La morte è morte (ma non è sempre uguale)


Attentati, bombe, guerra e messaggi di guerra. In questi ultimi mesi la morte è entrata nelle case e nei discorsi della gente.

Riflettendo sulla «morte dolce», mi sono venute in mente alcune morti alle quali ho assistito personalmente ed altre su cui ho provato a ragionare.

È vero: la morte è morte e basta. Ma così, quasi per vezzo, ho provato a mettere ordine alla mia esperienza dando un aggettivo ad alcune di esse. L’ho fatto, come mia abitudine, parlando prevalentemente di cose concrete e senza pretendere di dare giudizi, che non competono a nessun medico. Noi medici, in fondo, siamo solo persone che accompagnano la vita di ciascuno sulla base della cultura della comunità, della tecnologia a disposizione, della porzione di finanziamenti messaci a disposizione dalla società e dall’intuito che a volte accompagna i migliori di noi.

La morte prima

Il mio primo morto lo ricorderò per sempre.

Viveva in un isolato all’altro lato della piazza del quartiere di Villa El Salvador (Perù) nel quale da poco mi ero trasferito provenendo direttamente, e fresco di studi universitari, da Roma dove ero cresciuto ed avevo studiato.

Saranno state le due o tre di notte e sentii bussare freneticamente alla porta. Mi alzai e, rendendomi conto dell’agitazione della persona che mi cercava, mi infilai un paio di pantaloni e, con la borsa da medico alle prime armi, le corsi dietro.

Era già morto (probabilmente un infarto). Tutti mi chiedevano di fare qualche cosa e, nella coscienza di ingannare me stesso e gli altri, iniziai un inutile tentativo di massaggio cardiaco. La gente, sicuramente più cosciente di me dell’inutilità di quanto stavo facendo, mi incitava a continuare gridando disperatamente il nome del morto, sperando forse in un miracolo. Aveva una cinquantina d’anni e morire a quest’età, lasciando moglie e figli, era percepito come un tradimento. Quella morte non doveva succedere. Ma la morte (probabilmente) è indifferente alla volontà dei vivi.

La morte falsa

Un’altra volta, sempre di notte, mi chiamarono (perché mai si muore più spesso di notte?) perché un giovane era moribondo. Corsi come sempre disarmato e mi trovai nel bel mezzo di una festa a base d’alcornol, con la musica assordante che continuava ad uscire da uno sgangherato ma efficiente stereo e con la gente che urlava, minacciandomi. Un giovane apparentemente in coma era disteso su di un letto, circondato da familiari ed amici.

Mi misi ad urlare più di loro, cacciai via tutti e, non ricordo come, riuscii a fargli vomitare i litri d’alcornol che aveva in corpo.

Venni trattato come il più grande medico, ma non ne fui orgoglioso.

La morte improvvisa

Mi lasciò molto perplesso trovare un bambino morto, quella volta che mi chiamarono (sempre di notte). Erano due gemellini; uno di loro si era addormentato senza risvegliarsi. Morte improvvisa?

Il bambino era ben curato, di poco più di un anno, grassottello, i lineamenti sereni. Sembrava addormentato.

La morte prima della nascita

Era buio, ma non ancora notte. Il bambino era nato morto in una baracca, forse assistito da una partera, che nulla aveva potuto fare. In realtà, il bimbo era già morto nell’utero.

Mi chiesero di non fare alcun certificato, perché non avevano i soldi per portarlo al cimitero ufficiale. Non lo feci e quel bimbo (che mai era nato) non morì mai.

La morte ingiusta 1 (una delle tante)

Arrivò correndo al mio ambulatorio una madre con un involtino fra le braccia. Tutti i pazienti in attesa urlarono che c’era un’emergenza e la donna appoggiò il fagotto sul lettino e, aprendolo, scoprì il corpicino di un bimbo denutrito ed ormai freddo.

Quella volta urlai contro la donna. Urlai che io ero in ambulatorio sempre e che lei non poteva portare il piccolo solo all’ultimo momento. Urlai che cosa voleva da me, che io ero un medico e che forse avremmo potuto salvarlo. Urlai (lo dico a mia discolpa) perché non era giusto e urlerei ancora adesso (ogni volta che ricordo quel fatto, mi viene un nodo in gola) perché, se la morte è ingiusta, non penso che si possa trovare pace.

Forse il mio urlo era rivolto contro questo nostro mondo, ma solo quella madre disperata (e forse incosciente) ed un piccolo gruppo di pazienti in attesa mi potevano sentire.

La morte ingiusta 2 (un’altra delle tante)

Era una bimba piccola e denutrita. La madre ce l’aveva portata e non eravamo riusciti a salvarla.  Avevamo però lottato insieme a lei e insieme avevamo perso.

Ero andato a visitarla nella sua baracca e la bimba giaceva vestita di bianco, il volto si era rasserenato ed era quasi bella (i bambini denutriti sono sempre brutti).

Avevo notato che la madre non piangeva e le chiesi perché.

Mi rispose molto dignitosamente che la bimba non aveva ancora vissuto e che, quindi, non poteva lasciare il vuoto che lascia un anziano quando muore. Lo capii, sinceramente, anche perché sapevo che la madre aveva lottato per farla vivere.

La morte ingiusta 3 (ancora una)

Maria Elena (sì, proprio quella che morì di morte assassina per mano di Sendero Luminoso) un giorno arrivò correndo a casa mia. L’accompagnava un’altra donna e fra le braccia aveva un piccolo bambino.

«Sono arrivata troppo tardi – mi disse appena entrata -, ho sentito l’anima del piccolo sfuggirmi».

Il bambino era morto fra le sue braccia e, nel suo sguardo profondo, capii il suo immenso dolore e la sua grande sorpresa. Il bambino era figlio di una donna che aveva incontrato per strada e che stava cercando un medico.

La morte giusta

Mia nonna è morta a 97 anni. Sapeva che era giusto morire e quasi desiderava raggiungere mio nonno, ma…. era attaccata alla vita e non voleva farsi vincere dalla morte. Ha lottato fino all’ultimo, non perché non voleva morire, ma perché voleva vivere.

Questo è bello e giusto.

La morte desiderata

L’assistente sociale (e torniamo in Perù) mi aveva avvisato che in una casa nelle vicinanze dell’ambulatorio c’era un vecchietto e che da tempo i familiari dicevano che doveva morire.

Andai a casa sua e, entrato, mi abituai lentamente all’oscurità. C’era un letto e su questo era disteso un vecchio avvolto dalle coperte.

Gli parlai serenamente e gli chiesi che cosa aveva. «Sono vecchio – mi rispose – e mio figlio non aspetta altro che la mia morte; ma io non ho nessuna intenzione di morire».

«Che problema c’è?» chiesi. Mi mostrò allora la cassa da morto preparata al suo fianco, lamentandosi per questa stupida spesa che suo figlio aveva fatto con troppo anticipo.

Aiutai in quell’occasione l’assistente sociale a portare via la cassa e, lasciata la casa, non potei che aggiungere quest’altra esperienza (la fantasia dell’uomo è senza limiti) alla mia collezione di «cose umane».

La morte assassina

Maria Elena è stata uccisa da Sendero Luminoso.

Due colpi di pistola davanti ai propri figli e poi un candelotto di dinamite per fare a pezzi il suo corpo nel tentativo di fare a pezzi la sua memoria. Più tardi un altro candelotto per distruggere la sua tomba.

Maria Elena  aveva trent’anni. Era una bellissima ragazza negra, una dirigente popolare sincera e preparata, una leader politica di sinistra e rivoluzionaria, cosciente e democratica, un’amica.

Maria Elena vive nei nostri cuori, Sendero Luminoso è morto.

La morte per chi rimane

Don Rubio era un dirigente popolare e viveva a lato della mia casa. Un cancro lentamente l’ha portato via. Alla sua morte la gente si è riunita intorno alla salma e, chiacchierando, ha ricordato passo passo la storia vissuta con lui.

Le avventure, le lotte, gli scioperi, gli scherzi, le risate. Insomma la vita.

Dopo una notte passata a vegliare la salma, a bere e a mangiare, i suoi resti sono stati portati a spalla da una casa all’altra e tutti si sono fermati per un ricordo ufficiale al centro della piazza, dove spesso aveva arringato la folla.

La morte sulla coscienza

Ero stanco quella sera. Bussò un signore e mi disse di un bambino che stava male. Gli diedi alcuni suggerimenti e mi feci dare l’indirizzo per visitarlo la mattina successiva.

La mattina trovai la famiglia che vegliava il bimbo morto.

Perché, perché, perché… non mi ero mosso quella sera come avevo fatto tante volte? Quante volte mi sono ripetuto la domanda! Non ho mai trovato una risposta che potesse assopire la mia coscienza.

La morte cercata

La libertà che ha l’uomo è immensa. La decisione più estrema è il suicidio. Ricordo che in gioventù avevo assistito ad una messa nella quale un curato di campagna aveva negato il cimitero cattolico ad un suicida.

Per il nostro ordinamento il suicidio non è più un reato da tanti anni. Rimane reato, e mi pare giustissimo, l’istigamento al suicidio.

La nostra libertà è immensa e nessuno può essere giudicato per l’uso della propria libertà, quando ciò non limiti o condizioni la libertà degli altri.

La morte violenta

Morire per strada è esperienza che ha toccato i sentimenti di molti di noi.

È la prima causa di morte fra i venti ed i trent’anni. È una morte che grida vendetta perché spesso causata da nostra leggerezza.

In Perù è ancora più frequente; un paese povero è anche un paese nel quale le auto hanno le gomme lisce, i freni possono non funzionare, i semafori sono scarsi, gli autobus sovraffollati e vedere morti per strada coperti di fogli di giornale è esperienza quotidiana.

Non mi piace questa morte.

La morte in ospedale

Nel territorio dell’ospedale che contribuisco a dirigere, muoiono circa 1.500 persone all’anno (quelle che nascono sono meno).

Di queste, più del 60% muoiono in ospedale, altre nelle case di riposo e un piccolo numero anche in casa (forse il 20, massimo il 30%; tra l’altro, se si è ammalati terminali, è anche molto costoso morire in casa).

Noi non siamo più capaci di convivere con la morte.

La morte dolce

L’eutanasia è un problema di noi ricchi, non dei paesi poveri.

È facile morire in Perù, come è facile nascere. Più difficile è vivere e, se si muore anziani e/o malati, lo si fa in silenzio e senza tante discussioni. Le terapie del dolore sono un lusso e morire negli ospedali è uno spreco.

No, non sono d’accordo con l’eutanasia, pur conoscendo la sofferenza. Non mi sento però di giudicare chi decide autonomamente di fare propria l’estrema libertà di cui disponiamo. Però diverso è farne una professione.

Noi medici lavoriamo per la vita e solo per questa dobbiamo spendere le nostre forze senza accanirci contro la morte che ci aspetta sempre e che è parte della vita stessa.

La morte mia

Un ragazzo con tubercolosi, che ero riuscito a ricoverare, è stato dimesso perché oramai doveva morire. È morto solo nella sua baracca. Vomitando sangue.

Non conosco la morte in guerra. Me ne hanno parlato i miei nonni e spero di non raccontarla mai a mio figlio.

Quando morirò, se i miei amici vorranno sedersi intorno a quello che resta di me e ricordarsi della vita vissuta insieme e se lo faranno ridendo e bevendo un buon bicchiere di vino, saranno i benvenuti. Se poi invece, per la fretta della nostra vita, non avranno il tempo di farlo, non ne serberò rancore.

E ancora io dico pubblicamente: se servissero, prendete i miei organi, le cornee ed i tessuti che possano aiutare a dare vita a qualche altra persona. La vita continua anche dopo la morte.

Guido Sattin


L’antrace e le guerre dimenticate

I morti dei vincitori e quelli dei perdenti

L’emergenza carbonchio (comunque limitata a pochi casi) è stata affrontata con grande clamore, mentre per Aids, malaria, tubercolosi, febbre gialla, dengue, colera…

Sul treno che da Venezia mi porta a San Donà di Piave (dove ha sede uno degli ospedali nei quali lavoro) si è formato un interessante gruppo di pendolari che, nella mezz’ora di viaggio, si scambiano liberamente le impressioni sul mondo. Siamo medici, psicologi, ingegneri, bancari, funzionari pubblici e privati ed un portiere di notte di un albergo di Venezia, che smonta dal lavoro quando noi andiamo verso il nostro.

Gino è uno del gruppo. È un veterinario con un’esperienza di tanti anni alle spalle. È stato proprio lui a raccontarci del carbonchio, degli animali che ricorda aver visto con questa antica malattia, di alcuni pascoli vietati nella zona di Belluno a causa della sua presenza.

In treno discutevamo con stupore ed incredulità sulle notizie relative al primo caso di terrorismo «biologico» nella storia dell’umanità e cercavamo di ricostruire nella memoria le nostre conoscenze sul carbonchio senza, in verità, ricordarci molto.

Nei nostri ricordi, il carbonchio era una malattia degli erbivori, che solo raramente veniva trasmessa all’uomo e che fondamentalmente colpiva addetti ai lavori (pastori, allevatori, addetti alla macellazione) con una forma cutanea benigna e sensibile alla terapia. Ricordavamo anche una forma intestinale, per consumo di carni infette, e sinceramente nessuno di noi conosceva la forma polmonare.

In Perù, nell’anno 2000, ci sono stati 43 casi di carbonchio cutaneo e intestinale, mentre nei paesi dove vi è un controllo costante ed effettivo della produzione degli alimenti, la malattia umana è pressoché scomparsa.

È quindi una malattia animale, detta anche antrace, dovuta ad un batterio che sopravvive nell’ambiente sotto forma di spora. Nulla di preoccupante, quindi? Tutto sotto controllo? Sì, tutto sotto controllo. Apparentemente. La fantasia distruttiva dell’uomo ha però individuato in questo bacillo e nella sua spora uno strumento di guerra.

Il ragionamento è semplice. Le spore in natura si trovano, in concentrazione molto bassa, in alcuni terreni. È bastato moltiplicarle, renderle in qualche modo più leggere, concentrarle ed ecco che una malattia animale si può trasformare per l’uomo in una temibile infezione polmonare. Dato poi che la fantasia non ha limiti, inserire queste spore leggere in buste della posta ed inviarle a casa delle vittime prescelte, è un gioco quasi da ragazzi.

Se poi le vittime sono le segretarie che aprono le buste ed i postini che distribuiscono la posta, questi sono solo risultati collaterali di una follia che non ha pari e le cui origini nessuno di noi ancora conosce.

No, non mi terrorizza tutto questo, semplicemente mi lascia allibito. Che nei confronti di questo attacco batteriologico si dovesse rispondere con la massima energia, non vi è alcun dubbio. Ma qualche domanda… permettetemi… mi sovviene.

L’antrace, la peste, il vaiolo, il virus Ebola… quante saranno le armi batteriologiche pronte ad ammazzare in maniera casuale e indiscriminata?

Ma, oltre ai responsabili diretti delle azioni (assassini come coloro che hanno fatto crollare le Torri gemelle), quali sono le responsabilità di chi ha studiato e prodotto per anni queste armi in laboratori, più o meno segreti, degli Stati Uniti e dell’Unione Sovietica. Chi ha venduto le tecnologie a paesi terzi? Chi si è rifiutato di firmare la convenzione sulla messa al bando delle armi batteriologiche?

E poi ancora una domanda: perché gli Stati Uniti (colpiti da questo attacco) hanno ottenuto di acquistare gli antibiotici (il «Cipro») a prezzo scontato, dietro la minaccia di togliere il brevetto alla società produttrice (la Bayer), mentre non si riesce ad ottenere la stessa cosa per altre epidemie? (*)

La guerra quotidiana all’Aids, alla malaria, alla tubercolosi… le milioni di vittime di queste tre malattie (per non parlare delle altre più dimenticate, come le diarree infantili, la febbre gialla, il dengue, il colera e chissà quante altre) forse avranno ottenuto meno finanziamenti della produzione dell’antrace nei laboratori di chi ora ne è vittima.

Si sa, i morti dei vincitori pesano sempre più di quelli dei perdenti; quelli poi di chi nasce perdente, non trovano neanche chi osi contarli.

La guerra al terrorismo va fatta, anche duramente. Quella alla povertà è una guerra dimenticata.

(*) Nella riunione dello scorso novembre, a Doha, l’Organizzazione mondiale del commercio ha dovuto fare qualche concessione in materia di brevetti farmaceutici. Ne parleremo prossimamente.

Guido Sattin




Una malattia chiamata fame


Non è difficile il passaggio dalla malattia psichica (schizofrenia, depressione) a quella organica (denutrizione, tubercolosi, Aids). Ed entrambe sono in relazione con le condizioni ambientali: famiglie disgregate, abbandoni del tetto coniugale,violenza contro donne e bambini. A loro volta, le tensioni familiari trovano terreno fertile quando manca il lavoro e le persone sopravvivono con il minimo, giorno dopo giorno. A Villa El Salvador (Perú), abbiamo visitato il «Centro de salud mental», nato per volontà di un sacerdote spagnoloe oggi diretto dalla «hermana» Patricia. Una realizzazione che ha dell’incredibile…

Villa El Salvador. Un giorno Reyna, di passaggio a casa mia per un caffè, mi dice che è di fretta, perché deve accompagnare una ragazza al Centro de salud mental.
Le chiedo informazioni e scopro che la mia vicina di casa è una volontaria del Centro e che le è stata affidata una ragazza-madre schizofrenica che vive nelle vicinanze.
Colgo l’occasione per chiederle di prendermi un appuntamento con il responsabile di questo Centro per un’intervista. Detto e fatto. Il giorno dopo, ho l’appuntamento.

A rrivato alla Capilla San José, entro in un piccolo ambiente con un bancone per accoglienza e sulla destra una piccola farmacia. Vengo fatto accomodare nel cortile interno, nel quale sono in attesa vari pazienti con alcuni accompagnatori.
Dopo pochi minuti, mi si avvicina una donna, che mi fa entrare in uno studio un po’ oscuro. Senza perdere tempo in convenevoli, inizia a parlare: «Bueno. Lavoriamo qui da quattro anni. Credo sia poco tempo, però forse si possono trarre alcune conclusioni».
Mi scusi – la interrompo -. Ci possiamo presentare?
«Ah, certo. Di lei so già tutto: me ne ha parlato Reyna. Io invece mi chiamo Patricia Yañez Cruz, hermana (sorella) Patricia. Sono qui da tre anni e sono la cornordinatrice cilena, professoressa e suora».
Di fronte ad una persona così sicura, all’inizio quasi non riesco a fare domande. Finalmente mi decido a porre la domanda che mi attanaglia: Hermana Patricia, che relazione esiste tra povertà e salute o, meglio, tra povertà e malattia?
«Lo abbiamo discusso parecchio con i nostri medici, i due psichiatri e lo psicologo. La verità è che molte delle malattie diagnosticate sono in relazione con la situazione economica, politica e sociale. Non oseremmo dire che ne sono la causa; però possiamo affermare che, sì, hanno una forte influenza».
«Pensiamo al fenomeno della disintegrazione familiare. In apparenza, è una questione di relazioni interpersonali; ma, a ben guardare, la maggior parte delle situazioni di disagio familiare ruota attorno ai problemi economici».
«Non oserei dirlo, perché ancora non abbiamo fatto studi specifici su questo; però a prima vista le cause dei problemi nelle famiglie nascono sempre dallo stesso punto. La famiglia non ha la possibilità di condurre una vita accettabile ed iniziano i problemi, le depressioni, le crisi, gli abbandoni del tetto coniugale, purtroppo molto frequenti».

C hiedo a suor Patricia come si è arrivati a decidere di lavorare in un settore così difficile e delicato e, soprattutto, in una comunità marginale come Villa El Salvador.
«Nacque tutto – mi racconta – da un’idea del parroco, padre Antonio Garzón, un sacerdote spagnolo che rimase qui per sette anni. Nel 1996, oppresso dai problemi (sempre più persone andavano a sfogarsi con lui) e cosciente che vi era un limite al di là del quale non poteva essere d’aiuto (un limite che doveva essere trattato da specialisti), propose alla comunità di avere un’assistente sociale e una psicologa, per rispondere ai problemi delle famiglie disintegrate, alle coppie, ai bambini».
«Inizió così. Tre persone che lavoravano alcune ore in parrocchia. Solo dopo si elaborò un progetto. Il Centro di salute mentale fu terminato nel 1998. In questo momento siamo quasi 40 persone che lavoriamo qui».
Quaranta persone non sono poche. E come è organizzato il lavoro?
«È organizzato per servizi. C’è un’area di psichiatria con medici, infermiere, una piccola farmacia (un lusso per Villa El Salvador), un gruppo di volontari che la gestisce e una psicologa».
«Poi c’è il settore di psicologia con tre psicologi e alcuni studenti dell’Università cattolica che vengono a fare i loro periodi di pratica. Infine abbiamo il servizio sociale, con due assistenti sociali e un programma di recupero pedagogico per i bambini con due professori assegnateci dal Provveditorato agli studi. C’è anche un’area di terapia fisica».
«È stato come muoversi in un circolo: una cosa ha portato all’altra. Quando si iniziò questo Centro, non c’era una metodologia pensata prima. Tutto fu creato man mano che ci si rendeva conto dei problemi e delle difficoltà. Si iniziò pensando ai bambini e alle donne. C’era molta violenza nei confronti delle donne, molti bambini maltrattati, violentati. Si pensò quindi a un servizio per questa tipologia di persone. Però questo gruppo era inserito in problematiche generali. Allora si pensò alla famiglia, agli adulti con problemi psicologici, con disordini psichici e si sviluppò anche quest’area. E quindi i bambini con problemi scolastici. Infatti, se nella famiglia c’è una situazione di violenza, immediatamente il bambino diminuisce il suo rendimento scolastico. Questo è automatico».
«Poi si notò che problemi economici, cattiva alimentazione (molta gente che viene da altre parti del Perú è male alimentata) e mancanza di educazione portano i bambini ad avere difficoltà di motilità fine e grossa. Si pensò quindi alla terapia fisica di riabilitazione, alla psicomotricità, alla stimolazione precoce. Insomma, il meccanismo che abbiamo messo in azione ha portato il Centro a crescere, fino a divenire un Centro di assistenza integrale».
Avete potuto svolgere degli studi per conoscere l’epidemiologia della malattia psichiatrica?
«Si stanno facendo studi, valutazioni, analisi delle diagnosi; però è complesso, perché abbiamo ancora pochi dati.
Possiamo confrontare solo tre anni perché all’inizio il lavoro era molto artigianale. Il servizio psichiatrico poi ha solo due anni e mezzo».
Quanti pazienti avete nel servizio psichiatrico?
«In psichiatria i pazienti sono 370, la maggioranza di Villa El Salvador e alcuni anche di altri distretti vicini, come Villa Maria del Triunfo, Lurin e Miraflores. Invece il numero di bambini è più elevato: circa 400 pazienti; si effettuano controlli programmati per tutto l’anno, con terapie fisiche, della parola o interventi pedagogici».
Ci sono a Villa altri servizi di salute mentale?
«Di questo tipo no: solo piccole cose. La gente arriva qui anche per la presenza della farmacia e perché i medici, che lavorano pure nell’ospedale zonale (Maria Auxiliadora) e nell’ospedale psichiatrico di Lima (Larco Herrera), ce li mandano, perché là non hanno possibilità di curarli come vorrebbero».
«In totale quest’anno abbiamo incontrato 9 mila pazienti. Non vogliamo però ampliarci ulteriormente, perché abbiamo raggiunto il limite delle nostre possibilità. Ciò che vogliamo è garantire il controllo costante ai pazienti. Vogliamo coinvolgere le famiglie e, in parte, ci siamo già riusciti, perché il paziente non deve venire da solo, ma accompagnato da un familiare; invitiamo sempre la famiglia a far parte dell’Orfasam (Organizzazione delle famiglie di salute mentale)».
«È un’organizzazione che si riunisce ogni 15 giorni per incontri e seminari, durante i quali si spiega cos’è la malattia mentale, che il paziente è una persona che non deve essere emarginata, che la malattia mentale è come ogni altra malattia. Si insegna poi come affrontare la sintomatologia dei pazienti, come capirli, appoggiarli, che fare quando sopraggiunge una fase critica».
«I familiari devono assistere a tali riunioni, impegnarsi a dare loro le medicine nel momento giusto e partecipare alle terapie di gruppo del venerdì. Tutto questo ha avuto come conseguenza un miglioramento del rapporto fra il paziente e la propria famiglia. È stato un lavoro duro, però bello, e ha portato a ricostruire una base di fiducia».
Qual è l’età dei pazienti?
«La maggioranza è giovane. Di ciò stavo discutendo con il medico, perché stiamo osservando che sta scendendo l’età dei primi sintomi della schizofrenia. Ci sono giovani di 17-18 anni, che presentano forme di schizofrenia. La maggioranza è però intorno ai 30 anni. Ci sono anche adulti; però il numero è più basso. I più sono giovani».
Sono malattie legate alla situazione sociale ed economica?
«Sì, certo. Sono fortemente legate, fortemente».
Quando cerco di raccontare di Villa El Salvador nel mio paese, quello che dico sempre è che la gente ha i nostri stessi problemi e in più la povertà.
«Più la povertà, è vero. Ed è una povertà molto, molto forte. Vivo da tre anni a Villa El Salvador e ancora mi sconvolge vedere la gente vivere con il minimo, giorno dopo giorno. Pensare che una famiglia possa risparmiare e programmarsi il futuro, immaginare di ottenere qualche cosa in più nel giro di un anno… no, qui questo proprio non è possibile! Moltissime donne e famiglie debbono cercare ogni giorno di ottenere il necessario per la sopravvivenza quotidiana. E un giorno di malattia è un giorno nel quale non si mangia del tutto. Così semplicemente…».
«Abbiamo discusso a lungo con l’assistente sociale. Costei ha trovato molti casi nei quali è la donna che deve uscire di casa per la quotidiana ricerca della sopravvivenza. È più facile, infatti, per una donna trovare lavoro che per un uomo: perché una donna può cucinare, preparare qualche cosa, vendere, lavare. Gli uomini, al contrario, possono soltanto lavorare nelle costruzioni, come tassisti o venditori».
La malattia psichiatrica si osserva di più nelle donne o negli uomini?
«Negli uomini. Io almeno l’ho vista più negli uomini, molti dei quali giovani».
Perché?
«Ci sono giovani che, finita la scuola superiore, non possono continuare a studiare e nel contempo non trovano lavoro. Così vanno in giro e possono passare un anno o due senza fare niente. Per questo cadono in uno stato depressivo, che è molto forte. Non possono aiutare la famiglia e questa rinfaccia loro di non portare niente a casa e di essere soltanto un peso economico. È molto duro da sopportare per un uomo».
Che legame esiste fra malattia psichiatrica, depressione e altre malattie come la tubercolosi o l’Aids? C’è una relazione?
«Per quanto ho potuto notare qui, sì. Le persone con problemi mentali, se la famiglia non li comprende, vengono respinte e quindi diventano dei vagabondi. È molto facile che contraggano malattie, nel senso che sono malnutriti, si ammalano più facilmente di tubercolosi e spesso anche di malattie a trasmissione sessuale. Nel Centro abbiamo casi di Aids… Non hanno un regime alimentare adeguato e stabile, si abituano a mangiare per strada cose che non sono nutritive, solo per riempirsi lo stomaco».
«Con altri centri medici parrocchiali, abbiamo visto un notevole incremento di tubercolosi in questo periodo e di tubercolosi associata all’Aids».
«Inoltre, non ho mai visto tanta spazzatura in Villa El Salvador come in questo momento e ciò porta come conseguenza un aumento delle malattie infettive».
Nel vostro lavoro, collaborate con altre istituzioni sanitarie?
«Questo è un centro parrocchiale e noi siamo parte del dipartimento della pastorale della salute nella diocesi. Al presente siamo otto centri sanitari parrocchiali con varie specializzazioni. Facciamo poi parte della “Rete municipale di assistenza e prevenzione della violenza sui minori”, alla quale partecipano più di 30 organismi statali, organizzazioni non governative ed altre istituzioni. Facciamo parte inoltre del gruppo di cornordinamento municipale Mesa de la Comunidad saludable».
La malattia psichiatrica è quindi una parte del grande problema della povertà?
«Sì, sì. Il dilemma è fra due atteggiamenti: l’assistenza o la prevenzione. Ci sono persone che, in questo momento, hanno bisogno di assistenza e occorre dargliela. Allo stesso tempo, però, sarebbe necessario un forte lavoro di prevenzione, educazione e formazione della gente da fare nelle scuole, in tutti i centri sanitari, nei municipi. Penso però che saranno necessari parecchi anni per vedere dei risultati. Senza dimenticare i cambi nella politica economica, affinché la gente possa avere più stabilità all’interno delle famiglie».
Hermana, lei ha visto peggiorare la situazione?
«Purtroppo sì, in questi tre anni ho notato un peggioramento. La gente è ogni giorno più povera e c’è sempre meno lavoro. Lo si nota vedendo quante persone vengono al Centro a chiedere aiuto».
Come si fa a raccontare questi problemi alla gente dell’Europa e di altri paesi ricchi? Per me è difficile, perché là non si conosce una povertà come questa e l’incertezza nella quale si vive.
«È vero, è difficile da spiegare… Quando uno vive in altre società e in altri ambienti, non riesce a comprendere una realtà così diversa. Anche in Perù ci sono sempre due mondi: il Perù turistico e quello della povertà inconcepibile. Basti pensare che a 20 minuti da Miraflores, dove ci sono gli hotel dei turisti, c’è Villa El Salvador con le sue invasioni di poveracci. Come spiegare l’inconcepibile?».
Gracias, Patricia!

R icordo quella volta che nell’ambulatorio si presentò una signora con un bambino.
Buon giorno, signora, che cos’ha il suo bambino?, le chiesi.
«Ha un po’ di tosse e di febbre, e vorrei che me lo controllasse».
Lo spogliai, lo pesai, tirai fuori il mio stetoscopio riscaldandolo prima fra le mani, glielo feci toccare affinché non si spaventasse e gli ascoltai i polmoni. Aveva solo una bronchitella.
Dopo avere tranquillizzato la signora, un qualche cosa di non spiegabile (qualcuno lo chiama intuito, ma forse è soltanto esperienza), mi suggerì una domanda: Signora, il bambino sta bene ma mi pare che lei abbia il viso sofferente. Cosa succede?
«Oh no, dottore – mi disse -. Ho i soldi solo per una visita e sono per il mio bambino (ndr: il municipio fa pagare una piccola somma, che in caso di necessità non è richiesta)».
Non si preoccupi, signora! Anzi, guardi: se la madre non sta bene; anche il bambino non sta bene. Allora mi dica: cosa succede?
«No, nulla. Sono solo un po’ debole».
Mi ritrassi nella sedia. La guardai negli occhi e le chiesi: Che cosa ha mangiato a pranzo?
«Un pane con il thè», mi rispose con gli occhi bassi.
E a colazione?
«Un pane con il thè».
E ieri sera?
«Un pane con il thè».

Cosa prova un medico a diagnosticare «la Fame» con la «F» maiuscola? La Fame di una madre che dà il poco che ha a suo figlio?
Capite, amici lettori di Missioni Consolata? Il bambino ha una leggera bronchite e la madre Fame; Katherine (cfr. Missioni Consolata di marzo) è cresciuta nella Fame e lavora nella Fame; il «matto» della Gillette (Missioni Consolata di gennaio) vive la propria malattia nella Fame; i ragazzi del Centro de salud mental si ammalano per la Fame.
E la Fame non è altro che la povertà, quella povertà che la hermana Patricia ha definito «inconcepibile».
Avevamo fatto, negli anni dell’iperinflazione nel Perù, una semplice constatazione: il dollaro cresceva e dopo 2 mesi aumentavano i bambini denutriti; dopo 6 mesi, aumentava la tubercolosi. Ora mi accorgo che, magari dopo un anno, aumenta anche la depressione e questa è, a sua volta, causa di altra Fame e di altre malattie.

Guido Sattin



Una malattia chiamata povertà


Si sa che l’ambiente dove si nasce, vive e lavora influisce enormemente sul «benessere» delle persone. Se si provasse a curare la «povertà», forse la «salute» sarebbe veramente un diritto universale
e non un privilegio riservato a una minoranza del mondo.

Villa El Salvador (Perù), gennaio 2001. Vorrei ritrovare Katherine, una bambina che curai nel 1986. Oggi dovrebbe avere 18 anni.
Per trovarla, in una città che adesso conta 360.000 abitanti, mi sono affidato a Nolberto, un carissimo amico di professione tassista.
«Nolberto, aiutami, voglio trovare una bimba che nel 1986 aveva 4 anni e mezzo e che tirammo fuori dalla denutrizione. Mi ricordo che, quando arrivò all’ambulatorio, pesava sette chili e mezzo».
«Il peso di un bambino di 6 o 7 mesi!».
«Infatti… aiutami Nolberto, vorrei sapere come è cresciuta, quali conseguenze ha avuto la sua denutrizione cronica nei primi anni di vita. Ma sarà ancora viva? Dove vivrà oggi?».
«Se è ancora a Villa, sta sicuro che la troviamo», mi risponde sicuro.
Nolberto ci pensa un attimo e poi si dirige con l’auto, che «zoppica» più di lui (conseguenza di un grave incidente stradale dal quale entrambi erano usciti vivi per miracolo) verso il municipio.
Mi lascia fuori e dopo un quarto d’ora torna con le informazioni del caso.
«Senza di me cosa potresti fare, caro Guido? Però, se poi la troviamo, mi offri una birra!».
«Dimmi, da che parte vive?».
«Ho trovato Clara, ricordi? Era l’infermiera che lavorò con voi al “Cecore” (Centro Comunal de Recuperación de Niños Desnutridos). Lei ricorda la casa della nonna, vive nel gruppo 27 del terzo settore (Villa è divisa in settori, ndr)».
«Andiamo subito!».
Arrivati davanti ad una casetta, scendo dall’auto e busso. Esce una ragazzina.
«Hola! Sono il dottor Guido. Stavo cercando Katherine, la conosci?».
«Certo, è mia cugina, ma cosa vuoi da lei?».
«Sono un medico. Tanti anni fa l’ho curata e avrei piacere di rivederla e di sapere come sta».
«Katherine sta bene, ma è al lavoro. Se vuoi ti accompagno da sua madre».
«Andiamo allora, monta in macchina».
«Ma io – protesta blandamente la cugina di Katherine – stavo andando dall’altra parte e poi … non mi volete rapire?».
«Dai, che ti faccio accompagnare da Nolberto in macchina, un servizio completo di taxi con questa fantastica automobile! Vai Nolberto!».

Poche centinaia di metri e ci fermiamo. La casupola mi sembra quella che ricordavo da allora; solo che adesso è rimasta chiusa tra case semicostruite. Busso e viene ad aprirmi una ragazza.
«Ciao, sono il dottor Guido. C’è tua madre?».
«Certo, adesso la chiamo».
La porta aperta lascia vedere un cortile di sabbia, un mucchio di pietre sulla sinistra e una carcassa di auto sulla destra; al fondo la vecchia casupola di esteras (stuoie intrecciate, ndr) di un tempo con il tetto di eternit. Un colpo allo stomaco: è la stessa immagine che avevo nascosto nella memoria di quel lontano 1986. Nulla è cambiato.
«Dottor Guido, dottor Guido, che piacere vederla. Entri, entri».
È una donna di quasi quarant’anni con il viso tondo ancora giovanile, un grande sorriso e vestita con un largo camicione bianco.
«Entri, entri. Peccato che Katherine non ci sia. Avrebbe voluto vederla. Ma si accomodi, si segga, le tiro fuori le fotografie di Katy. Oramai è grande. Lavora!».
La casupola di esteras è un unico ambiente, senza finestre. La luce entra solo dalla porta e un grande e vecchio televisore a colori, sempre acceso, ci fa compagnia per tutta la conversazione. Un letto sulla sinistra, il fornello sulla destra e una tenda che nasconde il retro.
Le foto di Katy al battesimo, quelle della prima comunione. In apparenza, una ragazza come tante altre, normale. Katherine è viva, Katherine è cresciuta.
Le chiedo il permesso di accendere il piccolo registratore che il giorno prima ho comprato. Così iniziamo a parlare.
Cosa ricorda, signora Griselda?
«Era il 1986 e Katherine aveva 4 anni e mezzo e pesava 7 chili e mezzo. Era nata normale, normale. Però, all’anno di età, le iniziarono ad uscire dei foruncoli, di quelli senza punte. La portavo all’Hospital del Niño e là la incidevano e per questo tuttora ha parecchie cicatrici nel corpo. La tagliavano e le facevano uscire tutto il pus. No, non cresceva di peso, non cresceva. Anzi, scendeva, scendeva di peso. Non pesava niente…».
Se non ricordo male, non riusciva a stare neanche seduta?
«Voleva stare sempre distesa, solo distesa, e non aveva appetito. Non pesava molto. Quando compì due anni, sembrava un bambino di sei mesi. E…, niente, era piccina, magra, magra».
E quando arrivò al Cecore, parlava o non parlava?
«Si parlava, però poco, poco. Era silenziosa, chiusa in se stessa. Venne a casa una signorina (una promotora de salud della comunità, ndr) e la vide. Katherine, rimaneva sempre distesa e non mangiava, però le piaceva mangiar sabbia. Mangiava sabbia e beveva acqua, nient’altro. Sabbia ed acqua. Aveva i vermi.
La signorina mi disse che c’era il Cecore e mi mandò lì. In questo modo arrivai al centro. Perché io non sapevo cosa fare, pensavo che sarebbe morta, perché era così magra e non mangiava. Pensavo che non sarebbe sopravvissuta.
Un giorno l’avevo portata anche alla Molina (in questo ricco quartiere era attivo un centro per il recupero dei bambini denutriti gravi, ndr), però accettavano solamente bambini fino ai tre anni e non la vollero».
Cosa successe poi?
«Quando entrò nel centro, la sua pelle iniziò a desquamarsi tutta e le cominciarono a cadere tutti i capelli. Come un bambino piccolo che inizia a cambiare, così anche lei iniziò a cambiare».
E in quanto tempo recuperò?
«Nel Cecore, sarà stata circa un anno, lavorando tutti insieme, con lei, con la signorina Clara, con il dottor Liborio. La notte tornava sempre a casa e la mattina passava l’ambulanza del municipio a prenderci. Io stavo con lei e lì le preparavamo il cibo. Katherine non aveva muscoli, non aveva grasso nelle sue gambette, così mi dissero. E così al centro iniziarono a darle pastiglie e sciroppi».
E dopo? Una volta uscita dal centro, come è cresciuta?
«Lei mi disse che non si sarebbe sviluppata proprio bene, che non sarebbe stata alta, che sarebbe rimasta un poco bassa. Invece no, è cresciuta bene. Veramente.
Mangiava di tutto, ha iniziato anche ad ingrassare un po’. Le davo parecchio pane con margarina, perché avesse grassi ed è cresciuta bene. È andata a scuola, ma solo fino al quinto grado della primaria. Poi non riuscì più. Mi chiamò la psicologa che l’aveva valutata e mi disse che la bambina era un po’ ritardata. Questo successe quando Katherine aveva 12 anni. Allora la mandarono ad una scuola speciale, dove rimase per circa 5 anni».
E in quegli anni si ammalò?
«No, da quando è uscita dal Cecore, è stata bene. Non ha avuto più problemi, anzi man mano è ingrassata».
L’unico problema è stato, quindi, quello del ritardo mentale?
«Sì, infatti non è riuscita a superare la scuola primaria. Nella scuola speciale le hanno insegnato un pò di matematica, di lingua. Però soprattutto erano laboratori tessili, di pasticceria, di cucina, di calzoleria».
E quando ha finito di studiare?
«Ha finito l’anno passato. È là dove ha imparato a cucire, faceva asciugamani, camici, fodere, tende e adesso sta lavorando in una fabbrica di vestiti. Deve togliere i fili dai jeans che fabbricano».
A che ora esce la mattina?
«Esce alle sette e torna alle nove, nove e mezza di sera. Lavora ad Acho (un quartiere di Lima, ndr)».
Dunque, circa 12 ore di lavoro al giorno più il viaggio?
«Sì, più o meno. Però il sabato ritorna alle sette del pomeriggio».
E quanto guadagna?
«Adesso, …, la settimana scorsa le hanno dato 80 soles (meno di 50.000 lire, ndr)».
Signora Griselda, mi racconti un poco della sua famiglia.
«Bueno! Sono una ragazza madre, e da poco mia figlia maggiore si è sposata ed è andata a vivere con suo marito. Adesso siamo io, Katy e Luisa, la minore. Prima lavoravo vendendo gettoni del telefono, ma ho lasciato questo lavoro con l’arrivo delle carte telefoniche. Poi ho venduto cose da mangiare, sempre come ambulante; però ho lasciato anche questa occupazione e adesso non sto lavorando. Viviamo con quello che ci porta Katy».
Ed è sufficiente?
«No, non basta, però qualche volta mio padre mi dà una mano, però a volte non può. Anche Luisa doveva iniziare a lavorare, però si è ammalata. È appena uscita dall’ospedale».
Che cosa ha avuto?
«Non sapevano, sembra che avesse del liquido, qui, da questa parte».
Nei polmoni?
«Aveva del liquido nei polmoni, non si sa per quale ragione. Venerdì devo andare a ritirare le analisi e mi spiegheranno».

Spengo il registratore. Non me la sento più di continuare. Con una scusa saluto Griselda e le dico di salutarmi Katherine.
Esco con il cuore gonfio di rabbia verso me stesso. Aggredisco verbalmente Nolberto che, aspettandomi, si è addormentato.
«Fanno lavorare una bambina 12 ore al giorno e solo 10 il sabato! 70 ore alla settimana e tutto per neanche 200 mila lire al mese! Sfruttata dalla famiglia e dal datore di lavoro, senza assicurazione e senza alcun diritto. Sua sorella avrà la tubercolosi e sua madre lì, seduta a far niente!».
Nolberto cerca di calmarmi: «Non giudicare, Guido. Sei appena tornato in Perù! È già molto che Katherine non abbia un figlio e che sia viva!».
«No, Nolberto, non too a vederla. Mi vergogno».
Conoscendomi, l’amico tassista non insiste e mi riaccompagna a casa, dove proviamo a rilassarci giocandoci ai dadi la birra che mi ha costretto a comprargli.

Nolberto ha ragione. Sono un medico, non il Padre eterno. L’esistenza delle persone non la posso decidere io, né posso cambiarla. E poi chissà cosa la madre di Katherine avrà sofferto, quale sarà stata la sua storia e quale quella delle altre 360 mila persone che abitano a Villa El Salvador. E poi… Ananias Villar, la bambina alla quale avevamo intitolato il Cecore, era morta. Katherine, invece, è viva e può costruirsi la sua vita.
Ma il tarlo che mi frulla per la testa è un altro. Sempre mi hanno insegnato a curare la malattia e non i sintomi. La denutrizione è un sintomo di una malattia chiamata «povertà».
Katherine è stata concepita nella povertà, è nata e cresciuta nella povertà e vive tuttora nella povertà. Potrà mai conoscere la «salute»? Chi potrà curarla dalla povertà?

TORNARE AI RIMEDI DELLA NATURA

Dopo la conferenza su metodologie e valutazione delle medicine tradizionali svoltasi ad Antananarivo, in Madagascar, nel novembre 2000 (alla quale hanno presenziato partecipanti di 17 paesi), ad Abuja, capitale della Nigeria, dal 5 al 7 dicembre si è tenuto un convegno su un tema più specifico: i rimedi naturali contro la malaria e contro l’HIV/Aids. La conferenza, sponsorizzata dalla «Ford Foundation» e da «Multilateral Iniziative on Malaria», è stata organizzata dall’«Inteational Centre for Ethnomedicine and Drug Development» (Nigeria), assieme ad altri organismi africani e statunitensi.
Presieduta dal ministro della Sanità della repubblica federale di Nigeria, Tim Menakaya, alla presenza dei massimi organismi scientifici, la conferenza ha dibattuto i temi più attuali della ricerca sia dal punto di vista operativo che legislativo.

Per l’Aids il dato emerso è impressionante: su 16,3 milioni di decessi causati dalla malattia fino al 1999, 13,7 milioni si sono verificati in Africa. Ogni giorno 5.500 africani (uomini, donne e bambini) sono contagiati. Il rapporto conferma che, entro il prossimo decennio, 10,4 milioni di bambini africani sotto i 15 anni avranno genitori colpiti dall’Aids.
Fino ad oggi, l’uso delle etnomedicine per questa malattia ha avuto un’incidenza molto relativa, anche a causa di una scarsa divulgazione rispetto alle medicine allopatiche.

Per la malaria i casi che si verificano ogni anno sono stimati in 300-500 milioni, dei quali il 90% nell’Africa subsahariana; si calcola che i decessi siano oltre un milione all’anno. Gli interventi hanno avuto per oggetto le ricerche più recenti, i rimedi tradizionali e gli interventi riguardanti il farmaco-resistenza.
Molto apprezzato è stato l’intervento dell’amministratore della «Cipka», società svizzera che ha spiegato le ricerche fatte su piante africane contro la malaria. In particolare, i confortanti risultati d’analisi di laboratorio ed in vivo del preparato denominato «Gadelpas» (*) hanno convinto il «National Institute for Pharmaceutical Research and Development» della Nigeria ad intraprendere un protocollo di prove in tre ospedali diversi.
Nel mese di maggio al più tardi si avranno i risultati definitivi e, come si spera, il prodotto potrà essere immesso sul mercato nigeriano, per poi estenderlo ad altri paesi.
Il lavoro della conferenza ha dettato le linee guida per il prossimo futuro, anche se il lavoro da compiere (affinché alle etnomedicine venga ridato quel ruolo primario che loro compete) è ancora lungo.
Molto confortante è il dato che emerge dai paesi sviluppati, che indicano un forte ritorno a tutto quanto è «naturale». Di conseguenza anche i paesi più interessati, come quelli africani, stanno valutando le strategie per affrontare meglio il mercato dei farmaci ritrovabili in natura.

GUERRE UMANITARIE E URANIO IMPOVERITO

Per maggiori informazioni:

http://www.gulflink.osd.mil/du_index.htm
http://www.gulflink.osd.mil
http://www.gulfweb.org
http://www.gulfwarvets.com
http://www.gulfwarvets.com/kuwait.htm
Si tratta di siti dei veterani USA e documenti sulla «guerra del Golfo».

Inoltre: www.ilraggioverde.rai.it (in particolare, il resoconto della puntata del 12 gennaio 2001).

E il libro: Inteational Action Center, Il metallo del disonore. Che cos’è l’uranio impoverito, Asterios Editore, Trieste 2000.

Guido Sattin



Il matto della


Come curare la malattia mentale?

«Con difficoltà ho superato l’esame di psichiatria. Era una materia affascinante, della quale però
non ero mai riuscito a trovare il bandolo… Con che terrore, quindi, mi sono trovato davanti a quello che per me era rimasto sempre incomprensibile!». Come quella volta alla «Posta medica» di Villa El Salvador, in Perù.

Con difficoltà ho superato l’esame di psichiatria. Era una materia affascinante, della quale però non ero mai riuscito a trovare il bandolo… Poi, per quegli strani scherzi del destino, nella mia vita di medico mi trovai ad affrontare proprio quegli aspetti della medicina che più mi erano apparsi ostici durante il lungo periodo degli studi universitari.
Come quella volta alla «Posta medica» di Villa El Salvador, quando per la prima volta mi trovai davanti a quello che per me era rimasto sempre incomprensibile.

Nella «Posta medica municipal» numero 1, la prima del sistema ambulatoriale di Villa El Salvador, lavoravo come di consueto con Julio, il «mio» infermiere che ne sapeva sempre una più di me.
Un giorno, dopo aver visitato i soliti bambini con bronchiti e mal di gola e aver ricettato come sempre Ampicillina e «agua de eucalipto» (però di quello canforato), Julio fece entrare nello studio un grasso signore con il viso sporco, ma soddisfatto, e le mani macchiate di sangue.
«Buenos dias señor – gli dissi – que le pasa?».
«Niente» mi rispose.
«Come mai allora – gli ribattei con la mia stringente logica universitaria – ha le mani sporche di sangue?».
«È la Gillette, dottore. Mia cognata non voleva farmi uscire».
Solo a questo punto mi accorsi che la camicia, sotto la giacca unta, era coperta da una spaventosa macchia di sangue.
«Ma che ha fatto, señor?» e rapidamente gli sfilai la giacca.
«Julio corri!» gridai spaventato.
«Si calmi, doctorcito, non è niente – mi ribattè l’uomo ferito -. Mia cognata non voleva farmi uscire e allora con la Gillette… È un taglio perfetto, sono un esperto».
Julio arrivò con la calma che gli ho sempre invidiato e mi aiutò a togliergli la camicia.
«Carajo (forte esclamazione gergale, ndr) – esclamai -, non ho mai visto un taglio così».
Lo distendemmo sul lettino e ci guardammo con gli occhi spalancati. Mandai Julio a prendere il metro e insieme misurammo quel taglio, pressoché perfetto, che in tutti i suoi 35 centimetri di lunghezza metteva in mostra il sottocutaneo e un notevole strato di grasso.
«E adesso – dissi – che facciamo?».
«Cuciamo!» mi rispose con tono tranquillissimo il nostro matto.
«Cuciamo lo dico io!» gli ribattei un poco ferito nell’orgoglio, ma anche ricordando che l’orlo dei pantaloni (che avevo tentato di fare un paio di giorni prima) mi era venuto talmente storto che la signora Mila me li aveva fatti sfilare per rifare la cucitura.
Nel frattempo, Julio si era munito di garze, disinfettante e pinze e aveva cominciato a pulire la ferita. La boccetta di Xilocaina era pronta per anestetizzare la parte e cominciare a cucire.
Il matto continuava intanto ad osservarci con sempre maggiore ammirazione ed interesse (se i pazienti fossero stati tutti così, forse anch’io sarei diventato un grande medico).
«Che cos’è quella boccetta» mi chiese.
«Xilocaina, è un anestetico locale» gli risposi.
«Eh no dottore – mi rispose fermandomi la mano -. Non voglio niente del genere».
«È per non farle sentire dolore» gli spiegai.
«Ma per me è un piacere. Ho molta esperienza».
Effettivamente, pulendo la ferita e la pelle intorno, cominciarono a comparire i segni di anteriori imprese dello stesso tipo.
«D’accordo! Julio, passami ago e filo. Cominciamo!».
«Dottore, che splendida mano, che passi da gigante ha fatto la chirurgia ai giorni nostri, che strumenti perfetti!».
Con Julio ci guardammo e ci immaginammo in una modea sala operatoria alle prese con un difficile intervento, circondati da monitors, con un nugolo di studenti che ci osservavano. Invece, ci trovavamo sotto il neon di un ambulatorio di periferia a cucire la pancia di una persona, feritasi con una lametta Gillette a causa di una cognata insofferente. Un matto che ci spronava e si ergeva a unico testimone dell’impresa di un medico alle prime armi e di un grande infermiere ai suoi inizi.
Nonostante le mani tremanti e il filo che finiva, arrivammo in fondo, pieni del nostro orgoglio e con i complimenti del matto. Gli bendammo la pancia e lo mandammo a casa con tante raccomandazioni.

Tre o quattro giorni dopo, mentre stavo visitando un’intera famiglia con «rasca-rasca» (letteralmente «gratta-gratta», è il termine popolare per definire la scabbia, ndr), Julio mi chiamò: «Dottore, venga è tornato il matto».
«Arrivo subito. Controllagli la ferita intanto».
«Corra dottore, presto!» sentii la voce insolitamente trafelata del fido infermiere.
Corsi nella stanza e vidi la faccia allucinata di Julio e quella tranquilla e soddisfatta del matto.
«Carajo – esclamai -, si è infettata?».
«No dottore, sa …, ho trovato una Gillette e allora ho pensato a voi… E poi mia cognata…».
«Cosa ha fatto? Un’altra volta!».
Ci guardammo in faccia con Julio che mi lesse nel pensiero dicendo: «Chiamo subito l’ambulanza, dottore. Abbiamo finito il filo».
Lo mandammo a Larco Herrera, il manicomio di Lima.

Solo anni dopo, seduto nella grande sala del «castello» del «Residuo psichiatrico» (che razza di nome, eh?) di Montecchio Precalcino (Vicenza), mi resi pienamente conto della tragedia del matto della Gillette e di sua cognata.
La primavera è prepotente nelle verdi campagne venete sulle quali sorge questa collinetta popolata di alberi e matti. Anche qui capitai per caso, accettando una sfida che mi avevano proposto: demolire il «Residuo psichiatrico» (ma chi mai avrà inventato una definizione così grossolana e tremendamente vera e frustrante?), nel quale vivevano ancora 2.500 ospiti e un centinaio fra infermieri, suore e impiegati.
La paura e l’orrore della malattia mentale non mi hanno mai abbandonato e, se affrontare un paziente psichiatrico mi stressava, affrontare un intero manicomio mi terrorizzava.
Forse fu la signora Spiller, con i suoi deliri di persecuzione che lasciavano improvvisamente posto a grandi e composti gesti d’affetto, che mi aiutò a cercare più in profondità. Forse fu la rabbia di ascoltare rimpianti di un passato in cui, a Montecchio, un medico si occupava di 700 ospiti e dove, anche da morti, i matti non uscivano dai recinti del manicomio. O forse furono la grande speranza e serenità di Riccardo, psichiatra dall’eterno toscano in bocca, a coinvolgermi e farmi intravvedere la possibilità di un cambiamento.

A distanza di anni, una cosa debbo scrivere per liberarmi da un peso troppo grande per la mia coscienza di uomo, più che di medico. La medicina, la psichiatria e la società civile che hanno inventato, moltiplicato e poi tollerato i manicomi hanno fallito e in questo loro fallimento hanno trascinato migliaia e migliaia di persone.
E se, a quasi 25 anni dall’abolizione ufficiale dei manicomi (legge n.180 del 13 maggio 1978, conosciuta come legge Basaglia, ndr), a Montecchio Precalcino ci sono ancora persone, la società civile ha rimosso il problema e la modea psichiatria ha fallito ancora.
Cucire la pancia al matto della Gillette bisognava certamente farlo, ma cosa bisognava fare per convincerlo a non tagliarsela più? Non ho ancora trovato una risposta.
Ma il mio vero cruccio non è tanto questo, quanto piuttosto di averlo mandato in un manicomio. Ovvero nel luogo che racchiude tutti i fallimenti dei nostri maldestri tentativi di affrontare la malattia mentale.

di Guido Sattin (*)
La «Fondazione Ivo de Caeri»

IL LABORATORIO DI PEMBA

Nei paesi in via di sviluppo, malattie respiratorie, malaria, diarree, parassitosi di varia origine sono tra le principali cause di malattia e di morte nei bambini al di sotto dei 5 anni.
Risultati di recenti ricerche hanno messo in evidenza che l’aggiunta di piccole quantità di ferro e di zinco alla dieta quotidiana di questi bambini è in grado di migliorae la crescita e lo sviluppo fisico e mentale.
La «Johns Hopkins School of Public Health», una delle più importanti scuole inteazionali di salute pubblica, in collaborazione con l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), ha scelto per l’Africa l’isola di Pemba, in Tanzania, e il laboratorio di sanità pubblica «Ivo de Caeri», per valutare i primi risultati di questa sperimentazione sulla popolazione infantile.
Il progetto durerà due anni e si svolgerà contemporaneamente anche in India e in Nepal. Dal punto di vista finanziario, esso è sostenuto da diverse organizzazioni: «United States Agency for Inteational Development», «United Nations Foundation», «Bill and Melinda Gates Foundation».
Il laboratorio di Pemba, ultimato nel maggio del 2000, sorge su un’area di oltre 700 metri quadrati e comprende laboratori di parassitologia, microbiologia e virologia, un’aula per formazione, educazione sanitaria e conferenze, una biblioteca, uffici e servizi generali. È stato ufficialmente inaugurato il 12 giugno (giorno della nascita del prof. Ivo de Caeri) alla presenza delle autorità sanitarie locali, di membri dell’Oms e dell’ambasciatore italiano in Tanzania. Il personale occupato sarà tutto locale.
Il sostegno economico dei donatori e l’opera volontaria di tutte le persone che lavorano per la «Fondazione de Caeri» hanno permesso la realizzazione di questo importante laboratorio di sanità pubblica, in un’area geografica dove non esistono strutture sanitarie. Ancora oggi parte della popolazione (non solo infantile, ma anche adulta e produttiva) soccombe a causa di malattie che, in altri paesi del mondo, sono ormai dimenticate.
Per la Fondazione Ivo de Caeri la collaborazione con la «Johns Hopkins» (che coinvolge, oltre al personale del laboratorio, strutture governative, sanitarie e popolazione dell’isola) è motivo di grande soddisfazione e di stimolo a intensificare la propria opera e l’impegno futuro in Africa.
Silvana Maggioni


La campagna di «Medici senza frontiere» (MSF)

L’ACCESSO AI FARMACI ESSENZIALI

Il cornordinatore della campagna MSF per l’accesso ai farmaci essenziali, dottor Pecoul, così si è sfogato: «Sono stanco di constatare come il profitto abbia sempre la meglio sul diritto alla salute. Sono stanco della logica secondo cui chi non può pagare, muore».
L’accesso a farmaci essenziali ed efficaci è negato ai poveri per una delle seguenti ragioni:
– il prezzo proibitivo dei nuovi farmaci sotto brevetto;
– la ricerca e lo sviluppo trascurano le malattie dei poveri, mentre farmaci attualmente in uso sono ormai inefficaci per la diffusione di microrganismi resistenti;
– la produzione di farmaci, pur efficaci, è insufficiente o abbandonata, perché i pazienti non garantiscono un profitto.
La disponibilità di medicine non è l’unica garanzia per una condizione di buona salute. Ma è essenziale. Le attuali politiche farmaceutiche, in termini di mercato e di ricerca, sono regolate in modo da escludere la maggior parte dell’umanità. Consideriamo questo squilibrio un’inaccettabile violazione del diritto fondamentale alla salute.
Per questo motivo MSF, insieme ad altre associazioni non governative italiane (Lila, Farmacisti senza frontiere, AiBi, Cuamm, Mani tese, Fondazione internazionale Lelio Basso, Aifo), rivolge un appello a tutti i cittadini per sollecitare una forte presa di posizione del nostro governo e dell’Unione europea, affinché l’accesso ai farmaci salvavita sia sempre e comunque garantito.

Per ulteriori informazioni:
«Medici senza frontiere» – via Voltuo, 58 – 00185 Roma
tel. 06.4486921
fax 06.44869220
E-mail: msf@msf.it

Guido Sattin




Laggiù, oltre la frontiera


Dove anche un antibiotico è un lusso

Laggiù, oltre la frontiera Medici e infermieri che curano i bambini di strada violentati, le persone ferite dalle mine, i malati di Aids. Medici e infermieri che lavorano in paesi dove le popolazioni sono in balia di malattie parassitarie, perché mancano gli ospedali e le medicine. Non bastano le Ong, l’Oms o i Medici senza frontiere. Per migliorare, occorre «investire» nel personale medico dei paesi del Sud. Ecco il resoconto di un’esperienza di questo tipo.

Mary-Lu Miranda è un giovane medico di Manila. Ha due bambini e ne aspetta un terzo. Ogni giorno Mary-Lu attraversa la turbolenta capitale filippina, nel frastuono del traffico e nello smog, per raggiungere il suo posto di lavoro. Fa parte di una équipe che, nell’ambito di una Organizzazione non governativa (Ong) internazionale, opera nella capitale filippina. Lei ed i suoi collaboratori fanno un lavoro particolare: si occupano di garantire cure di base a quella sfortunata popolazione che sono i bambini di strada. Ogni giorno ne esamina alcuni, cura le loro malattie, prevalentemente di natura sessuale (sono facile preda di pedofili e mercati illeciti), e cerca di fare un po’ di counselling in loro supporto e protezione. Fa il lavoro con interesse, pur se tra le mille difficoltà che la particolare tipologia dei suoi giovani assistiti comporta.
Beard Kanimba ha 50 anni. Da parecchi lustri è medico e chirurgo, in Burundi, nel secondo ospedale del paese. Vi lavora da abbastanza tempo per essere stato, come lui stesso racconta, testimone delle ferite e lacerazioni che hanno scosso il suo paese negli ultimi decenni. Ma Beard non si lamenta più… In città ora si spara solo la sera e il numero di bambini che saltano su una mina sembra ridotto negli ultimi mesi… E così sono ridotti quegli odiosi interventi disperati per salvare una gamba o un braccio. Anche il materiale scarseggia, ma ora con una Ong ora con un’altra si tira avanti. Basta mantenere il capo basso sul lavoro. Beard racconta il tutto con serenità, come la sua difficile storia personale di dover crescere tre ragazzi dopo la morte della giovane moglie, lavorando e vivendo in un paese in guerra.
Josephine Maende ha 40 anni. Lavora a Nairobi, dove dirige per conto del suo governo un ospedale di 180 letti nella periferia della capitale. Un ospedale per malattie infettive, racconta Josephine, con oltre 100 letti riservati ai malati di Aids. Sembra stanca nel raccontare le delusioni quotidiane del suo lavoro, quando si affanna a fornire palliativi ai suoi pazienti, per la mancanza totale di farmaci veramente efficaci. Nell’ospedale dove lei lavora i farmaci «potenti» contro l’Aids non arrivano perché costano troppo, così come molti degli antibiotici ed antifungini che servirebbero quantomeno a far vivere più degnamente i loro ultimi mesi a questi condannati. Ma lei ed i suoi colleghi sono ostinati, e con il supporto di Medici senza frontiere (Msf) continuano a tentare l’impossibile, salvare una ennesima polmonite da Pneumocistis, un classico killer dei malati di Aids, con del Bactrim. Peccato poi che, una volta rimandato a casa il paziente, questi non sia più in grado di comprarsi la compressa quotidiana dell’antibiotico, poco costosa per noi, ma irraggiungibile per lui. E così…
Francesco fa l’infermiere in Veneto. Ha già fatto due missioni di emergenza in Africa, in zone di guerra. Racconta che forse ripartirà presto, perché così sente di poter valorizzare il suo lavoro. Ha conosciuto quelle ferite lontane e ora non può far finta di ignorarle. Ha scoperto quanto di eccezionalmente utile lui sa e può fare.
Claudia è medico ed ha frequentato, dopo la laurea, una scuola di medicina tropicale. Le piacerebbe che nella sua vita professionale entrasse una esperienza «di terreno», in uno di quei lontani paesi, dove le malattie tropicali, che lei ha conosciuto soprattutto sui libri, sembrano avanzare incontrastate.

Cosa hanno in comune Mary-Lu, Beard, Josephine, Francesco e Claudia? Nulla, fino a poche settimane fa non si conoscevano, e operano a fusi orari di distanza. Si sono conosciuti l’11 marzo, al loro arrivo a Macerata, insieme ad altri 18 loro colleghi provenienti da 15 paesi in via di sviluppo ed un’altra ventina di italiani medici ed infermieri. Tutti erano stati ammessi a partecipare ad un addestramento avanzato di medicina tropicale, l’«Advanced Training on Tropical Medicine», appunto, come si chiamava il corso di Macerata. Organizzato da una collaborazione nata tra Medici senza frontiere (Msf), la Fondazione de Caeri, e l’Ospedale di Macerata.
Il corso era organizzato in tre moduli di formazione indipendenti. Uno per il controllo nei paesi tropicali di Aids e malattie trasmesse per via sessuale; un secondo per il controllo delle principali malattie parassitarie, quali malaria, schistosomiasi, filariasi e altre ancora; un terzo per un addestramento alla chirurgia «difficile», quella di guerra o quella fatta nei remoti ospedali rurali dei paesi poveri.
È cosa nota che in molti paesi tropicali importanti problemi di salute non trovano una adeguata risposta nei fragili e poveri sistemi sanitari esistenti. In questi contesti nuove strategie sono oggi proposte per rendere il controllo di tali malattie sostenibile anche per quei paesi, ma per questo occorre una specifica preparazione, sia dello staff locale che del personale di organizzazioni umanitarie. Questi ultimi poi si trovano a volte ad operare in zone di instabilità e conflitto, con la necessità di applicare una chirurgia «di emergenza» disponendo di scarsissime risorse. Per tutte queste situazioni il corso era stato pensato come uno strumento per preparare, al di fuori di qualsiasi schema accademico, il personale sanitario per fronteggiare al meglio le calamità sanitarie che minacciano la salute di milioni di persone. Un addestramento avanzato, quindi, a completare la preparazione di base, rendendola il più possibile efficace ed efficente sul piano operativo.
Endemie di malattie parassitarie (alcune delle quali sono tra le prime cause di malattia e morte) avvengono proprio in aree dove i farmaci sono carenti e il personale non è preparato.
Recenti stime mostrano addirittura che alcune di esse sono in incremento, nonostante in questi recenti anni vari donatori, istituzionali e non, abbiano investito nel potenziamento dei sistemi sanitari di molti paesi, in particolare in Africa. Ma situazioni di cronica instabilità, conflitti, migrazioni, inadeguato sviluppo delle risorse idriche, tutto conduce ad una diffusione di queste malattie parassitarie. Recentemente nuove strategie di controllo sono state introdotte per ottimizzare l’utilizzazione delle risorse in particolare in paesi poveri e con scarsi supporti economici.
Le nuove strategie propongono modelli di controllo decentralizzato (ma integrato nelle comuni attività dei sistemi sanitari) di quel settore che si chiama «Primary Health Care» o delle cure di base, sancito dalla dichiarazione di Halma Ata una quindicina di anni fa. Questo modello si pone in alternativa ai programmi «verticali», quelli per intenderci in cui poche persone di un gruppo qualificato, che opera a livello centrale (di solito, nella capitale del paese), si occupa di tutto: dalla programmazione alla esecuzione delle attività (come distribuire farmaci o praticare diagnosi). Negli anni questo modello ha mostrato le sue debolezze, in particolare la sua incapacità di sviluppare il sistema sanitario del paese. Senza dire dei fallimenti nel controllo di specifiche malattie. Queste nuove strategie di controllo integrato e decentralizzato hanno costituito uno dei temi principali del corso organizzato a Macerata.
Come l’Aids. La malattia non solo si sta sviluppando come un enorme incendio nell’Africa sub-sahariana, ma contribuisce a rendere ogni possibilità di sviluppo, anche economico, ancor più difficile per il numero di malati e morti tra le fasce produttive della popolazione. L’assenza (a causa dei costi irragionevolmente proibitivi) dei farmaci specifici rende poi pressoché impossibile anche ogni cura mirata a migliorare la qualità di vita delle migliaia di persone colpite dall’infezione.
Ci sono aspetti inquietanti di questa epidemia, come ad esempio l’incapacità di applicare gli strumenti (esistenti ed efficaci) per fermare quantomeno il contagio da madre a bambino durante la gravidanza. E la prevenzione non sembra ancora funzionare, se si pensa che il contagio sessuale è ancora la prima fonte di infezione in Africa e nel Sud-est asiatico. In questo settore giocano un ruolo fondamentale programmi di educazione, informazione, sicurezza del sangue, controllo delle malattie sesso-trasmesse. Per questi interventi sono state sviluppate competenze ed abilità specifiche, illustrate in profondità nel corso di Macerata.

Questi sono stati i contenuti fondamentali che sono stati affrontati nel corso delle due settimane di corso. I docenti delle più qualificate istituzioni scientifiche europee (come la London School of Hygiene and Tropical Medicine della London University, o dello Swiss Tropical Institute) hanno animato la discussione interagendo con questo gruppo di medici «di frontiera», ovvero proprio con coloro che sono chiamati ad applicare le linee guida e raccomandazioni che escono dai loro istituti. Per gli stessi docenti l’opportunità è stata di grande interesse, quella cioè di poter lavorare, in questa full immersion di due settimane, con direttori di ospedali e dirigenti di servizi o programmi dei ministeri della sanità di paesi in via di sviluppo. Il corso era patrocinato anche dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), che ha partecipato con alcuni docenti. Rientra proprio negli obiettivi dell’Oms l’assicurare che adeguate strategie siano proposte, in rispetto dei bisogni e delle risorse disponibili.
Per Medici senza frontiere la formazione del personale è una priorità assoluta, per poter sempre assicurare cure di qualità anche nei contesti difficili dove in genere i suoi teams si trovano ad operare. Non esistono mai giustificazioni per fornire cure di scarsa qualità, neanche l’insicurezza o l’instabilità costante in alcune aree. A Msf, nella organizzazione del corso, si è affiancata la Fondazione Ivo de Caeri (vedi riquadro), fondazione milanese da alcuni anni impegnata nel promuovere lo studio delle malattie parassitarie, una priorità per la sanità pubblica della maggioranza della popolazione mondiale.
E cosa ha portato un ospedale non universitario, quello di Macerata, ad ospitare il corso? Una scelta lungimirante e coraggiosa della sua direzione generale che ha riconosciuto come nella mission di un moderno ed evoluto ospedale debba rientrare il contribuire ad un incremento della qualità delle cure in altre strutture sanitarie. Soprattutto in quei contesti difficili, disagiati e con poche risorse che sono una caratteristica comune a tutti i paesi in via di sviluppo.

In conclusione dell’intenso, stancante ma appassionante corso, i partecipanti hanno voluto riassumere gli aspetti focali del problema. Ne è nato un Macerata Statement in cui vengono elencate le priorità e le principali raccomandazioni per la salute delle popolazioni del Sud del mondo. La «dichiarazione di Macerata» (vedi riquadro) è un documento rappresentativo delle ansie, angosce e bisogni di chi fa del «fornire salute» il proprio appassionante lavoro e la principale sfida dell’esistenza.
Soprattutto laggiù, oltre la frontiera.

Carlo Urbani



Prima il profitto poi i brevetti


Le multinazionali farmaceutiche investono nei settori dove maggiore è la possibilità di guadagnare,
indipendentemente dai bisogni. I brevetti sono ostacoli insormontabili. Insomma, i farmaci sono trattati alla stregua di un qualsiasi altro prodotto. Questa politica comporta gravi conseguenze per una larga fetta dell’umanità.

Un pomeriggio di ottobre del 1999, nella Cambogia nord-orientale. Stiamo percorrendo una pista che costeggia il fiume Mekong, risalendone il corso.
Andiamo a verificare lo svolgimento di un programma di controllo delle malattie parassitarie, gestito dal ministero della sanità con il nostro supporto tecnico. Il programma sembra andar bene, e siamo orgogliosi di aver abbattuto i tassi di mortalità per queste malattie nella regione.
Decidiamo di concederci una sosta per sgranchirci un po’ e bere dell’acqua. Ci fermiamo in un grazioso villaggio, affacciato su una bella insenatura del grandioso fiume. L’aria è pulita e profumata, e la luce dell’imminente tramonto colora di violetto le acque del fiume, incoiciato dal verde della esplosiva vegetazione. Mi allontano un po’ dalla Toyota, e mi fermo sotto una delle casupole, tutte uguali, tutte estremamente precarie: un pavimento di bambù su quattro alti pali (le case sono così, anche per proteggersi dalle inondazioni), quattro pareti di foglie di palma intrecciate e un tetto, anch’esso di foglie. Una bambina sorridente sta appoggiata alla ripida scala che conduce all’interno, e in alto sua madre – così credo – è seduta intenta a eliminare le scorie da una manciata di riso. Mi sorride. Così mi tolgo le scarpe e salgo.
Seduta sul pavimento, la donna ha sulle gambe un fagotto, che si muove ritmicamente. Lei sposta un lembo degli stracci e scopre un bimbetto (10-12 mesi) ansimante, viso affilato, occhi spalancati e una colata di muco dal naso. Chiamo l’interprete, per avere notizie di quel piccolo visibilmente sofferente. È così, mi dicono, da 3-4 giorni; ha anche smesso di succhiare il seno. Lo tocco: è bollente. Avvicino un orecchio al suo dorso: polmonite. Non si lamenta mentre lo esamino, continua solo ad ansimare rumorosamente.
Apro la borsa per vedere cosa abbiamo di utile in quella condizione: trovo delle compresse di ampicillina e di paracetamolo. Dovrebbero andare. Poi l’interprete spiega alla mamma come fare: bollire dell’acqua, schiacciare una compressa in una ciotola, scioglierla e dae un cucchiaio al bimbo ogni 8 ore; poi reidratarlo con acqua, zucchero e sale, poi il paracetamolo… cose banali insomma, una serie apparentemente semplice di istruzioni.
Ma la preoccupazione sul volto della mamma sembra indicare tutto il contrario: manovre complicate, quasi impossibili, gesti del tutto estranei alla quotidianità della sua vita. Ci allontaniamo dalla casupola lasciando il rantolo del bambino con la polmonite alle nostre spalle.
L’indomani, sulla via del ritorno, ci fermiamo di nuovo. La mamma in lacrime ci dice che la sera prima il bimbo ha chiuso gli occhi dopo il tramonto e durante la notte ha smesso di respirare.

Cosa ha di particolare questa storia? Nulla, assolutamente nulla. Rivela semplicemente quanto accade ogni giorno, in migliaia di villaggi, per milioni di bambini.
Ricordo la prima volta che misi piede in Africa, fresco di studi di medicina tropicale. Aspettavo con ansia di vedere malati affetti da quei misteriosi e «affascinanti» morbi esotici. Rimasi quasi deluso quando, nella prima giornata di consultazioni mediche, vidi solo bambini gravemente malati o prossimi al decesso per banali infezioni.
Diarrea, infezioni delle vie respiratorie: sono queste le prime cause di morte nei paesi in via di sviluppo. Il 95% dei decessi sono dovuti a malattie infettive, per le quali esistono efficaci trattamenti. Ma un terzo della popolazione mondiale non ha accesso ai farmaci basici. Gran parte di queste malattie sarebbero facilmente curabili; però, proprio là dove più servono, i farmaci relativi non sono disponibili, spesso perché troppo costosi.
La causa di questa discrepanza tra bisogni e offerta risiede in rigide leggi di mercato, in base alle quali i prezzi dei farmaci, protetti da brevetto, sono fissati sulla disponibilità a pagarli nei mercati dei paesi industrializzati. Alla base di gran parte dei disastri sanitari, dell’impossibilità a gestire epidemie o endemie, a prevenirle, a impedire la morte per banali infezioni, alla base di tutto possiamo affermare oggi con certezza che c’è un problema di farmaci. Vediamo di capire di cosa si tratta.
Anzitutto mancano nuovi farmaci utili in medicina tropicale, che siano poco tossici, a basso costo ed efficaci per debellare le malattie (parassitarie, ad esempio), causa di sofferenza e morte.
Basta un dato: negli ultimi 20 anni, tra i 1.233 nuovi farmaci offerti dal mercato internazionale, solo 11 avevano come indicazione malattie tropicali, e di questi 7 venivano dalla ricerca veterinaria. Per cui appena lo 0,3% della ricerca farmaceutica contemporanea è indirizzata alle malattie ai vertici di ogni classifica mondiale di morbosità e mortalità. Perché? Semplice, perché queste malattie imperversano in mercati poco remunerativi. Le priorità sono, quindi, più di ordine economico-commerciale che medico.
Da un lato fiumi di miliardi vengono investiti sulla ricerca di nuove pillole contro l’obesità e l’impotenza, dall’altro quasi niente per malattie tropicali. Se poi talvolta (e c’è l’evidenza) una multinazionale farmaceutica giunge a sintetizzare un farmaco attivo su una malattia tropicale, spesso il fabbricante decide di non commercializzarlo, poiché la sua vendita sarebbe poco remunerativa nei paesi dove i pazienti interessati sono concentrati.
A volte, per le stesse ragioni, farmaci già disponibili, efficaci e semplici da somministrare scompaiono improvvisamente, come è stato il caso della sospensione oleosa di cloramfenicolo, usata per trattare la meningite meningococcica (malattia capace di uccidere in 24 ore). Tale farmaco era l’alternativa al trattamento con ampicillina, che richiede 4 infusioni endovenose al giorno, contro un paio di iniezioni intramuscolari in tre giorni per il cloramfenicolo. Una bella differenza, per trattare pazienti in strutture sanitarie carenti di materiale e igiene.
Altro esempio, quello della efloitina. Questo farmaco serve per trattare lo stadio avanzato della tripanosomiasi, più conosciuta come malattia del sonno (trasmessa dalla famosa mosca tse-tse). Bene, mentre il vecchio farmaco usato (un derivato dell’arsenico estremamente tossico e somministrabile in dolorose iniezioni) diveniva anche inefficace per l’insorgenza di ceppi di parassiti resistenti, appare questo nuovo ritrovato. Sfortunatamente due anni fa la ditta produttrice, detentrice del brevetto, ha deciso di sospendee la produzione per motivi commerciali. E i circa 300 mila malati si vedono rioffrire il vecchio melarsoprol.
Questo è quanto accade, in questo mercato globalizzato.

Uno dei problemi principali è causato dal brevetto che protegge il farmaco. Il brevetto rappresenta un diritto sacrosanto dell’industria per salvaguardare i frutti dei sui investimenti in sperimentazioni. Accade però che i brevetti si tramutino in micidiali armi che limitano l’accesso ai farmaci.
Esistono paesi definiti in via di sviluppo, ma in realtà detentori di tecnologie sufficienti per una produzione farmaceutica. Nazioni come India, Thailandia, Sudafrica o Brasile sono in grado di produrre farmaci utili per le loro popolazioni e quindi rivenderli a prezzi accessibili. Il prezzo di farmaci come il fluconazolo, efficace in gravi infezioni fungine, crolla così dai 20 dollari al giorno per un trattamento in Kenya, dove è importato, a meno di un dollaro al giorno in Thailandia, dove è prodotto da una azienda nazionale.
Questo è reso possibile da una norma che si chiama compulsory licensing, o licenza obbligatoria (vedi box).
A questo punto, la domanda che sorge è: etica e sviluppo economico del settore farmaceutico sono obiettivi incompatibili?
Le più autorevoli riviste mediche inteazionali (ad esempio, British Medical Joual e JAMA) sostengono che l’etica è compatibile con l’economia. Per questo i medici, che operano in questi contesti, sono stanchi di dover pensare, di fronte all’ennesima morte di un loro paziente: «Mi spiace. Stai morendo a causa di una inadeguatezza del mercato».
Il caso dell’AIDS mostra poi cifre apocalittiche. Il 95% dei malati di Aids nel mondo non ha accesso a farmaci efficaci per restituire salute e dignità. Ma (fatto ancor più grave) i trattamenti per ridurre significativamente la trasmissione verticale dell’infezione da madre sieropositiva a figlio al momento del parto non sono disponibili proprio nei paesi dove questa modalità di trasmissione sta segnando le nuove generazioni, condannando a morte entro 5-8 anni un bambino già al momento della sua nascita.
Farmaci come l’Azt o la nevirapina, efficaci anche se somministrati per solo 4 settimane intorno alla data del parto, sono vittime delle stesse regole di mercato. Spietati brevetti ne permettono la vendita a prezzi proibitivi e ne impediscono la produzione da parte di altre aziende. Se è vero, si può sempre applicare la licenza obbligatoria. Ci ha provato la Thailandia iniziando a produrre Azt per le sue donne (tantissime) incinte e sieropositive. Il farmaco ha avuto il costo abbattuto del 7000%.
La reazione degli USA, dove risiede la ditta detentrice del brevetto, è stata: non possiamo impedirtelo, ma possiamo però ridurre le importazioni dalla Thailandia… Cosa questa insostenibile in questo momento di crisi economica.
Ecco come vanno le cose.
Farmaci che ci sono, ma costano troppo; farmaci che esistono, ma non vengono prodotti, germi che divengono resistenti ai comuni trattamenti (TBC, leismaniosi, tripanosomiasi, ecc.), ma la ricerca farmaceutica ha altri obiettivi… e le cifre di morte e malattia continuano ad avere parecchi zeri nei paesi dei poveri del mondo. Quello che basterebbe è esigere un «diritto alla salute per tutti».
Già sentito?

Carlo Urbani




Guarigioni vere con medicine presunte


Si ricorre a placebo, come il bastone, ma anche occhi di vetro, cuori di corallo o d’oro, nonché al sangue del paziente, urina, saliva, unghie, capelli.

Spesso capita di sentire o leggere cose strane su credenze e pratiche terapeutiche esotiche o nostrane, che ci lasciano stupiti, increduli ed anche un po’ scettici. Come è possibile, ci si chiede, che miscele di foglie «fredde» o poltiglie di erbe «calde», possano influire sul decorso di una malattia con effetto risolutivo? Che infezioni, intossicazioni, ferite, gravidanze, malattie nervose, asma… possano essere curati con organi e prodotti del regno animale, usati anche solo in effigie e quando il loro modo di applicazione esclude, a priori, un’azione farmacologica?
Vien da pensare che ci sia qualcosa in più in queste pratiche mediche tradizionali, qualcosa che è legato al concetto di suggestione più che a quello di sostanza curativa. In altre parole, si tratta di ciò che viene definito dalla medicina occidentale «effetto placebo», definizione data ad ogni medicamento che si somministra più per compiacere l’ammalato che a scopo curativo.
Il placebo comprende qualsiasi mezzo chimico, fisico, chirurgico o psicologico che simuli un effetto terapeutico. Anche nella medicina occidentale l’«effetto placebo» è ben documentato, particolarmente dove sono presenti sintomi soggettivi accentuati e intensa partecipazione psicologica del paziente, come nelle malattie psicosomatiche. Angina pectoris, artrosi, malattie reumatiche, cefalee, ipertensione essenziale, febbre da fieno, stati asmatici, mal di mare, tosse, disturbi dell’ulcera peptica e stati dolorosi post-operatori… beneficiano in molti casi di effetti favorevoli con la somministrazione di un placebo.
Servirsi di sostanze-placebo, pur essendo una prassi non abituale e non sempre ben accetta nella medicina occidentale, si è rivelato in diversi casi, particolarmente nell’ambito della patologia psichiatrica, un importante sostegno morale per il malato, quasi «un oggetto» investito di potere terapeutico con funzione simbolica.
Secondo uno studioso, il 35-45% di tutti i medicinali, somministrati come placebo, è costituito da sostanze incapaci di avere un effetto sulle malattie per le quali è prescritto.

I nteressante, a questo proposito, è un placebo un po’ particolare: il bastone; convalescenti di malattie agli arti inferiori che sono dovuti ricorrere al bastone per i primi passi, in seguito non possono più fare a meno di portarlo anche se perfettamente guariti. Il bastone, anche solo tenuto in mano, dà loro un senso di forza e sicurezza che è necessario per rinforzare l’equilibrio e l’attività motoria.
Se l’«effetto placebo» vale nella nostra medicina, vale di più per l’etnomedicina, ossia per le medicine tradizionali in cui un’infinità di «placebo» e di insolite pratiche mediche e credenze trovano una spiegazione in quel vasto campo, solo in parte esplorato, dei fenomeni psicosomatici.

E cco una «carrellata etnologica», quasi un affresco carico di colore, di placebo: l’occhio (in vetro) come talismano contro il malocchio, il cuore (in oro, argento, corallo) per preservare da varie malattie, ma anche sangue, urina, saliva, unghie, capelli!
Secondo credenze arabe, poiché nel sangue possono risiedere spiriti apportatori di malattie, si ricorre immediatamente al salasso quando si presentano disturbi di un certo tipo. In Angola il sangue sano, estratto con il metodo delle ventose, viene utilizzato per curare ustioni. In Marocco si è convinti che si possa migliorare la bellezza dei denti estraendo qualche goccia di sangue dal mento. Nel Gabon si ricorre al sangue per fare una prognosi per la malattia del sonno; lo stregone (n’ganga) prende il sangue del malato e lo versa su foglie di colocasia esculenta: se il sangue diventa nero, la malattia è incurabile e il malato deve morire. Nelle Filippine si fa bere alla gestante una piccola quantità del suo sangue per alleviare le sofferenze del primo parto.
Anche l’urina umana è un farmaco di grandissimo uso nelle medicine tradizionali. In Libia il bambino, che stenta a parlare, o la persona che ha poca memoria devono urinare in una pozza di acqua stagnante per guarire il loro disturbo. In Eritrea si cura l’asma bevendo un bicchiere della propria urina ogni mattina, per dieci giorni consecutivi, seguito subito da uno spicchio d’aglio.
Dulcis in fundo? In Australia con urina di persona sana si curano le ferite. Nelle Filippine con la propria urina si trattano le malattie degli occhi, purché il liquido sia raccolto alla sera e al mattino seguente, a distanza di 12 ore; inoltre, con la prima urina di un bambino, la madre si frizionerà i capelli per impedie la caduta. In Guatemala si cura l’asma dando da bere all’ammalato la sua urina; infine le coliche viscerali scompaiono se si ingerisce, per una sola volta, una miscela di urina (3-5 gocce), acqua e sale. Lavarsi la faccia con l’urina del neonato, ogni volta che fa «pipì», è una buona cura per la puerpera che soffre di macchie gravidiche.
La radice di chenopodium ambrosioides, macerata in un bicchiere di urina, è utile per combattere il parassitismo intestinale: si beve la pozione ad intervalli regolari. In Venezuela con l’urina si combatte l’alito cattivo (bee tre sorsi appena svegli), la stitichezza (clisteri di urina), la tigna del cuoio cappelluto (sedimenti di urine lasciate in riposo per 24 ore).
I Malargüe dell’Argentina curano gli eczemi con l’urina di lattante, la sterilità con quella di una donna gravida e nei parti difficili ricorrono all’agua del marchante, ossia l’«urina dell’eremita», un uomo che vive come un anacoreta del passato, in preghiera e lontano dal mondo.
La saliva, come rimedio, ha un uso universale. Nelle Filippine il tambalan (guaritore-erborista) cura con la propria saliva febbri, dolori di stomaco e altri disturbi; ma il manulutho, il medico «di base» del villaggio, cura esclusivamente con la saliva, sputandola sulla faccia del malato o bagnando con essa le zone infette della pelle. Tra i Malargüe la pedra bezoar (un calcolo spesso presente nello stomaco del lama) acquista poteri terapeutici solo se, appena estratta, viene bagnata con saliva. Nelle Hawai il kakuna (medico tradizionale) trasmette le sue conoscenze mediche agli allievi bagnando con la propria saliva l’interno della loro bocca.
In Burkina Faso e Etiopia, infine, le madri leccano il neonato per farlo crescere bello e sano. Un proverbio recita così: «Quando la madre lecca molto il bambino, Dio è contento, come quando ciascuno paga i suoi debiti».

Liliana Pizzoi




I parassiti del Mekong


QUESTA RUBRICA

Nel corso degli ultimi anni si è assistito ad un miglioramento globale della salute delle popolazioni. Tuttavia resta ancora elevatissimo il numero di individui, soprattutto nei paesi della fascia intertropicale, che non hanno accesso alle cure sanitarie, e lo scarto tra poveri e meno poveri si è ulteriormente approfondito.
Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), 2 miliardi di individui vivono nella povertà, e di questi 700 milioni vivono in situazioni di estrema precarietà. Per queste persone l’accesso a servizi sanitari e a cure mediche non è assolutamente assicurato, quando addirittura impossibile. La povertà genera malattie, attraverso la mancanza di igiene, strutture sanitarie e adeguati trattamenti, educazione. Per questo in molti paesi l’attesa di vita alla nascita non supera i 50 anni, e sono malnutrizione e tutta una serie di malattie tropicali a compiere la decimazione soprattutto nei primi anni di vita.
Nel 1977 i governi e l’OMS nell’Assemblea generale hanno fissato l’obiettivo di garantire la salute per tutti i popoli del mondo entro l’anno 2000. Purtroppo tale traguardo sembra ancora ben lontano, e addirittura in alcune aree si è assistito ad un deterioramento della situazione sanitaria e della qualità della vita.
Per chi vive in un paese sviluppato è in genere difficile immaginare la situazione nella quale la gran parte dell’umanità vive nei paesi in via di sviluppo. E di molte delle malattie più diffuse al mondo si sa quasi nulla, spesso anche il nome suona del tutto insignificante, come avitaminosi, schistosomiasi, dracunculosi, dengue, e così via. Si impiegano nel mondo risorse enormi per la ricerca sul cancro, o le cardiopatie, o le malattie vascolari, ma non tutti sanno che non è per queste malattie che la maggioranza dell’umanità soffre e muore.

In questa rubrica, attraverso brevi resoconti di giornate di lavoro in alcuni paesi tropicali, ci racconteremo qualcosa che riguarda la salute, o meglio l’assenza di salute, in questo mondo dei più sfortunati, dove povertà e malattia si generano a vicenda. Ca.U.


L’ATR72 della «Royal Air Cambodge» sfiora con il carrello le cime di alcuni alberi. Dopo aver posato rumorosamente le ruote sulla corta pista in terra battuta, le turbine frenano con un ruggito la corsa dell’aereo. Un’ora abbondante di volo ci ha portati all’aeroporto di Stung Treng, nel nord-est della Cambogia, dove il Sesan e il Sekong si versano nel Mekong, a circa 40 chilometri dalla frontiera con il Laos.
Pochi minuti prima, seduto vicino al finestrino, osservavo il paesaggio sotto di me e, nei varchi tra i cumuli di condensa tipici di quell’ora, intorno a mezzogiorno, scorrevano lentamente risaie, foreste e fiumi. Il corso del Mekong, visto dall’alto, lascia immaginare l’imponenza di questo fiume, che disegna ampie curve nel verde intenso della vegetazione. A stento si possono vedere i piccoli villaggi sulle sue sponde, giusto una linea di quadratini di un altro colore, tra cui è magari identificabile il tetto variopinto di una pagoda. Ed è difficile immaginare in questo stupendo quadro quante incredibili atrocità siano state consumate, e quanta sofferenza sia nascosta sotto quegli alberi. Il verde intenso della foresta a tratti scompare, per lasciare il posto ad ampie macchie grigiastre, testimonianza della deforestazione selvaggia che incombe nella regione.
Ora, sbarcati nell’aeroporto di Stung Treng, ci prepariamo a risalire un tratto del Sekong, per andare a visitare gli abitanti di un gruppo di villaggi più a monte. Poco più tardi stiamo già scivolando sulle acque blu e perfettamente lisce del fiume, tra due pareti di impenetrabile verde. Con me viaggiano due medici e due microscopiste cambogiani. Trasportiamo farmaci e materiale di laboratorio.

Sulla piroga sventola la bandiera di Médecins Sans Frontières (MSF), che dal 1993 cerca di far fronte in questa regione al grave problema della schistosomiasi. Oggi stiamo andando a verificare la presenza della malattia in una zona molto remota, ed eventualmente distribuire il farmaco che trasportavamo, il praziquantel.
La schistosomiasi è uno dei problemi sanitari più importanti dei paesi della fascia intertropicale, e la forma diffusa lungo il fiume Mekong è una delle più gravi. In Cambogia le dimensioni del problema sono state comprese solo di recente, grazie all’intervento di MSF che ne ha identificato l’area più colpita e ha messo in opera delle misure di controllo. In molti villaggi lungo il Mekong i segni della malattia sono drammaticamente evidenti.
Gran parte dei bambini soffrono di dolori addominali cronici, emettono feci con sangue e muco, il loro addome si gonfia progressivamente per l’ingrossamento di milza e fegato, ed a partire dagli anni dell’adolescenza sviluppano i primi sintomi della cirrosi epatica, la stessa malattie che colpisce gli alcolisti. Si forma acqua nella pancia (ascite), si gonfiano le vene sulla superficie dell’addome e si formano varici nell’esofago. Negli stadi avanzati della malattia il soggetto è estremamente emaciato, sofferente, con una enorme pancia, gambe magre ed edematose, fino a che la rottura delle varici esofagee e la conseguente emorragia ne causa il decesso. Coloro che sono infettati da molti parassiti hanno anche un arresto della crescita e dello sviluppo sessuale, così che l’età apparente trae spesso in inganno e un ventenne può essere facilmente preso per un bambino di 11-12 anni.
La schistosomiasi è causata da un piccolo verme che vive nelle vene intorno alla parete dell’ultimo tratto dell’intestino. Se le uova prodotte con le feci arrivano nelle acque del fiume, si chiudono e liberano un piccolo organismo che, nuotando, viene attirato particolarmente da un certo mollusco, una piccola conchiglia che vive nelle fessure delle rocce semisommerse nel fiume. All’interno della conchiglia il parassita matura e forma una piccola larva. Questa lascia la conchiglia e si libera nelle acque del fiume. Se entra in contatto con la pelle umana, è in grado di perforarla ed attraversarla. Una volta penetrato il parassita si lascia trasportare dal sangue e, dopo un complicato percorso, raggiunge la sede definitiva del suo sviluppo, appunto le vene intorno all’intestino, per diventare adulto.
Il problema principale è causato da quelle uova che, prodotte dalla femmina, non riescono a mescolarsi alle feci come previsto, ma vengono portate via dalla corrente sanguigna nelle piccole vene dove i vermi vivono. Queste uova finiscono intrappolate nel fegato, causandone l’ingrossamento, la fibrosi, e poi la cirrosi. Questo fa ingrossare la milza e fa aumentare la pressione del sangue nella vena porta. Questa «ipertensione» causa l’ascite e la formazione di varici esofagee. Più sono numerosi i vermi adulti, più grave è la malattia. Ne deriva che solo i soggetti continuamente esposti a nuove infezioni sviluppano gravi sintomi. Essere esposti all’infezione significa avere molti contatti con l’acqua del fiume, nelle zone dove ci sono quelle conchiglie e dove nelle acque finiscono le feci umane. In zone disabitate la trasmissione non può esistere. E chi ha più contatti con il fiume? Basta arrivare in un villaggio per capirlo.

La nostra piroga quel pomeriggio è arrivata a Sdau, un villaggio di un migliaio di abitanti, lungo il Sekong. È quasi il tramonto: i colori del fiume e del cielo sono stupendi. Spento il motore dell’imbarcazione per arrivare dolcemente sulla riva, piombiamo in un piacevole silenzio, nel quale è facile sentire le grida dei bambini che giocano poco lontano, tutti immersi nell’acqua del fiume… vicino le rocce dalle quali si tuffano. Ecco il primo bersaglio della malattia: i bambini.
Il loro contatto con l’acqua del fiume è importante. È forse l’unico gioco disponibile e offre un piacevole ristoro nell’afa soffocante. E poi correre nei campi non è, forse, così raccomandabile… in un paese con una delle più alte concentrazioni al mondo di mine antiuomo! Poco più vicine alla riva le sorelle più grandi, sedute sulle rocce semiaffioranti, a lavare i poveri panni o intente a sciacquare gli umili utensili domestici: un cesto di bambù, un mestolo, o qualche ciotola. E sulla riva qualche bambino più piccolo, che fa la cacca nel fiume. Una scena normale lungo un fiume tropicale, ma è questo il ritratto della trasmissione della schistosomiasi. Bambini infetti fanno la cacca, dove probabilmente ci sono delle uova di schistosoma. Poco lontano le rocce ospitano la conchiglia che fa diventare infettante la larva, e nella stessa zona altri che nuotano, ed il cerchio si chiude. Incuriositi dal nostro arrivo i bambini escono all’asciutto, mostrando i loro enormi ventri, costellati di tante piccole cicatrici. Ci accompagnano silenziosi lungo il sentirnero che sale al villaggio.
Girando nelle case, palafitte di legno o di bambù per i più poveri, incontriamo altri bambini, quelli che non hanno abbastanza forza per andare a schiamazzare nel fiume. Sono seduti sulla scala che sale al piano rialzato, con lo sguardo più triste degli altri, e la pancia ancora più grossa. Alcuni adulti sanno che quei bambini sono malati di qualcosa che ha a che vedere con il fiume, ma sanno anche che per loro, gli abitanti di Sdau, come per quelli di tantissimi altri villaggi in Cambogia, non ci sono cure. L’ospedale più vicino è a due ore di piroga, e poi bisogna pagare le medicine, e quassù soldi non ce ne sono. Non è facile avvicinare le persone, tutti sembrano diffidenti, ed anche un po’ spaventati. La strategia del terrore fa ancora sentire il suo alito in Cambogia. In questi villaggi è facile morire anche per molto meno: basta una diarrea o una polmonite, quando poi non si accanisca su questa gente una epidemia di febbre emorragica o di malaria. Le donne partoriscono nelle loro capanne senza alcuna assistenza sanitaria ed in precarie condizioni igieniche. Ci dicono che a volte i bambini muoiono vomitando sangue (la rottura delle varici esofagee). Nonostante l’evidenza decidiamo di esaminare alcuni campioni di feci per confermare la presenza della malattia.

Intanto do un’occhiata al resto del villaggio, mentre penso a cosa servirebbe per restituire la salute a queste persone. Sono colpito dalla loro povertà. L’unico bene che custodiscono in casa è una piccola riserva di riso e qualche utensile. Nella «passeggiata» mi accompagna Huong, silenzioso ragazzino con una fionda appesa al collo, un viso pallido e affilato, ed un enorme ventre che lo obbliga a camminare con la schiena curvata indietro, come una donna alla fine della gravidanza. Mi osserva curioso e, dal modo di sorridere, sembra evidente che si aspetta qualcosa da me.
Passiamo la notte nel villaggio, rassicurati dagli abitanti che ci mostrano i loro AK47, con i quali ci difenderebbero dai khmer rossi. Al mattino cominciamo a distribuire il farmaco. Verrebbe voglia di curare anche tutte le polmoniti, congiuntiviti, anemie e quanto altro scorre sotto i nostri occhi. Purtroppo, quando le risorse sono carenti, occorre stabilire delle priorità e la schistosomiasi, per la grave malattia e la mortalità che ne derivano, qui a Sdau rappresenta una priorità. Distribuiamo la dose di praziquantel ad ogni abitante. In queste situazioni costa meno trattare tutti che esaminare tutti e trattare solo le persone infette. È una delle regole in simili programmi di sanità pubblica nei paesi in via di sviluppo.

Huong vuole essere il primo a ricevere la medicina, e rimane vicino a noi ad assistere al trattamento degli altri del villaggio. Si fa anche fotografare orgoglioso il suo ventre enorme. La medicina tradizionale di queste regioni tratta il dolore addominale facendo delle piccole bruciature con dei tizzoni ardenti sulla pelle. Per questo le pance di chi ha la schistosomiasi qui sono piene di cicatrici: sono le bruciature che i bambini crescendo accumulano, ogni volta che si lamentano dei loro dolori. Purtroppo chi è già gravemente malato non beneficia del trattamento: la cirrosi del fegato è una malattia irreversibile.
Trattae i sintomi per allungare la sopravvivenza è possibile, ma tali trattamenti sono completamente fuori della portata di chi vive in villaggi come Sdau. Dopo due giorni lasciamo il villaggio, con almeno un problema in meno, ma allontanandoci lo immaginiamo sprofondare di nuovo nell’isolamento e nella mancanza totale di cure mediche.
In zone come queste la schistosomiasi interessa anche l’80% dei bambini, e il trattamento costa 12 centesimi di dollaro: circa 180 lire. Ma moltiplicare le 180 lire per le decine di migliaia che aspettano di essere trattati fa diventare il costo insostenibile per il paese, e poi la mancanza di infrastrutture ne rende difficile la distribuzione, e negli ospedali non c’è personale formato per controllare la distribuzione del farmaco e l’evoluzione della malattia, e ancora in molte aree l’accesso è difficile a causa dell’insicurezza: khmer rossi, banditi, anche gli infermieri cambogiani hanno paura ad andare in certe zone. Così un problema in apparenza semplice diventa in realtà difficile in paesi (e non sono pochi) come la Cambogia.

Quando, sei mesi dopo, torniamo a Sdau, Huong è già morto, ma in tanti altri l’infezione è scomparsa. L’infermiere che ci assisteva sa ora riconoscere agevolmente i malati attraverso i sintomi. E la gente è un po’ più fiduciosa.
A piccoli passi il programma sta dando i suoi frutti. Dopo tre anni di attività, in molti villaggi le «pance grosse» stanno scomparendo, ma ne restano altri in attesa. Di un po’ di salute e pace. E magari di una piroga di MSF.


LA SCHISTOSOMIASI (BILARZIOSI)

La schistosomiasi, anche conosciuta come bilarziosi, in alcune aree del pianeta è la seconda più diffusa malattia tropicale, dopo la malaria, ed è causa di una malattia potenzialmente grave. È causata dall’infezione di un parassita, le cui diverse specie causano o una schistosomiasi urinaria o una intestinale. La forma intestinale da Schistosoma mekongi rappresenta forse la forma più grave di queste infezioni, ed è diffusa in un tratto del Mekong nel sud del Laos, e in Cambogia, lungo il tratto superiore del Mekong che la attraversa ed in alcuni suoi affluenti. Si stima dell’ordine di decine di migliaia il numero dei soggetti infetti, e l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha riconosciuto in questa malattia una delle priorità in termini di salute pubblica nell’area.
La malattia che ne deriva è causata essenzialmente da una migrazione aberrante delle uova prodotte dal verme adulto nei plessi venosi del grosso intestino. Queste uova causano fibrosi e cirrosi del fegato, e conseguente ipertensione portale. Infezioni ripetute causano un aumento del numero di parassiti, e quindi una maggiore gravità della malattia. Per le loro abitudini i bambini rappresentano il gruppo più colpito. Non sono efficaci misure di controllo mirate, indirizzate contro l’ospite intermedio (una conchiglia che vive nelle fessure delle rocce del fiume), ma è notevolmente efficace un trattamento periodico di tutta la popolazione esposta al rischio di infezione, con una singola dose di praziquantel.
Il farmaco ha scarsissimi effetti collaterali, ed il suo impiego per campagne di trattamenti di massa ha ormai una enorme esperienza. Altre strategie di controllo, abbinate al trattamento di massa, sono l’educazione sanitaria e, quando possibile, migliorare l’igiene ambientale. L’educazione sanitaria mira a ridurre il versamento delle feci umane nei corsi d’acqua e a evitare il contatto delle persone con l’acqua dei tratti rocciosi del fiume. Questo dovrebbe fornire il risultato di diminuire il numero di infezioni successive. La costruzione di latrine rappresenta un importante traguardo, e non solo per la schistosomiasi. Ma il costo rende questo obiettivo irraggiungibile.

Carlo Urbani