori missionari cattolici, e sono stati da noi allestiti ex novo, oppure erano già esistenti prima del nostro arrivo, ma di fatto non utilizzati per mancanza di operatori.
Il centro di Nkubu, dove iniziò la nostra attività nel lontano 1992, da cinque anni è stato ceduto all’ospedale missionario di sua pertinenza, il Consolata Hospital, sotto la direzione di un dentista keniano e di una suora del medesimo ospedale, che si è recata due anni nei nostri studi in Italia per acquisire le nozioni di odontorniatria di base, qual’è quella richiesta in quei luoghi. Non intendiamo infatti lavorare soltanto in prima persona, ma cerchiamo di istruire personale locale, che possa portare avanti l’attività anche in nostra assenza. Riteniamo infatti che l’africano a cui offriamo la nostra professionalità, debba essere motivato ad uscire dal circolo vizioso dell’aiuto fine a sé stesso, che gli addormenta la mente senza incentivarlo a migliorare, ma anzi lo rende dipendente dal donatore.
Daniele Comboni, fondatore dei missionari comboniani, più di un secolo fa, sosteneva che «bisogna aiutare l’Africa con gli africani».

PERCHÉ VOLONTARI?
Nel tragico scenario di povertà e sventure di questi popoli abbandonati, nell’ indifferenza del mondo, quale significato può avere il lavoro di noi dentisti volontari?
Più di una volta ce lo siamo chiesti. Ovviamente noi dell’Apa non ci siamo prefissati l’impossibile obiettivo di ribaltare la situazione; semplicemente non possiamo stare con le mani in mano ad assistere alla miseria di popoli e paesi, di cui abbiamo conosciuto l’inimmaginabile povertà e le continue privazioni.
Ciò non di meno, quando pensiamo alle migliaia di persone che abbiamo curato in tutti questi anni e a tutte quelle persone che beneficiano degli studi medici che abbiamo loro donato, oggi affidati a personale locale africano, allora diventa chiara la validità del nostro operato, dimostrata anche dalle parole e dai gesti di riconoscenza dei nostri pazienti.
Non sono incline alla retorica o all’esibizionismo e spero che nessuno di noi dell’Apa voglia ritenersi chissà quale campione della causa dei poveri o aspiri ad arrivare primo a una qualche fiera delle vanità, ma al di là del mio credo religioso, penso (e continuo a pensarlo da 11 anni, di là dalle mode e dai sentimentalismi passeggeri) che per quanto poco importanti, anche piccole e volontarie azioni solidaristiche di singole persone o di piccoli gruppi come il nostro, possano avere una loro utilità.
Forse serviranno più a noi che agli africani, ma non penso sia un gran male; forse serviranno per una gratificazione personale, ma anche questo ritengo sia umano e non mi dispiace che un’«umana debolezza» in questo frangente si rilevi utile e preziosa. Martin Luther King diceva: «Non mi fa paura la cattiveria dei malvagi, ma il silenzio degli onesti».
Come si racconta nelle pagine di Pole Pole, da questa nostra lunga e mai conclusa esperienza, noi se non altro impariamo quanto piccoli siano in verità i nostri problemi davanti a chi non ha cibo per cibarsi, acqua per gli usi quotidiani, farmaci e ospedali per curarsi, scuole per imparare a leggere e scrivere e non possa confidare sull’aiuto di nessuno. Persone tuttavia che accettano queste sventure con un’incredibile e toccante dignità, che lungi da un’inutile retorica, dovrebbe esserci di insegnamento.

Andrea Moiraghi




Dall’«asiatica» alla «Sars»


In queste pagine Guido Sattin ricorda Carlo Urbani ripercorrendo la sua vita attraverso gli eventi della storia e della medicina.

Noi che siamo nati alla metà degli anni ’50, che abbiamo visto arrivare nelle nostre case i primi elettrodomestici, che siamo cresciuti con la Tv dei ragazzi in bianco e nero e che andavamo a dormire dopo Carosello; noi che abbiamo frequentato le scuole superiori nei turbolenti anni successivi al 1968 e le Università nel cupo decennio degli anni ’70 e ’80; noi che siamo cresciuti nei grandi ideali di quegli uomini che, al di là delle diverse ideologie e fedi, volevano cambiare il mondo, che abbiamo pianto la morte di Gandhi, Che Guevara, Luther King, John Kennedy, papa Giovanni, Salvador Allende; noi che abbiamo visto crescere e cadere l’Unione Sovietica, la Cina di Mao, che abbiamo visto sconfitta l’apartheid del Sud Africa, morire con Franco l’ultimo fascismo d’Europa, cadere i colonnelli greci; noi che, nati nel pieno della tragedia dell’Ungheria, abbiamo vissuto poi quelle del Vietnam, della Cecoslovacchia, del Cile e dell’Argentina, della Cambogia dei Khmer Rossi, le guerre in Palestina, il terrore di Sendero Luminoso in Perú; noi che abbiamo vissuto le bombe fasciste degli anni Settanta in Italia e poi la pazzia del brigatismo rosso; noi che, credenti o non credenti, abbiamo però creduto insieme nella possibilità di un mondo migliore fatto di pace, libertà e giustizia sociale; noi che in quegli anni, e con la storia che correva intorno a noi, siamo diventati medici e poi siamo andati a lavorare in Africa, in Asia ed in America Latina, lo sapevamo. Noi sapevamo che un certo tipo di progresso umano si scontrava con l’ambiente che ci circonda e lo comprometteva con l’acqua contaminata, con l’aria appestata dai fumi, con le medicine mal utilizzate, con la concentrazione degli abitanti nelle città e l’abbandono delle campagne, con la manipolazione della natura, con la nostra ricchezza e con la nostra povertà. Èil 19 ottobre del 1956 e a Castelpiano, in provincia di Ancona, nasce Carlo Urbani. Diarrea, parassitosi e broncopolmoniti nei bambini, tubercolosi e malaria negli adulti sono le malattie infettive che di più uccidono nel mondo in quegli anni. Nel 1957 vengono isolati in Cina i primi casi di «influenza asiatica», un’altra pandemia che però, grazie al progresso medico, non provoca i danni della «spagnola» del 1918.  È il 1965. Carlo frequenta le scuole elementari e, con 4 anni di ritardo (è del 1961 la scelta dell’American Medical Association), viene introdotta in Italia la vaccinazione antipolio con il vaccino di Sabin. Dal 1966 è resa obbligatoria. Nel 1967 il vaiolo è ancora endemico in 31 paesi del mondo. Solo in quell’anno tra 10 e 15 milioni di persone furono colpite dalla malattia. Di queste, circa 2 milioni morirono e, tra coloro che erano sopravvissuti, milioni rimasero sfigurati o ciechi. Carlo Urbani finiva le scuole medie e sicuramente anche lui portava su di un braccio il segno della vaccinazione antivaiolosa.  Diarrea, parassitosi e broncopolmoniti nei bambini, tubercolosi e malaria negli adulti continuano ad essere le malattie infettive che di più uccidono nel mondo. Nel 1968 si scatena l’ultima grave pandemia, l’influenza di Hong Kong che provoca in Europa decine di migliaia di morti (20.000 nella sola Francia) fra le persone anziane o già debilitate da altri disturbi. Nel 1969 Piero Sensi, ricercatore della Lepetit, scopre le rifamicine e da queste nel 1969 mette a punto la rifampicina, antibiotico attivo contro la tubercolosi. È l’ultimo dei grandi antibiotici scoperti e tutt’ora utilizzati nella terapia della tubercolosi; evidentemente la ricerca sulla tubercolosi, ha smesso, d’allora, di essere una priorità per l’industria farmaceutica.  Nel 1973 la pandemia di colera coinvolge anche l’Italia toccando Napoli. Carlo frequenta il liceo a Jesi.  Diarrea, parassitosi e broncopolmoniti nei bambini, tubercolosi e malaria negli adulti sono sempre le malattie infettive che di più uccidono nel mondo.  Nel 1976 viene isolato per la prima volta il virus Ebola. L’Ebola è un virus in grado di provocare gravi febbri emorragiche e deve il suo nome al fiume della repubblica democratica del Congo, dove fu isolato per la prima volta. Probabilmente il contagio alla nostra specie è avvenuto dalle scimmie e da qualche altro mammifero della foresta africana, ma l’origine e la modalità di trasmissione rimangono un mistero. A oggi si sono registrate quattro epidemie di Ebola: nello Zaire, nel Sudan, nel Gabon e nella Costa d’Avorio. La mortalità ha raggiunto l’88% dei casi rilevati. La morte sopraggiunge dopo circa 72 ore dall’insorgenza dei primi sintomi. Attualmente non si conosce una cura all’infezione di Ebola, né un vaccino. L’Ebola è stata elencata dalla Nato tra i 31 agenti potenzialmente utilizzabili nelle azioni di bioterrorismo.  Nel 1976 a Filadelfia, tra i partecipanti ad un convegno della legione americana, si manifesta un’epidemia che per questo viene denominata la malattia del legionario. Si tratta di una forma di polmonite che successivamente viene chiamata «legionella » e che si sviluppa nell’acqua, distribuendosi con gli impianti di condizionamento. Continua tutt’ora ad essere una malattia pericolosa e silente, ed interessa particolarmente hotels ed ospedali. Il 26 ottobre 1977 l’ultimo caso conosciuto di vaiolo viene registrato in Somalia, quando Carlo sta frequentando l’Università di Ancona ed iniziava a formarsi come medico. Nel 1981 vengono descritti i primi casi di Aids. La «peste del secolo» è iniziata. In questi anni Carlo si laurea in medicina e chirurgia all’Università di Ancona. Ancora diarrea, parassitosi e broncopolmoniti nei bambini, tubercolosi e malaria negli adulti sono le malattie che più uccidono nel mondo.  L’«encefalopatia spongiforme bovina» (ESB), una malattia neurologica degenerativa che colpisce i bovini in maniera costantemente fatale, fa la sua comparsa come nuova malattia nel Regno Unito nel 1985. Viene descritta ufficialmente nel novembre 1986, ma ancora non si immagina il coinvolgimento umano. Carlo si specializza in malattie infettive presso l’Università di Messina. Il 31 maggio 1988, come ogni altro giorno, 1.000 bambini sono paralizzati dalla polio. La maggior parte di loro vive nei paesi più poveri. Nello stesso giorno, a Ginevra i leaders sanitari del mondo hanno deciso di eradicare la poliomielite per sempre.  È il 1989 quando viene individuato il virus dell’epatite C (Hcv). Contrariamente agli altri virus dell’epatite (A, B, D ed E), questa infezione porta, in un numero straordinariamente alto di casi, alla malattia epatica cronica. Si perfezionano i controlli sul sangue e si scopre che, negli anni anteriori, migliaia di persone sono state infettate da questo virus, trasmesso con le trasfusioni e con la dialisi.  Carlo lavora come medico presso l’Ospedale di Macerata. Nel 1991 la pandemia di colera per la prima volta arriva in America Latina, contagiando migliaia di persone in Perù.  Nel 1994 le Americhe sono certificate libere da polio.  La nuova variante della malattia di Creutzfeld-Jakob ha fatto la sua comparsa nel Regno Unito nel 1995. Il ministro della sanità inglese successivamente (marzo 1996) ammette che 14 persone sono decedute in seguito a questa nuova forma della malattia e che probabilmente si sono ammalate per aver assunto tessuti bovini infetti da Esb. Le dichiarazioni del ministro della sanità inglese Stephen Dorrell nel marzo 1996 e la pubblicazione dei risultati di queste ricerche nel 1997 scatenano una crisi economico-sociale con notevoli conseguenze sulla zootecnia europea; la crisi è dovuta ad una marcata perdita di fiducia da parte dei consumatori nei confronti del prodotto carne. Carlo entra in «Medici senza frontiere » (Msf) e parte per la Cambogia con la famiglia. Lavora in un progetto per la lotta alla «schistosomiasi», una malattia parassitaria intestinale.  Hong Kong, 1997: l’influenza aviaria provoca la morte di 6 persone. L’anno seguente l’Organizzazione mondiale della sanità la inserisce tra le malattie determinate da nuovi microrganismi capaci di provocare infezioni nell’uomo e invita ad aumentare la sorveglianza. Il 26 novembre 1998 viene segnalato l’ultimo caso di poliomielite nella regione europea. Si tratta di un bambino di nome Melik Milas di 33 mesi, che viveva in un piccolo villaggio della provincia di Agri, in Turchia al confine con l’Iran. Non aveva ricevuto nessuna vaccinazione contro la polio ed è stato colpito da un poliovirus di tipo 1.  Nel 1999 Carlo Urbani viene eletto presidente di «Medici senza frontiere» – Italia (e trova anche il tempo d’inventare questa rubrica per Missioni Consolata).  Nel gennaio 2000, dopo poco più di 10 anni dal lancio dell’iniziativa di eradicazione, sono soltanto 30 i bambini che ogni giorno nel mondo sono paralizzati dalla polio. Ma ancora 30 tutti i giorni.  Tre interi continenti sono già liberi da polio e sempre nel 2000, la regione del Pacifico orientale, che comprende la Cina, viene certificata come libera dalla poliomielite. Nell’anno 2000, 3,8 milioni di persone si sono infettate con l’Hiv nell’Africa a sud del Sahara e 2,4 milioni di persone sono morte per Aids. Nello stesso anno 30.000 persone si sono infettate in Europa occidentale e 45.000 nell’America del Nord. Dall’inizio della pandemia di Aids sarebbero morte 21.800.000 persone.  È il 2000 ed ancora diarrea, parassitosi e broncopolmoniti nei bambini, tubercolosi e malaria negli adulti sono le malattie che più uccidono nel mondo.  Carlo inizia la sua collaborazione con l’«Organizzazione mondiale della sanità» (Oms) e con la famiglia parte per Hanoi, in Vietnam. Da 10 anni se ne parla, ma il primo caso italiano di «mucca pazza» scoppia a gennaio 2001. Crollano i consumi di carne, psicosi tra i banconi dei supermercati e delle macellerie, caccia a prodotti alternativi. Partono i controlli che portano a trovare decine di mucche italiane infette. Le autorità prima minimizzano, poi, sull’onda emotiva di un’opinione pubblica sempre più preoccupata, prendono i primi drastici provvedimenti.

29 marzo 2003: Carlo Urbani, medico italiano dell’Organizzazione mondiale della sanità, muore in un ospedale di Bangkok a causa della Sars («Sindrome respiratoria acuta grave»). La notizia si diffonde e provoca grande emozione. «Il dottor Urbani ha lavorato in programmi di salute pubblica in Cambogia, Laos e Vietnam. La sua sede di lavoro era ad Hanoi. Aveva 46 anni. Carlo Urbani era stato il primo medico dell’Oms ad identificare la nuova malattia in un uomo d’affari americano ricoverato all’ospedale di Hanoi. La sua segnalazione precoce della Sars ha messo in allarme il sistema di sorveglianza globale ed è stato possibile identificare molti nuovi casi e isolarli prima che il personale sanitario ospedaliero venisse contagiato. Ad Hanoi, il focolaio di Sars sembra sulla via di essere messo sotto controllo». «Carlo era una persona meravigliosa e siamo tutti costernati – ha detto Pascale Brudon, il portavoce dell’Oms in Vietnam -. Era soprattutto un medico, il suo primo obiettivo era quello di aiutare le persone. Carlo è stato il primo ad accorgersi che c’era qualcosa di molto strano. Mentre in ospedale le persone diventavano sempre più preoccupate, lui era là ogni giorno, raccogliendo campioni, parlando con il personale dello staff e rafforzando le procedure di controllo dell’infezione». È il 2003. È appena terminata la guerra «preventiva» contro l’Iraq ed ancora diarrea, parassitosi e broncopolmoniti nei bambini, tubercolosi e malaria negli adulti sono le malattie che più uccidono nel mondo.  La storia la facciamo noi uomini con le nostre guerre, i nostri interessi economici, ma anche con i nostri ideali, le nostre scoperte, la nostra cultura e la nostra capacità di comunicare. Ma non solo.  La peste, la sifilide e la tubercolosi hanno segnato alcuni secoli della nostra umanità e perfino della nostra cultura.  Diarrea, parassitosi e broncopolmoniti nei bambini, tubercolosi e malaria negli adulti continuano a minare l’esistenza di milioni di individui nell’indifferenza generale. Della Sars si sa ancora poco, ma è un altro segnale di pericolo per il nostro mondo, così come poco prima lo è stato la variante umana della malattia di Creutzfeld-Jakob, Ebola o l’influenza aviaria.  L’Aids ha definitivamente cambiato i costumi sessuali della nostra società e sta tuttora cambiando la nostra umanità, incidendo profondamente in tante culture ed economie del mondo, in particolare dell’Africa. Le malattie infettive e parassitarie, causa e conseguenza di tanti passaggi della nostra storia, continuano ad essere protagoniste dell’umanità e delle sue scelte economiche, politiche e sociali.

Guido Sattin




La morte è morte (ma non è sempre uguale)


Attentati, bombe, guerra e messaggi di guerra. In questi ultimi mesi la morte è entrata nelle case e nei discorsi della gente.

Riflettendo sulla «morte dolce», mi sono venute in mente alcune morti alle quali ho assistito personalmente ed altre su cui ho provato a ragionare.

È vero: la morte è morte e basta. Ma così, quasi per vezzo, ho provato a mettere ordine alla mia esperienza dando un aggettivo ad alcune di esse. L’ho fatto, come mia abitudine, parlando prevalentemente di cose concrete e senza pretendere di dare giudizi, che non competono a nessun medico. Noi medici, in fondo, siamo solo persone che accompagnano la vita di ciascuno sulla base della cultura della comunità, della tecnologia a disposizione, della porzione di finanziamenti messaci a disposizione dalla società e dall’intuito che a volte accompagna i migliori di noi.

La morte prima

Il mio primo morto lo ricorderò per sempre.

Viveva in un isolato all’altro lato della piazza del quartiere di Villa El Salvador (Perù) nel quale da poco mi ero trasferito provenendo direttamente, e fresco di studi universitari, da Roma dove ero cresciuto ed avevo studiato.

Saranno state le due o tre di notte e sentii bussare freneticamente alla porta. Mi alzai e, rendendomi conto dell’agitazione della persona che mi cercava, mi infilai un paio di pantaloni e, con la borsa da medico alle prime armi, le corsi dietro.

Era già morto (probabilmente un infarto). Tutti mi chiedevano di fare qualche cosa e, nella coscienza di ingannare me stesso e gli altri, iniziai un inutile tentativo di massaggio cardiaco. La gente, sicuramente più cosciente di me dell’inutilità di quanto stavo facendo, mi incitava a continuare gridando disperatamente il nome del morto, sperando forse in un miracolo. Aveva una cinquantina d’anni e morire a quest’età, lasciando moglie e figli, era percepito come un tradimento. Quella morte non doveva succedere. Ma la morte (probabilmente) è indifferente alla volontà dei vivi.

La morte falsa

Un’altra volta, sempre di notte, mi chiamarono (perché mai si muore più spesso di notte?) perché un giovane era moribondo. Corsi come sempre disarmato e mi trovai nel bel mezzo di una festa a base d’alcornol, con la musica assordante che continuava ad uscire da uno sgangherato ma efficiente stereo e con la gente che urlava, minacciandomi. Un giovane apparentemente in coma era disteso su di un letto, circondato da familiari ed amici.

Mi misi ad urlare più di loro, cacciai via tutti e, non ricordo come, riuscii a fargli vomitare i litri d’alcornol che aveva in corpo.

Venni trattato come il più grande medico, ma non ne fui orgoglioso.

La morte improvvisa

Mi lasciò molto perplesso trovare un bambino morto, quella volta che mi chiamarono (sempre di notte). Erano due gemellini; uno di loro si era addormentato senza risvegliarsi. Morte improvvisa?

Il bambino era ben curato, di poco più di un anno, grassottello, i lineamenti sereni. Sembrava addormentato.

La morte prima della nascita

Era buio, ma non ancora notte. Il bambino era nato morto in una baracca, forse assistito da una partera, che nulla aveva potuto fare. In realtà, il bimbo era già morto nell’utero.

Mi chiesero di non fare alcun certificato, perché non avevano i soldi per portarlo al cimitero ufficiale. Non lo feci e quel bimbo (che mai era nato) non morì mai.

La morte ingiusta 1 (una delle tante)

Arrivò correndo al mio ambulatorio una madre con un involtino fra le braccia. Tutti i pazienti in attesa urlarono che c’era un’emergenza e la donna appoggiò il fagotto sul lettino e, aprendolo, scoprì il corpicino di un bimbo denutrito ed ormai freddo.

Quella volta urlai contro la donna. Urlai che io ero in ambulatorio sempre e che lei non poteva portare il piccolo solo all’ultimo momento. Urlai che cosa voleva da me, che io ero un medico e che forse avremmo potuto salvarlo. Urlai (lo dico a mia discolpa) perché non era giusto e urlerei ancora adesso (ogni volta che ricordo quel fatto, mi viene un nodo in gola) perché, se la morte è ingiusta, non penso che si possa trovare pace.

Forse il mio urlo era rivolto contro questo nostro mondo, ma solo quella madre disperata (e forse incosciente) ed un piccolo gruppo di pazienti in attesa mi potevano sentire.

La morte ingiusta 2 (un’altra delle tante)

Era una bimba piccola e denutrita. La madre ce l’aveva portata e non eravamo riusciti a salvarla.  Avevamo però lottato insieme a lei e insieme avevamo perso.

Ero andato a visitarla nella sua baracca e la bimba giaceva vestita di bianco, il volto si era rasserenato ed era quasi bella (i bambini denutriti sono sempre brutti).

Avevo notato che la madre non piangeva e le chiesi perché.

Mi rispose molto dignitosamente che la bimba non aveva ancora vissuto e che, quindi, non poteva lasciare il vuoto che lascia un anziano quando muore. Lo capii, sinceramente, anche perché sapevo che la madre aveva lottato per farla vivere.

La morte ingiusta 3 (ancora una)

Maria Elena (sì, proprio quella che morì di morte assassina per mano di Sendero Luminoso) un giorno arrivò correndo a casa mia. L’accompagnava un’altra donna e fra le braccia aveva un piccolo bambino.

«Sono arrivata troppo tardi – mi disse appena entrata -, ho sentito l’anima del piccolo sfuggirmi».

Il bambino era morto fra le sue braccia e, nel suo sguardo profondo, capii il suo immenso dolore e la sua grande sorpresa. Il bambino era figlio di una donna che aveva incontrato per strada e che stava cercando un medico.

La morte giusta

Mia nonna è morta a 97 anni. Sapeva che era giusto morire e quasi desiderava raggiungere mio nonno, ma…. era attaccata alla vita e non voleva farsi vincere dalla morte. Ha lottato fino all’ultimo, non perché non voleva morire, ma perché voleva vivere.

Questo è bello e giusto.

La morte desiderata

L’assistente sociale (e torniamo in Perù) mi aveva avvisato che in una casa nelle vicinanze dell’ambulatorio c’era un vecchietto e che da tempo i familiari dicevano che doveva morire.

Andai a casa sua e, entrato, mi abituai lentamente all’oscurità. C’era un letto e su questo era disteso un vecchio avvolto dalle coperte.

Gli parlai serenamente e gli chiesi che cosa aveva. «Sono vecchio – mi rispose – e mio figlio non aspetta altro che la mia morte; ma io non ho nessuna intenzione di morire».

«Che problema c’è?» chiesi. Mi mostrò allora la cassa da morto preparata al suo fianco, lamentandosi per questa stupida spesa che suo figlio aveva fatto con troppo anticipo.

Aiutai in quell’occasione l’assistente sociale a portare via la cassa e, lasciata la casa, non potei che aggiungere quest’altra esperienza (la fantasia dell’uomo è senza limiti) alla mia collezione di «cose umane».

La morte assassina

Maria Elena è stata uccisa da Sendero Luminoso.

Due colpi di pistola davanti ai propri figli e poi un candelotto di dinamite per fare a pezzi il suo corpo nel tentativo di fare a pezzi la sua memoria. Più tardi un altro candelotto per distruggere la sua tomba.

Maria Elena  aveva trent’anni. Era una bellissima ragazza negra, una dirigente popolare sincera e preparata, una leader politica di sinistra e rivoluzionaria, cosciente e democratica, un’amica.

Maria Elena vive nei nostri cuori, Sendero Luminoso è morto.

La morte per chi rimane

Don Rubio era un dirigente popolare e viveva a lato della mia casa. Un cancro lentamente l’ha portato via. Alla sua morte la gente si è riunita intorno alla salma e, chiacchierando, ha ricordato passo passo la storia vissuta con lui.

Le avventure, le lotte, gli scioperi, gli scherzi, le risate. Insomma la vita.

Dopo una notte passata a vegliare la salma, a bere e a mangiare, i suoi resti sono stati portati a spalla da una casa all’altra e tutti si sono fermati per un ricordo ufficiale al centro della piazza, dove spesso aveva arringato la folla.

La morte sulla coscienza

Ero stanco quella sera. Bussò un signore e mi disse di un bambino che stava male. Gli diedi alcuni suggerimenti e mi feci dare l’indirizzo per visitarlo la mattina successiva.

La mattina trovai la famiglia che vegliava il bimbo morto.

Perché, perché, perché… non mi ero mosso quella sera come avevo fatto tante volte? Quante volte mi sono ripetuto la domanda! Non ho mai trovato una risposta che potesse assopire la mia coscienza.

La morte cercata

La libertà che ha l’uomo è immensa. La decisione più estrema è il suicidio. Ricordo che in gioventù avevo assistito ad una messa nella quale un curato di campagna aveva negato il cimitero cattolico ad un suicida.

Per il nostro ordinamento il suicidio non è più un reato da tanti anni. Rimane reato, e mi pare giustissimo, l’istigamento al suicidio.

La nostra libertà è immensa e nessuno può essere giudicato per l’uso della propria libertà, quando ciò non limiti o condizioni la libertà degli altri.

La morte violenta

Morire per strada è esperienza che ha toccato i sentimenti di molti di noi.

È la prima causa di morte fra i venti ed i trent’anni. È una morte che grida vendetta perché spesso causata da nostra leggerezza.

In Perù è ancora più frequente; un paese povero è anche un paese nel quale le auto hanno le gomme lisce, i freni possono non funzionare, i semafori sono scarsi, gli autobus sovraffollati e vedere morti per strada coperti di fogli di giornale è esperienza quotidiana.

Non mi piace questa morte.

La morte in ospedale

Nel territorio dell’ospedale che contribuisco a dirigere, muoiono circa 1.500 persone all’anno (quelle che nascono sono meno).

Di queste, più del 60% muoiono in ospedale, altre nelle case di riposo e un piccolo numero anche in casa (forse il 20, massimo il 30%; tra l’altro, se si è ammalati terminali, è anche molto costoso morire in casa).

Noi non siamo più capaci di convivere con la morte.

La morte dolce

L’eutanasia è un problema di noi ricchi, non dei paesi poveri.

È facile morire in Perù, come è facile nascere. Più difficile è vivere e, se si muore anziani e/o malati, lo si fa in silenzio e senza tante discussioni. Le terapie del dolore sono un lusso e morire negli ospedali è uno spreco.

No, non sono d’accordo con l’eutanasia, pur conoscendo la sofferenza. Non mi sento però di giudicare chi decide autonomamente di fare propria l’estrema libertà di cui disponiamo. Però diverso è farne una professione.

Noi medici lavoriamo per la vita e solo per questa dobbiamo spendere le nostre forze senza accanirci contro la morte che ci aspetta sempre e che è parte della vita stessa.

La morte mia

Un ragazzo con tubercolosi, che ero riuscito a ricoverare, è stato dimesso perché oramai doveva morire. È morto solo nella sua baracca. Vomitando sangue.

Non conosco la morte in guerra. Me ne hanno parlato i miei nonni e spero di non raccontarla mai a mio figlio.

Quando morirò, se i miei amici vorranno sedersi intorno a quello che resta di me e ricordarsi della vita vissuta insieme e se lo faranno ridendo e bevendo un buon bicchiere di vino, saranno i benvenuti. Se poi invece, per la fretta della nostra vita, non avranno il tempo di farlo, non ne serberò rancore.

E ancora io dico pubblicamente: se servissero, prendete i miei organi, le cornee ed i tessuti che possano aiutare a dare vita a qualche altra persona. La vita continua anche dopo la morte.

Guido Sattin


L’antrace e le guerre dimenticate

I morti dei vincitori e quelli dei perdenti

L’emergenza carbonchio (comunque limitata a pochi casi) è stata affrontata con grande clamore, mentre per Aids, malaria, tubercolosi, febbre gialla, dengue, colera…

Sul treno che da Venezia mi porta a San Donà di Piave (dove ha sede uno degli ospedali nei quali lavoro) si è formato un interessante gruppo di pendolari che, nella mezz’ora di viaggio, si scambiano liberamente le impressioni sul mondo. Siamo medici, psicologi, ingegneri, bancari, funzionari pubblici e privati ed un portiere di notte di un albergo di Venezia, che smonta dal lavoro quando noi andiamo verso il nostro.

Gino è uno del gruppo. È un veterinario con un’esperienza di tanti anni alle spalle. È stato proprio lui a raccontarci del carbonchio, degli animali che ricorda aver visto con questa antica malattia, di alcuni pascoli vietati nella zona di Belluno a causa della sua presenza.

In treno discutevamo con stupore ed incredulità sulle notizie relative al primo caso di terrorismo «biologico» nella storia dell’umanità e cercavamo di ricostruire nella memoria le nostre conoscenze sul carbonchio senza, in verità, ricordarci molto.

Nei nostri ricordi, il carbonchio era una malattia degli erbivori, che solo raramente veniva trasmessa all’uomo e che fondamentalmente colpiva addetti ai lavori (pastori, allevatori, addetti alla macellazione) con una forma cutanea benigna e sensibile alla terapia. Ricordavamo anche una forma intestinale, per consumo di carni infette, e sinceramente nessuno di noi conosceva la forma polmonare.

In Perù, nell’anno 2000, ci sono stati 43 casi di carbonchio cutaneo e intestinale, mentre nei paesi dove vi è un controllo costante ed effettivo della produzione degli alimenti, la malattia umana è pressoché scomparsa.

È quindi una malattia animale, detta anche antrace, dovuta ad un batterio che sopravvive nell’ambiente sotto forma di spora. Nulla di preoccupante, quindi? Tutto sotto controllo? Sì, tutto sotto controllo. Apparentemente. La fantasia distruttiva dell’uomo ha però individuato in questo bacillo e nella sua spora uno strumento di guerra.

Il ragionamento è semplice. Le spore in natura si trovano, in concentrazione molto bassa, in alcuni terreni. È bastato moltiplicarle, renderle in qualche modo più leggere, concentrarle ed ecco che una malattia animale si può trasformare per l’uomo in una temibile infezione polmonare. Dato poi che la fantasia non ha limiti, inserire queste spore leggere in buste della posta ed inviarle a casa delle vittime prescelte, è un gioco quasi da ragazzi.

Se poi le vittime sono le segretarie che aprono le buste ed i postini che distribuiscono la posta, questi sono solo risultati collaterali di una follia che non ha pari e le cui origini nessuno di noi ancora conosce.

No, non mi terrorizza tutto questo, semplicemente mi lascia allibito. Che nei confronti di questo attacco batteriologico si dovesse rispondere con la massima energia, non vi è alcun dubbio. Ma qualche domanda… permettetemi… mi sovviene.

L’antrace, la peste, il vaiolo, il virus Ebola… quante saranno le armi batteriologiche pronte ad ammazzare in maniera casuale e indiscriminata?

Ma, oltre ai responsabili diretti delle azioni (assassini come coloro che hanno fatto crollare le Torri gemelle), quali sono le responsabilità di chi ha studiato e prodotto per anni queste armi in laboratori, più o meno segreti, degli Stati Uniti e dell’Unione Sovietica. Chi ha venduto le tecnologie a paesi terzi? Chi si è rifiutato di firmare la convenzione sulla messa al bando delle armi batteriologiche?

E poi ancora una domanda: perché gli Stati Uniti (colpiti da questo attacco) hanno ottenuto di acquistare gli antibiotici (il «Cipro») a prezzo scontato, dietro la minaccia di togliere il brevetto alla società produttrice (la Bayer), mentre non si riesce ad ottenere la stessa cosa per altre epidemie? (*)

La guerra quotidiana all’Aids, alla malaria, alla tubercolosi… le milioni di vittime di queste tre malattie (per non parlare delle altre più dimenticate, come le diarree infantili, la febbre gialla, il dengue, il colera e chissà quante altre) forse avranno ottenuto meno finanziamenti della produzione dell’antrace nei laboratori di chi ora ne è vittima.

Si sa, i morti dei vincitori pesano sempre più di quelli dei perdenti; quelli poi di chi nasce perdente, non trovano neanche chi osi contarli.

La guerra al terrorismo va fatta, anche duramente. Quella alla povertà è una guerra dimenticata.

(*) Nella riunione dello scorso novembre, a Doha, l’Organizzazione mondiale del commercio ha dovuto fare qualche concessione in materia di brevetti farmaceutici. Ne parleremo prossimamente.

Guido Sattin




Una malattia chiamata fame


Non è difficile il passaggio dalla malattia psichica (schizofrenia, depressione) a quella organica (denutrizione, tubercolosi, Aids). Ed entrambe sono in relazione con le condizioni ambientali: famiglie disgregate, abbandoni del tetto coniugale,violenza contro donne e bambini. A loro volta, le tensioni familiari trovano terreno fertile quando manca il lavoro e le persone sopravvivono con il minimo, giorno dopo giorno. A Villa El Salvador (Perú), abbiamo visitato il «Centro de salud mental», nato per volontà di un sacerdote spagnoloe oggi diretto dalla «hermana» Patricia. Una realizzazione che ha dell’incredibile…

Villa El Salvador. Un giorno Reyna, di passaggio a casa mia per un caffè, mi dice che è di fretta, perché deve accompagnare una ragazza al Centro de salud mental.
Le chiedo informazioni e scopro che la mia vicina di casa è una volontaria del Centro e che le è stata affidata una ragazza-madre schizofrenica che vive nelle vicinanze.
Colgo l’occasione per chiederle di prendermi un appuntamento con il responsabile di questo Centro per un’intervista. Detto e fatto. Il giorno dopo, ho l’appuntamento.

A rrivato alla Capilla San José, entro in un piccolo ambiente con un bancone per accoglienza e sulla destra una piccola farmacia. Vengo fatto accomodare nel cortile interno, nel quale sono in attesa vari pazienti con alcuni accompagnatori.
Dopo pochi minuti, mi si avvicina una donna, che mi fa entrare in uno studio un po’ oscuro. Senza perdere tempo in convenevoli, inizia a parlare: «Bueno. Lavoriamo qui da quattro anni. Credo sia poco tempo, però forse si possono trarre alcune conclusioni».
Mi scusi – la interrompo -. Ci possiamo presentare?
«Ah, certo. Di lei so già tutto: me ne ha parlato Reyna. Io invece mi chiamo Patricia Yañez Cruz, hermana (sorella) Patricia. Sono qui da tre anni e sono la cornordinatrice cilena, professoressa e suora».
Di fronte ad una persona così sicura, all’inizio quasi non riesco a fare domande. Finalmente mi decido a porre la domanda che mi attanaglia: Hermana Patricia, che relazione esiste tra povertà e salute o, meglio, tra povertà e malattia?
«Lo abbiamo discusso parecchio con i nostri medici, i due psichiatri e lo psicologo. La verità è che molte delle malattie diagnosticate sono in relazione con la situazione economica, politica e sociale. Non oseremmo dire che ne sono la causa; però possiamo affermare che, sì, hanno una forte influenza».
«Pensiamo al fenomeno della disintegrazione familiare. In apparenza, è una questione di relazioni interpersonali; ma, a ben guardare, la maggior parte delle situazioni di disagio familiare ruota attorno ai problemi economici».
«Non oserei dirlo, perché ancora non abbiamo fatto studi specifici su questo; però a prima vista le cause dei problemi nelle famiglie nascono sempre dallo stesso punto. La famiglia non ha la possibilità di condurre una vita accettabile ed iniziano i problemi, le depressioni, le crisi, gli abbandoni del tetto coniugale, purtroppo molto frequenti».

C hiedo a suor Patricia come si è arrivati a decidere di lavorare in un settore così difficile e delicato e, soprattutto, in una comunità marginale come Villa El Salvador.
«Nacque tutto – mi racconta – da un’idea del parroco, padre Antonio Garzón, un sacerdote spagnolo che rimase qui per sette anni. Nel 1996, oppresso dai problemi (sempre più persone andavano a sfogarsi con lui) e cosciente che vi era un limite al di là del quale non poteva essere d’aiuto (un limite che doveva essere trattato da specialisti), propose alla comunità di avere un’assistente sociale e una psicologa, per rispondere ai problemi delle famiglie disintegrate, alle coppie, ai bambini».
«Inizió così. Tre persone che lavoravano alcune ore in parrocchia. Solo dopo si elaborò un progetto. Il Centro di salute mentale fu terminato nel 1998. In questo momento siamo quasi 40 persone che lavoriamo qui».
Quaranta persone non sono poche. E come è organizzato il lavoro?
«È organizzato per servizi. C’è un’area di psichiatria con medici, infermiere, una piccola farmacia (un lusso per Villa El Salvador), un gruppo di volontari che la gestisce e una psicologa».
«Poi c’è il settore di psicologia con tre psicologi e alcuni studenti dell’Università cattolica che vengono a fare i loro periodi di pratica. Infine abbiamo il servizio sociale, con due assistenti sociali e un programma di recupero pedagogico per i bambini con due professori assegnateci dal Provveditorato agli studi. C’è anche un’area di terapia fisica».
«È stato come muoversi in un circolo: una cosa ha portato all’altra. Quando si iniziò questo Centro, non c’era una metodologia pensata prima. Tutto fu creato man mano che ci si rendeva conto dei problemi e delle difficoltà. Si iniziò pensando ai bambini e alle donne. C’era molta violenza nei confronti delle donne, molti bambini maltrattati, violentati. Si pensò quindi a un servizio per questa tipologia di persone. Però questo gruppo era inserito in problematiche generali. Allora si pensò alla famiglia, agli adulti con problemi psicologici, con disordini psichici e si sviluppò anche quest’area. E quindi i bambini con problemi scolastici. Infatti, se nella famiglia c’è una situazione di violenza, immediatamente il bambino diminuisce il suo rendimento scolastico. Questo è automatico».
«Poi si notò che problemi economici, cattiva alimentazione (molta gente che viene da altre parti del Perú è male alimentata) e mancanza di educazione portano i bambini ad avere difficoltà di motilità fine e grossa. Si pensò quindi alla terapia fisica di riabilitazione, alla psicomotricità, alla stimolazione precoce. Insomma, il meccanismo che abbiamo messo in azione ha portato il Centro a crescere, fino a divenire un Centro di assistenza integrale».
Avete potuto svolgere degli studi per conoscere l’epidemiologia della malattia psichiatrica?
«Si stanno facendo studi, valutazioni, analisi delle diagnosi; però è complesso, perché abbiamo ancora pochi dati.
Possiamo confrontare solo tre anni perché all’inizio il lavoro era molto artigianale. Il servizio psichiatrico poi ha solo due anni e mezzo».
Quanti pazienti avete nel servizio psichiatrico?
«In psichiatria i pazienti sono 370, la maggioranza di Villa El Salvador e alcuni anche di altri distretti vicini, come Villa Maria del Triunfo, Lurin e Miraflores. Invece il numero di bambini è più elevato: circa 400 pazienti; si effettuano controlli programmati per tutto l’anno, con terapie fisiche, della parola o interventi pedagogici».
Ci sono a Villa altri servizi di salute mentale?
«Di questo tipo no: solo piccole cose. La gente arriva qui anche per la presenza della farmacia e perché i medici, che lavorano pure nell’ospedale zonale (Maria Auxiliadora) e nell’ospedale psichiatrico di Lima (Larco Herrera), ce li mandano, perché là non hanno possibilità di curarli come vorrebbero».
«In totale quest’anno abbiamo incontrato 9 mila pazienti. Non vogliamo però ampliarci ulteriormente, perché abbiamo raggiunto il limite delle nostre possibilità. Ciò che vogliamo è garantire il controllo costante ai pazienti. Vogliamo coinvolgere le famiglie e, in parte, ci siamo già riusciti, perché il paziente non deve venire da solo, ma accompagnato da un familiare; invitiamo sempre la famiglia a far parte dell’Orfasam (Organizzazione delle famiglie di salute mentale)».
«È un’organizzazione che si riunisce ogni 15 giorni per incontri e seminari, durante i quali si spiega cos’è la malattia mentale, che il paziente è una persona che non deve essere emarginata, che la malattia mentale è come ogni altra malattia. Si insegna poi come affrontare la sintomatologia dei pazienti, come capirli, appoggiarli, che fare quando sopraggiunge una fase critica».
«I familiari devono assistere a tali riunioni, impegnarsi a dare loro le medicine nel momento giusto e partecipare alle terapie di gruppo del venerdì. Tutto questo ha avuto come conseguenza un miglioramento del rapporto fra il paziente e la propria famiglia. È stato un lavoro duro, però bello, e ha portato a ricostruire una base di fiducia».
Qual è l’età dei pazienti?
«La maggioranza è giovane. Di ciò stavo discutendo con il medico, perché stiamo osservando che sta scendendo l’età dei primi sintomi della schizofrenia. Ci sono giovani di 17-18 anni, che presentano forme di schizofrenia. La maggioranza è però intorno ai 30 anni. Ci sono anche adulti; però il numero è più basso. I più sono giovani».
Sono malattie legate alla situazione sociale ed economica?
«Sì, certo. Sono fortemente legate, fortemente».
Quando cerco di raccontare di Villa El Salvador nel mio paese, quello che dico sempre è che la gente ha i nostri stessi problemi e in più la povertà.
«Più la povertà, è vero. Ed è una povertà molto, molto forte. Vivo da tre anni a Villa El Salvador e ancora mi sconvolge vedere la gente vivere con il minimo, giorno dopo giorno. Pensare che una famiglia possa risparmiare e programmarsi il futuro, immaginare di ottenere qualche cosa in più nel giro di un anno… no, qui questo proprio non è possibile! Moltissime donne e famiglie debbono cercare ogni giorno di ottenere il necessario per la sopravvivenza quotidiana. E un giorno di malattia è un giorno nel quale non si mangia del tutto. Così semplicemente…».
«Abbiamo discusso a lungo con l’assistente sociale. Costei ha trovato molti casi nei quali è la donna che deve uscire di casa per la quotidiana ricerca della sopravvivenza. È più facile, infatti, per una donna trovare lavoro che per un uomo: perché una donna può cucinare, preparare qualche cosa, vendere, lavare. Gli uomini, al contrario, possono soltanto lavorare nelle costruzioni, come tassisti o venditori».
La malattia psichiatrica si osserva di più nelle donne o negli uomini?
«Negli uomini. Io almeno l’ho vista più negli uomini, molti dei quali giovani».
Perché?
«Ci sono giovani che, finita la scuola superiore, non possono continuare a studiare e nel contempo non trovano lavoro. Così vanno in giro e possono passare un anno o due senza fare niente. Per questo cadono in uno stato depressivo, che è molto forte. Non possono aiutare la famiglia e questa rinfaccia loro di non portare niente a casa e di essere soltanto un peso economico. È molto duro da sopportare per un uomo».
Che legame esiste fra malattia psichiatrica, depressione e altre malattie come la tubercolosi o l’Aids? C’è una relazione?
«Per quanto ho potuto notare qui, sì. Le persone con problemi mentali, se la famiglia non li comprende, vengono respinte e quindi diventano dei vagabondi. È molto facile che contraggano malattie, nel senso che sono malnutriti, si ammalano più facilmente di tubercolosi e spesso anche di malattie a trasmissione sessuale. Nel Centro abbiamo casi di Aids… Non hanno un regime alimentare adeguato e stabile, si abituano a mangiare per strada cose che non sono nutritive, solo per riempirsi lo stomaco».
«Con altri centri medici parrocchiali, abbiamo visto un notevole incremento di tubercolosi in questo periodo e di tubercolosi associata all’Aids».
«Inoltre, non ho mai visto tanta spazzatura in Villa El Salvador come in questo momento e ciò porta come conseguenza un aumento delle malattie infettive».
Nel vostro lavoro, collaborate con altre istituzioni sanitarie?
«Questo è un centro parrocchiale e noi siamo parte del dipartimento della pastorale della salute nella diocesi. Al presente siamo otto centri sanitari parrocchiali con varie specializzazioni. Facciamo poi parte della “Rete municipale di assistenza e prevenzione della violenza sui minori”, alla quale partecipano più di 30 organismi statali, organizzazioni non governative ed altre istituzioni. Facciamo parte inoltre del gruppo di cornordinamento municipale Mesa de la Comunidad saludable».
La malattia psichiatrica è quindi una parte del grande problema della povertà?
«Sì, sì. Il dilemma è fra due atteggiamenti: l’assistenza o la prevenzione. Ci sono persone che, in questo momento, hanno bisogno di assistenza e occorre dargliela. Allo stesso tempo, però, sarebbe necessario un forte lavoro di prevenzione, educazione e formazione della gente da fare nelle scuole, in tutti i centri sanitari, nei municipi. Penso però che saranno necessari parecchi anni per vedere dei risultati. Senza dimenticare i cambi nella politica economica, affinché la gente possa avere più stabilità all’interno delle famiglie».
Hermana, lei ha visto peggiorare la situazione?
«Purtroppo sì, in questi tre anni ho notato un peggioramento. La gente è ogni giorno più povera e c’è sempre meno lavoro. Lo si nota vedendo quante persone vengono al Centro a chiedere aiuto».
Come si fa a raccontare questi problemi alla gente dell’Europa e di altri paesi ricchi? Per me è difficile, perché là non si conosce una povertà come questa e l’incertezza nella quale si vive.
«È vero, è difficile da spiegare… Quando uno vive in altre società e in altri ambienti, non riesce a comprendere una realtà così diversa. Anche in Perù ci sono sempre due mondi: il Perù turistico e quello della povertà inconcepibile. Basti pensare che a 20 minuti da Miraflores, dove ci sono gli hotel dei turisti, c’è Villa El Salvador con le sue invasioni di poveracci. Come spiegare l’inconcepibile?».
Gracias, Patricia!

R icordo quella volta che nell’ambulatorio si presentò una signora con un bambino.
Buon giorno, signora, che cos’ha il suo bambino?, le chiesi.
«Ha un po’ di tosse e di febbre, e vorrei che me lo controllasse».
Lo spogliai, lo pesai, tirai fuori il mio stetoscopio riscaldandolo prima fra le mani, glielo feci toccare affinché non si spaventasse e gli ascoltai i polmoni. Aveva solo una bronchitella.
Dopo avere tranquillizzato la signora, un qualche cosa di non spiegabile (qualcuno lo chiama intuito, ma forse è soltanto esperienza), mi suggerì una domanda: Signora, il bambino sta bene ma mi pare che lei abbia il viso sofferente. Cosa succede?
«Oh no, dottore – mi disse -. Ho i soldi solo per una visita e sono per il mio bambino (ndr: il municipio fa pagare una piccola somma, che in caso di necessità non è richiesta)».
Non si preoccupi, signora! Anzi, guardi: se la madre non sta bene; anche il bambino non sta bene. Allora mi dica: cosa succede?
«No, nulla. Sono solo un po’ debole».
Mi ritrassi nella sedia. La guardai negli occhi e le chiesi: Che cosa ha mangiato a pranzo?
«Un pane con il thè», mi rispose con gli occhi bassi.
E a colazione?
«Un pane con il thè».
E ieri sera?
«Un pane con il thè».

Cosa prova un medico a diagnosticare «la Fame» con la «F» maiuscola? La Fame di una madre che dà il poco che ha a suo figlio?
Capite, amici lettori di Missioni Consolata? Il bambino ha una leggera bronchite e la madre Fame; Katherine (cfr. Missioni Consolata di marzo) è cresciuta nella Fame e lavora nella Fame; il «matto» della Gillette (Missioni Consolata di gennaio) vive la propria malattia nella Fame; i ragazzi del Centro de salud mental si ammalano per la Fame.
E la Fame non è altro che la povertà, quella povertà che la hermana Patricia ha definito «inconcepibile».
Avevamo fatto, negli anni dell’iperinflazione nel Perù, una semplice constatazione: il dollaro cresceva e dopo 2 mesi aumentavano i bambini denutriti; dopo 6 mesi, aumentava la tubercolosi. Ora mi accorgo che, magari dopo un anno, aumenta anche la depressione e questa è, a sua volta, causa di altra Fame e di altre malattie.

Guido Sattin



Una malattia chiamata povertà


Si sa che l’ambiente dove si nasce, vive e lavora influisce enormemente sul «benessere» delle persone. Se si provasse a curare la «povertà», forse la «salute» sarebbe veramente un diritto universale
e non un privilegio riservato a una minoranza del mondo.

Villa El Salvador (Perù), gennaio 2001. Vorrei ritrovare Katherine, una bambina che curai nel 1986. Oggi dovrebbe avere 18 anni.
Per trovarla, in una città che adesso conta 360.000 abitanti, mi sono affidato a Nolberto, un carissimo amico di professione tassista.
«Nolberto, aiutami, voglio trovare una bimba che nel 1986 aveva 4 anni e mezzo e che tirammo fuori dalla denutrizione. Mi ricordo che, quando arrivò all’ambulatorio, pesava sette chili e mezzo».
«Il peso di un bambino di 6 o 7 mesi!».
«Infatti… aiutami Nolberto, vorrei sapere come è cresciuta, quali conseguenze ha avuto la sua denutrizione cronica nei primi anni di vita. Ma sarà ancora viva? Dove vivrà oggi?».
«Se è ancora a Villa, sta sicuro che la troviamo», mi risponde sicuro.
Nolberto ci pensa un attimo e poi si dirige con l’auto, che «zoppica» più di lui (conseguenza di un grave incidente stradale dal quale entrambi erano usciti vivi per miracolo) verso il municipio.
Mi lascia fuori e dopo un quarto d’ora torna con le informazioni del caso.
«Senza di me cosa potresti fare, caro Guido? Però, se poi la troviamo, mi offri una birra!».
«Dimmi, da che parte vive?».
«Ho trovato Clara, ricordi? Era l’infermiera che lavorò con voi al “Cecore” (Centro Comunal de Recuperación de Niños Desnutridos). Lei ricorda la casa della nonna, vive nel gruppo 27 del terzo settore (Villa è divisa in settori, ndr)».
«Andiamo subito!».
Arrivati davanti ad una casetta, scendo dall’auto e busso. Esce una ragazzina.
«Hola! Sono il dottor Guido. Stavo cercando Katherine, la conosci?».
«Certo, è mia cugina, ma cosa vuoi da lei?».
«Sono un medico. Tanti anni fa l’ho curata e avrei piacere di rivederla e di sapere come sta».
«Katherine sta bene, ma è al lavoro. Se vuoi ti accompagno da sua madre».
«Andiamo allora, monta in macchina».
«Ma io – protesta blandamente la cugina di Katherine – stavo andando dall’altra parte e poi … non mi volete rapire?».
«Dai, che ti faccio accompagnare da Nolberto in macchina, un servizio completo di taxi con questa fantastica automobile! Vai Nolberto!».

Poche centinaia di metri e ci fermiamo. La casupola mi sembra quella che ricordavo da allora; solo che adesso è rimasta chiusa tra case semicostruite. Busso e viene ad aprirmi una ragazza.
«Ciao, sono il dottor Guido. C’è tua madre?».
«Certo, adesso la chiamo».
La porta aperta lascia vedere un cortile di sabbia, un mucchio di pietre sulla sinistra e una carcassa di auto sulla destra; al fondo la vecchia casupola di esteras (stuoie intrecciate, ndr) di un tempo con il tetto di eternit. Un colpo allo stomaco: è la stessa immagine che avevo nascosto nella memoria di quel lontano 1986. Nulla è cambiato.
«Dottor Guido, dottor Guido, che piacere vederla. Entri, entri».
È una donna di quasi quarant’anni con il viso tondo ancora giovanile, un grande sorriso e vestita con un largo camicione bianco.
«Entri, entri. Peccato che Katherine non ci sia. Avrebbe voluto vederla. Ma si accomodi, si segga, le tiro fuori le fotografie di Katy. Oramai è grande. Lavora!».
La casupola di esteras è un unico ambiente, senza finestre. La luce entra solo dalla porta e un grande e vecchio televisore a colori, sempre acceso, ci fa compagnia per tutta la conversazione. Un letto sulla sinistra, il fornello sulla destra e una tenda che nasconde il retro.
Le foto di Katy al battesimo, quelle della prima comunione. In apparenza, una ragazza come tante altre, normale. Katherine è viva, Katherine è cresciuta.
Le chiedo il permesso di accendere il piccolo registratore che il giorno prima ho comprato. Così iniziamo a parlare.
Cosa ricorda, signora Griselda?
«Era il 1986 e Katherine aveva 4 anni e mezzo e pesava 7 chili e mezzo. Era nata normale, normale. Però, all’anno di età, le iniziarono ad uscire dei foruncoli, di quelli senza punte. La portavo all’Hospital del Niño e là la incidevano e per questo tuttora ha parecchie cicatrici nel corpo. La tagliavano e le facevano uscire tutto il pus. No, non cresceva di peso, non cresceva. Anzi, scendeva, scendeva di peso. Non pesava niente…».
Se non ricordo male, non riusciva a stare neanche seduta?
«Voleva stare sempre distesa, solo distesa, e non aveva appetito. Non pesava molto. Quando compì due anni, sembrava un bambino di sei mesi. E…, niente, era piccina, magra, magra».
E quando arrivò al Cecore, parlava o non parlava?
«Si parlava, però poco, poco. Era silenziosa, chiusa in se stessa. Venne a casa una signorina (una promotora de salud della comunità, ndr) e la vide. Katherine, rimaneva sempre distesa e non mangiava, però le piaceva mangiar sabbia. Mangiava sabbia e beveva acqua, nient’altro. Sabbia ed acqua. Aveva i vermi.
La signorina mi disse che c’era il Cecore e mi mandò lì. In questo modo arrivai al centro. Perché io non sapevo cosa fare, pensavo che sarebbe morta, perché era così magra e non mangiava. Pensavo che non sarebbe sopravvissuta.
Un giorno l’avevo portata anche alla Molina (in questo ricco quartiere era attivo un centro per il recupero dei bambini denutriti gravi, ndr), però accettavano solamente bambini fino ai tre anni e non la vollero».
Cosa successe poi?
«Quando entrò nel centro, la sua pelle iniziò a desquamarsi tutta e le cominciarono a cadere tutti i capelli. Come un bambino piccolo che inizia a cambiare, così anche lei iniziò a cambiare».
E in quanto tempo recuperò?
«Nel Cecore, sarà stata circa un anno, lavorando tutti insieme, con lei, con la signorina Clara, con il dottor Liborio. La notte tornava sempre a casa e la mattina passava l’ambulanza del municipio a prenderci. Io stavo con lei e lì le preparavamo il cibo. Katherine non aveva muscoli, non aveva grasso nelle sue gambette, così mi dissero. E così al centro iniziarono a darle pastiglie e sciroppi».
E dopo? Una volta uscita dal centro, come è cresciuta?
«Lei mi disse che non si sarebbe sviluppata proprio bene, che non sarebbe stata alta, che sarebbe rimasta un poco bassa. Invece no, è cresciuta bene. Veramente.
Mangiava di tutto, ha iniziato anche ad ingrassare un po’. Le davo parecchio pane con margarina, perché avesse grassi ed è cresciuta bene. È andata a scuola, ma solo fino al quinto grado della primaria. Poi non riuscì più. Mi chiamò la psicologa che l’aveva valutata e mi disse che la bambina era un po’ ritardata. Questo successe quando Katherine aveva 12 anni. Allora la mandarono ad una scuola speciale, dove rimase per circa 5 anni».
E in quegli anni si ammalò?
«No, da quando è uscita dal Cecore, è stata bene. Non ha avuto più problemi, anzi man mano è ingrassata».
L’unico problema è stato, quindi, quello del ritardo mentale?
«Sì, infatti non è riuscita a superare la scuola primaria. Nella scuola speciale le hanno insegnato un pò di matematica, di lingua. Però soprattutto erano laboratori tessili, di pasticceria, di cucina, di calzoleria».
E quando ha finito di studiare?
«Ha finito l’anno passato. È là dove ha imparato a cucire, faceva asciugamani, camici, fodere, tende e adesso sta lavorando in una fabbrica di vestiti. Deve togliere i fili dai jeans che fabbricano».
A che ora esce la mattina?
«Esce alle sette e torna alle nove, nove e mezza di sera. Lavora ad Acho (un quartiere di Lima, ndr)».
Dunque, circa 12 ore di lavoro al giorno più il viaggio?
«Sì, più o meno. Però il sabato ritorna alle sette del pomeriggio».
E quanto guadagna?
«Adesso, …, la settimana scorsa le hanno dato 80 soles (meno di 50.000 lire, ndr)».
Signora Griselda, mi racconti un poco della sua famiglia.
«Bueno! Sono una ragazza madre, e da poco mia figlia maggiore si è sposata ed è andata a vivere con suo marito. Adesso siamo io, Katy e Luisa, la minore. Prima lavoravo vendendo gettoni del telefono, ma ho lasciato questo lavoro con l’arrivo delle carte telefoniche. Poi ho venduto cose da mangiare, sempre come ambulante; però ho lasciato anche questa occupazione e adesso non sto lavorando. Viviamo con quello che ci porta Katy».
Ed è sufficiente?
«No, non basta, però qualche volta mio padre mi dà una mano, però a volte non può. Anche Luisa doveva iniziare a lavorare, però si è ammalata. È appena uscita dall’ospedale».
Che cosa ha avuto?
«Non sapevano, sembra che avesse del liquido, qui, da questa parte».
Nei polmoni?
«Aveva del liquido nei polmoni, non si sa per quale ragione. Venerdì devo andare a ritirare le analisi e mi spiegheranno».

Spengo il registratore. Non me la sento più di continuare. Con una scusa saluto Griselda e le dico di salutarmi Katherine.
Esco con il cuore gonfio di rabbia verso me stesso. Aggredisco verbalmente Nolberto che, aspettandomi, si è addormentato.
«Fanno lavorare una bambina 12 ore al giorno e solo 10 il sabato! 70 ore alla settimana e tutto per neanche 200 mila lire al mese! Sfruttata dalla famiglia e dal datore di lavoro, senza assicurazione e senza alcun diritto. Sua sorella avrà la tubercolosi e sua madre lì, seduta a far niente!».
Nolberto cerca di calmarmi: «Non giudicare, Guido. Sei appena tornato in Perù! È già molto che Katherine non abbia un figlio e che sia viva!».
«No, Nolberto, non too a vederla. Mi vergogno».
Conoscendomi, l’amico tassista non insiste e mi riaccompagna a casa, dove proviamo a rilassarci giocandoci ai dadi la birra che mi ha costretto a comprargli.

Nolberto ha ragione. Sono un medico, non il Padre eterno. L’esistenza delle persone non la posso decidere io, né posso cambiarla. E poi chissà cosa la madre di Katherine avrà sofferto, quale sarà stata la sua storia e quale quella delle altre 360 mila persone che abitano a Villa El Salvador. E poi… Ananias Villar, la bambina alla quale avevamo intitolato il Cecore, era morta. Katherine, invece, è viva e può costruirsi la sua vita.
Ma il tarlo che mi frulla per la testa è un altro. Sempre mi hanno insegnato a curare la malattia e non i sintomi. La denutrizione è un sintomo di una malattia chiamata «povertà».
Katherine è stata concepita nella povertà, è nata e cresciuta nella povertà e vive tuttora nella povertà. Potrà mai conoscere la «salute»? Chi potrà curarla dalla povertà?

TORNARE AI RIMEDI DELLA NATURA

Dopo la conferenza su metodologie e valutazione delle medicine tradizionali svoltasi ad Antananarivo, in Madagascar, nel novembre 2000 (alla quale hanno presenziato partecipanti di 17 paesi), ad Abuja, capitale della Nigeria, dal 5 al 7 dicembre si è tenuto un convegno su un tema più specifico: i rimedi naturali contro la malaria e contro l’HIV/Aids. La conferenza, sponsorizzata dalla «Ford Foundation» e da «Multilateral Iniziative on Malaria», è stata organizzata dall’«Inteational Centre for Ethnomedicine and Drug Development» (Nigeria), assieme ad altri organismi africani e statunitensi.
Presieduta dal ministro della Sanità della repubblica federale di Nigeria, Tim Menakaya, alla presenza dei massimi organismi scientifici, la conferenza ha dibattuto i temi più attuali della ricerca sia dal punto di vista operativo che legislativo.

Per l’Aids il dato emerso è impressionante: su 16,3 milioni di decessi causati dalla malattia fino al 1999, 13,7 milioni si sono verificati in Africa. Ogni giorno 5.500 africani (uomini, donne e bambini) sono contagiati. Il rapporto conferma che, entro il prossimo decennio, 10,4 milioni di bambini africani sotto i 15 anni avranno genitori colpiti dall’Aids.
Fino ad oggi, l’uso delle etnomedicine per questa malattia ha avuto un’incidenza molto relativa, anche a causa di una scarsa divulgazione rispetto alle medicine allopatiche.

Per la malaria i casi che si verificano ogni anno sono stimati in 300-500 milioni, dei quali il 90% nell’Africa subsahariana; si calcola che i decessi siano oltre un milione all’anno. Gli interventi hanno avuto per oggetto le ricerche più recenti, i rimedi tradizionali e gli interventi riguardanti il farmaco-resistenza.
Molto apprezzato è stato l’intervento dell’amministratore della «Cipka», società svizzera che ha spiegato le ricerche fatte su piante africane contro la malaria. In particolare, i confortanti risultati d’analisi di laboratorio ed in vivo del preparato denominato «Gadelpas» (*) hanno convinto il «National Institute for Pharmaceutical Research and Development» della Nigeria ad intraprendere un protocollo di prove in tre ospedali diversi.
Nel mese di maggio al più tardi si avranno i risultati definitivi e, come si spera, il prodotto potrà essere immesso sul mercato nigeriano, per poi estenderlo ad altri paesi.
Il lavoro della conferenza ha dettato le linee guida per il prossimo futuro, anche se il lavoro da compiere (affinché alle etnomedicine venga ridato quel ruolo primario che loro compete) è ancora lungo.
Molto confortante è il dato che emerge dai paesi sviluppati, che indicano un forte ritorno a tutto quanto è «naturale». Di conseguenza anche i paesi più interessati, come quelli africani, stanno valutando le strategie per affrontare meglio il mercato dei farmaci ritrovabili in natura.

GUERRE UMANITARIE E URANIO IMPOVERITO

Per maggiori informazioni:

http://www.gulflink.osd.mil/du_index.htm
http://www.gulflink.osd.mil
http://www.gulfweb.org
http://www.gulfwarvets.com
http://www.gulfwarvets.com/kuwait.htm
Si tratta di siti dei veterani USA e documenti sulla «guerra del Golfo».

Inoltre: www.ilraggioverde.rai.it (in particolare, il resoconto della puntata del 12 gennaio 2001).

E il libro: Inteational Action Center, Il metallo del disonore. Che cos’è l’uranio impoverito, Asterios Editore, Trieste 2000.

Guido Sattin



Il matto della


Come curare la malattia mentale?

«Con difficoltà ho superato l’esame di psichiatria. Era una materia affascinante, della quale però
non ero mai riuscito a trovare il bandolo… Con che terrore, quindi, mi sono trovato davanti a quello che per me era rimasto sempre incomprensibile!». Come quella volta alla «Posta medica» di Villa El Salvador, in Perù.

Con difficoltà ho superato l’esame di psichiatria. Era una materia affascinante, della quale però non ero mai riuscito a trovare il bandolo… Poi, per quegli strani scherzi del destino, nella mia vita di medico mi trovai ad affrontare proprio quegli aspetti della medicina che più mi erano apparsi ostici durante il lungo periodo degli studi universitari.
Come quella volta alla «Posta medica» di Villa El Salvador, quando per la prima volta mi trovai davanti a quello che per me era rimasto sempre incomprensibile.

Nella «Posta medica municipal» numero 1, la prima del sistema ambulatoriale di Villa El Salvador, lavoravo come di consueto con Julio, il «mio» infermiere che ne sapeva sempre una più di me.
Un giorno, dopo aver visitato i soliti bambini con bronchiti e mal di gola e aver ricettato come sempre Ampicillina e «agua de eucalipto» (però di quello canforato), Julio fece entrare nello studio un grasso signore con il viso sporco, ma soddisfatto, e le mani macchiate di sangue.
«Buenos dias señor – gli dissi – que le pasa?».
«Niente» mi rispose.
«Come mai allora – gli ribattei con la mia stringente logica universitaria – ha le mani sporche di sangue?».
«È la Gillette, dottore. Mia cognata non voleva farmi uscire».
Solo a questo punto mi accorsi che la camicia, sotto la giacca unta, era coperta da una spaventosa macchia di sangue.
«Ma che ha fatto, señor?» e rapidamente gli sfilai la giacca.
«Julio corri!» gridai spaventato.
«Si calmi, doctorcito, non è niente – mi ribattè l’uomo ferito -. Mia cognata non voleva farmi uscire e allora con la Gillette… È un taglio perfetto, sono un esperto».
Julio arrivò con la calma che gli ho sempre invidiato e mi aiutò a togliergli la camicia.
«Carajo (forte esclamazione gergale, ndr) – esclamai -, non ho mai visto un taglio così».
Lo distendemmo sul lettino e ci guardammo con gli occhi spalancati. Mandai Julio a prendere il metro e insieme misurammo quel taglio, pressoché perfetto, che in tutti i suoi 35 centimetri di lunghezza metteva in mostra il sottocutaneo e un notevole strato di grasso.
«E adesso – dissi – che facciamo?».
«Cuciamo!» mi rispose con tono tranquillissimo il nostro matto.
«Cuciamo lo dico io!» gli ribattei un poco ferito nell’orgoglio, ma anche ricordando che l’orlo dei pantaloni (che avevo tentato di fare un paio di giorni prima) mi era venuto talmente storto che la signora Mila me li aveva fatti sfilare per rifare la cucitura.
Nel frattempo, Julio si era munito di garze, disinfettante e pinze e aveva cominciato a pulire la ferita. La boccetta di Xilocaina era pronta per anestetizzare la parte e cominciare a cucire.
Il matto continuava intanto ad osservarci con sempre maggiore ammirazione ed interesse (se i pazienti fossero stati tutti così, forse anch’io sarei diventato un grande medico).
«Che cos’è quella boccetta» mi chiese.
«Xilocaina, è un anestetico locale» gli risposi.
«Eh no dottore – mi rispose fermandomi la mano -. Non voglio niente del genere».
«È per non farle sentire dolore» gli spiegai.
«Ma per me è un piacere. Ho molta esperienza».
Effettivamente, pulendo la ferita e la pelle intorno, cominciarono a comparire i segni di anteriori imprese dello stesso tipo.
«D’accordo! Julio, passami ago e filo. Cominciamo!».
«Dottore, che splendida mano, che passi da gigante ha fatto la chirurgia ai giorni nostri, che strumenti perfetti!».
Con Julio ci guardammo e ci immaginammo in una modea sala operatoria alle prese con un difficile intervento, circondati da monitors, con un nugolo di studenti che ci osservavano. Invece, ci trovavamo sotto il neon di un ambulatorio di periferia a cucire la pancia di una persona, feritasi con una lametta Gillette a causa di una cognata insofferente. Un matto che ci spronava e si ergeva a unico testimone dell’impresa di un medico alle prime armi e di un grande infermiere ai suoi inizi.
Nonostante le mani tremanti e il filo che finiva, arrivammo in fondo, pieni del nostro orgoglio e con i complimenti del matto. Gli bendammo la pancia e lo mandammo a casa con tante raccomandazioni.

Tre o quattro giorni dopo, mentre stavo visitando un’intera famiglia con «rasca-rasca» (letteralmente «gratta-gratta», è il termine popolare per definire la scabbia, ndr), Julio mi chiamò: «Dottore, venga è tornato il matto».
«Arrivo subito. Controllagli la ferita intanto».
«Corra dottore, presto!» sentii la voce insolitamente trafelata del fido infermiere.
Corsi nella stanza e vidi la faccia allucinata di Julio e quella tranquilla e soddisfatta del matto.
«Carajo – esclamai -, si è infettata?».
«No dottore, sa …, ho trovato una Gillette e allora ho pensato a voi… E poi mia cognata…».
«Cosa ha fatto? Un’altra volta!».
Ci guardammo in faccia con Julio che mi lesse nel pensiero dicendo: «Chiamo subito l’ambulanza, dottore. Abbiamo finito il filo».
Lo mandammo a Larco Herrera, il manicomio di Lima.

Solo anni dopo, seduto nella grande sala del «castello» del «Residuo psichiatrico» (che razza di nome, eh?) di Montecchio Precalcino (Vicenza), mi resi pienamente conto della tragedia del matto della Gillette e di sua cognata.
La primavera è prepotente nelle verdi campagne venete sulle quali sorge questa collinetta popolata di alberi e matti. Anche qui capitai per caso, accettando una sfida che mi avevano proposto: demolire il «Residuo psichiatrico» (ma chi mai avrà inventato una definizione così grossolana e tremendamente vera e frustrante?), nel quale vivevano ancora 2.500 ospiti e un centinaio fra infermieri, suore e impiegati.
La paura e l’orrore della malattia mentale non mi hanno mai abbandonato e, se affrontare un paziente psichiatrico mi stressava, affrontare un intero manicomio mi terrorizzava.
Forse fu la signora Spiller, con i suoi deliri di persecuzione che lasciavano improvvisamente posto a grandi e composti gesti d’affetto, che mi aiutò a cercare più in profondità. Forse fu la rabbia di ascoltare rimpianti di un passato in cui, a Montecchio, un medico si occupava di 700 ospiti e dove, anche da morti, i matti non uscivano dai recinti del manicomio. O forse furono la grande speranza e serenità di Riccardo, psichiatra dall’eterno toscano in bocca, a coinvolgermi e farmi intravvedere la possibilità di un cambiamento.

A distanza di anni, una cosa debbo scrivere per liberarmi da un peso troppo grande per la mia coscienza di uomo, più che di medico. La medicina, la psichiatria e la società civile che hanno inventato, moltiplicato e poi tollerato i manicomi hanno fallito e in questo loro fallimento hanno trascinato migliaia e migliaia di persone.
E se, a quasi 25 anni dall’abolizione ufficiale dei manicomi (legge n.180 del 13 maggio 1978, conosciuta come legge Basaglia, ndr), a Montecchio Precalcino ci sono ancora persone, la società civile ha rimosso il problema e la modea psichiatria ha fallito ancora.
Cucire la pancia al matto della Gillette bisognava certamente farlo, ma cosa bisognava fare per convincerlo a non tagliarsela più? Non ho ancora trovato una risposta.
Ma il mio vero cruccio non è tanto questo, quanto piuttosto di averlo mandato in un manicomio. Ovvero nel luogo che racchiude tutti i fallimenti dei nostri maldestri tentativi di affrontare la malattia mentale.

di Guido Sattin (*)
La «Fondazione Ivo de Caeri»

IL LABORATORIO DI PEMBA

Nei paesi in via di sviluppo, malattie respiratorie, malaria, diarree, parassitosi di varia origine sono tra le principali cause di malattia e di morte nei bambini al di sotto dei 5 anni.
Risultati di recenti ricerche hanno messo in evidenza che l’aggiunta di piccole quantità di ferro e di zinco alla dieta quotidiana di questi bambini è in grado di migliorae la crescita e lo sviluppo fisico e mentale.
La «Johns Hopkins School of Public Health», una delle più importanti scuole inteazionali di salute pubblica, in collaborazione con l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), ha scelto per l’Africa l’isola di Pemba, in Tanzania, e il laboratorio di sanità pubblica «Ivo de Caeri», per valutare i primi risultati di questa sperimentazione sulla popolazione infantile.
Il progetto durerà due anni e si svolgerà contemporaneamente anche in India e in Nepal. Dal punto di vista finanziario, esso è sostenuto da diverse organizzazioni: «United States Agency for Inteational Development», «United Nations Foundation», «Bill and Melinda Gates Foundation».
Il laboratorio di Pemba, ultimato nel maggio del 2000, sorge su un’area di oltre 700 metri quadrati e comprende laboratori di parassitologia, microbiologia e virologia, un’aula per formazione, educazione sanitaria e conferenze, una biblioteca, uffici e servizi generali. È stato ufficialmente inaugurato il 12 giugno (giorno della nascita del prof. Ivo de Caeri) alla presenza delle autorità sanitarie locali, di membri dell’Oms e dell’ambasciatore italiano in Tanzania. Il personale occupato sarà tutto locale.
Il sostegno economico dei donatori e l’opera volontaria di tutte le persone che lavorano per la «Fondazione de Caeri» hanno permesso la realizzazione di questo importante laboratorio di sanità pubblica, in un’area geografica dove non esistono strutture sanitarie. Ancora oggi parte della popolazione (non solo infantile, ma anche adulta e produttiva) soccombe a causa di malattie che, in altri paesi del mondo, sono ormai dimenticate.
Per la Fondazione Ivo de Caeri la collaborazione con la «Johns Hopkins» (che coinvolge, oltre al personale del laboratorio, strutture governative, sanitarie e popolazione dell’isola) è motivo di grande soddisfazione e di stimolo a intensificare la propria opera e l’impegno futuro in Africa.
Silvana Maggioni


La campagna di «Medici senza frontiere» (MSF)

L’ACCESSO AI FARMACI ESSENZIALI

Il cornordinatore della campagna MSF per l’accesso ai farmaci essenziali, dottor Pecoul, così si è sfogato: «Sono stanco di constatare come il profitto abbia sempre la meglio sul diritto alla salute. Sono stanco della logica secondo cui chi non può pagare, muore».
L’accesso a farmaci essenziali ed efficaci è negato ai poveri per una delle seguenti ragioni:
– il prezzo proibitivo dei nuovi farmaci sotto brevetto;
– la ricerca e lo sviluppo trascurano le malattie dei poveri, mentre farmaci attualmente in uso sono ormai inefficaci per la diffusione di microrganismi resistenti;
– la produzione di farmaci, pur efficaci, è insufficiente o abbandonata, perché i pazienti non garantiscono un profitto.
La disponibilità di medicine non è l’unica garanzia per una condizione di buona salute. Ma è essenziale. Le attuali politiche farmaceutiche, in termini di mercato e di ricerca, sono regolate in modo da escludere la maggior parte dell’umanità. Consideriamo questo squilibrio un’inaccettabile violazione del diritto fondamentale alla salute.
Per questo motivo MSF, insieme ad altre associazioni non governative italiane (Lila, Farmacisti senza frontiere, AiBi, Cuamm, Mani tese, Fondazione internazionale Lelio Basso, Aifo), rivolge un appello a tutti i cittadini per sollecitare una forte presa di posizione del nostro governo e dell’Unione europea, affinché l’accesso ai farmaci salvavita sia sempre e comunque garantito.

Per ulteriori informazioni:
«Medici senza frontiere» – via Voltuo, 58 – 00185 Roma
tel. 06.4486921
fax 06.44869220
E-mail: msf@msf.it

Guido Sattin




Laggiù, oltre la frontiera


Dove anche un antibiotico è un lusso

Laggiù, oltre la frontiera Medici e infermieri che curano i bambini di strada violentati, le persone ferite dalle mine, i malati di Aids. Medici e infermieri che lavorano in paesi dove le popolazioni sono in balia di malattie parassitarie, perché mancano gli ospedali e le medicine. Non bastano le Ong, l’Oms o i Medici senza frontiere. Per migliorare, occorre «investire» nel personale medico dei paesi del Sud. Ecco il resoconto di un’esperienza di questo tipo.

Mary-Lu Miranda è un giovane medico di Manila. Ha due bambini e ne aspetta un terzo. Ogni giorno Mary-Lu attraversa la turbolenta capitale filippina, nel frastuono del traffico e nello smog, per raggiungere il suo posto di lavoro. Fa parte di una équipe che, nell’ambito di una Organizzazione non governativa (Ong) internazionale, opera nella capitale filippina. Lei ed i suoi collaboratori fanno un lavoro particolare: si occupano di garantire cure di base a quella sfortunata popolazione che sono i bambini di strada. Ogni giorno ne esamina alcuni, cura le loro malattie, prevalentemente di natura sessuale (sono facile preda di pedofili e mercati illeciti), e cerca di fare un po’ di counselling in loro supporto e protezione. Fa il lavoro con interesse, pur se tra le mille difficoltà che la particolare tipologia dei suoi giovani assistiti comporta.
Beard Kanimba ha 50 anni. Da parecchi lustri è medico e chirurgo, in Burundi, nel secondo ospedale del paese. Vi lavora da abbastanza tempo per essere stato, come lui stesso racconta, testimone delle ferite e lacerazioni che hanno scosso il suo paese negli ultimi decenni. Ma Beard non si lamenta più… In città ora si spara solo la sera e il numero di bambini che saltano su una mina sembra ridotto negli ultimi mesi… E così sono ridotti quegli odiosi interventi disperati per salvare una gamba o un braccio. Anche il materiale scarseggia, ma ora con una Ong ora con un’altra si tira avanti. Basta mantenere il capo basso sul lavoro. Beard racconta il tutto con serenità, come la sua difficile storia personale di dover crescere tre ragazzi dopo la morte della giovane moglie, lavorando e vivendo in un paese in guerra.
Josephine Maende ha 40 anni. Lavora a Nairobi, dove dirige per conto del suo governo un ospedale di 180 letti nella periferia della capitale. Un ospedale per malattie infettive, racconta Josephine, con oltre 100 letti riservati ai malati di Aids. Sembra stanca nel raccontare le delusioni quotidiane del suo lavoro, quando si affanna a fornire palliativi ai suoi pazienti, per la mancanza totale di farmaci veramente efficaci. Nell’ospedale dove lei lavora i farmaci «potenti» contro l’Aids non arrivano perché costano troppo, così come molti degli antibiotici ed antifungini che servirebbero quantomeno a far vivere più degnamente i loro ultimi mesi a questi condannati. Ma lei ed i suoi colleghi sono ostinati, e con il supporto di Medici senza frontiere (Msf) continuano a tentare l’impossibile, salvare una ennesima polmonite da Pneumocistis, un classico killer dei malati di Aids, con del Bactrim. Peccato poi che, una volta rimandato a casa il paziente, questi non sia più in grado di comprarsi la compressa quotidiana dell’antibiotico, poco costosa per noi, ma irraggiungibile per lui. E così…
Francesco fa l’infermiere in Veneto. Ha già fatto due missioni di emergenza in Africa, in zone di guerra. Racconta che forse ripartirà presto, perché così sente di poter valorizzare il suo lavoro. Ha conosciuto quelle ferite lontane e ora non può far finta di ignorarle. Ha scoperto quanto di eccezionalmente utile lui sa e può fare.
Claudia è medico ed ha frequentato, dopo la laurea, una scuola di medicina tropicale. Le piacerebbe che nella sua vita professionale entrasse una esperienza «di terreno», in uno di quei lontani paesi, dove le malattie tropicali, che lei ha conosciuto soprattutto sui libri, sembrano avanzare incontrastate.

Cosa hanno in comune Mary-Lu, Beard, Josephine, Francesco e Claudia? Nulla, fino a poche settimane fa non si conoscevano, e operano a fusi orari di distanza. Si sono conosciuti l’11 marzo, al loro arrivo a Macerata, insieme ad altri 18 loro colleghi provenienti da 15 paesi in via di sviluppo ed un’altra ventina di italiani medici ed infermieri. Tutti erano stati ammessi a partecipare ad un addestramento avanzato di medicina tropicale, l’«Advanced Training on Tropical Medicine», appunto, come si chiamava il corso di Macerata. Organizzato da una collaborazione nata tra Medici senza frontiere (Msf), la Fondazione de Caeri, e l’Ospedale di Macerata.
Il corso era organizzato in tre moduli di formazione indipendenti. Uno per il controllo nei paesi tropicali di Aids e malattie trasmesse per via sessuale; un secondo per il controllo delle principali malattie parassitarie, quali malaria, schistosomiasi, filariasi e altre ancora; un terzo per un addestramento alla chirurgia «difficile», quella di guerra o quella fatta nei remoti ospedali rurali dei paesi poveri.
È cosa nota che in molti paesi tropicali importanti problemi di salute non trovano una adeguata risposta nei fragili e poveri sistemi sanitari esistenti. In questi contesti nuove strategie sono oggi proposte per rendere il controllo di tali malattie sostenibile anche per quei paesi, ma per questo occorre una specifica preparazione, sia dello staff locale che del personale di organizzazioni umanitarie. Questi ultimi poi si trovano a volte ad operare in zone di instabilità e conflitto, con la necessità di applicare una chirurgia «di emergenza» disponendo di scarsissime risorse. Per tutte queste situazioni il corso era stato pensato come uno strumento per preparare, al di fuori di qualsiasi schema accademico, il personale sanitario per fronteggiare al meglio le calamità sanitarie che minacciano la salute di milioni di persone. Un addestramento avanzato, quindi, a completare la preparazione di base, rendendola il più possibile efficace ed efficente sul piano operativo.
Endemie di malattie parassitarie (alcune delle quali sono tra le prime cause di malattia e morte) avvengono proprio in aree dove i farmaci sono carenti e il personale non è preparato.
Recenti stime mostrano addirittura che alcune di esse sono in incremento, nonostante in questi recenti anni vari donatori, istituzionali e non, abbiano investito nel potenziamento dei sistemi sanitari di molti paesi, in particolare in Africa. Ma situazioni di cronica instabilità, conflitti, migrazioni, inadeguato sviluppo delle risorse idriche, tutto conduce ad una diffusione di queste malattie parassitarie. Recentemente nuove strategie di controllo sono state introdotte per ottimizzare l’utilizzazione delle risorse in particolare in paesi poveri e con scarsi supporti economici.
Le nuove strategie propongono modelli di controllo decentralizzato (ma integrato nelle comuni attività dei sistemi sanitari) di quel settore che si chiama «Primary Health Care» o delle cure di base, sancito dalla dichiarazione di Halma Ata una quindicina di anni fa. Questo modello si pone in alternativa ai programmi «verticali», quelli per intenderci in cui poche persone di un gruppo qualificato, che opera a livello centrale (di solito, nella capitale del paese), si occupa di tutto: dalla programmazione alla esecuzione delle attività (come distribuire farmaci o praticare diagnosi). Negli anni questo modello ha mostrato le sue debolezze, in particolare la sua incapacità di sviluppare il sistema sanitario del paese. Senza dire dei fallimenti nel controllo di specifiche malattie. Queste nuove strategie di controllo integrato e decentralizzato hanno costituito uno dei temi principali del corso organizzato a Macerata.
Come l’Aids. La malattia non solo si sta sviluppando come un enorme incendio nell’Africa sub-sahariana, ma contribuisce a rendere ogni possibilità di sviluppo, anche economico, ancor più difficile per il numero di malati e morti tra le fasce produttive della popolazione. L’assenza (a causa dei costi irragionevolmente proibitivi) dei farmaci specifici rende poi pressoché impossibile anche ogni cura mirata a migliorare la qualità di vita delle migliaia di persone colpite dall’infezione.
Ci sono aspetti inquietanti di questa epidemia, come ad esempio l’incapacità di applicare gli strumenti (esistenti ed efficaci) per fermare quantomeno il contagio da madre a bambino durante la gravidanza. E la prevenzione non sembra ancora funzionare, se si pensa che il contagio sessuale è ancora la prima fonte di infezione in Africa e nel Sud-est asiatico. In questo settore giocano un ruolo fondamentale programmi di educazione, informazione, sicurezza del sangue, controllo delle malattie sesso-trasmesse. Per questi interventi sono state sviluppate competenze ed abilità specifiche, illustrate in profondità nel corso di Macerata.

Questi sono stati i contenuti fondamentali che sono stati affrontati nel corso delle due settimane di corso. I docenti delle più qualificate istituzioni scientifiche europee (come la London School of Hygiene and Tropical Medicine della London University, o dello Swiss Tropical Institute) hanno animato la discussione interagendo con questo gruppo di medici «di frontiera», ovvero proprio con coloro che sono chiamati ad applicare le linee guida e raccomandazioni che escono dai loro istituti. Per gli stessi docenti l’opportunità è stata di grande interesse, quella cioè di poter lavorare, in questa full immersion di due settimane, con direttori di ospedali e dirigenti di servizi o programmi dei ministeri della sanità di paesi in via di sviluppo. Il corso era patrocinato anche dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), che ha partecipato con alcuni docenti. Rientra proprio negli obiettivi dell’Oms l’assicurare che adeguate strategie siano proposte, in rispetto dei bisogni e delle risorse disponibili.
Per Medici senza frontiere la formazione del personale è una priorità assoluta, per poter sempre assicurare cure di qualità anche nei contesti difficili dove in genere i suoi teams si trovano ad operare. Non esistono mai giustificazioni per fornire cure di scarsa qualità, neanche l’insicurezza o l’instabilità costante in alcune aree. A Msf, nella organizzazione del corso, si è affiancata la Fondazione Ivo de Caeri (vedi riquadro), fondazione milanese da alcuni anni impegnata nel promuovere lo studio delle malattie parassitarie, una priorità per la sanità pubblica della maggioranza della popolazione mondiale.
E cosa ha portato un ospedale non universitario, quello di Macerata, ad ospitare il corso? Una scelta lungimirante e coraggiosa della sua direzione generale che ha riconosciuto come nella mission di un moderno ed evoluto ospedale debba rientrare il contribuire ad un incremento della qualità delle cure in altre strutture sanitarie. Soprattutto in quei contesti difficili, disagiati e con poche risorse che sono una caratteristica comune a tutti i paesi in via di sviluppo.

In conclusione dell’intenso, stancante ma appassionante corso, i partecipanti hanno voluto riassumere gli aspetti focali del problema. Ne è nato un Macerata Statement in cui vengono elencate le priorità e le principali raccomandazioni per la salute delle popolazioni del Sud del mondo. La «dichiarazione di Macerata» (vedi riquadro) è un documento rappresentativo delle ansie, angosce e bisogni di chi fa del «fornire salute» il proprio appassionante lavoro e la principale sfida dell’esistenza.
Soprattutto laggiù, oltre la frontiera.

Carlo Urbani



Prima il profitto poi i brevetti


Le multinazionali farmaceutiche investono nei settori dove maggiore è la possibilità di guadagnare,
indipendentemente dai bisogni. I brevetti sono ostacoli insormontabili. Insomma, i farmaci sono trattati alla stregua di un qualsiasi altro prodotto. Questa politica comporta gravi conseguenze per una larga fetta dell’umanità.

Un pomeriggio di ottobre del 1999, nella Cambogia nord-orientale. Stiamo percorrendo una pista che costeggia il fiume Mekong, risalendone il corso.
Andiamo a verificare lo svolgimento di un programma di controllo delle malattie parassitarie, gestito dal ministero della sanità con il nostro supporto tecnico. Il programma sembra andar bene, e siamo orgogliosi di aver abbattuto i tassi di mortalità per queste malattie nella regione.
Decidiamo di concederci una sosta per sgranchirci un po’ e bere dell’acqua. Ci fermiamo in un grazioso villaggio, affacciato su una bella insenatura del grandioso fiume. L’aria è pulita e profumata, e la luce dell’imminente tramonto colora di violetto le acque del fiume, incoiciato dal verde della esplosiva vegetazione. Mi allontano un po’ dalla Toyota, e mi fermo sotto una delle casupole, tutte uguali, tutte estremamente precarie: un pavimento di bambù su quattro alti pali (le case sono così, anche per proteggersi dalle inondazioni), quattro pareti di foglie di palma intrecciate e un tetto, anch’esso di foglie. Una bambina sorridente sta appoggiata alla ripida scala che conduce all’interno, e in alto sua madre – così credo – è seduta intenta a eliminare le scorie da una manciata di riso. Mi sorride. Così mi tolgo le scarpe e salgo.
Seduta sul pavimento, la donna ha sulle gambe un fagotto, che si muove ritmicamente. Lei sposta un lembo degli stracci e scopre un bimbetto (10-12 mesi) ansimante, viso affilato, occhi spalancati e una colata di muco dal naso. Chiamo l’interprete, per avere notizie di quel piccolo visibilmente sofferente. È così, mi dicono, da 3-4 giorni; ha anche smesso di succhiare il seno. Lo tocco: è bollente. Avvicino un orecchio al suo dorso: polmonite. Non si lamenta mentre lo esamino, continua solo ad ansimare rumorosamente.
Apro la borsa per vedere cosa abbiamo di utile in quella condizione: trovo delle compresse di ampicillina e di paracetamolo. Dovrebbero andare. Poi l’interprete spiega alla mamma come fare: bollire dell’acqua, schiacciare una compressa in una ciotola, scioglierla e dae un cucchiaio al bimbo ogni 8 ore; poi reidratarlo con acqua, zucchero e sale, poi il paracetamolo… cose banali insomma, una serie apparentemente semplice di istruzioni.
Ma la preoccupazione sul volto della mamma sembra indicare tutto il contrario: manovre complicate, quasi impossibili, gesti del tutto estranei alla quotidianità della sua vita. Ci allontaniamo dalla casupola lasciando il rantolo del bambino con la polmonite alle nostre spalle.
L’indomani, sulla via del ritorno, ci fermiamo di nuovo. La mamma in lacrime ci dice che la sera prima il bimbo ha chiuso gli occhi dopo il tramonto e durante la notte ha smesso di respirare.

Cosa ha di particolare questa storia? Nulla, assolutamente nulla. Rivela semplicemente quanto accade ogni giorno, in migliaia di villaggi, per milioni di bambini.
Ricordo la prima volta che misi piede in Africa, fresco di studi di medicina tropicale. Aspettavo con ansia di vedere malati affetti da quei misteriosi e «affascinanti» morbi esotici. Rimasi quasi deluso quando, nella prima giornata di consultazioni mediche, vidi solo bambini gravemente malati o prossimi al decesso per banali infezioni.
Diarrea, infezioni delle vie respiratorie: sono queste le prime cause di morte nei paesi in via di sviluppo. Il 95% dei decessi sono dovuti a malattie infettive, per le quali esistono efficaci trattamenti. Ma un terzo della popolazione mondiale non ha accesso ai farmaci basici. Gran parte di queste malattie sarebbero facilmente curabili; però, proprio là dove più servono, i farmaci relativi non sono disponibili, spesso perché troppo costosi.
La causa di questa discrepanza tra bisogni e offerta risiede in rigide leggi di mercato, in base alle quali i prezzi dei farmaci, protetti da brevetto, sono fissati sulla disponibilità a pagarli nei mercati dei paesi industrializzati. Alla base di gran parte dei disastri sanitari, dell’impossibilità a gestire epidemie o endemie, a prevenirle, a impedire la morte per banali infezioni, alla base di tutto possiamo affermare oggi con certezza che c’è un problema di farmaci. Vediamo di capire di cosa si tratta.
Anzitutto mancano nuovi farmaci utili in medicina tropicale, che siano poco tossici, a basso costo ed efficaci per debellare le malattie (parassitarie, ad esempio), causa di sofferenza e morte.
Basta un dato: negli ultimi 20 anni, tra i 1.233 nuovi farmaci offerti dal mercato internazionale, solo 11 avevano come indicazione malattie tropicali, e di questi 7 venivano dalla ricerca veterinaria. Per cui appena lo 0,3% della ricerca farmaceutica contemporanea è indirizzata alle malattie ai vertici di ogni classifica mondiale di morbosità e mortalità. Perché? Semplice, perché queste malattie imperversano in mercati poco remunerativi. Le priorità sono, quindi, più di ordine economico-commerciale che medico.
Da un lato fiumi di miliardi vengono investiti sulla ricerca di nuove pillole contro l’obesità e l’impotenza, dall’altro quasi niente per malattie tropicali. Se poi talvolta (e c’è l’evidenza) una multinazionale farmaceutica giunge a sintetizzare un farmaco attivo su una malattia tropicale, spesso il fabbricante decide di non commercializzarlo, poiché la sua vendita sarebbe poco remunerativa nei paesi dove i pazienti interessati sono concentrati.
A volte, per le stesse ragioni, farmaci già disponibili, efficaci e semplici da somministrare scompaiono improvvisamente, come è stato il caso della sospensione oleosa di cloramfenicolo, usata per trattare la meningite meningococcica (malattia capace di uccidere in 24 ore). Tale farmaco era l’alternativa al trattamento con ampicillina, che richiede 4 infusioni endovenose al giorno, contro un paio di iniezioni intramuscolari in tre giorni per il cloramfenicolo. Una bella differenza, per trattare pazienti in strutture sanitarie carenti di materiale e igiene.
Altro esempio, quello della efloitina. Questo farmaco serve per trattare lo stadio avanzato della tripanosomiasi, più conosciuta come malattia del sonno (trasmessa dalla famosa mosca tse-tse). Bene, mentre il vecchio farmaco usato (un derivato dell’arsenico estremamente tossico e somministrabile in dolorose iniezioni) diveniva anche inefficace per l’insorgenza di ceppi di parassiti resistenti, appare questo nuovo ritrovato. Sfortunatamente due anni fa la ditta produttrice, detentrice del brevetto, ha deciso di sospendee la produzione per motivi commerciali. E i circa 300 mila malati si vedono rioffrire il vecchio melarsoprol.
Questo è quanto accade, in questo mercato globalizzato.

Uno dei problemi principali è causato dal brevetto che protegge il farmaco. Il brevetto rappresenta un diritto sacrosanto dell’industria per salvaguardare i frutti dei sui investimenti in sperimentazioni. Accade però che i brevetti si tramutino in micidiali armi che limitano l’accesso ai farmaci.
Esistono paesi definiti in via di sviluppo, ma in realtà detentori di tecnologie sufficienti per una produzione farmaceutica. Nazioni come India, Thailandia, Sudafrica o Brasile sono in grado di produrre farmaci utili per le loro popolazioni e quindi rivenderli a prezzi accessibili. Il prezzo di farmaci come il fluconazolo, efficace in gravi infezioni fungine, crolla così dai 20 dollari al giorno per un trattamento in Kenya, dove è importato, a meno di un dollaro al giorno in Thailandia, dove è prodotto da una azienda nazionale.
Questo è reso possibile da una norma che si chiama compulsory licensing, o licenza obbligatoria (vedi box).
A questo punto, la domanda che sorge è: etica e sviluppo economico del settore farmaceutico sono obiettivi incompatibili?
Le più autorevoli riviste mediche inteazionali (ad esempio, British Medical Joual e JAMA) sostengono che l’etica è compatibile con l’economia. Per questo i medici, che operano in questi contesti, sono stanchi di dover pensare, di fronte all’ennesima morte di un loro paziente: «Mi spiace. Stai morendo a causa di una inadeguatezza del mercato».
Il caso dell’AIDS mostra poi cifre apocalittiche. Il 95% dei malati di Aids nel mondo non ha accesso a farmaci efficaci per restituire salute e dignità. Ma (fatto ancor più grave) i trattamenti per ridurre significativamente la trasmissione verticale dell’infezione da madre sieropositiva a figlio al momento del parto non sono disponibili proprio nei paesi dove questa modalità di trasmissione sta segnando le nuove generazioni, condannando a morte entro 5-8 anni un bambino già al momento della sua nascita.
Farmaci come l’Azt o la nevirapina, efficaci anche se somministrati per solo 4 settimane intorno alla data del parto, sono vittime delle stesse regole di mercato. Spietati brevetti ne permettono la vendita a prezzi proibitivi e ne impediscono la produzione da parte di altre aziende. Se è vero, si può sempre applicare la licenza obbligatoria. Ci ha provato la Thailandia iniziando a produrre Azt per le sue donne (tantissime) incinte e sieropositive. Il farmaco ha avuto il costo abbattuto del 7000%.
La reazione degli USA, dove risiede la ditta detentrice del brevetto, è stata: non possiamo impedirtelo, ma possiamo però ridurre le importazioni dalla Thailandia… Cosa questa insostenibile in questo momento di crisi economica.
Ecco come vanno le cose.
Farmaci che ci sono, ma costano troppo; farmaci che esistono, ma non vengono prodotti, germi che divengono resistenti ai comuni trattamenti (TBC, leismaniosi, tripanosomiasi, ecc.), ma la ricerca farmaceutica ha altri obiettivi… e le cifre di morte e malattia continuano ad avere parecchi zeri nei paesi dei poveri del mondo. Quello che basterebbe è esigere un «diritto alla salute per tutti».
Già sentito?

Carlo Urbani