I diversi volti della malaria


Seconda classificata del «premio Carlo Urbani» racconta la sua esperienza in un ospedale di Brazzaville (Congo) e quella in Cina

 

Volevo scrivere una tesi di laurea che riguardasse la malaria. Ero già stata in Africa due volte, la prima come turista in Kenya e Tanzania, la seconda come studentessa di medicina in un dispensario «di brousse» della Repubblica Centroafricana. Ed ero sicura che ci sarei tornata. Per questo, tra tutti gli argomenti che il corso di laurea ci propone, io ero particolarmente affascinata dalla patologia tropicale. La prossima volta sarei tornata in Africa come medico, oltre che come amante di quella terra meravigliosa.
Era il 1998. L’Africa era per me una realtà appena sfiorata, un mondo pieno di fascino ancora tutto da scoprire; la malaria, una serie di nozioni apprese su libri e riviste. Ne avevo studiato l’epidemiologia, la patogenesi, le diverse forme cliniche, le terapie. Infine avevo raccolto la documentazione di tutti gli studi clinici di sperimentazione del vaccino SPf66 contro il Plasmodium falciparum, il più diffuso e pericoloso dei quattro plasmodi che causano la malaria; su queste esperienze cliniche avevo fatto uno studio di meta-analisi che era diventato la mia tesi.
A dire la verità non ne ero molto soddisfatta, forse perché era una cosa troppo astratta, troppo lontana dall’Africa che avevo conosciuto, o forse semplicemente perché la conclusione era che i risultati di questa sperimentazione erano molto deludenti. Dopo la laurea, durante un corso di Medicina tropicale in Belgio, ho imparato a riconoscere i plasmodi malarici al microscopio, su strisci di sangue periferico e su «goccia spessa», un metodo di concentrazione largamente utilizzato «sul campo» perché rende più veloce la diagnosi. I vetrini su cui studiavamo provenivano da diversi paesi dell’Africa, Asia e America Latina.
Dopo tanta teoria mi stavo progressivamente avvicinando al paziente, attraverso quei campioni di sangue in cui potevo osservare direttamente la presenza e le conseguenze dell’infezione malarica. Iniziata la scuola di specializzazione in Medicina tropicale in Italia, ho avuto l’occasione di assistere alcuni pazienti affetti da malaria, di ritorno da paesi endemici. Ma quando sono arrivata in Congo la malaria aveva tutta un’altra faccia.
L’occasione di un’esperienza lavorativa in un piccolo ospedale di Pointe Noire, sulla costa del Congo Brazzaville, mi si era presentata alla fine del terzo anno di specializzazione. Sono arrivata a Pointe Noire durante il caldo aprile congolese, alla fine della stagione delle piogge. Pointe Noire è una città petrolifera, eppure le uniche strade asfaltate sono quelle del centro, dove abitano i francesi e gli italiani che lavorano nelle società estrattive; tutte le altre strade della città sono sterrate e, in questa stagione, si trasformano in rivi d’acqua torbida dove giocano i bambini, dove passano e spesso rimangono impantanati i più svariati e sgangherati veicoli che attraversano la città.
È qui che la sera verso le sei e mezza, ora del crepuscolo equatoriale, si comincia a sentire il ronzio delle zanzare. Sono proprio le femmine delle zanzare anopheles i veicoli della malaria. Rapidamente popolano la notte e non è difficile per loro trovare un ospite, poiché la vita in Africa, si svolge prevalentemente all’aperto, anche di notte: le donne cucinano all’aperto, i bambini giocano all’aperto, gli anziani cantano e raccontano antiche storie all’aperto. Solo una piccola percentuale di famiglie possiede una zanzariera e un’ancor minore quota la impregna periodicamente d’insetticida al Cim (Centre d’imprégnation des moustiqueres) situato sull’Avenue du Général De Gaulle, la via principale della città. Così ogni notte il ciclo del parassita si perpetua. E sulle carte geografiche dell’Organizzazione mondiale della sanità, l’Africa si colora di un rosso sempre più scuro. Ricordo benissimo la prima volta che sono entrata nell’ospedale dove avrei lavorato i successivi due mesi; dando una rapida occhiata all’affollata sala d’attesa, ho capito in un attimo che avrei visto e imparato molte più cose di quelle scritte sui libri di medicina.
Uno dopo l’altro i pazienti si susseguivano nella spoglia stanzetta adibita ad ambulatorio, dove un vecchio ventilatore, nei fortunati giorni in cui c’era energia elettrica, muoveva un’aria pesante e umida. La maggior parte dei pazienti si presentava per febbre, diarrea, marcata astenia, cefalea: tutti sintomi che possono essere espressione d’infezione malarica, così come di un’infinità di altre patologie.

In un’area a così alta endemia il quadro clinico della malaria è estremamente aspecifico. Fortunatamente però la diagnosi microscopica è semplice e poco costosa: bastano pochi coloranti e un qualsiasi microscopio ottico. Quando manca la corrente si può usare una torcia a pile oppure, se manca anche quella, uno specchietto che sfrutti la luce solare. Altre indagini non sarebbero effettuabili e d’altronde non sono neanche necessarie. Perché il trofozoita, la forma ematica del plasmodio, si vede facilmente: sta all’interno dei globuli rossi dei quali provoca la lisi, le alterazioni di forma ed elasticità responsabili di tutta la sintomatologia sistemica. Così, data l’estrema diffusione dell’infezione e data la facilità diagnostica, a quasi tutti i pazienti che potevano permetterselo, veniva fatto un prelievo per la ricerca del plasmodio.
La percentuale di positività era impressionante: più del 90%. In tantissimi casi la carica parassitaria era molto elevata; in un campo microscopico era possibile vedere decine di trofozoiti, dando al vetrino l’aspetto che in gergo viene definito «a cielo stellato». E impressionante era il numero di bambini infetti: dai neonati avvolti in parei colorati, addormentati sulla schiena della madre, ai ragazzini più grandi, che venivano ad accompagnare uno sciame di fratelli e sorelle.
Ripensavo ai malati di malaria visti in Italia: turisti, uomini d’affari, missionari, navigatori, coppie di ritorno dal viaggio di nozze… erano figure ormai lontanissime nella mia mente. Adesso per me il volto della malaria era quello di un bambino o meglio di tanti bambini, dagli occhi scuri e sguardo serio e profondo, dai vestiti impolverati e la pelle madida di sudore per il caldo e la febbre. Non sempre erano sofferenti. Alcuni sembravano stare abbastanza bene, ma eseguito l’esame microscopico della goccia spessa, risultavano anch’essi parassitati, magari per la quarta/quinta volta in un anno.
Ricordo Espoir, una bambina di sei anni arrivata in ospedale con i suoi quattro fratelli; abitavano a Tché-Tché, un villaggio nella foresta proprio ai limiti della città. I fratelli avevano la febbre; uno, il più piccolo, non voleva più mangiare. Espoir invece stava bene ed era arrabbiata che l’avessero portata lì con gli altri, perché non voleva saltare la scuola e poi non voleva che le bucassero il dito per fare l’esame del sangue. Ma la loro madre voleva che tutti venissero controllati per il «palù», come chiamano loro la malaria. Delle cinque gocce spesse, quattro risultarono positive e quella di Espoir era quella con la carica più elevata: venticinque trofozoiti per campo microscopico. Il fratello minore, negativo per la malaria, risultò positivo alle indagini eseguite per la febbre tifoide.  
Altri invece arrivavano in condizioni gravi, privi di forze, alcuni in coma. Ricordo uno dei primi giorni di lavoro: ero rimasta sola, perché l’altro medico dell’ospedale era andato a lavorare due settimane sulla piattaforma dell’Agip, in mare al largo della costa di Pointe Noire. Una giovane madre in lacrime mi porta in braccio suo figlio, un bambino sui 10 anni, privo di conoscenza, con 40° di febbre, gravemente ipoteso, con le mucose congiuntivali bianche e vomito incoercibile. Non c’è tempo per alcun esame; bisogna metterlo subito sotto chinino e farmaci sintomatici, sperando che sia un attacco malarico.
Per la prima volta mi sono arrabbiata con gli infermieri, a causa della loro intrinseca flemma africana, che talvolta raggiunge livelli incredibili e che tanto contrasta con la nostra «frenesia bianca». Anche questo non è facile: trovarsi a lavorare con persone di altre culture, soprattutto così diverse, in un continuo confronto e scambio che, per quanto arricchente, in situazioni di stanchezza e di paura come quel giorno, può risultare davvero duro. Comunque alla fine riusciamo a stabilizzare Josh, il nostro piccolo paziente. La goccia spessa risulta positiva per più di 50 trofozoiti per campo; la glicemia non si può rilevare perché è finito il reattivo; l’emoglobina, calcolata con un metodo molto approssimativo, risulta di circa sei grammi/decilitro (in Italia noi trasfondiamo sotto gli otto grammi, qui trasfondono sotto quattro). La sera Josh è sveglio e io tiro un respiro di sollievo.

Per molti altri la malaria si sovrapponeva a uno stato di malnutrizione grave, infezioni gastrointestinali, anemie congenite come la drepanocitosi, sieropositività Hiv, andandone a peggiorare il quadro. Secondo la mia formazione «occidentale» non avrei avuto dubbi: tutti questi bambini avrebbero dovuto essere ricoverati, trattati, monitorati; si sarebbero dovute prevenire e curare le complicanze più pericolose quali anemia severa, ipoglicemia, insufficienza renale. Questo avevo studiato sui libri.
Ma qui la malaria è un’altra cosa. È proporre a un padre il ricovero del figlio e sentire il suo rifiuto per l’impossibilità di pagare. È ordinare una sacca di sangue e non vederla infondere perché costa troppo e poi si rischia l’Hiv e Hcv. È prescrivere un farmaco antimalarico e vedere comprare altri, al mercato, al banco vicino a quello della manioca, conservati a quaranta gradi e forse scaduti. È vedere un’infermiera che tra un tuo e l’altro si mette su, da sola, la sua flebo di chinino e, finita quella, riprende a lavorare: perdere un giorno di lavoro può voler dire perdere il lavoro.
Così l’altro volto della malaria, forse quello più vero, si mostra in tutta la sua durezza. E a me adesso non importa più niente del meccanismo d’azione dei farmaci, degli studi comparativi di efficacia e tollerabilità delle diverse terapie, del vaccino SPf66. Adesso vorrei solo poter pagare il ricovero di Michelle, le sacche di sangue di Josh, i farmaci di Emar, la giornata di lavoro di Augustine. Si perché adesso la malaria non è più un articolo di giornale né un vetrino brulicante di plasmodi, ma è una sala d’aspetto gremita di persone, ognuna con il suo nome e la sua storia, i suoi problemi ed esigenze. Ognuna con un immenso bisogno di essere ascoltata. Ognuna, almeno così credevo, con il diritto di essere curata. Fa parte della nostra cultura, nonostante tutti i suoi limiti: non possiamo accettare che una persona muoia perché non può pagare. Ma qui è così. È come se il costo di una malattia fosse un sintomo e in alcuni casi quel sintomo diventa il fattore prognostico determinante, diventa la complicanza più grave.

Così un giorno dopo l’altro trascorrono in un lampo i miei due mesi in Congo. Ormai è giugno e siamo nel pieno della stagione secca. Mentre preparo le valigie che, non si capisce perché, ma al ritorno non si riescono mai a chiudere, provo a riordinare dentro di me le immagini, le sensazioni, le esperienze di questo periodo. Ma è ancora troppo presto. Ci vorrà un po’ di tempo per assimilare tutto questo, per dare un ordine e un senso a ogni cosa vista e vissuta, probabilmente molto tempo. Per adesso mi rendo solo conto che porterò a casa molto più di due valigie.
Mi viene in mente la dedica che avevo scritto come introduzione alla mia tesi; era la citazione di una poesia di Montale e l’avevo scritta perché mi piaceva, ma senza darle un significato particolare: «… Sotto l’azzurro fitto del cielo qualche uccello di mare se ne va; né sosta mai perché tutte le immagini portano scritto: “più in là”». È come se la capissi soltanto ora.
Tornata in Italia, nel reparto di Malattie infettive dove ho terminato la specializzazione, ho ritrovato i «miei» pazienti, la maggioranza dei quali sono Hiv positivi.
Ora più di prima non posso fare a meno di porre attenzione al prezzo dei farmaci antiretrovirali, ogni volta che ne consegno una scatola. E penso che in Africa questa sarebbe una complicanza mortale. Guardo questi malati e provo a immaginare quale volto avreb­bero gli stessi pazienti laggiù, nel piccolo ospedale di Pointe Noire. Ma questo è un altro capitolo.

di Chiara Montaldo
 

Chiara Montaldo

 



COME STA FATOU? Il segreto di Lucho, il medico


«Solo i miei pazienti non mi hanno mai tradito. Molti non potevano pagarmi e non riuscivano neanche a comprarsi le medicine, ma…».

Lucho arrivò con mezz’ora di ritardo. La bottiglia di rhum Pampero ed il mais tostato erano pronti sulla tavola. La sera stava scendendo umida sulla sabbia di Villa, qualche ragazzo giocava ancora a pallone nel campetto di fronte alla casa che era silenziosa e carica dei vent’anni di ricordi in comune e di tensioni appena nascoste.
Sapere e far finta di non sapere, non essere e far finta di essere, non era facile per noi due e la bottiglia di rhum avrebbe dovuto aiutarci e così fece.
Era arrivato in ritardo, perché i suoi pazienti, che da tempo non vedeva, lo avevano fermato varie volte nel cammino. Raccontava questo con emozione, mentre si toglieva la giacca umida della sera di Villa, si lisciava i capelli oramai lievemente brizzolati e con il pollice e l’indice si sistemava i baffi ispidi sotto il naso prominente; mentre i suoi occhi, mobili e sempre arrossati, con soddisfazione osservavano la casa vuota di gente e la bottiglia ancora chiusa appoggiata sulla tavola.
Da una tasca della giacca estrasse un pacchetto di sigarette Premiere, una scatola di fiammiferi Inti, si sedette e cominciò a vomitare la sua vita.
Per me era sempre Lucho, il migliore, il più lucido tra tutti noi medici di Villa. Per me era sempre Lucho, il rivoluzionario, il gran bevitore, l’instancabile parlatore, il giocatore alle corse di cavalli, sempre alla ricerca di quattro soldi per mandare avanti i suoi figli.

«DOTTORE, DOTTORE…»

Gli occhi lucidi, il fumo delle sigarette ed il rhum e quel vomito di affetti, ricordi e rimpianti che, come diceva lui, erano quello che contava della sua vita.
«Sai di tutto il nostro lavoro sulla tubercolosi? È stato pubblicato da altri senza neanche menzionare i nostri nomi. E sai del mio lavoro sul colera? L’hanno pubblicato a Cuba senza dirmi niente».
«Solo i miei pazienti non mi hanno mai tradito; ne ho trovati tanti venendo a casa tua. Quanti ne ho visitati nei miei anni di lavoro a Villa; quaranta, cinquanta al giorno per 15 anni di seguito e quello che potevano darmi non bastava mai per mantenere i miei figli. Molti non potevano pagarmi e non riuscivano neanche a comprarsi le medicine, ma è stato il periodo più bello della mia vita».
Toraci scheletrici, addomi globosi, gole infiammate, croste di impetigo su pelli nere, su pelli bianche; oxiuri, ascaridi, giardie, vermi di tutti i tipi; pressioni alte e pressioni basse; mormorii, fischi, gorgoglii, suoni anforidi percepiti allo stetoscopio, battiti cardiaci. Le dita che percuotono i toraci e le schiene ricavandone suoni cupi e chiari; strati di gonne per arrivare ad addomi sofferenti; magliette sporche, piedi pieni di sabbia, mani rugose e secche, morbide e umidicce, affusolate, tozze; denti radi, neri o forti e bianchissimi; capelli duri e ispidi, crespi e lisci; tagli di vetri e di lame, morsi di cane, ago ricurvo e fili di tanti spessori, pinze e forbici, vaschette, secchi di garze sporche, la piccola sterilizzatrice a secco, gli abbassalingua e l’otoscopio, bilancia per neonati e per adulti; vasettini di plastica con coperchio per raccogliere lo sputo e cercare quei maledetti bastoncini rossi colorandoli con il metodo Zield Nelseen, il microscopio, la centrifuga.
«Dottore, mio figlio la notte digrigna i denti»; «Sono i parassiti»; «No, non è una vergogna la tubercolosi; sono dei bacilli che si colorano di rosso. Dovrà prendere pastiglie e farsi delle iniezioni e specialmente mangiare e mangiare»; «Cosa ha aspettato, signora, a portarmi suo figlio: è una broncopolmonite»; «Non avevo soldi e non posso comprare le medicine, sono calde o fredde?»; «Sì, sì l’eucalipto va bene, quello canforato dalle foglie argentee, ma deve prendere anche le capsule di amoxicillina, confezioni grandi di fiale di streptomicina, di pastiglie di isoniazide, di capsule di rifampicina e di etambutolo, ampicillina in sciroppo, bactrim, bustine di mebendazolo, pastiglie di piperazina e grossi vasi di vitamine colorate che avevano sempre successo»; «Sta partorendo la figlia del panettiere?»; «Chiamate la matrona. Io verrò se ci sono problemi»; «Fate passare quel bambino che ha la febbre alta»; «Come? C’è una famiglia a rischio? Forse ci sono bambini denutriti? Più tardi andrò a vedere».
«L’atrio dell’ambulatorio è pieno di sabbia e la sera è scesa. Chiudo. Esco sulla sabbia e passo a vedere la figlia del panettiere: ha partorito normalmente, mi offrono un piatto di riso con un pezzo di pollo ed un bicchiere di acqua di mele, raccomando di allattare al seno».
«Poi la famiglia a rischio, brutta la casa, senza finestre, pavimento di sabbia bagnata, reti sfondate con luridi materassi, vestiti e stracci ammucchiati su fili tesi fra le stuoie, pentola nera su di un fornello a cherosene, yuca bollita, televisore acceso, bambini senza scarpe, uno buttato su di una stuoia».

MALEDETTA POVERTÀ

Lucho era un fiume in piena ed io lo ascoltavo senza interromperlo. «Maledetta la povertà, maledetta la povertà che toglie anche la dignità, maledetta la povertà che genera violenza, maledetta la povertà che genera altra povertà e che genera bambini che saranno poveri senza speranza. Maledetto questo lavoro che non riesce a curare la malattia di ciascuno di loro, la povertà. Maledetta l’ignoranza che genera povertà e che da questa si alimenta, maledette queste stuoie che la nascondono e maledetti gli occhi di quelli che non vogliono vederla e di quelli che, avendola vista, se ne dimenticano».
«Scaldo lo stetoscopio fra le mie mani mentre parlo dolcemente al bambino, chiamandolo per nome, ha il mio stesso nome: “Lucho, piccolo Lucho, fammi sentire i tuoi polmoni, apri la boccuccia, uuh che begli occhi hai. Dai, vediamo il tuo pancino: è bello gonfio. Vede, signora, le narici come si muovono? Fa fatica a respirare e la sua pelle è secca, non ha un filo di grasso. Sente queste fossette sulla sua piccola testa? Ha sete. Vede questi capelli così fini e rossicci? È segno che non si sta alimentando bene. Dobbiamo curarlo, perché ha smesso di allattarlo? È denutrito, forse ha i vermi e una brutta bronchite. Lo so che non può portarlo in ospedale, signora, ma perché non me l’ha portato prima in ambulatorio, perché non l’ha pesato. Ah, non l’ha registrato quando è nato? Vai piccolo Lucho, porti il mio nome, da grande farai il medico, o l’ingegnere, vero?”».
«L’ho mandato da te a curarsi, ricordi; e Francisca, la psicologa, ha curato anche sua madre, infilandola sotto la doccia, pettinandole i capelli, mettendole il rossetto, e sai che l’altro giorno ho visto il piccolo Lucho? L’ho trovato a un parcheggio che lavava automobili, ha lavato anche la mia e non ha voluto neanche una mancia; ora avrà 15 anni il piccolo Lucho».
«Ma lo sai che se faccio il medico, la colpa è tutta di mio padre? Avevo una dozzina di anni ed ero riuscito a entrare nella migliore delle scuole di Lima. Mio padre ne era orgoglioso e tutto sembrava già deciso dal destino. Quel giorno invece di andare a scuola, insieme a un gruppetto di compagni di classe decidemmo di andare a giocare a pallone nel parco vicino. Era un piacere passeggiare per Lima in quei giorni di sole tiepido e così facemmo. Non mi accorsi però che mio padre ci aveva incrociato mentre si recava ad insegnare alla scuola di “Canto Grande” dove, diceva, la vita si apprendeva a suon di botte».
«Come spesso accade nella vita, quel fatto banale si è trasformato nel trampolino verso un mondo che non conoscevo e che ora mi riempie totalmente. Mio padre, pur essendo di cultura rigidamente borghese e pur avendo desiderato il mio inserimento nella scuola che frequentavo, al mio ritorno a casa mi disse semplicemente: “Lucho, da domani cambi scuola. Vieni a Canto Grande perché devi imparare a vivere e a rispettare gli impegni che ti prendi”».
«Io capii subito che mi aveva visto col pallone in mano e senza neanche una lacrima accettai di lasciare la scuola dei ricchi per andare in quella di periferia».
«Il mio compagno di banco era figlio di un venditore ambulante, che portava in giro per i mercatini della città la sua mercanzia fatta di suole di scarpe, lacci, lucidi e spazzole. Era il genio della classe e mi batteva specialmente in matematica e scienze. Se io ero grassoccio e non tanto alto, lui era invece mingherlino. Non gli piaceva giocare a pallone ed era estremamente attento ai problemi di ognuno dei suoi compagni. Un giorno cominciò a tossire e dopo un po’ di tempo a sputare sangue. Mio padre si allarmò, lo portammo in ospedale, lo curammo; morì di tubercolosi a quattordici anni. Gli giurai che avrei fatto il medico, perché non era giusto morire così».
«Sono forse un matto o il più stupido dei medici, perché invece di fare i soldi negli Stati Uniti sono rimasto in questo piccolo ambulatorio a curare chi a ogni piccolo balzo all’insù del dollaro mangia un po’ meno?».

LUCHO ED IO

La bottiglia di rhum era a metà, il posacenere stracolmo, e oramai le lacrime ci rigavano le guance ricordando i tempi passati: la nostra giovinezza, i nostri viaggi all’inferno e i nostri ritorni, non ci trovavamo mai d’accordo e ci avevano definiti i due carissimi nemici fedeli e ora non potevamo più esserlo.
Lo accompagnai alla porta, la sua auto scassata era là ad attenderlo. Ci abbracciammo, oramai uomini dai capelli radi e brizzolati e dall’anima più ruvida, ci lasciammo senza dircelo, ma coscienti che ognuno di noi sapeva dell’altro.
Lucho aveva lasciato il suo ambulatorio, i suoi pazienti, le sue medicine e il suo stetoscopio, quel giorno che la polizia l’aveva cercato e che lui non era riuscito a spiegare perché non si era mai laureato.
E io? Avevo lasciato il mio ambulatorio, i miei pazienti, le mie medicine e il mio stetoscopio, quel giorno che avevo perso il coraggio di curare con le mie sole mani e che non ero riuscito a spiegarmi il perché.
Ci vuole coraggio per fare il medico laggiù; ci vuole forza e sensibilità; ci vuole fede e speranza. Ora i miei occhi non vedono più la povertà, le mie mani non sentono più i piccoli addomi tesi, le mie orecchie non riconoscono più i suoni delle cavee della tubercolosi, e quell’ultimo incontro con Lucho, il migliore di noi medici, è stato forse il momento in cui si è chiuso, per noi due, un capitolo della nostra vita. •


Enrico Larghero

DOLORE E SOFFERENZA NELL’INSEGNAMENTO DI GIOVANNI PAOLO II
Edizioni Camilliane 2005, pag. 160, € 14,00

Enrico Larghero è dirigente medico presso la Sezione di Anestesia, Rianimazione e Terapia del dolore dell’Azienda sanitaria ospedaliera «San Giovanni Battista» di Torino. Nel 2001 ha conseguito la laurea in teologia presso la Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale, sezione di Torino, e nel 2003 la licenza in Teologia morale con indirizzo sociale e bioetica presso la stessa facoltà.
Nella prima parte l’autore mette a confronto orizzonti diversi della realtà del dolore: l’orizzonte della medicina, l’orizzonte della filosofia antica e modea e l’orizzonte cristiano (nelle scritture, nella riflessione teologica, dai padri della chiesa a oggi).
La seconda parte tratta del mistero del dolore nella vita e nel magistero di Giovanni Paolo ii, sottolineando la dimensione sociale della sofferenza.
«Karol Wojtyla ha posto al centro del suo papato principalmente l’uomo e la sua dignità. Da qui la solenne promessa che “laddove l’uomo nasce, soffre e muore, la chiesa sarà sempre presente a significare che, nel momento in cui egli fa l’esperienza della sofferenza Qualcuno lo chiama per accogliere e dare un senso alla sua fragile esistenza”… Il vangelo di Cristo, riproposto dai documenti papali, ha la capacità di trasformare il mondo, spesso troppo arido e secolarizzato, in un luogo di amore e di speranza».

Guido Sattin




COME STA FATOU? Manuel Antonio ce la farà


Prima di partire per una nuova destinazione, un medico dell’Organizzazione mondiale della sanità fa il bilancio della propria esperienza in un paese uscito distrutto da una lunga guerra civile. Tanti problemi, tanta sofferenza, ma anche esperienze umane indimenticabili.

Manuel Antonio mi guarda con un sorriso aperto. Anche sua madre sorride. Il medico le ha appena detto che questa volta suo figlio è salvo. Sì, Manuel Antonio ce la farà. Era stato colpito dalla malaria 5 giorni fa. La malaria si era subito complicata perché il bambino era molto denutrito.
Il villaggio di Manuel Antonio è alla periferia del mondo, in una Angola martoriata dalla guerra per tanti anni e dove la maggior parte della popolazione vive nella povertá estrema. Non c’erano farmaci antimalarici, né un medico o un infermiere per aiutare Manuel Antonio.

MAMMA ANGELINA
Come tante altre mamme angolane, Angelina ha dovuto percorrere piú di 200 chilometri, in parte a piedi, in parte con veicoli di fortuna, o militari, prima di arrivare all’ospedale provinciale. È durata tre giorni la corsa disperata contro il tempo per portare Manuel Antonio all’ospedale di Kuito, la capitale della provincia di Bié: è una zona che è stata a presa in mezzo da una guerra che ha distrutto un paese e la sua gente per più di 30 anni. Duecento chilometri di polvere, fame, fatica e paura, per strade, sentirneri e campi seminati di mine antiuomo.
Nel paese oggi c’è la pace, dopo che, nell’aprile 2002, l’esercito nazionale ha firmato l’armistizio con le forze dell’Unita. Angelina ha perso gli altri figli nella guerra. Dopo gli accordi di pace, si è ricongiunta con suo marito da cui era rimasta separata per 5 lunghi anni. Lo aveva dato per morto o per disperso in guerra. Angelina, come altri 4 milioni di persone, è tornata al suo villaggio, con la speranza di rivedere i suoi cari e rifarsi una vita.
La lunga guerra non ha piegato gli angolani. Sono fieri della loro terra e ora sperano che la pace durerà per sempre. È incredibile come sia stato possibile che, in così breve tempo, tanta gente sia ritornata a casa. È incredibile che, dopo 30 anni di guerra tutti adesso sembrano essersi già dimenticati che il loro vicino di casa era il nemico da abbattere.

I POSTUMI DELLA GUERRA
In una Angola traboccante di petrolio, diamanti ed altre ricchezze minerarie, con una potenzialità enorme anche per le risorse turistiche ed agricole, è incredibile che la povertà estrema riguardi il 69 per cento della popolazione.
È incredibile ma è vero che, seppur la guerra sia finita da piú di due anni, ancor oggi la gran parte della popolazione si ritrovi a lottare disperatamente per la sopravvivenza, per poter mettere i figli in una scuola e per riuscire a trovare un infermiere per curarsi. Sono i postumi della guerra la nuova condanna da cui ora ci si deve liberare. Sono i suoi effetti devastanti, fisici e culturali. I signori della guerra, interni ed estei al paese, hanno mantenuto acceso il conflitto a lungo per potersi arricchire; ma ora la popolazione vuole costruire un futuro di pace, fatto di scuole elementari, centri sanitari periferici, amministrazioni municipali funzionanti.
Solo pochi dei 163 municipi del paese possono già permettersi il lusso di una organizzazione e di un finanziamento pubblico che consenta gettare le basi di uno sviluppo produttivo, di una ricostruzione del tessuto sociale della comunitá, e l’accesso all’istruzione primaria e alla sanità di base.
Guardo Manuel Antonio e vedo in lui un milione di bambini che in Angola sono colpiti ogni anno dalla malaria, una malattia ormai scomparsa dal mio paese che qui invece uccide ogni anno almeno 30.000 bambini sotto i cinque anni e piú di mille donne gravide. Quando penso a questi bambini che muoiono ogni anno, non voglio vederli come cifre, statistiche da manuali asettici. Voglio vedee i volti, per capire che dietro questi numeri in realtá ci sono persone, bambini come i miei figli, donne come mia moglie.
Guardo Angelina ed il suo Manuel Antonio. E mi chiedo come sia possible che tante Angeline e tanti Manuel Antonio vivano la tragedia della malaria nell’era della tecnologia. Cosa sta succedendo in questa strano mondo perché, nella sola Angola, ogni anno altri 40.000 muoiano di malattie contagiose ma facilmente prevenibili, come la denutrizione, la diarrea, le malattie respiratorie, il morbillo e la malattia del sonno.
Per questo, appena arrivato in Angola, mi sono sentito preso dal lavoro, nell’impossibile pretesa di fare qualcosa di sostanziale per cambiare le cose, per rendere l’organizzazione dei servizi piú funzionale, piú efficiente e migliorare la qualitá dell’accesso alla sanitá di base.
Ora, con l’avvento della pace, c’è bisogno di lavorare ancor piú sodo e senza sosta con il governo per ricostruire il paese in fretta, per evitare tante morti e tanta sofferenza. C’è bisogno di lavorare con le Ong e le altre agenzie delle Nazioni Unite. Di coinvolgere maggiormente le ambasciate, le compagnie private e sostenere la crescita della società civile angolana, ancora così debole e dare una voce a chi non ce l’ha mai avuta.
In quattro anni, dal 2000, l’ufficio dell’Oms in Angola è cresciuto da 17 a piú di 100 dipendenti, di cui tre quarti medici gestori e tecnici sanitari e sono stati aperti dai due iniziali, altri 18 uffici a livello provinciale per aiutare le autoritá sanitarie.
Le attivita hanno dato priorità all’analisi sistemica della realtá socio-sanitaria e identificazione delle prioritá sanitarie; essere in grado di riconoscere le malattie, notificarle e combatterle d’accordo alle risorse disponibili, preparazione di schemi di diagnosi e cura per evitare le morti matee e infantili; integrazione dei programmi e implementazione di una strategia che consenta, attraverso la presenza a livello periferico di stock di farmaci essenziali e di professionisti della sanitá, di garantire un pacchetto ‘minimo di servizi’ a tutta la popolazione, dalla vaccinazione contro la polio, il morbillo ed il tetano, alla lotta alle malattie sessuali e al’Aids.
Mentre ho ancora nel cervello l’immagine di Manuel Antonio che mi sorride, penso alle molteplici inizitive che abbiamo instancabilmente prodotto in questo paese. Penso ai generatori consegnati, ai tre Tir e ai due camion di zanzariere con insetticida, materiali di laboratorio e farmaci antimalarici che abbiamo distribuito in sei province con alta mortalitá infantile e matea per malaria in questi ultimi mesi grazie al finanziamento dell’Unione europea. Penso al sistema di sorveglianza delle malattie a trasmissione sessuale, tra cui l’Aids, che è stato possibile costruire grazie a finanziamenti italiani.
Penso ai colleghi dell’Oms, medici e tecnici, che lavorano senza risparmiare energie nelle 18 province del paese ed al loro impegno costante per aiutare i direttori sanitari provinciali a capire le prioritá di gestione, a elaborare piani d’azione, a eseguire e valutare le attivitá.
Quando al mattino corro nella ‘marginal’ di Luanda, penso a come potrei migliorare le nostre azioni sul territorio e creare migliori opportunitá di politica sanitaria per i piú vulnerabili con le poche risorse a disposizione. Quando dormo, penso a come meglio appoggiare le attivitá dei nostri colleghi del ministero della sanità angolano. A come pappoggiare il vice-ministro, generoso e convinto della sanità di base, ad accelerare le strategie integrate per aumentare l’accesso ai servizi sanitari, attraverso la sua influenza. Spero che possa continuare in questa lotta quotidiana e generosa a favore della sua gente troppo martoriata dalla miseria e dalle malattie. Penso a come potremmo accelerare gli sforzi, aggirare le lentezze, gestire le difficoltá di comprensione e le paure nell’esecuzone delle strategie.
Penso a Manuel Antonio, sei mesi, diagnosi di malaria grave che questa volta è riuscito a scamparla. Ma ci riuscirà anche nelle altre due volte che prenderà la malaria? Già, perché ogni bambino in Angola, si prende la malaria in media tre volte all’anno…
Angelina mi guarda e sorride. Si sente meglio oggi. Ha lottato per il suo bambino, con disperazione e dignità. E ce l’ha fatta. Manuel Antonio è sfuggito al destino impietoso che ogni anno non risparmia migliaia di bambini come lui. La sua mamma che ci ha creduto, i medici e gli infermieri che l’hanno curato, chi l’ha accompagnata nella lunga strada che separava il suo villaggio dall’ospedale, i colleghi del ministero della sanità angolano, il mio amico e compadre vice- ministro ed io, questa volta ce l’abbiamo fatta. Tutti i nostri sforzi ne valevano la pena: Manuel Antonio è salvo.
Guardandomi allo specchio, credo di essere invecchiato 8 anni in questi 4 anni, ma credo di poter dire che ce l’ho messa tutta. Ora mi aspetta un nuovo paese e una nuova avventura umana.

Pier Paolo Balladelli




Il corridoio dell’Aids (e quello della speranza)


Beira (Mozambico)

Un paese che tenta di uscire dai guasti della guerra civile,
una giovane università che personifica la speranza.

Beira è molto diversa da come mi era stata descritta dai miei colleghi universitari. Quale radicale cambiamento è sopraggiunto negli ultimi anni?, mi sono chiesto appena giunto nella seconda città del Mozambico.
Sono stato subito colpito dalla multiculturalità del luogo. Sapevo già che, prima dell’avvento dei portoghesi, alla fine del quindicesimo secolo, si era avuto un flusso immigratorio di commercianti arabi. Non avrei però immaginato che esistesse una comunità che fosse riuscita a segregarsi (o ad essere segregata) così bene, tanto da conservare, immodificati, i caratteri somatici, gli abiti e la lingua. Quanto all’uso del velo per le donne, a coprire tutto il volto meno gli occhi, non me lo sarei aspettato.
Anche gli indiani sono numerosi e si distinguono bene per la caagione olivastra, le rotonde geometrie del volto, i capelli lisci, l’agilità nel passare all’uso della lingua inglese dalla «esse» sibilata, nonché per il continuo argomentare tra loro su qualità di prodotti, prezzi e convenienze, in stretta simbiosi con il luogo fisico dove commerciano.
Beira conta tra i suoi abitanti diversi cinesi, impiegati in opere infrastrutturali mastodontiche nel controllo delle acque e nello sviluppo delle vie di comunicazione, che sono sempre state le prerogative della loro cooperazione, in quanto esperienza storica maturata nel problematico dominio dei bacini dei fiumi Giallo ed Azzurro.
La multietnicità e multi-culturalità è completata da una variegata comunità di occidentali. Vi si comprendono russi e cubani, retaggio dello sforzo di sostenere la Frelimo durante la guerra civile. Vi sono statunitensi e britannici impegnati nelle ricerche petrolifere ed in alcuni servizi. Vi sono tedeschi, austriaci ed olandesi impegnati nei servizi ad alto valore aggiunto.
Vi sono gli italiani, i quali hanno fortemente contribuito al processo di pace tra Frelimo e Renamo e stanno accompagnando la ripresa del paese. E, naturalmente, vi sono i portoghesi.
Beira è una città troppo estesa per il suo mezzo milione scarso di abitanti. La bassa densità è evidente anche in centro. Qualche condominio a 10 piani non offre lo stesso paesaggio di un centro a grattacieli, come per esempio si osserva nella capitale zambiana Lusaka, che è poco più popolata di Beira. Il traffico automobilistico nelle ampie strade è scarso ed anche le attività commerciali del centro sono poco animate. Lo stesso traffico di navi al porto non è degno della fama del «corridoio di Beira».
Prende questo nome quella via di comunicazione che lega Beira con Mutare ed Harare in Zimbabwe, facendo tappa a Chimoio.
Avendo avuto la Renamo la sua base militare lungo questo corridoio, in quello che oggi è il parco della Gorongosa, ed avendo avuto la sua base di reclutamento nel centro-nord del Mozambico, lo Zimbabwe ha visto per lungo tempo insidiato il cammino verso il mare per i suoi scambi d’oltreoceano. La guerra civile poteva chiudere il corridoio ed interrompere il flusso dei prodotti. Per questo, all’epoca, la presenza militare zimbabwiana fu sempre molto forte, spingendosi fino alla periferia della città. Molte delle mine che ancor’oggi insidiano le gambe dei mozambicani nelle province di Sofala, Chimoio e Tete, sono state piazzate da loro.
Il «corridoio» ha purtroppo contribuito a veicolare anche un flusso supplementare: il virus Hiv, agente eziologico dell’Aids. A tutt’oggi, sembra che la più alta percentuale di sieropositività dell’Africa australe sia in Botswana ed in Zimbabwe, che si trovano all’altro capo di quel corridoio.
Il contingente militare zimbabwiano, all’epoca della guerra civile, era ben fornito di generi alimentari, verso i quali erano attratte le madri, bisognose di cibo per sé e per i propri figli e con un’unica merce di scambio disponibile: il proprio sesso.
Poiché anche il Sud Africa è un’area ad alta incidenza di sieropositività per Hiv, sarebbe ingiusto affermare che, senza quel canale, il Mozambico non avrebbe avuto l’Aids tra le calamità da fronteggiare. Tuttavia, la città ha avuto una pesante eredità da quell’epoca, soprattutto negli strati più poveri e meno educati della popolazione: oggi Beira, nell’area urbana, conta il 35.7 (+/- 5.4) % di donne gravide infettate.
Beira vide passare grandi quantità di merci per il suo porto, ma oggi, a pace raggiunta, nel momento in cui le opportunità si dovrebbero ampliare, ecco che gli scambi sono più fiacchi. Le ragioni stanno ancora una volta in Zimbabwe. Il declino politico ed economico degli ultimi anni di quel paese ha colpito, di riflesso, anche Beira, che si trova con meno investimenti.
Con i suoi ampi viali, le piazze con le rotonde di svincolo, il discreto stato di pulizia, i quartieri residenziali con edifici a due piani, avrebbe potuto essere un grande contenitore da riempire, ma così non è stato.
Al Club Nautico continuano a chiedere un obolo d’ingresso ai non soci, come ad eccitare la fantasia per un luogo esclusivo pieno di stabili frequentatori (i soci per l’appunto), ma per la cena del sabato sera non c’è bisogno di prenotare. Il Tropicana promette una giornata festiva fatta di buoni cibi, nuoto ed altri sports, ma sulle acque della piscina galleggiano foglie morte ed arbusti. Il Club Palmeiras, anche se ben visibile e architettonicamente concepito per abbracciare il cliente, è chiuso.
La seconda città del Mozambico sta insomma soffrendo una seria impasse sociale ed economica. Tuttavia, allo stesso tempo, è anche il tavolo dove si sta giocando la stabilità degli accordi di pace. Ad un Mozambico lungo quasi 3mila chilometri, con una capitale, Maputo, posta al suo confine meridionale, dove si accentrano scuole ed altri servizi e dove la Frelimo continua a dominare, Beira si pone come la soluzione per le popolazioni del Centro e del Nord del paese. Così anche la seconda firmataria degli accordi di pace, la Renamo, che ha i suoi sostenitori in queste province, può trovare soddisfazione nella pacifica convivenza.
In questo quadro, a Beira è nata e si è sviluppata l’Università cattolica (dossier su MC del febbraio 2003), un’istituzione che sta cercando di collaborare attivamente nel consolidamento della pace in Mozambico, offrendo alle nuove generazioni un’istruzione qualificata a costi accessibili, un esempio per molti paesi africani.

(*) Il dottor Nando Campanella è il vincitore della prima edizione del «Premio giornalistico dottor Carlo Urbani». Il dottor Campanella è stato premiato con un viaggio a Beira, per visitare la facoltà di medicina dell’Università cattolica del Mozambico, istituto fondato dai missionari della Consolata.
Da gennaio 2005, il dottor Campanella lavora a Kampala, in Uganda, per cornordinare un progetto sanitario internazionale sull’Aids.

Nando Campanella




È partita «salute Africa»

 Secondo le stime del Rapporto Unaids 2004, a fine 2003 l’epidemia Hiv/Aids mostrava queste drammatiche cifre:
• 37,8 milioni di persone affette dal virus, di cui 17 milioni di donne e 2,1 milioni di bambini sotto i 15 anni
• 4,8 milioni di nuovi casi di infezione
• 2,9 milioni di morti nell’anno
• 15,1 milioni di bambini orfani.
L’Africa sub-sahariana, con appena il 10% della popolazione mondiale, presenta la situazione più drammatica:
• 25,1 milioni di persone affette dal virus, di cui 13,1 milioni di donne e 1,9 milioni di bambini
• 3 milioni di nuovi casi di infezione
• 2,2 milioni di morti nell’anno
• 12,1 milioni di bambini orfani.

A fine novembre 2004, è partito – con presentazioni pubbliche a Torino, Milano e Roma – il progetto denominato «Salute Africa. Nella giustizia la lotta all’Aids».
Il Comitato di Salute Africa è stato costituito per volontà di: missionari e missionarie della Consolata, Ospedale Koelliker, Associazione Impegnarsi Serve Onlus, Associazione Amici Missioni Consolata con lo scopo di perseguire programmi finalizzati alla lotta contro l’Aids. Per raggiungere questo scopo, il Comitato si propone di
• sensibilizzare alla prevenzione con il coinvolgimento delle comunità locali
• prevenire e ridurre la trasmissione materno-infantile
• ridurre l’impatto socio-economico dell’Aids nelle comunità di riferimento
• assistere i malati terminali con gesti di consolazione, come accoglienza, cura palliativa e sepoltura.

Salute Africa si propone di operare nei seguenti paesi: Congo Rd, Costa d’Avorio, Etiopia, Kenya, Mozambico, Somalia, Sud Africa, Tanzania, Uganda.
Nei prossimi mesi, anche attraverso questa rivista, si darà informazione su tutte le iniziative del progetto.

SALUTE AFRICA E’…

Sede ufficiale:
• c/o Istituto Missioni Consolata – Corso Ferrucci, 14
10138 Torino
Presidente:
padre Giordano Rigamonti
Segreteria: dott.ssa Elisa Franzò (tel. 011.4400610)

Le E-mail:
• sede di Torino: saluteafrica.torino@consolata.net
• sede di Milano: saluteafrica.milano@consolata.net
• sede di Lecco: saluteafrica.bevera@consolata.net
• sede di Roma: saluteafrica.roma@consolata.net

La redazione



Lavorare da morire


Il rapporto dell’Organizzazione mondiale del lavoro (Oil)

Lavorare da morire

Per molti avere un lavoro è un miraggio. Per altri può divenire una fonte di pericolo: le cifre degli incidenti e delle malattie professionali sono impressionanti. Se poi la collettività non si fa carico (come suggeriscono i teorici del libero mercato) dei danni patiti, allora per il lavoratore e la sua famiglia la vita può diventare un autentico calvario.

Tre anni fa, Nolberto, il mio amico peruviano, ha avuto un incidente d’auto mentre lavorava. A Villa El Salvador, in Perù, una sera come tante, la sua vita è precipitata. Un pullman, guidato da un ubriaco, ha superato un’auto e, nonostante il tentativo di buttarsi fuori strada, l’ha preso in pieno.
L’auto sulla quale Nolberto viaggiava è andata distrutta: lui e due altri passeggeri sono stati portati in ospedale.
Dopo le prime cure, i medici hanno fatto la lista della spesa e l’hanno passata ai parenti. C’è bisogno di tante sacche di sangue, di tanti donatori, di chiodi per sistemare il femore, fili e aghi da sutura, medicine, esami di laboratorio, radiografie, il vitto, la riabilitazione e così via.
Per fortuna, Nolberto non è uno che si perde d’animo. Ha chiamato a raccolta gli amici; gli amici hanno chiamato altri amici e così si è formata la fila per donare il sangue, hanno raccolto i primi soldi per le cose più urgenti. Lui ha dovuto vendere lo scassato pullmino, che era non solo il suo orgoglio, ma anche e soprattutto lo strumento del suo lavoro, quello che gli permetteva di mantenere la moglie e i tre figli.
Nolberto è sopravvissuto. Gli hanno impiantato un chiodo dopo averlo messo in trazione, ma non aveva i soldi per l’operazione definitiva e la riabilitazione l’ha fatta da solo. Per questo è rimasto zoppo; comunque sia, dopo 6 mesi ne è uscito.
No, non era disperato. Mi ha semplicemente spiegato che, per sopravvivere in quei 6 mesi, si era «mangiato» tutto quello che per anni aveva investito nel pullmino, ma che per fortuna aveva salvato la casa. E poi ha ricominciato. Ha ricominciato da zero. Ha affittato un’auto ed ha iniziato a fare il taxista. Io ho la sua stessa età e non so se sarei in grado di ricominciare da zero.
Mi ha detto che è stato fortunato. Che lui aveva già informato i suoi figli che non avrebbe lasciato loro niente, perché la sua casa è una baracca e il suo lavoro è appeso a un filo che ogni tanto si può spezzare. Ha spiegato loro che la cosa importante era lo studio: questa era l’unica cosa che poteva lasciare loro insieme al suo cognome.

IL RAPPORTO OIL: UN BOLLETTINO DI GUERRA

Nolberto è solo una delle 270 milioni di persone che ogni anno nel mondo subiscono un infortunio sul lavoro e che si sommano ad altri 160 milioni di lavoratori che, sempre in un anno, contraggono una malattia professionale.
Si muore soprattutto di cancro (32% dei decessi, 640 mila morti all’anno), per malattie all’apparato circolatorio (23%), incidenti (19%) e per aver contratto malattie contagiose (17%). L’amianto, da solo, causa ogni anno 100 mila morti. Ogni anno, poi, muoiono 12 mila minori sul lavoro.
È il rapporto dell’Organizzazione mondiale del lavoro (Oil) del 2003, che getta sulle nostre coscienze queste spaventose cifre. Ha avuto la sfortuna di essere pubblicato durante la guerra dell’Iraq ed è passato praticamente sotto silenzio.
Tra i settori più pericolosi spicca l’agricoltura, che occupa più della metà dei lavoratori nel mondo e conta più del 50% di incidenti e morti sul lavoro. La maggior parte delle vittime appartiene ai paesi in via di sviluppo, dove si concentrano le attività del settore primario: l’agricoltura, la pesca, l’estrazione mineraria e la silvicoltura. Ad ogni modo l’Oil rileva che, in generale, in tutto il mondo è carente l’informazione sulle precauzioni da adottare sul lavoro per evitare di contrarre malattie o di rimanere vittime di infortuni.
Secondo l’Oil circa l’80% degli infortuni e delle morti bianche potrebbe essere prevenuto se tutti gli stati membri dell’Organizzazione internazionale del lavoro ricorressero alle migliori e più comuni strategie di prevenzione e sicurezza.
Definire il rapporto Oil un bollettino di guerra è riduttivo perché le vittime del lavoro sono più del doppio di quelle provocate dai conflitti, superano di molte lunghezze quelle causate dall’alcornol e dalla droga. Dei 250 milioni d’infortuni che si verificano ogni anno molti hanno conseguenze permanenti, menomazioni della salute, handicap, perdita del lavoro, povertà.
Alcune cifre: nel mondo, un morto ogni 15 secondi, 5.470 al giorno, 2 milioni all’anno; in Italia, 1.360 morti in un anno.
Il costo degli infortuni sul lavoro e delle malattie professionali è pari al 4% del prodotto interno lordo del pianeta, supera di venti volte il totale degli aiuti ai paesi sottosviluppati. «Tutti gli incidenti sono prevedibili e prevenibili», afferma il rapporto dell’Oil che indica l’agricoltura, l’edilizia e le miniere come i settori più mortiferi, sia nei paesi avanzati che in quelli emergenti.
La media dei morti per infortuni sul lavoro è di 14 decessi per 100 mila lavoratori. Nei paesi ricchi (Nord America, Europa occidentale, Au-stralia, Giappone), il rapporto scende a 5,3; è 11 nei paesi ex socialisti, Cina e India; 13 in America Latina. Il tasso sale a 21 morti per 100 mila lavoratori in Africa subsahariana, 22,5 nel Medio Oriente e tocca il massimo – 23,1 – in Asia, dove, escludendo Cina, Giappone e India, nel ’98 si sono verificati 80.600 incidenti mortali.
Oltre a ciò, vanno aggiunte le vittime della violenza sul lavoro. Secondo stime della Confederazione internazionale dei sindacati (Icftu), nel 2001 sono stati uccisi o fatti scomparire 209 sindacalisti (+50% sul 2000), 8.500 sono stati arrestati, 3 mila sono stati feriti. Circa 20 mila lavoratori sono stati licenziati per la loro attività sindacale.
Il direttore dell’Infocus programme dell’Oil, Jukka Takala, dichiara: «Si riscontra un forte calo dei feriti gravi nei paesi industriali. Questo miglioramento è imputabile sia ai cambiamenti strutturali (diminuzione del numero di lavoratori impegnati nelle attività pericolose del settore agricolo, industriale, minerario e della costruzione) che alle misure concrete d’igiene e sicurezza sul lavoro».
Tanto per cambiare, nei paesi in via di sviluppo (Pvs) la tendenza è ancora meno favorevole. La migrazione delle popolazioni verso le città, l’apparizione di nuove industrie, il ricorso a lavoratori inesperti nel settore industriale imposto dalla globalizzazione, il crescente fabbisogno di nuovi alloggi, l’intensificarsi del traffico stradale, la meccanizzazione dell’agricoltura sono altrettante cause dell’aumento del tasso di malattie e incidenti nei Pvs. Solo nell’Africa subsahariana, si stimano ogni anno 125 mila decessi riconducibili all’attività lavorativa.
Non dimentichiamo che l’indennizzo per le malattie e incidenti legati al lavoro è praticamente inesistente nella maggior parte dei paesi in via di sviluppo. Soltanto 23 stati hanno ratificato la Convenzione n° 121 sugli indennizzi e riconoscimenti in caso di incidenti sul lavoro o di malattie professionali, adottata nel 1964 e dove sono elencate le malattie che devono essere oggetto di risarcimento.
Bisogna intraprendere, poi, azioni urgenti contro l’Aids. Le ultime valutazioni segnalano 23 milioni di lavoratori che soffrono di questa malattia, con 17,5 milioni in soli 43 paesi africani, tanto da generare una condizione di emergenza che non può essere ignorata.
Per l’Oil, infine, i sindacati non devono mai abbassare la guardia. Imprenditori e lavoratori potrebbero pensare che «capita soltanto agli altri». Non dimentichiamo che per ogni incidente mortale avvengono 1.200 incidenti meno seri, all’origine di una sospensione di lavoro per almeno tre giorni, 5 mila feriti necessitano di una cura e 70 mila incidenti lievi. Per evitare un incidente mortale occorre quindi agire sull’insieme degli altri elementi che sono spesso all’origine di un decesso sul lavoro.
E poi ci sono i bambini, i minori.

ILLEGALE, MA DIFFUSO

Oggi nel mondo un bambino su sei è vittima del lavoro minorile ed è sottoposto a lavori nocivi per la sua salute mentale e fisica o per il suo sviluppo emozionale.
Questi bambini lavorano in vari settori dell’industria in diverse parti del mondo, soprattutto nell’agricoltura dove sono esposti a prodotti chimici e a macchinari pericolosi. Altri bambini lavorano per strada come venditori ambulanti o come fattorini; altri ancora sono lavoratori domestici, operai o sono costretti a prostituirsi. A nessuno di loro vengono offerte reali possibilità di vivere una infanzia normale, di ricevere una vera educazione o di aspirare a delle condizioni di vita migliori.
Dal lavoro di questi bambini dipende la loro sopravvivenza nonché quella delle loro famiglie. Anche se è stato dichiarato illegale, il lavoro minorile persiste tuttora, avvolto spesso da un muro di silenzio, di indifferenza e di apatia.
Inizia tuttavia a sgretolarsi il muro del silenzio. Se l’eliminazione totale del lavoro minorile rimane un obiettivo di lungo periodo per numerosi paesi, alcune forme di esso vanno però fronteggiate senza indugio. Poco meno di 3/4 dei bambini che lavorano operano in attività universalmente riconosciute come forme peggiori di lavoro minorile: traffico di esseri umani, conflitti armati, schiavitù, sfruttamento sessuale, lavori pericolosi. L’abolizione effettiva del lavoro minorile costituisce una delle sfide più urgenti del nostro tempo.

LÀ DOVE TUTTO È UN LUSSO

Quando per un periodo ho lavorato nella zona industriale di Villa El Salvador per impiantare le basi di un programma di medicina del lavoro, i piccoli impresari e artigiani mi dicevano che loro prima di tutto volevano lavorare e che la sicurezza era un lusso.
È proprio così: i maggiori disastri ambientali, le più grandi tragedie del trasporto, i più tremendi incendi nei luoghi pubblici, gli effetti più disastrosi dei fenomeni naturali (terremoti, uragani, inondazioni, ecc.), avvengono nei paesi in via di sviluppo. In quei paesi la prevenzione è un lusso, l’attenzione all’ambiente un altro lusso; è lusso anche avere un lavoro fisso, magari di 12 ore al giorno, senza protezione sociale, senza regole, senza controlli, senza sicurezza.
In quei paesi, al contrario del nostro immaginario collettivo, si lavora tanto, ma proprio tanto: lavorano tanto gli uomini, lavorano tanto le donne, lavorano tanto i bambini. In quei paesi si lavora tanto da morire.

Organizzazione internazionale del lavoro (Oil):
numero di morti per 100.000 lavoratori

America del Nord, Europa Occidentale, Australia, Giappone 5,3
Paesi ex socialisti, Cina e India 11,0
America Latina 13,0
Africa Sub-sahariana 21,0
Medio Oriente 22,5
Asia (escluso India, Cina e Giappone) 23,1Media mondiale 14,0

DATI STATISTICI SUL LAVORO MINORILE

• 246 milioni di bambini sono costretti a lavorare.
• 73 milioni dei quali hanno meno di 10 anni.
• Nessun paese ne è immune: si stimano in 2,5 milioni i bambini che lavorano nei paesi sviluppati e in 2,5 milioni quelli che lavorano nei paesi in transizione, come gli stati dell’ex Unione Sovietica.
• Muoiono ogni anno 12 mila bambini a causa di incidenti sul lavoro.
• La maggior parte (circa 127 milioni) dei bambini di età inferiore ai 14 anni costretti a lavorare, vive nella regione dell’Asia e del Pacifico.
• La proporzione più alta di bambini costretti a lavorare si osserva nell’Africa subsahariana: quasi un terzo (48 milioni) di bambini di età inferiore ai 14 anni.
• Nel mondo, la maggior parte dei bambini che lavorano sono impiegati nel settore informale, dove non sono tutelati da alcuna protezione legale o regolamentare:
• il 70% è attivo nell’agricoltura, caccia e pesca industriali o industria del legno;
• l’8% lavora nelle industrie manifatturiere;
• l’8% è attivo nel commercio all’ingrosso e al dettaglio, ristorazione e settore alberghiero;
• il 7% lavora nei servizi comunitari, sociali e personali, come i lavori domestici;
• 8,4 milioni di bambini sono nella trappola della schiavitù, traffico di esseri umani, asservimento dei figli per ripagare i debiti, prostituzione, pornografia o altre attività illecite;
• tra questi ultimi, sono 1,2 milioni i bambini vittime del traffico di esseri umani.
Guido Sattin



Un laboratorio per la vita


Incontro con la dottoressa Alessandra Carozzi, presidente della Fondazione De Caeri.

«Ci sono uomini che vanno ricordati. Non per nulla, quando mancano, nasce qualcosa di nuovo». Alessandra Carozzi De Caeri ha idee precise quando parla del marito e della Fondazione Ivo De Caeri, nata in sua memoria un anno dopo la scomparsa.
«Mio marito era un parassitologo esperto in malattie tropicali e infettive. Collaborava con l’Organizzazione mondiale della sanità, soprattutto nell’ambito dei piani di controllo delle parassitosi nei bambini in America Latina e in Africa». Per continuae l’opera con lo stesso entusiasmo, nel 1994 la famiglia ha fatto nascere la Fondazione in sua memoria, insieme con numerosi colleghi, perché «La parassitologia è una branca medica che porta a creare contatti. Non è una specializzazione da studio privato, bensì una medicina aperta al territorio e ai problemi sociali».
Sono passati 10 anni da allora, ma gli obiettivi non sono cambiati, e la calma e la determinazione nella voce di Alessandra De Caeri, presidente della Fondazione, laureata in medicina e biologia, sono espressione della volontà di proseguire lungo una strada che ha già portato diversi risultati. «La nostra missione è cornoperare e collaborare con i paesi in via di sviluppo seguendo i piani sanitari o le strategie del luogo. Un secondo obiettivo è legato alla formazione a sostegno della ricerca, con pubblicazioni scientifiche, corsi aperti a tutti gli operatori sanitari, italiani e stranieri, premi e borse di studio». Si colloca in quest’ambito, per esempio, l’impegno della Fondazione a mantenere aggiornato il testo di parassitologia generale e umana di Ivo De Caeri, strumento di contatto con i giovani universitari su una materia spesso trascurata. «Un compito della Fondazione è anche quello di cercare di far conoscere e capire l’importanza e la gravità di queste malattie nel mondo. Sono causa di milioni di morti ogni anno e questo le rende pari a un’altra guerra dimenticata, perché non ci si dedica tempo né soldi», afferma decisa Alessandra De Caeri.
I due filoni seguiti dalla Fondazione, didattico-formativo e pratico, trovano un punto di collegamento nell’adesione al «Premio giornalistico dottor Carlo Urbani», bandito da Missioni Consolata: ai vincitori verrà offerta la possibilità di uno stage di un mese nel Laboratorio di sanità pubblica «Ivo De Caeri» dell’isola di Pemba (Zanzibar), costruito dalla Fondazione. Ricorda il suo presidente: «Carlo Urbani aveva conosciuto mio marito a un corso organizzato dall’Istituto superiore di sanità in cui Ivo era docente. Carlo gli aveva chiesto qualche indirizzo per dedicarsi ancor di più alla parassitologia presso l’Organizzazione mondiale della sanità. In seguito ha fatto parte della Fondazione per due anni».

Pemba è un’isola che, con Zanzibar e altre minori, appartiene al governo autonomo di Zanzibar, che fa parte della repubblica unita di Tanzania.
Toa indietro con la memoria Alessandra De Caeri. «L’idea del laboratorio era già partita con mio marito, che sull’isola era stato diverse volte per corsi di formazione e come inviato dal ministero degli affari esteri per una revisione delle condizioni sanitarie. C’era la possibilità di avviare un centro unico che cornordinasse i piani sanitari e che facesse parte del sistema sanitario locale». Pemba era sia una zona colpita dalle malattie parassitarie sia un luogo dove c’erano già buoni contatti con le strutture locali, base fondamentale per far partire una collaborazione valida a lungo termine. «La costruzione del centro è terminata nel 1999 e nel 2000 sono iniziate le attività. È un’entità autonoma ha come branche principali la microbiologia, la parassitologia e la virologia. Ci sono poi gli uffici amministrativi e la sezione per la didattica. Entro quest’anno poi dovrebbe essere completato un ampliamento che prevede una piccola mensa, una sezione per la raccolta e l’analisi dei dati e un magazzino per i farmaci».
Il laboratorio svolge un ruolo di controllo di alcune malattie sul territorio: distribuzione dei farmaci e sorveglianza della loro attività e della comparsa di resistenze. Una seconda attività riguarda la formazione del personale, non solo della struttura e di Zanzibar, ma esteso anche a realtà a Sud del Sahara. Un ulteriore ambito d’azione comprende la ricerca scientifica rivolta alla malnutrizione (soprattutto infantile), all’Aids e alle malattie infettive in generale.

Valeria Confalonieri



ITALIA – Omar la piccola sentinella padana

 Un bimbo di 10 mesi morto di polmonite. È una storia del «Quarto mondo», quel mondo dell’esclusione
nato accanto alle nostre case.

Seguendo le acque del Po, che dalle sue sorgenti man mano scende formando la pianura Padana, laggiù sul versante sinistro e fino alle Alpi si estende il Nord-est. Chi lo conosce, sa bene che l’Adige, il Brenta, il Sile e il Piave, il Livenza e poi il Lemene fino ad arrivare al Tagliamento, attraversano queste terre fertili, dove crescono la barbabietola da zucchero, il mais, la soia ed oggi enormi vigneti, un numero infinito di case e casette, innumerevoli paesi e paesini, distese di capannoni industriali e insediamenti turistici. Una regione percorsa da strade (mai all’altezza del traffico che sopportano) e solcata da un’autostrada che collega l’Est europeo con l’Italia, la Francia e la Spagna e che ogni giorno si intasa di auto e camion.
Terra di piccola industria e grande turismo, di emigrazione e immigrazione, di povertà trasformata in ricchezza, di ricchezza ostentata e nascosta, di cultura e provincialismo, di dialetti ed eventi inteazionali, di solidarietà e abbandono, di generosità, ma anche di razzismo.

Terra di antica fame e di altrettanto antica malaria, pellagra e tubercolosi, di antico latifondismo, di cultura contadina, terra di vita e di morte come ogni terra. Terra di città senza piazze, ma costellata di villette, di paesi antichi circondati da periferie unite da strade provinciali, di ville storiche e nobiliari nascoste da obsoleti petrolchimici o trasformate in hotel, ristoranti e centri congressi. Terra di mia madre e mio padre, oggi terra anche mia.

UNA MORTE EVITABILE

Al nord-est del Nord-est, fra il Piave ed il Livenza, a pochi chilometri dalle spiagge di Jesolo, Caorle e Bibione, frequentate da austriaci, tedeschi, ungheresi e polacchi, a pochi passi dall’autostrada e dai capannoni industriali che sorgono uno dopo l’altro lungo la statale triestina, è vissuto poco ed è seppellito Omar, la «piccola sentinella padana».

Nei primi giorni di agosto, quando il caldo imperversava su tutta Europa e mieteva le sue vecchie vittime nelle grandi città, moriva Omar. Avrebbe compiuto 10 mesi di lì a pochi giorni; era figlio di una madre giovane, ma già con esperienza; viveva con i genitori, il fratello, i cugini, gli zii, i nonni, in una grande famiglia immigrata nel nostro paese da tanti anni.
Omar aveva il suo pediatra di base, la sua tessera sanitaria, il sistema che era pronto a proteggerlo ed a farlo crescere sano e robusto come tutti i bambini hanno diritto di fare. Invece, Omar è morto. A nemmeno 10 mesi, è morto di polmonite.

No, non dico niente, non posso dire niente. Lo specialista di pronto soccorso, il rianimatore, il pediatra e gli infermieri che lo hanno soccorso non potevano fare più niente. Era già morto.

Omar è morto, come si muore nel (mio) Perù, come si muore in Africa e in molti paesi dell’Asia. Come si muore nel Terzo mondo. Come un bambino, in Europa, non dovrebbe mai morire (perché mai è accettabile la morte di un bambino in un paese e non in un altro?).
Omar è morto, semplicemente perché non è stato in grado, lui, i suoi genitori, i suoi zii, i suoi nonni di utilizzare il sistema socio-sanitario di cui faceva parte con tutti i diritti. Omar è morto perché il sistema sanitario che hanno costruito i nostri padri con lotte di tanti anni, che finanziamo con il lavoro di noi tutti, che curiamo con tanta professionalità ed abnegazione (anche in mezzo a mille quotidiane polemiche), che difendiamo da volontà di risparmio e di privatizzazione… non si è reso conto di lui e della sua particolare debolezza.

Omar è morto come sono morti le migliaia di anziani in tutta Europa: per l’abbandono e l’indifferenza.
Era una morte evitabile e, come tale, ancor più per un piccolo bambino, è da considerarsi nell’epidemiologia (la scienza che studia cause e diffusione delle malattie nella comunità), come un «evento sentinella» di qualche cosa che non ha funzionato a dovere. Omar è diventato la «piccola sentinella padana».

IL «QUARTO MONDO»

Esiste oramai il «Quarto mondo», ovvero il mondo dell’esclusione all’interno del Primo mondo. In altri termini, il Terzo mondo che si è spostato nel Primo, con le persone che vi vivono come fossero nel Terzo, ma senza quella solidarietà che, spontaneamente, sorge tra pari e che, viceversa, sparisce quando tra pari non si è più.

È il mondo che non vediamo o che non vogliamo vedere, quello non più clandestino, ma ancora non integrato, che ha paura di chiedere aiuto e di utilizzare i meccanismi socio-sanitari che per noi sono un diritto scontato e preteso.

Non è un problema economico (la sanità è pressoché gratuita per bambini ed anziani), non è un problema di razzismo (i diritti sono pari a quelli di noi che siamo vissuti e cresciuti in queste terre), non è un problema di povertà (nella famiglia lavoravano in molti), è piuttosto un problema sociale e culturale.

Sociale perché, pur in mezzo a noi, non vivono con noi ma solo al nostro fianco ed in silenzio, come ombre a volte fastidiose e sfuggenti. Culturale perché hanno un timore per la nostra società, per i nostri servizi che noi usiamo quasi senza neanche accorgerci, per i nostri diritti che non sempre conoscono e per i nostri doveri che abbiamo imparato fin da bambini.

E, in questo Quarto mondo, piombano venendo da paesi lontani o vicini, scossi da guerre e catastrofi, da povertà e sofferenza e vanno ad aggiungersi al Quarto mondo nostrano, fatto di anziani abbandonati, di gente caduta per malattie fisiche e mentali, violenze, droga o alcornol. Un Quarto mondo senza frontiere, che vive al nostro fianco e che non vediamo, appena scalfito dal volontariato, ma irrecuperabile in una società che esclude chi non produce, chi è inutile, chi è di peso o chi è diverso (non per scelta, ma costretto da mille storie diverse).

Forse è per questo che il tasso di mortalità infantile in Italia e in Europa è sceso fino a livelli più bassi che negli Stati Uniti; loro sono «più avanti» di noi ed hanno oramai un Quarto mondo di grandi dimensioni, che convive con la loro opulenza.

È un Quarto mondo dove alcuni nascono, vivono e muoiono; altri vi piombano; altri ancora, più fortunati, riescono ad uscie. Un Quarto mondo che non solo è fatto di vittime, ma che è anche generatore di violenza e soprusi. Nasconderlo è inutile, trasformarlo difficile.
Che la «piccola sentinella padana» ci aiuti a riflettere.

Guido Sattin



KENYA – Come fermare la tramissione dell’HIV

In Africa, i disastri dell’Aids non dipendono soltanto dalla mancanza di medicinali (introvabili o troppo cari), ma anche dall’ignoranza e dai comportamenti degli uomini. Intanto, anche qui, i convegni medici si tengono sempre in lussuosi hotel a 5 stelle… Un duro atto d’accusa dal Kenya.

Dal 21 al 26 settembre si è tenuta a Nairobi, in Kenya, la 13.ma «Conferenza internazionale sull’Aids e infezioni trasmesse sessualmente» (Icasa). La conferenza è stata giudicata un «successo» dalle autorità, ma non tutti sono d’accordo.

Commenta un osservatore locale, il dottor I.K.W. «Govei, Organizzazioni non governative ed Onu organizzano conferenze, seminari e fiere quasi quotidianamente, su diverse tematiche, con l’Hiv/Aids sempre in primo piano. La maggioranza di questi convegni sono permeati da grande ipocrisia.
Le conferenze sono invariabilmente tenute in alberghi o ritrovi turistici a “5 stelle”. La spesa di una settimana per un singolo delegato sarebbe sufficiente per comprare i farmaci anti-retrovirali per almeno 100 persone per un anno.

I delegati, alla fine della conferenza, se ne vanno, dopo aver goduto di una eccellente “vacanza” in luoghi esotici, a spese altrui, e presto si dimenticheranno delle decisioni prese. In questa conferenza non sembra che alcun delegato o gruppo abbia ufficialmente visitato le baraccopoli o alcun villaggio rurale dove l’epidemia è rampante».

Quasi tutti gli studi presentati, statistiche ecc., non sono altro che «fotocopie retoriche» di quello che tutti ormai sanno. Le multinazionali farmaceutiche partecipano solo per la pubblicità che ne derivano, e si tengono ben stretti i brevetti con i quali producono i farmaci anti-retrovirali che gli ammalati disperatamente ricercano.

Molti dei professionisti, medici, ecc., finita la «vacanza», non vedono l’ora di ritornare alle loro lucrose pratiche, ossia curare la gente che può pagare lautamente. Gli ammalati delle zone rurali rimangono abbandonati come prima.

Cosa capita effettivamente a livello di «strada»? Scrive sul Washington Post la giornalista Martha Blunt: «Incontrai Stella in un bar di Nairobi. Bellina, dal corpo snello, mi diceva di avere 18 anni, ma sembrava più giovane. Rimasta orfana non riesce a trovare lavoro, tuttavia ha abbastanza da mangiare, un posto per dormire e porta dei vestiti decenti. Mentre beviamo qualcosa, arriva il “benefattore” di Stella, un sessantenne ben vestito con la fede nuziale, e abbastanza corpulento, che cerca di allontanarmi dalla sua “fidanzata”».

I sociologi dicono che si tratta del fenomeno di «sesso attraverso le generazioni» diventato comunissimo nei paesi africani; altri lo chiamano The kiss of death from sugar daddies («Il bacio della morte ricevuto dal “paparino”»); oppure in swahili baba sukari o baba mkate. In cambio di sesso le ragazze ricevono vestiti, la retta scolastica, da mangiare e, presto o tardi, l’infezione dell’Hiv.

La girandola è micidiale: le ragazze passeranno il virus al prossimo «paparino», che lo passerà alla moglie, la quale infetterà il prossimo neonato.
Il fenomeno è semplicemente la manifestazione, in termini modei, dell’atavica pratica della poligamia. Per generazioni, l’uomo africano benestante prendeva la prima moglie da ventenne, la seconda da trentenne, la terza da quarantenne, la quarta da cinquantenne e via di seguito. Ogni moglie doveva essere in età procreativa, ossia dai 13 anni in avanti. Questa usanza, ancora diffusa nelle zone rurali, è praticamente impossibile tra i ceti educati e urbanizzati. Di qui la pratica della «ragazza» sistemata in qualche angolo della metropoli.

Statistiche più o meno attendibili riferiscono che un terzo delle ragazze teen-agers (adolescenti) in Africa Orientale sono Hiv positive. Gli uomini credono che le ragazze giovanissime non comportino rischi e le medesime pensano lo stesso verso l’uomo benestante. A parte le relazioni sessuali «civili» di cui sopra, l’altra causa maggiore d’infezioni tra le minorenni sono gli abusi perpetrati sulle ragazzine nell’ambito familiare. La pratica è largamente diffusa tanto nelle campagne come nei centri urbani. Molte di queste giovanissime, rimaste orfane a causa dell’epidemia Aids, per forza si adattano a vivere con i parenti, in stato di virtuale schiavitù.

Una bambina orfana di 12 anni, intervistata dagli osservatori di Human Rights Watch, cosí rispondeva: «Mio zio, per farmi cedere, mi batteva con un cavo elettrico. Prima di andare ad abitare con gli zii, stavo con altri parenti. Il mio fratellastro mi violentava già quando avevo 9 anni».

MILIONI DI INFETTATI

Già dalle prime battute della conferenza di Nairobi risultava evidente che i farmaci anti-retrovirali, anche se venduti a basso prezzo, non sarebbero sufficienti a fermare l’epidemia. Toccherebbe ai governi acquistarle a prezzo speciale dalle aziende farmaceutiche e distribuirle gratis ai più bisognosi.

Diversi delegati hanno accusato certi paesi ricchi di sovvenzionare le conferenze per motivi politici, senza provvedere le medicine urgentemente indispensabili. La conferenza di Nairobi ha attratto 7.000 partecipanti da 109 paesi, che in 100 sedute hanno prodotto oltre 300 documenti scientifici, utili per gli archivi ma non tanto per gli ammalati. La 14.ma conferenza si terrà ad Abuja, in Nigeria, nel 2005.

Le statistiche aggiornate, per quel che valgono, parlano di 30 milioni d’africani infetti dal virus, sui 42 milioni nel mondo. Nell’Africa nera circa 2.4 milioni di persone sono morte d’Aids nel 2002. In Kenya circa 3 milioni sarebbero infetti, con oltre 500 mila morti fino ad oggi. Tuttavia le statistiche locali vanno prese per quel che valgono. I dati pubblicati sono molto approssimativi. Nelle zone rurali la gente normalmente muore di «malaria»…

Per quanto riguarda il Kenya, la conferenza ha prodotto una serie di direttive di carattere penale e legislativo, ma non ha promesso molto circa la possibilità di fornire i farmaci anti-retrovirali a tutte le persone infette. Evidentemente occorrono grandi capitali, che solo gli aiuti dall’estero possono fornire. Una nota positiva è quella che l’esercito americano, l’anno prossimo, in Kenya, inizierà una campagna di prove cliniche per un vaccino in via di sviluppo negli Usa.

INTANTO, IN SWAZILAND…

Cosa fanno gli altri governi in Africa per tenere sotto controllo la piaga dell’Aids? Per esempio, il Swaziland ha uno dei tassi d’infezione Hiv più alti del mondo.
Nel settembre 2001, il giovane monarca re Mswati III, di 35 anni, educato in Inghilterra, decretava un bando che proibiva le relazioni sessuali a tutte le donne sotto i 23 anni. Tuttavia, il giovane monarca, che aveva già «sposato» 11 ragazze, s’invaghiva della 12.ma poche settimane dopo aver scelto la numero 11: la diciottenne Nomonde Fihlawas, che aveva appena vinto la corona di miss Swaziland 2003.

Evidentemente il re contravveniva al suo decreto, emanato nel settembre 2001. Il Parlamento, in seduta speciale, lo condannava a pagare la «multa» di un bue grasso, senza dover rinunciare alla nuova «moglie».
Per chi si interessa di antropologia minore africana, riassumiamo il «modus operandi» con il quale il re del Swaziland si sceglie le «regine». La fidanzatina n. 11, una 17enne di nome Noliqhwa Ntentensa, verrà «sposata» regolarmente non appena avrà compiuto i 18 anni. Ntentensa è stata scelta dal monarca (l’anno scorso, 2002) dopo aver scrutinato una video cassetta di ragazze semi nude, che ogni anno partecipano alla tradizionale «danza delle canne» in onore della regina madre. Per la reed dance di quest’anno (2003) il re Mswati ha partecipato di persona.

Così ha commentato l’inviato speciale dell’agenzia di stampa Reuters: «Ludzidzini (Swaziland), venerdì 5 settembre 2003. Decine di migliaia di ragazzine hanno danzato, a seni scoperti, davanti al re sperando di attrarre la sua attenzione e diventare la sua prossima “moglie”. Quest’anno alla reed dance hanno partecipato un numero record di 50.000 teenagers. Nella scelta “reale” lo stato di verginità della ragazza è di rigore assoluto».

Questa «cerimonia» tuttavia attrae critiche da tutte le parti. Il piccolo regno africano è immerso nella povertà e devastato dall’epidemia dell’Aids. Una ragazza 17enne intervistata così ha risposto: «Sono stanca di essere povera. Spero che il re si accorga di me». Una grossa polemica era scoppiata dopo la danza del 2001. La madre di una ragazza aveva denunciato la scomparsa di sua figlia dal cortile della scuola, rapita, a quanto si diceva, dalle guardie del palazzo e forzata a vivere nel medesimo come «dama di compagnia». La bufera si era smorzata dopo pochi giorni. Ancora una volta aveva vinto il «palazzo».

Giorgio Ferro




INDIA – Il vaccino di Sabin arriva a domicilio


In India, Pakistan, Afghanistan, Nigeria, Niger, Egitto e Somalia, la malattia è ancora endemica. Ma…

È partita all’inizio dell’anno una delle più grandi campagne di vaccinazione della storia: il nemico è il virus della poliomielite. Quest’anno il vasto territorio indiano, e soprattutto lo stato dell’Uttar Pradesh, epicentro dell’epidemia del 2002, verrà percorso in lungo e in largo da migliaia tra volontari e operatori sanitari che andranno porta a porta a trovare e vaccinare tutti i bambini con meno di cinque anni: ben 165 milioni.
Già nel mese di gennaio e di febbraio oltre 33 milioni di bimbi hanno inghiottito le famose goccine del vaccino orale, il Sabin (vedi box). Un’altra massiccia spedizione è partita ad aprile, per raggiungee altri 98 milioni in 10 stati indiani, un’altra a giugno e altre due sono previste per i mesi di settembre e ottobre. Sei giorni dunque, chiamati National Immunisation Days, giornate nazionali di immunizzazione, nel corso del 2003, in cui i genitori hanno la possibilità di portare i loro figli in luoghi predisposti per sottoporli alla vaccinazione, seguiti nelle settimane successive da visite a casa delle famiglie che non si sono presentate.
Saranno raggiunti villaggi sperduti e affollate periferie urbane, né verranno dimenticati aeroporti, ferrovie e stazioni di pullman. Altrettante giornate sono previste per il 2004, il tutto per interrompere la diffusione del temibile virus responsabile della malattia (vedi box).
Nei primi mesi di quest’anno anche in Iraq, sulla bocca di tutti purtroppo per ben altri motivi, è partita una campagna di vaccinazione contro la poliomielite, che ha coinvolto oltre 14.000 operatori sanitari impegnati nel raggiungere 4 milioni di piccoli iracheni. L’Iraq ha avuto il maggior numero di casi di malattia nel 1999, riportati a zero l’anno successivo grazie agli sforzi dell’Unicef e dell’Oms.

«POLIO FREE»?
Una imponente organizzazione di uomini e di mezzi era l’unica risposta possibile di fronte ai numeri sconcertanti che hanno segnato l’anno passato e messo in allarme tutte le strutture sanitarie di controllo a livello mondiale. L’India infatti, contrariamente al resto del mondo e soprattutto a realtà come l’Europa (dichiarata l’estate scorsa polio free, libera cioè dalla malattia), ha visto impennarsi il numero di casi sul suo territorio, passati da 268 nel 2001 a sei volte tanto nel 2002; ad aprile di quest’anno se ne contavano già 55. Ma pur coprendo oltre l’80 per cento dei nuovi casi di poliomielite nel mondo, ha al suo fianco altri sei paesi dove la malattia non è ancora sotto controllo: con l’India, Pakistan, Afghanistan e Nigeria coprono oltre il 95 per cento dei casi mondiali, ma i restanti si dividono tra Niger, Egitto e Somalia. Non è ancora il momento dunque di cantare vittoria, e l’esperienza indiana ne è la triste prova.
L’Uttar Pradesh, che conta una popolazione di 170 milioni di abitanti, rappresenta la zona cruciale, da cui l’epidemia di poliomielite si è diffusa alle altre parti del paese e a cui è stato attribuito circa il 65 per cento dei nuovi casi di poliomielite del 2002. In questo stato del nord dell’India nascono ogni mese 300.000 bambini, ma solo il 23 per cento veniva regolarmente vaccinato, per il gran numero di parti avvenuti a domicilio e quindi sfuggiti al controllo sanitario.

VACCINAZIONE DI MASSA
La sfida alla poliomielite, per relegarla a malattia del passato come è successo per il vaiolo dopo il 1979, è stata lanciata nel 1988 con la partenza della Global Polio Eradication Iniziative (Gpei). L’iniziativa procede grazie all’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), al Rotary Inteational, all’Unicef e ai Centers for Disease Control statunitensi insieme con i ministri della salute degli stati membri dell’Oms, donazioni governative, fondazioni, Banca mondiale, Unione europea, donazioni private, altre agenzie delle Nazioni Unite e Organizzazioni non governative. L’obiettivo finale, da raggiungere entro il 2005, è la scomparsa della malattia, e quindi la protezione di tutti i bambini dalle conseguenze invalidanti e talora mortali dell’infezione (vedi box). Per meglio capire le dimensioni dell’intervento, basti pensare che nel 2001 circa 10 milioni di volontari hanno aiutato a vaccinare 575 milioni di bambini.
Rispetto alla partenza dell’iniziativa, nel 1988, i paesi dove la poliomielite è endemica sono passati da 125 a 7, come si è detto prima, mentre tre delle sei regioni dell’Oms (America, Europa e Pacifico occidentale) sono state certificate come libere dalla malattia.
È decisamente un buon risultato, ma non basta. Non è pensabile che nel 2002, con la disponibilità ormai da svariati anni di un vaccino efficace che ha permesso la scomparsa della poliomielite nella maggior parte del mondo, circa 1.900 persone siano state infettate, con il possibile corteo di disturbi permanenti: paralisi di gambe o braccia, atrofia di diversi muscoli e così via finanche alla morte. Sono ancora troppi i bambini vaccinati in modo incompleto (cioè con tre dosi o meno, quando ne sono necessarie quattro). La causa più importante di questo aumento di casi indiani registrato lo scorso anno è dunque da imputare a un fallimento delle politiche vaccinali, che non hanno portato a una vaccinazione completa della popolazione a rischio, primi fra tutti i più piccini, che non sono stati protetti in modo adeguato dal virus.
Ma la situazione non è semplice, soprattutto in Uttar Pradesh, e il gruppo di vaccinatori potrà incontrare diversi ostacoli sul suo cammino: non solo la dispersione dei bimbi indiani sul territorio, da cercare fin nei più piccoli villaggi o nelle grandi città, ma anche l’idea presente nelle comunità musulmane che il vaccino possa essere pericoloso per la salute dei loro piccoli, che possa renderli sterili o impotenti. Si era infatti diffuso il timore che il vaccino facesse parte di un piano del governo, di una sorta di programma di controllo delle nascite per limitare la popolazione musulmana in una nazione a maggioranza indù. Questo sembra aver portato ad avere in Uttar Pradesh ben il 60 per cento di nuovi casi di poliomielite proprio fra le comunità musulmane, nonostante rappresentino solo il 17 per cento della popolazione di questo stato indiano. Ma vi sono esempi positivi nel mondo che, pur di fronte a innegabili difficoltà, fanno ben sperare (vedi box).

IL DILEMMA
DEI LABORATORI
La Commissione Globale per la Certificazione dell’eradicazione della poliomielite (Global Commission for the Certification of the Eradication of Poliomyelitis) dichiarerà il mondo «polio free», libero dalla polio, quando non saranno registrati nuovi casi di malattia per almeno tre anni consecutivi in tutte le parti della Terra e quando i laboratori in possesso dell’agente infettivo responsabile della malattia avranno predisposto misure di protezione appropriate.
Allora il virus selvaggio (da tenere ben distinto da quello attenuato utilizzato per la preparazione del vaccino orale tipo Sabin), cioè capace di dare la poliomielite con tutto il suo terribile corteo di disturbi e menomazioni, dovrà essere presente solo in laboratorio. E seguirà, forse, la storia già percorsa e non ancora conclusa, anzi da poco tornata alla ribalta, dal virus del vaiolo, per il quale ci siamo tutti posti diversi interrogativi: siamo di fronte a un microrganismo da eliminare completamente dalla faccia della terra o da conservare almeno in laboratorio per un aspetto culturale, di conservazione di una forma di vita, o magari di sicurezza mondiale nel caso sia necessario nuovamente il vaccino. Non vi è certezza infatti su quali e quanti siano i laboratori che possiedono questi ceppi virali, e quindi in quali mani possano eventualmente cadere.

UN TUFFO NEL PASSATO

Benché già su una stele egizia vi fosse una testimonianza degli effetti dell’infezione poliomielitica, la prima descrizione clinica ufficiale della malattia risale al 1789, ad opera del medico britannico Michael Underwood. Dovranno però passare altri cinquant’anni prima che venga formulata una teoria sulla contagiosità del morbo, e quindi sulla sua trasmissione da una persona all’altra; addirittura un secolo perché negli Stati Uniti venga documentata la prima comparsa significativa di “paralisi infantile”, poi identificata come poliomielite.
Nel 1908 due medici austriaci ipotizzarono l’origine virale dell’infezione, ma bisognerà aspettare Jonas Salk, nel 1955, per avere il primo vaccino, utilizzando il virus della poliomielite ucciso, da somministrare con un’iniezione intramuscolare. Sei anni dopo Albert Sabin propose il vaccino orale in gocce, preparato con virus vivi attenuati, diventato rapidamente quello di scelta per i programmi nazionali di immunizzazione.
Va.Co.
LA VITTORIA È POSSIBILE

Una speranza di fronte a numeri che non vorremmo leggere e a situazioni che ci fanno scuotere la testa con una sensazione di impotenza c’è, e viene dalla Repubblica Democratica del Congo. È infatti lì che tutti coloro che si stanno impegnando nella battaglia contro la poliomielite in India (e negli altri sei Pesi in cui la malattia è ancora presente) possono guardare con fiducia. La Repubblica Democratica del Congo, nonostante il prolungato stato di guerra che si spera concluso con l’accordo di pace firmato il 2 aprile di quest’anno, sta infatti percorrendo la strada verso la dichiarazione di paese libero dall’incubo della poliomielite; l’ultimo caso risale al 29 dicembre del 2000 ed è quindi passato da poco il secondo anno senza malattia.
Questa vittoria è importante perché ottenuta in uno stato che, seppur con difficoltà e povertà diverse dall’India, presenta certo più affinità di un qualsiasi paese occidentale. Non solo. La positiva esperienza percorsa per l’eradicazione della poliomielite viene adesso sfruttata per una nuova campagna di vaccinazione contro il morbillo, tuttora causa di decessi prevenibili col vaccino, sostenuta dall’Unicef e dall’Organizzazione mondiale della sanità, che sembra aver già raggiunto oltre tre milioni di bambini (che si stima rappresentino il 96% di quelli da proteggere).

NESSUNA TERAPIA, SOLO PREVENZIONE

La poliomielite è una malattia molto infettiva causata da un virus che invade il sistema nervoso. Viene trasmessa per via fecale-orale: il virus viene eliminato con le feci della persona infetta e può così infettare altri soggetti, soprattutto in condizioni di scarsa igiene e di sovraffollamento, certamente comuni in India. Può essere trasmessa anche per via respiratoria o dalla mamma al figlio subito dopo la nascita.
Non esistono terapie e gli effetti invalidanti della malattia sono irreversibili; è possibile soltanto prevenirla con la vaccinazione, che stimola il sistema immunitario a produrre anticorpi specifici contro il virus che proteggono dall’infezione.
Il poliovirus attacca in particolare le cellule nervose che controllano il movimento dei muscoli. In un caso ogni 200-250 la malattia porta a una paralisi, più spesso alle gambe, con perdita della possibilità di movimento volontario. Quando vengono colpiti i muscoli che controllano la respirazione, l’infezione può causare la morte o costringere il paziente in un polmone d’acciaio per tutta la vita per poter respirare (condizione certo improbabile nei paesi in via di sviluppo).

Valeria Confalonieri