È nato un bambino. Aiutiamolo a crescere


Quest’anno a Natale vi proponiamo di iniziare a seguire insieme a noi un bambino durante i suoi primi anni di vita. E di aiutarci a farlo nascere e crescere garantendogli sanità e istruzione.

Mi chiamo Emmanuel, sono nato il 25 dicembre del 2009. Abito in una casa sotto un grande albero di mango. Ma se volete venire a trovarmi questo non vi sarà di grande aiuto per farvi arrivare a casa mia: ci sono almeno dieci case, nel mio villaggio, che stanno sotto un grande albero di mango. Dovete chiedere di Emmanuel il figlio di Marie, quella che fa la cuoca nell’asilo dei missionari.

Dice mamma che quando sono nato l’asilo era chiuso per le vacanze e lei era ad aiutare papà nel campo di manioca. Ha sentito che stavo arrivando, allora papà l’ha fatta sedere sul portapacchi della bici e ha pedalato fino al posto dove nascono i bambini. È una casetta di mattoni, più grande della nostra e si chiama dispensario. Dentro ci sono due persone vestite di bianco: una è un infermiere, poi c’è una signora che aiuta le mamme a far nascere i bambini.

Queste cose non le so perché me le ricordo, ero troppo piccolo. Le so perché adesso mamma aspetta la mia sorellina e ogni tanto io e mio fratello piccolo la accompagniamo al dispensario. Dice mamma che deve andarci per fare la visita: vuol dire che quelle persone vestite di bianco le guardano la pancia, ascoltano il suo cuore e il suo respiro. Una volta lei aveva la febbre: le hanno punto un dito con un ago e le hanno preso una goccia di sangue. Le hanno detto che aveva la malaria, poi le hanno dato delle medicine e una zanzariera nuova: la nostra aveva troppi buchi e la mamma si era ammalata per quello.

Per mia sorella che sta per nascere siamo stati al dispensario già tre volte, ma dice mamma che quando aspettava mia sorella maggiore non ci andava mai: il dispensario non c’era ancora e mamma ha fatto tutto da sola. Beh, non proprio da sola: c’era una signora del villaggio che aiutava le mamme. C’è ancora, abita nella casa vicino alla strada grande, adesso è un po’ vecchia ma aiuta ancora i bambini a nascere. Però non tutti, dice mamma, più o meno uno sì e uno no@.

Poi i missionari, quelli dell’asilo dove lavora mamma, hanno aperto il dispensario. Ora molte mamme vanno a fare la visita, ma non sempre. Ad esempio, fra le nostre vicine di casa quattro aspettano un bambino. Una viene sempre con noi alla visita, due sono andate una volta sola. La quarta, invece, non ci va mai@.

Mamma ha provato a convincerla, ma lei niente: dice che suo marito non vuole, che ha bisogno nei campi, e poi lui non si fida di quelle persone vestite di bianco. Secondo me fa male a non fidarsi di loro: sono gentili, spesso ascoltano anche il mio cuore e il mio respiro. Poi mettono mio fratello dentro una specie di scatola di legno e gli avvolgono un braccialetto intorno a un braccio, scrivono dei numeri su un quaderno e a volte danno a mamma un sacchetto con dentro delle cose per lui.

Un giorno ho visto un bambino piccolissimo, con i capelli strani, un po’ gialli. Era con sua sorella più grande, non so dove fosse la sua mamma. Hanno messo pure lui nella scatola di legno, gli hanno avvolto il braccialetto intorno al braccio e lo hanno anche infilato con le gambe penzoloni in una specie di sacco bucato: era per pesarlo, ha detto l’infermiere. A sua sorella hanno dato un sacchetto molto più grande di quello che hanno dato a noi e l’infermiere ha parlato con lei per tanto tempo. Dice mamma che adesso quel bambino devono curarlo bene e che deve mangiare delle cose per non essere più così piccolo e per non avere più i capelli gialli.

Di bambini così all’asilo dove lavora mamma non ce ne sono: secondo me è perché lei è la cuoca più brava di tutte. Le cose che prepara fanno diventare grandi i bambini e non fanno venire i capelli gialli. Lo so, perché all’asilo sono andato anche io e ora ci va mio fratello. Adesso ha lui la mia tazza rossa, quella che usavo per bere, e ha anche il mio piatto verde, dove le maestre mi mettevano la pappetta e le altre cose da mangiare. È giusto così, la pappetta è per i bimbi piccoli, io ormai sono grande e non posso più andare all’asilo. Anche se mi piacevano le cose che facevo lì, specialmente disegnare e cantare insieme agli altri.

All’asilo ho anche imparato a contare, ma non so ancora contare tutto: una volta ho provato a contare quanti passi ci sono per andare alla mia scuola, ma sono molti più di venti! Mia sorella grande andava nella mia stessa scuola che sta in un villaggio più grosso. Lei dice che doveva camminare mezz’ora, ma io non so quanti passi sono mezz’ora.

Alla mattina io cammino fino alla scuola con due bambine e altri due bambini del mio villaggio. È bello perché mentre camminiamo ci facciamo degli scherzi e un po’ ci fermiamo a giocare. Per un po’ di tempo Irene, una delle due bambine, non è più venuta a scuola con noi. Dicono gli altri che la sua mamma è stata male di nuovo e che lei ha dovuto stare a casa per aiutarla a guardare i fratelli più piccoli. Il loro papà non c’è mai, guida un camion ed è sempre in viaggio@  e la mamma deve fare tutto da sola. Anche l’anno scorso sua mamma si era ammalata e ci è mancato poco che la mia amica perdesse l’anno.

Ora è tornata e io sono contento, perché è quella che mi sta più simpatica e anche perché è la più brava della classe. Dice mamma che tutti i bambini devono andare a scuola ma che per le bambine è tutto molto più difficile. Però da quest’anno lei ha un amico nuovo, un bambino che abita in un paese lontano, il paese – dice papà – da cui arriva quel missionario che viene spesso a trovarci in classe e si ferma a parlare con le maestre. Questo bambino e i suoi genitori ora regaleranno a Irene, e a tutti i bambini come lei, i quaderni, i libri, le matite, il grembiule e tante altre cose che servono per la scuola. Così la sua mamma potrà riposarsi un po’ di più e non si ammalerà tutti gli anni e Irene non dovrà più smettere di venire a scuola per aiutarla.

Una volta Irene mi ha detto che lei da grande vuole essere come la signora del dispensario che fa nascere i bambini e che io potrei diventare come l’infermiere. Mi sembra una buona idea, così potremo continuare a farci gli scherzi e fermarci a giocare, la mattina, mentre camminiamo insieme per andare al dispensario.

Emmanuel

Emmanuel è un bambino come tanti, anzi, è tanti bambini in uno. La sua storia è ispirata alle migliaia di storie che abbiamo ascoltato nei dispensari, nelle maternità, nei centri nutrizionali, negli asili e nelle scuole primarie che i nostri missionari gestiscono nel mondo. Abbiamo collocato il nostro piccolo narratore in un villaggio rurale africano, ma molte delle situazioni che vive sono condivise dai suoi coetanei nelle immense periferie delle grandi città o nelle terre di popoli indigeni o nelle zone aride dell’America Latina, e simili anche a quelle di altri popoli che vivono di pastorizia, come in Mongolia.

Quello che Emmanuel non ci ha raccontato – perché nessun bambino dovrebbe poter raccontare una cosa del genere – è che nei paesi meno sviluppati su mille bambini nati vivi quattro donne muoiono ancora per cause legate alla gravidanza (nell’area euro ne muoiono sei ogni centomila)@, mentre sessantotto bambini su mille non arrivano a compiere cinque anni. Settantotto, considerando la sola Africa subsahariana. Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità, tredici su cento di queste morti sono causate dalla polmonite, nove dalla diarrea, sei da ferite varie e cinque dalla malaria.

Secondo i dati Unicef@ «tra il 1990 e il 2015, la malnutrizione cronica è calata da 255 milioni a 156 milioni di bambini, è però aumentata in Africa Occidentale e Centrale, passando da 19,9 milioni a 28,3 milioni.

Nel 2015, oltre 50 milioni di bambini sotto i 5 anni sono risultati affetti da malnutrizione acuta, di cui 17 milioni da malnutrizione acuta grave: la metà dei bambini vivevano in Asia meridionale ed un quarto in Africa subsahariana». Nello stesso anno «circa 92 milioni di bambini sotto i 5 anni risultavano sottopeso».

Nei paesi meno sviluppati solo un bambino su cinque va all’asilo. Eppure, sempre più studi confermano che i bambini che hanno ricevuto un’istruzione preprimaria ottengono migliori risultati negli studi successivi e sono più al riparo dal rischio di essere malnutriti grazie al sostegno nutrizionale che ricevono alla scuola materna. Dei bambini in età da scuola primaria, uno su cinque non è in classe@: si tratta di oltre sessanta milioni di bambini, di cui più della metà in Africa.

Chiara Giovetti




Come sta la sanità in Costa d’Avorio


Fra riforme che si concretizzano solo molto lentamente, cronica mancanza di risorse e diffusione di farmaci contraffatti, la Costa d’Avorio sta faticosamente cercando di darsi un sistema sanitario adeguato.

Dal 2014 in Costa d’Avorio la copertura sanitaria universale è legge. Il provvedimento, in francese Couverture maladie universelle (Cmu), è stato fortemente voluto dal presidente Alassane Dramane Ouattara, che ne ha fatto uno dei suoi cavalli di battaglia nella campagna presidenziale del 2015, in seguito alla quale si è visto confermare dagli elettori il mandato per altri cinque anni. La Cmu mira ad estendere a tutta la popolazione la copertura sanitaria sulla base di due regimi: il primo, quello contributivo, si finanzia attraverso un contributo a carico dei cittadini, che è pari a mille franchi Cfa (circa un euro e 52 centesimi) al mese. Il secondo, non contributivo, riguarda le persone in stato di indigenza, per le quali sarà lo stato a coprire i costi quantificati, secondo il sito ivoriano di notizie abidjan.net, in 49 miliardi di franchi, pari a circa 75 milioni di euro.

I servizi a cui questa sorta di assicurazione medica pubblica permette di avere accesso comprendono le consultazioni prestate dal personale sanitario – infermieri, ostetriche, medici generalisti e specialisti – le analisi di laboratorio, gli interventi chirurgici, le ospedalizzazioni, i farmaci e riguardano le 170 patologie che maggiormente toccano la popolazione ivoriana.

Un piano sanitario indubbiamente ambizioso in un paese dove ad oggi solo il 5% della popolazione dispone di un qualche tipo di previdenza sociale. La messa in opera è cominciata nel 2015, mentre l’effettiva erogazione dei primi servizi dovrebbe iniziare ad aprile 2018. Ma le difficoltà di attuazione sono già emerse nella fase preliminare, quella della registrazione dei beneficiari. A luglio scorso, le persone che avevano completato il processo di registrazione erano 785mila mentre un milione e quattrocentomila erano quelle preregistrate, a fronte di una popolazione totale di oltre ventidue milioni.

Considerando che alla registrazione dovrebbe seguire l’effettiva immatricolazione – con consegna di una carta personale biometrica a ciascun cittadino – e che solo dopo dovrebbe cominciare la raccolta dei contributi mensili e l’erogazione dei servizi, ci sono gli elementi per dire che il processo procede a rilento. Fra le cause di questo ritardo ci sono l’isolamento delle zone rurali, dove un’ampia parte della popolazione ha a malapena ricevuto notizia di questa iniziativa, e le difficoltà di registrazione di quell’ampia parte di ivoriani che vive nell’informalità, lavorativa e abitativa. Non è un caso, infatti, che la fase cosiddetta sperimentale della Cmu sia cominciata dai lavoratori del settore formale, pubblico e privato, dagli studenti e dai pensionati.

Ma mentre realizza questa riforma per garantire a tutti l’accesso ai servizi sanitari, la Costa d’Avorio deve anche concentrarsi sul miglioramento dei servizi stessi. Secondo i dati della Banca mondiale e dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), il rapporto medici pazienti è pari a uno ogni settemila abitanti, a fronte di una media regionale dell’Africa subsahariana di uno ogni 3.300. Non va meglio con infermieri e ostetriche: uno ogni duemila ivoriani, contro uno ogni mille per gli altri africani. Partendo da questi dati sul personale sanitario di base, il fatto che la forza lavoro con competenze di chirurgia sia il doppio rispetto alla media africana – tre chirurghi ogni mille abitanti contro 1,7 nel continente – non migliora di molto il quadro. Secondo l’Atlante 2016 delle statistiche sulla sanità in Africa dell’Oms, la Costa d’Avorio era al sesto posto nel continente per tasso di mortalità degli adulti – un dato vicino a 400 persone ogni mille sia per i maschi che per le femmine – e all’undicesimo per mortalità materna con 645 decessi di madri ogni centomila nati vivi. Dei dieci sotto obiettivi di sviluppo del millennio in materia di sanità, la Costa d’Avorio ne ha raggiunti solo due: riduzione dell’incidenza dell’Hiv e del tasso di mortalità per tubercolosi. Per gli altri otto – fra i quali vi sono la riduzione della mortalità materna e dei bambini sotto i cinque anni, la copertura vaccinale contro il morbillo e i parti avvenuti in presenza di personale sanitario qualificato – le caselle ivoriane sono una sequela di not achieved, «non raggiunto». L’investimento in sanità da parte del governo è passato dall’1,6% del Pil del 1990 all’1,9 del 2013: il Ruanda, ad esempio, partiva dallo stesso dato iniziale per passare poi a un investimento del 6,5%.

Il giorno per giorno negli ospedali

Come si manifesta tutto questo sul campo? Un articolo apparso su Jeune Afrique lo scorso luglio permette di farsi un’idea della situazione. Nel centro ospedaliero universitario di Cocody, quartiere fra i più agiati della capitale economica Abidjan, i parenti dei pazienti si trovano spesso ad attendere seduti per terra nella hall. Il direttore dell’ospedale li invita ad andare a sedersi almeno sulle panchine dell’accettazione, ma è consapevole della mancanza di spazi adeguati per accogliere i familiari delle persone ospedalizzate. Le quali non di rado rimangono più di ventiquattr’ore ricoverati al pronto soccorso per mancanza di stanze ben equipaggiate nei reparti.

La morte, nel 2014, di una famosa modella ivoriana al pronto soccorso di Cocody e la denuncia da parte dei familiari delle gravi negligenze che, a loro dire ne aveva provocato il decesso, aveva acceso i riflettori sull’ospedale. Sull’onda dello scandalo, il presidente della Repubblica in persona aveva ordinato la messa a nuovo dell’ospedale, che è considerato uno degli ospedali-vetrina del paese e che vede sfilare annualmente 40mila pazienti solo al pronto soccorso. Nuovi materiali e strumenti sono in effetti arrivati – ecografia, radiologia, laboratorio per le analisi, ristrutturazione dei locali – ma il tasso di decessi è ancora al 20%. «Queste morti si spiegano con la gravità dei casi, i ritardi nella diagnosi per malattie come il cancro, i tempi di trasporto molto lunghi e a volte anche per il ritardo nella presa in carico del paziente», ammette il direttore dell’ospedale.

Al centro ospedaliero universitario di Yopougon, popoloso quartiere periferico, la situazione è ancora più difficile: su 495 letti teoricamente disponibili, solo 350 sono davvero utilizzabili. «Sono quattro anni che sento parlare di progetti di riabilitazione delle strutture, non so più se crederci», dice il professore Dick Rufin, presidente della commissione medica dell’ospedale, che confessa: «Se io o qualcuno dei miei familiari avessimo un problema di salute, andrei in una clinica privata».

Le cause principali alla base di questa situazione sono la mancanza di mezzi finanziari e l’incuria derivata da dieci anni di conflitto e crisi politiche ricorrenti. Gli investimenti governativi, a onor del vero, non sono mancati. Fra questi, lo sblocco degli stipendi dei medici, l’assunzione di oltre diecimila operatori sanitari, la costruzione di un centinaio di centri di sanità di base e l’istituzione di esenzioni dal pagamento dei farmaci. Ma gli effetti di questi interventi non sono ancora chiaramente percepibili. Nonostante le esenzioni, ad esempio, molti si trovano a doversi comunque pagare le medicine perché gli stock riservati ai pazienti esenti esauriscono troppo rapidamente.

C’è poi da lavorare sulla conduzione degli ospedali: secondo numerose testimonianze raccolte da Jeune Afrique, la pratica di chiedere ai malati una tangente per accelerare la loro presa in carico è ancora diffusa.

Salute: Zone rurali e farmaci contraffatti

Nelle aree rurali come quelle di Marandallah e Dianra, dove sono attivi i missionari della Consolata, le condizioni sono ancora più dure. Una delle difficoltà più grandi è legata alla scarsa informazione delle comunità che causa una quasi totale assenza di prevenzione e un costante ritardo nel recarsi presso le strutture sanitarie. «È fondamentale che il nostro personale possa continuare, e possibilmente intensificare, l’attività mobile, quella della visita ai villaggi», spiegava lo scorso gennaio il responsabile del centro di salute di Marandallah padre Alexander Mukolwe. «Senza un monitoraggio costante nei villaggi e la formazione comunitaria che gli operatori affiancano, durante le loro visite, alle sessioni di vaccinazione, alla diagnosi delle malattie e alla distribuzione di farmaci, continueremo a vedere persone arrivare al centro di salute in condizioni disperate e morire per patologie che si potevano curare in un paio di giorni». Basta pensare che in Costa d’Avorio su cento bambini sotto i cinque anni sei muoiono a causa della diarrea; solo il 17% dei piccoli affetti da questa malattia riceve un trattamento adeguato di reidratazione orale.

La necessità di rendere capillare e diffusa l’assistenza sanitaria è ancora più importante alla luce del fenomeno dei farmaci contraffatti e dei centri sanitari fai-da-te.

«Ne abbiamo avuto notizia anche noi», conferma padre Matteo Pettinari, responsabile del centro di salute di Dianra, a ottanta chilometri da Marandallah. «Individui con una formazione sanitaria limitata, o nulla, che avviano centri clandestini dove si fanno pagare per consultazioni improvvisate e farmaci contraffatti o scaduti oppure medicinali veri ma rubati nei dispensari ufficiali nei quali questi impostori hanno prestato servizio. È una cosa gravissima, specialmente in un contesto dove c’è così poca consapevolezza in materia di salute e le persone non hanno gli strumenti per difendersi da una truffa che può costare loro anche la vita». E non esagera, padre Matteo, se lo scorso settembre Radio France International (Rfi) si faceva megafono dell’allarme lanciato dai farmacisti ivoriani sulle medicine contraffatte. «I farmaci di strada sono la morte in strada», recita lo slogan con cui i farmacisti cercano di mettere in guardia i cittadini dai pericoli di un traffico che interessa il 30% dei farmaci venduti nel paese, con perdite di introiti per le farmacie legali stimato in circa 50 miliardi di franchi (76 milioni di euro). Un mercato che si avvia a superare quello della droga, sottolinea Rfi, che rileva come al mercato di Roxy d’Adjame, ad Abidjan, si trovino sui teli stesi a terra falsi vaccini, antimalarici, antibiotici, antiretrovirali, sacche di sangue fasullo e cosmetici contraffatti.

A facilitare l’ignobile commercio sono il prezzo più basso rispetto ai farmaci legali e le pene meno severe rispetto a quelle previste per i trafficanti di droga. I medicinali illeciti disponibili in Costa d’Avorio provengono in prevalenza dall’Asia o dai vicini Ghana e Nigeria.

Chiara Giovetti


Salute in movimento

MOSTRA DI SOLIDARIETÀ AMC / Torino

Quest’anno gli Amici Missioni Consolata hanno deciso di aiutare il progetto La salute in movimento, che si concentra sul sostegno ai centri di salute di Marandallah e Dianra nel Nord della Costa d’Avorio e, in particolare, all’attività di assistenza sanitaria mobile dei due centri.

Le équipe sanitarie – composte da infermieri e ausiliari – effettuano infatti visite regolari ai villaggi che costituiscono il bacino d’utenza dei due centri di salute. Queste visite si rendono particolarmente necessarie in zone come quelle di Marandallah e Dianra, che hanno un’estensione territoriale notevole e mancano quasi totalmente di strade asfaltate, rendendo molto più difficile per gli abitanti dei villaggi più remoti raggiungere i centri di salute. Spesso, per mancanza sia di risorse finanziarie che di informazioni adeguate su igiene e prevenzione, i pazienti rimandano il ricorso all’assistenza sanitaria fino a quando le loro condizioni non si sono aggravate al punto da rendere molto difficile, a volte impossibile, intervenire efficacemente per guarirli.

Il lavoro di assistenza mobile consiste nel monitoraggio dei casi di malnutrizione fra i bambini, delle condizioni di salute delle donne incinte, delle neo mamme e dei neonati, nelle campagne di vaccinazione, nel trattamento delle ferite legate all’attività agricola e nella diffusione di informazioni su igiene e sanità. Quest’ultima attività ha un ruolo cruciale nel permettere alle persone di prevenire o individuare in tempo le malattie più comuni, come quelle gastroenteriche, legate ad esempio all’utilizzo di acqua non adatta al consumo umano, o quelle delle vie respiratorie, ma soprattutto la malaria, principale causa di morte in Costa d’Avorio. Per la prevenzione e cura della stessa sono fondamentali le zanzariere impregnate di insetticida e la tempestiva diagnosi e successiva assunzione di farmaci antimalarici. Eppure, secondo i dati più recenti, dei bambini sotto i cinque anni solo uno su tre dorme sotto una zanzariera e solo uno su cinque con la febbre riceve un trattamento antimalaria.

I nostri missionari responsabili dei due centri di salute ci hanno indicato l’attrezzatura e l’equipaggiamento che permette loro di continuare con la stessa efficacia e costanza questo importante servizio alle comunità.

L’iniziativa degli Amici intende contribuire a coprire questi costi:




SOLIDARIETÀ AI MISSIONARI E AL POPOLO DEL VENEZUELA


MESSAGGIO DELLA DIREZIONE GENERALE DEI MISSIONARI DELLA CONSOLATA

“Consolate, consolate il mio popolo!” Isaia 40,1

Un Paese alla fame e sull’orlo della guerra civile” quello raccontato dai nostri missionari dal Venezuela, ascoltando le storie di giovani, professionisti, anziani, studenti e di famiglie povere: “la tessera per il razionamento alimentare, la mancanza di medicine, l’iperinflazione, i supermercati vuoti, il clima di insicurezza, la rabbia per le libertà civili violate”. E ancora “Con le strade trasformate in terreno di una battaglia campale infinita, il regime di Maduro si afferra al potere con un colpo di mano per cambiare la Costituzione. Mentre l’opposizione politica grida al golpe”.

Queste sono alcune considerazioni fatte a Padre Stefano, Superiore Generale, che è in costante contatto telefonico con loro, per manifestare la vicinanza di tutto l’Istituto, la preoccupazione per l’aggravarsi della situazione degli scontri e, attraverso di loro, la nostra solidarietà al popolo venezuelano di fronte ai gravi problemi che lo affliggono.

I missionari sono sereni e stanno bene, ringraziano per il ricordo e le preghiere, loro unica preoccupazione è il futuro incerto di un paese allo stremo, e per il quale chiedono di pregare costantemente.

In questi giorni il Venezuela è tornato sotto i riflettori delle maggiori agenzie di informazione internazionali, apparso nei titoli di apertura dei telegiornali e sulle prime pagine dei quotidiani nazionali e rispettivi siti web a causa dell’escalation della violenza, con i numerosi morti, feriti e i detenuti, ennesimo tragico epilogo di una situazione che si trascina oramai da 5 anni, dove non sembra esserci via d’uscita.

Mentre la gente soffre e vive nel terrore, i protagonisti del conflitto venezuelano, governo e opposizione, si trovano nel punto più distante tra loro, intenti solo a lanciare l’uno all’altro minacce e accuse.

 

I MISSIONARI A FIANCO DELLA GENTE

A Caracas i missionari della Consolata, insieme ad altri missionari e missionarie di altre Congregazioni hanno aperto una casa di accoglienza per barboni, senza casa, gente della strada che possono qui trovare riparo e sostegno, e se sono disponibili anche cura per rilanciarsi nella vita. Sempre a Caracas, capitale del Venezuela, abbiamo una Parrocchia situata nella periferia composta da almeno 150/200.000 persone che vivono incollate sulle casette di fortuna sulle colline attorno alla capitale. È un agglomerato di problemi, violenza, droga e malavita, ma anche di gente per bene che si guadagna la vita con un duro lavoro quotidiano e che poi, alla sera, si mette ancora in coda per arrivare alla sua casetta e vivere un momento di serenità con la propria famiglia. In questa situazione e contesto in nostri missionari cercano di costruire speranza ed essere segno di consolazione per un gruppo di cristiani che, certamente non sono maggioranza, ma sono presenza e fraternità e questo già basta per poter sognare almeno un poco.

Inoltre a Caracas, oltre alla parrocchia di Carapita, abbiamo la Casa Regionale con un centro per l’Animazione Missionaria vocazionale collegato anche al Centro della città di Barquisimento. La casa regionale è un pochino originale giacché non rappresenta lo stile delle solite case regionali, luogo di uffici e di organizzazione, ma è proprio la casa di tutti e dove tutti possono trovare un letto da dormire, un pasto da condividere e qualcuno che ascolta i tuoi problemi. E quando dico tutti, voglio dire tutti, non soltanto i missionari.

L’AMV è in mano ad un’equipe che lavora anche con i Laici della Consolata e con gli Amici della Consolata, un’esperienza importante e condivisa che vale la pena di essere studiata ed approfondita.

Tra tutte queste nostre presenze merita un ricordo particolare quella con gli indigeni. Abbiamo un’equipe di cinque missionari di diverse nazionalità che lavorano in due comunità distinte: una alla città di Tucupita dove gli indigeni si trasferiscono in tempi difficili o cercando espedienti lavorativi e sul Delta Amucuro dove gli indigeni Warau vivono a loro stile sulle palafitte sospese sull’acqua. I missionari, senza pretese, ma con l’unica forza della presenza condividono la vita di questo popolo assumendone le sorti, con l’unica pretesa dell’amore.

Insieme a tanti altri sacerdoti, consacrati e consacrate e ai fedeli laici i nostri missionari hanno scelto di rimanere nel paese, per stare accanto alla gente, condividerne la situazione, attenti ai loro bisogni concreti, nel cammino sofferto di una comunità ecclesiale schiacciata tra due blocchi che tra loro hanno rotto ogni ponte e contatto.

La loro testimonianza di umile presenza tra i poveri e gli indifesi delle periferie di Caracas, realizza molto bene l’esortazione rivolta a tutti noi da Papa Francesco:

Non stancatevi di portare conforto a popolazioni che sono spesso segnate da grande povertà e da sofferenza acuta, come ad esempio in tante parti dell’Africa e dell’America Latina. Lasciatevi continuamente provocare dalle realtà concrete con le quali venite a contatto e cercate di offrire nei modi adeguati la testimonianza della carità che lo Spirito infonde nei vostri cuori (cfr. Rm 5,5). … Mentre con gioia ringrazio il Signore per il bene che voi andate compiendo nel mondo, vorrei esortarvi ad attuare un attento discernimento circa la situazione dei popoli in mezzo ai quali svolgete la vostra azione evangelizzatrice…” (Papa Francesco, ai partecipanti ai Capitoli Generali dei Missionari e delle Missionarie della Consolata, Sala Clementina, 5 giugno 2017)

UNA SITUAZIONE COMPLESSA

Ci sarebbe bisogno di un’analisi sistematica ed approfondita per decifrare la complessità delle cause, nazionali ed internazionali, che hanno contribuito a gettare il Venezuela nel caos.

Qui ci limitiamo ad alcune considerazioni che, pur non essendo esaustive, danno però l’idea della gravità del momento.

“ […] A seguito della caduta internazionale dei prezzi dell’oro nero, il Paese è sprofondato nel caos economico. Solo nel 2016 le entrate per prodotti derivati dalla vendita del petrolio erano scese del 5000% annuo. Di conseguenza, la necessità strategica di cercare risorse provenienti da fonti alternative all’industria petrolifera.”

«[…] Nella zona amazzonica sono state date delle concessioni a società di origine russa, canadese, britannica, sudafricana, cinese, iraniana e australiana, per lo sfruttamento di territori pieni di riserve aurifere, argento, petrolio, ferro, diamanti, coltan, uranio e ogni tipo di risorsa strategica… Si assiste alla dislocazione degli abitanti originari che per secoli hanno popolato queste zone; e ciò avviene solo per l’avidità che induce allo sfruttamento sconsiderato delle risorse del sottosuolo» (in Dossier Caritas Italiana, “Inascoltati. Un popolo allo stremo chiede i suoi diritti fondamentali”, www.caritas.it )

La rivoluzione bolivariana, avviata da Hugo Chàvez quasi vent’anni fa, si sta spegnendo in un sanguinoso caos. Perfino il procuratore generale dello Stato, Luisa Ortega Diaz, alto funzionario nominato dal potere chavista, ha condannato la violenza della repressione della Guardia Nazionale bolivariana contro le manifestazioni di protesta, che ha causato decine di vittime.

La proposta fatta dal Presidente Maduro per l’elezione di una nuova Assemblea Costituente, è stata respinta dall’opposizione che la considera soltanto un “nuovo tentativo di golpe”. L’avvilupparsi della crisi politica, la carestia, e l’iperinflazione (che potrebbe arrivare al 1600% secondo l’Fmi nel 2017) hanno fatto fare crac anche a tutto il progetto del socialismo bolivariano sostenuto, almeno fino alle ultime presidenziali, aprile 2013, da una maggioranza, seppur limitata, della popolazione.

Oggi il blocco sociale, che seguì il caudillo rivoluzionario morto nel 2013 e le sue promesse di riscatto sociale, è in minoranza. Per questo Maduro – che secondo i sondaggi ha ormai contro il 70% del Paese – ha rinviato le elezioni, amministrative e regionali. E per questo, insieme alla miseria sempre più drammatica nel Paese, l’opposizione si è lanciata in piazza.

LA NOTTE DEL VENEZUELA NON È ANCORA FINITA!

Infatti la situazione attuale si mostra qualitativamente diversa dal recente passato, perché le libertà sociali sono sempre più sotto assedio, la repressione inusitata, la crescente insicurezza personale e la sfiducia nel sistema giudiziario: la mancanza di tutela dei diritti lascia i cittadini indifesi davanti a una violenza mai vista. Il popolo venezuelano continua a protestare, inascoltato!

La crisi umanitaria avvolge il Venezuela in una spirale drammatica. L’82% della popolazione è in povertà, di cui il 52% in povertà estrema. La vita stessa delle persone è minacciata da quando sono venuti a mancare gli alimenti necessari per la sopravvivenza e la disponibilità di medicine per le cure fondamentali.

Questo favorisce l’aumento di morti premature, in particolare delle fasce più deboli della popolazione, specialmente bambini, anziani e malati. La mortalità dovuta a queste cause non risulta nelle cifre ufficiali di cui dispongono i mezzi di informazione, perché l’interesse è incentrato soltanto sul numero dei morti e dei feriti delle manifestazioni che si verificano ogni giorno, sin dal mese di aprile di quest’anno. In realtà, le cifre reali sono altre. Sono oltre 11.000 i bambini morti nel 2016 per mancanza di medicinali e la mortalità materna è aumentata quasi del 70%. (questi sono alcuni dati dell’Osservatorio di Caritas Venezuela, che emergono da una ricerca sullo stato nutrizionale dei bambini, riportati nel Dossier di Caritas www.caritas.it).

GLI APPELLI DELLA CHIESA

Anche se il Vaticano, che nei mesi scorsi guidò una trattativa per un compromesso fra governo e opposizione, ha dovuto gettare la spugna, giudicando “quasi impossibile” una nuova mediazione.

Anche se fuori e dentro del Venezuela, di fronte all’ostinazione e chiusura delle parti, governo di Maduro e partiti dell’opposizione, sembrano rassegnati al peggio, la Chiesa continua a lanciare appelli al dialogo, alla fine della violenza e alla ripresa dei negoziati.

La Conferenza episcopale del Venezuela in una lettera recentemente inviata al Presidente Maduro 8 luglio 2017, ha chiesto al Governo “di ritirare la proposta di un’Assemblea Costituente, di rendere possibile lo svolgimento delle elezioni stabilite dalla Costituzione”; e di “riconoscere l’autonomia dei poteri pubblici, abbandonando la repressione inumana di coloro che manifestano un dissenso, di smantellare i gruppi armati” e di liberare “le persone che sono state private della libertà per ragioni politiche”.

Ancora, i vescovi chiedono di impegnarsi “a risolvere i gravissimi problemi della gente e di permettere l’apertura di un canale umanitario perché possano arrivare medicine e alimenti ai più bisognosi”. Alle Forze Armate nazionali chiedono di “adempiere il proprio dovere di servizio al popolo nel rispetto e a garanzia dell’ordine costituzionale”. Dalla dirigenza politica i presuli esigono l’impegno nell’esclusivo bene “del popolo e mai per i propri interessi”, rispettando “la volontà democratica del popolo venezuelano”. Alle istituzioni educative e culturali chiedono di collaborare a “far crollare i muri che dividono il Paese”, incoraggiando “ogni sforzo in favore della pace e della convivenza, fondati sulla legge dell’amore fraterno”. (le lettera si         trova in: www.caritas.it)

Papa Francesco stesso in più di un’occasione ha lanciato accorati appelli al Governo e a tutte le componenti della società venezuelana:

“affinché venga evitata ogni ulteriore forma di violenza, siano rispettati i diritti umani e si cerchino soluzioni negoziate alla grave crisi umanitaria, sociale, politica ed economica che sta stremando la popolazione.” (Regina Coeli, 30 aprile 2017)

E in vista della festa dell’indipendenza del Venezuela del 5 luglio ha assicurato:

“la preghiera per questa cara Nazione e la mia vicinanza alle famiglie che hanno perso i loro figli nelle manifestazioni di piazza. Faccio appello affinché si ponga fine alla violenza e si trovi una soluzione pacifica e democratica alla crisi. Nostra Signora di Coromoto interceda per il Venezuela!” (Angelus, 2 luglio 2017)

E in una lettera indirizzata all’episcopato venezuelano venerdì 5 maggio il Pontefice esprimeva la sua solidarietà ai Vescovi del Venezuela e la chiara convinzione:

“che i gravi problemi del Venezuela possono essere risolti se c’è volontà per costruire ponti, se si desidera dialogare seriamente e rispettare gli accordi raggiunti. Desidero incoraggiarvi a non permettere che i figli amati del Venezuela si lascino vincere dalla sfiducia e dalla disperazione, perché questi sono mali che penetrano nel cuore delle persone quando non si vedono prospettive future”.

I nostri missionari in Venezuela, nei dialoghi telefonici avuti, e nello scambio via posta elettronica, sono concordi nel sostenere la via del dialogo e dei negoziati come l’unica percorribile, perché:

“Nelle persone è sempre più diffusa la volontà di un forte cambiamento, bisogna seguire, però, la via della pace e della democrazia. La maggioranza del popolo chiede una soluzione pacifica. Ma i costi umani di questo processo sono troppo alti. Il governo deve ascoltare la gente che grida. È necessario trovare un accordo. Non sappiamo di quanto tempo avremo bisogno in Venezuela per riconciliare la popolazione e risanare le ferite che ci stiamo infliggendo”.

Noi come missionari della Consolata, facciamo nostro e rilanciamo l’appello di Papa Francesco, convinti che, quando ogni speranza tace, l’unica via di uscita stia proprio nella ricerca di soluzioni consensuali.

SOLIDARIETÀ’ CON IL POPOLO VENEZUELANO

Cari missionari, amici e uomini e donne di buona volontà, con questo messaggio vogliamo esprimere la nostra solidarietà a tutto il popolo venezuelano e la vicinanza e l’affetto ai nostri missionari, attraverso il ricordo e la preghiera.

La situazione d’insicurezza ed incertezza del Venezuela alla stremo, richiama quella vissuta dal profeta Isaia in uno dei periodi più difficili della storia del popolo di Israele: la città santa ridotta ad un cumulo di macerie, le persone più capaci e preparate deportate, distruzione e disperazione tutt’intorno, regna il silenzio e la morte: non un canto, non un grido di gioia, solo tristezza e tante lacrime.

Il   profeta è invitato a contemplare i germogli di speranza che spuntano tra le rovine e, soprattutto a fidarsi del Signore per “saper irrobustire le mani fiacche e rendere salde le ginocchia vacillanti e dire agli smarriti di cuore: coraggio non temete! Ecco il vostro Dio giunge” (Isaia 35, 3-4)

Caro popolo venezuelano questa profezia del profeta Isaia, nella situazione in cui vi trovate, sembrerebbe “un sogno impossibile”, eppure chi crede, non si rassegna di fronte al male, non lo considera ineluttabile, perché sa che Dio è fedele ed è personalmente coinvolto nella storia del suo popolo.

E a voi missionari auguriamo che la testimonianza della vita fraterna, il vostro impegno a fianco dei poveri, possano realizzare lo specifico del nostro stile missionario:

“Consolate, consolate il mio popolo, gridate a Gerusalemme che è finita la sua schiavitù…” (Isaia 40,1-2).

Attraverso di voi la consolazione di Dio possa diventare una tenera carezza che rincuora e asciuga le lacrime; soccorso a chi si trova in condizioni disperate, riscatto per il misero sollevandolo dalla polvere (1Sam 2,8), mutando il lamento di tanti in danza e il loro grido in canto di gioia (Salmo 30,12).

In questo modo, in voi, la gente potrà toccare con mano, un Dio che veramente consola perché libera da tutte le schiavitù.

Rinnovando il nostro impegno di sostenervi e ricordarvi nella preghiera insieme a tutto il popolo venezuelano, vi salutiamo con l’esortazione del nostro Beato Fondatore:

«Coraggio dunque, sostenuti dalle nostre preghiere; coraggio in Domino, giorno per giorno, ora per ora. Ai piedi della nostra Ss. Consolata vi benedico di gran cuore» (Lett., IX/1,150).

La Direzione Generale dei Missionari della Consolata

p. Stefano Camerlengo
P. Bhola James Lengarin
P. Godfrey Portphal Alois Msumange
P. Jaime Carlos Patias
P. Antonio Rovelli

Roma, 15 agosto 2017, Solennità dell’Assunzione della Beata Vergine Maria

 




Le cause dell’autismo


Perché le sindromi autistiche sono in aumento? Da anni è stata dimostrata la responsabilità dell’inquinamento ambientale sulle modificazioni genetiche. Mentre non esiste alcuna correlazione tra autismo e vaccini.

Dopo aver visto (MC di marzo) le principali caratteristiche della patologia autistica, in questo articolo cercheremo di fare il punto della situazione per quanto concerne i risultati della ricerca scientifica sulle cause di questa malattia.

Inizialmente – lo abbiamo già ricordato – si pensava che l’autismo dei bambini fosse una conseguenza di comportamenti e stili educativi cattivi da parte dei genitori. Questo approccio alla malattia era esclusivamente di tipo psicologico. Si è poi capito che, in realtà, si tratta di un disturbo dello sviluppo biologicamente determinato. In un primo momento se ne sono ricercate le cause solo nell’inquinamento ambientale, senza considerare i fattori genetici, ma una ricerca pubblicata su Nature nel 2014 ha chiarito che nelle sindromi dello spettro autistico (Autistic Spectrum Disorders, Asd) sono coinvolti almeno un centinaio di geni con mutazioni spontanee, non trasmesse dai genitori. In realtà modificazioni genetiche e cause ambientali sono strettamente correlate. Del resto non si potrebbe pensare solo a una causa genetica perché i geni evolvono troppo lentamente per essere considerati gli unici responsabili del drastico aumento dell’autismo nel giro di un paio di generazioni. Se invece ragioniamo in termini di epigenetica (cioè dello studio delle modifiche che variano l’espressione genica pur non alterando la sequenza del Dna), allora possiamo capire la relazione tra l’inquinamento ambientale e l’insorgenza di questa sindrome. Secondo Ernesto Burgio, medico pediatra, ricercatore dell’European Cancer and Environment Research Institute e coordinatore del comitato scientifico Isde Italia (International Society of Doctors for Environment), «i geni hanno bisogno di qualcosa per sapere come lavorare» e «ciò che avviene nei nove mesi di gestazione può essere più importante di quanto avverrà nel corso della vita». Questi concetti sono stati chiariti da Patrizia Gentilini, medico oncologo ed ematologo nonché medico dell’ambiente (Isde), la quale afferma che «il genoma è qualcosa che continuamente si modella e si adatta a seconda dei segnali fisici, chimici e biologici con cui entra in contatto. L’epigenetica ci ha svelato che è l’ambiente che modella ciò che siamo, nel bene e nel male, nella salute e nella malattia. Questo vale sia per lo sviluppo del nostro cervello che per l’insorgenza dei tumori».

Il cervello vulnerabile

Si sa che il cervello in via di sviluppo, specialmente durante la vita intrauterina, è un organo delicatissimo ed estremamente sensibile alle sostanze tossiche ed inoltre è l’unico organo in cui è presente tessuto grasso. È evidente che per sostanze tossiche lipofile – come, ad esempio, pesticidi e diossine – il cervello rappresenta l’organo bersaglio ideale. L’inquinamento atmosferico è dato da svariati elementi con azione neurotossica, capaci di provocare stress ossidativo e disfunzioni mitocondriali nelle cellule. Nel 2006 fu pubblicato su Lancet l’articolo Developmental neurotoxicity of industrial chemicals di Grandjean P. e Landrigan P.J., contenente un primo elenco di 202 sostanze chimiche capaci di danneggiare il cervello in via di sviluppo tra pesticidi, solventi, metalli pesanti, diossine e altro. Successivamente oltre 1.000 sostanze hanno mostrato neurotossicità in esperimenti di laboratorio su animali. Secondo gli autori, già allora si poteva affermare che un bambino su sei avrebbe presentato danni documentabili al sistema nervoso e problemi funzionali e comportamentali tra cui deficit intellettivo, sindrome di iperattività, autismo, deficit dell’attenzione, dislessia, discalculia. Secondo Grandjean «i cervelli dei nostri bambini sono la nostra più importante risorsa economica e noi non abbiamo capito quanto essi siano vulnerabili, noi dobbiamo fare della protezione dei giovani cervelli il più grande obiettivo di salute pubblica; c’è una sola occasione per sviluppare un cervello». Numerose ricerche hanno confermato come l’esposizione a pesticidi organofosfati durante la vita fetale si associ ad esiti negativi nella sfera cognitiva, comportamentale, sensoriale, motoria e sul quoziente intellettivo. Alcuni studi inoltre hanno evidenziato un maggiore rischio di autismo per esposizione a particolato Pm2.5 proveniente dai motori diesel o per chi vive in prossimità di autostrade. In un recente studio caso-controllo del 2015 condotto sulla coorte (insieme di individi aventi sperimentato lo stesso evento, ndr) delle infermiere americane (116.430 di età 25-43 anni) residenti in 50 stati è stata indagata l’incidenza di figli con diagnosi di disordini dello spettro autistico nati fra il 1990 e il 2002. Sono stati identificati 245 bambini con Asd e 1522 controlli sani. Si è messo in relazione l’indirizzo materno durante la gravidanza con i livelli di Pm 2.5 registrati mensilmente e si è evidenziato un rischio molto aumentato e statisticamente significativo tra le mamme esposte ad inquinamento da polveri sottili durante la gravidanza, in particolare nel terzo trimestre. Proprio nell’ultimo trimestre della gravidanza inizia la sinaptogenesi, cioè la formazione delle sinapsi ovvero le giunzioni che mettono in comunicazione tra loro le cellule nervose. Questo è il processo che sembra risultare difettoso nei disordini dello spettro autistico. Gli autori dello studio sono giunti alla conclusione che «l’inquinamento dell’aria è un fattore di rischio dell’autismo e il miglioramento della qualità dell’aria potrebbe contribuire a ridurre l’incidenza dell’Asd e ridurre in modo sostanziale i costi economici per le famiglie e la società». In effetti i costi derivati dall’azione dell’inquinamento sul neurosviluppo sono enormi. Si calcola che negli Usa i costi per danni neurologici da piombo nei bambini ammonterebbero a circa 43 miliardi di dollari e per quelli da mercurio a 8,7 miliardi.

L’autismo e i metalli

Negli ultimi anni sono stati introdotti nell’ambiente diversi metalli di origine antropica con un aggravamento dell’inquinamento preesistente, come nel caso dell’incenerimento dei rifiuti. In questo caso i metalli maggiormente pericolosi rilasciati in atmosfera sono: cadmio, cobalto, cromo, arsenico, mercurio, manganese, rame, tallio, nichel, piombo e alluminio. In particolare, l’arsenico, un semimetallo a cui bisogna prestare particolare attenzione per la sua tossicità e cancerogenicità, è stato spesso trovato nei capelli dei bambini con Asd. Allo stato puro l’arsenico non pare essere tossico, ma lo sono tutti i suoi derivati, che rientrano nella composizione di pesticidi, di erbicidi e d’insetticidi. I metalli pesanti e i loro composti risultano tossici per le loro proprietà chimico-fisiche. Essi hanno proprietà lipofile, cioè si accumulano nel tessuto grasso. Sono importanti la loro concentrazione nei tessuti e i tempi di esposizione. La situazione più pericolosa è quella della prolungata esposizione a dosi minime. A livello tissutale, i metalli pesanti provocano stress ossidativi, inefficienza dei sistemi di detossificazione, blocco dei meccanismi di riparazione del Dna e variazione (modulazione) epigenetica dell’espressione genomica. Tali metalli si presentano come cationi e possono perciò interagire con le proteine e formare «addotti» (frammenti in genere cancerogeni) con il Dna. Le interazioni con le proteine sembrano essere le più importanti da un punto di vista patogenetico. Sono infatti state individuate diverse proteine bersaglio, tra cui quelle implicate nella riparazione del Dna. Lo stress ossidativo consiste nella formazione di radicali liberi capaci di danneggiare lipidi, proteine e acidi nucleici, per cui vengono danneggiate strutture cellulari fondamentali come la membrana cellulare. Secondo Maurizio Proietti, nei bimbi autistici sono stati spesso trovati metalli pesanti e squilibri di membrana mediante l’analisi minerale tessutale e il fat profile (analisi dei grassi). Ciò che si sa è che i metalli pesanti possono penetrare in tutti i tessuti, nelle cellule e negli organuli cellulari, compreso il nucleo, tanto nell’adulto quanto nel feto, alterando l’assetto epigenetico e l’espressione genica durante le diverse fasi dello sviluppo, oltre a interferire con i sistemi enzimatici. Ciò che non conosciamo sono i loro meccanismi d’interferenza sulla programmazione fetale, soprattutto nei tessuti ed organi deputati alla regolazione neuro-endocrina e metabolica.

Già nel novembre 2006, la Harvard Medical School lanciò un appello per informare l’opinione pubblica con lo studio «Una pandemia silenziosa. Sostanze chimiche industriali stanno danneggiando lo sviluppo del cervello dei bambini in tutto il mondo». L’avvelenamento dei bambini sta diventando sistemico per la sempre maggiore presenza nell’ambiente non solo di metalli pesanti, ma anche di altre pericolosissime sostanze di origine antropica come pesticidi, diserbanti, insetticidi, Pcbs, diossine e altri, che vengono frequentemente ritrovati nella placenta, nel sangue del cordone ombelicale e nel latte materno. Nei capelli e nelle unghie dei bambini autistici si trovano spesso elevati livelli, oltre che di arsenico, anche di mercurio, piombo e alluminio, mentre sono bassi quelli di selenio, di zinco e di rame.

L’autismo e i vaccini: nessuna correlazione

Va detto che l’alluminio è comunemente usato come adiuvante nella preparazione dei vaccini da più di 70 anni. La sua funzione nel vaccino è indispensabile in quanto facilita la risposta immunitaria all’antigene presente nel vaccino. L’attribuzione ai vaccini di una responsabilità nell’insorgenza dell’autismo è tuttavia priva di fondamento perché, come abbiamo visto, probabilmente la malattia si origina ben prima della prima vaccinazione, cioè durante lo sviluppo fetale. Molte vaccinazioni sono state e restano fondamentali nella prevenzione di numerose e gravissime malattie. Purtroppo il nesso tra vaccini e autismo è stato sostenuto per anni, a partire dal 1998, anno in cui il medico britannico Andrew Wakefield, che venne in seguito radiato dall’Ordine dei medici, pubblicò su Lancet un suo articolo in proposito. Quella pubblicazione (successivamente ritirata) riuscì a influenzare negativamente il comportamento di molti genitori, i quali non fecero più vaccinare i figli. Finché Brian Deer del Sunday Times riuscì a smascherare la frode, perpetrata da Wakefield al fine di mettere in piedi un mercato di test diagnostici per l’autismo. Dopo sei anni di ricerche sulle cartelle cliniche usate dal medico per il suo studio, nel 2011 Deer pubblicò una contro-analisi scientifica sul British Medical Journal. La veridicità delle conclusioni di Deer è supportata da diverse ricerche scientifiche, tra cui quella pubblicata su Jama da Anjali Jain del Lewin Group, una società di ricerca e consulenza indipendente in campo sanitario. In questo studio condotto su quasi 96.000 bambini non è stata trovata alcuna correlazione tra il vaccino contro morbillo-parotite-rosolia (quello maggiormente incriminato come causa) e l’autismo, nemmeno nei soggetti più a rischio, cioè i bambini con un fratello autistico. Inoltre decine di studi hanno dimostrato che l’età d’insorgenza, la gravità, il decorso di questa malattia e la sua ricorrenza nelle famiglie non differiscono tra bambini vaccinati e non vaccinati.

È stata invece osservata una correlazione tra il rischio di sviluppare l’autismo e altri disturbi del neuro-sviluppo nella prole e le condizioni metaboliche della madre in gravidanza come il diabete (malattia autornimmune che può essere scatenata da inquinanti ambientali in soggetti predisposti), l’ipertensione e l’obesità. È stato osservato che le madri obese sono più soggette delle normopeso ad avere figli autistici, quindi tra le forme di prevenzione dell’autismo va inclusa anche l’alimentazione della gestante.

Rosanna Novara Topino
(terza puntata – continua)

 




Kenya: Stampa 3D per «piedi felici»


In Kenya è nata una piccola compagnia che si occupa di stampa tridimensionale. L’African Born 3D printing (Ab3D) è la prima start up africana che stampa oggetti in materiali plastici, produce stampanti 3D e fa formazione al loro uso. La società progetta, disegna e costruisce i suoi prodotti usando materiale elettronico riciclato, parti meccaniche reperibili localmente e software open source. La sua mission è quella di usare la tecnologia per migliorare la vita.

All’origine della Ab3D c’è la fantasia e l’ingegno di Roy Ombatti. Roy, un giovane keniano di 27 anni, proviene da una famiglia cattolica della classe media che però fa fatica a pagargli gli studi fino a completare l’università a causa della severa crisi economica che in Kenya, nei primi anni del 2000, colpisce in particolare il ceto medio. Conscio di questo, Roy fa tesoro dei suoi studi anche più di molti suoi coetanei e si impegna a fondo per realizzare il sogno coltivato fin da bambino di diventare un ingegnere meccanico e creare oggetti meravigliosi, usando e sfidando le leggi della fisica e della matematica, e di portare cambiamenti positivi nella società attraverso il suo lavoro.

Dopo aver fatto la scuola primaria nella Consolata School di Nairobi, ha frequentato la secondaria alla Strathmore School e ottiene l’ammissione nell’Università di Nairobi, la più antica del paese, fondata nel 1956, ben prima dell’indipendenza del Kenya. Nell’attesa di cominciare il corso di Ingegneria meccanica cui si è iscritto, Roy coglie l’occasione offertagli da un suo zio, volontario di una Ong, e va in Malawi a condividerne l’esperienza con bambini orfani a causa dell’Aids o Hiv positivi. Un’esperienza traumatica per lui, come ricorderà in seguito, perché «oggi sono lì a giocare con uno di loro, e domani mi dicono che è morto».

Vedendo di persona lo stato pietoso del sistema sanitario del Malawi, non diverso dallo stato in cui versano quelli di molte altre nazioni nel continente, Roy sente che deve fare qualcosa e non solo stare a guardare. Ritorna in Kenya per iniziare l’università e comincia a tenere gli occhi aperti sulla sua stessa comunità per individuarne i bisogni e capire cosa lui possa fare per cambiare la situazione. Scopre presto che molti bambini delle famiglie più povere – quelli che vivono negli slum, le periferie degradate di Nairobi dove manca acqua, non ci sono fogne e nelle case non ci sono reti antizanzara – soffrono a causa di molte malattie che potrebbero essere facilmente curabili, anzi, anche evitate con un’adeguata prevenzione. Purtroppo la gente degli slum non ha le risorse per uscire da quella situazione.

Il salto nella stampa 3D

All’università ha un’occasione unica: partecipare ad una competizione internazionale di stampa 3D, la 3D4D (3D for Development) organizzata dalla Techfor Trade, una onlus inglese impegnata a «cercare, promuovere e sostenere un’innovazione tecnologica rispettosa dell’ambiente che aiuti gli scambi commerciali e allevi la povertà». Roy vi partecipa con un progetto che gli è caro: stampare delle scarpe su misura per piedi resi deformi dalle pulci penetranti, quegli stessi piedi che aveva visto in troppi bambini degli slum. Chiama il suo progetto «Happy Feet», Piedi felici.

Le pulci penetranti sono terribili, perché si infilano sotto la pelle dei piedi e lì si installano facendovi il nido che diventa sempre più grosso. Di solito è facile toglierle se sono in superficie, ma se trascurate (come può succedere ai bambini non curati attentamente dai loro genitori o da famigliari) possono causare infiammazioni dolorose fino a impedire una deambulazione corretta o a lasciare piedi deformi. Per rimuovere le pulci si usano spine, lame, spilli o aghi che, non disinfettati o usati su diverse persone, aumentano il pericolo di trasmettere e/o ricevere l’Hiv. Il fatto di camminare a piedi nudi espone poi al rischio di essere infestati di nuovo dalle pulci.

Il progetto è bello e fa sognare, ma per realizzarlo Roy ha bisogno di poter usare stampanti 3D che siano alla portata delle sue tasche di studente universitario. Questo in Kenya non è facile, visto che sono tutte importate dall’estero e costano molto.

Roy capisce allora che se vuole realizzare il suo sogno di «Piedi felici» deve risolvere il problema fondamentale: l’accesso facile alle stampanti 3D e alla relativa tecnologia. Convinto della potenzialità del mezzo per migliorare la vita della gente comune, si concentra allora sulla nuova sfida, riesce a ottenere dei finanziamenti e così fonda la sua start up per la produzione e uso di stampanti 3D.

Nasce così la Ab3D per costruire stampanti 3D usando materiale elettronico riciclato, software open source e parti meccaniche reperibili sul mercato locale. Questo abbatte i costi e facilita manutenzione e riparazioni. Una stampante 3D usa meno energia di un frigorifero e come materia prima per stampare oggetti può riutilizzare plastica dai rifiuti. «L’uso della plastica riciclata non costituisce un rischio, anzi risolve un problema, e i filamenti ottenuti permettono di stampare gli oggetti utili alla comunità», dice oggi Roy spiegando che fino a quando useremo derivati dal petrolio avremo sempre a che fare con la plastica. Tanto vale allora usarla in modo positivo. Le statistiche provano che la plastica è uno dei maggiori elementi inquinanti nel mondo. Oltre otto milioni di tonnellate ne sono riversate negli oceani ogni anno. Di questo passo entro il 2050 sarà un disastro, nel mare ci sarà più plastica che pesci, questo è l’allarme lanciato al World Economic Forum del 2016.

Promuovere una coltura 3D

A questi primi passi Roy ne aggiunge un altro: promuovere la stampa 3D nelle scuole di modo che le future generazioni di giovani lavoratori possano imparare a pensare la tecnologia a servizio di uno sviluppo che non aumenti i problemi, ma li risolva. Tale formazione aumenterebbe la possibilità dei ragazzi di trovare impiego e le loro capacità imprenditoriali.

Secondo Roy è importante applicare il 3D all’apprendimento pratico nelle scuole. «Avessimo meno teoria e più pratica sia nelle scuole che nelle nostre università, avremmo studenti che finirebbero i loro studi con capacità reali, più gente capace di soluzioni nuove per risolvere i problemi globali». Secondo lui troppi giovani finiscono l’università con la testa piena di teorie ma incapaci di tradurle in pratica nel mondo vero del lavoro.

Tre prestigiose scuole private in Kenya hanno già comperato le stampanti dell’Ab3d: Makini School, Banda School e Nova Academia, seguite a ruota anche da tre scuole di informatica. Tra le università, quella di Gondar in Etiopia e quella di Bristol in Inghilterra. L’obiettivo è quello di diffondere le stampanti nel maggior numero di scuole possibile, anche se sembrano più apprezzate all’estero che in patria. Mentre i giovani studenti sono aperti alle novità e al futuro, i dirigenti scolastici sono ancora della vecchia generazione e, purtroppo, sono loro che tengono i cordoni della borsa.

La stampa 3D può essere applicata in molti campi diversi, le sue possibilità sono ancora tutte da scoprire. L’Ab3D sta stampando ora microscopi per laboratori nel settore della sanità e per le scuole, protesi per chi ne ha bisogno, siringhe speciali per uso medico e ovviamente le scarpe «Happy Feet». «Sono tutte iniziative orientate al bene della comunità», sottolinea Roy, «ma stiamo cercando nuove strade per aiutare in modo più diretto ed efficace». Per questo Roy e il gruppo dei suoi collaboratori stanno cercando di essere sempre più propositivi e attenti ai bisogni di ogni giorno. Un dialogo più serrato tra «i tecnici» e la comunità con le sue necessità concrete è importante per tutti. La gente si apre ai benefici del progresso tecnologico e i tecnici imparano dalla gente ad affrontare e risolvere problemi reali.

Katya Nyangi Mwita*

*Giovane russo-keniana che dopo aver insegnato inglese a Mosca e lavorato come giornalista della stessa lingua in un’agenzia di informazione russa, ora, in Kenya, lavora in un centro specializzato in educazione e comunicazione.

Vedi su Youtube (in inglese) African Born 3D Printing
e Intermission with 3D Printing Innovators Carl & Roy




La Costa d’Avorio in ostaggio /2


Da Dianra, nel Nord Ovest, dove i missionari lavorano per sanità e dialogo, a Grand Zattry e Sago, nel Sud Ovest, dove cercano di ampliare una scuola. Passando per Soubré, dove è in costruzione una grande diga, terminando con San Pedro e Abidjan, dove tonnellate di cacao rischiano di marcire sui camion all’entrata dei porti.

A Dianra, come a Marandallah, il dialogo interreligioso permea di sé tutta l’attività dei missionari. Questo implica un procedere lento, graduale, rispettoso delle differenze e capace di fare emergere ciò che accomuna. «È anche per questo», spiega padre Matteo Pettinari, «che prima di costruire una case de santé (piccolo centro sanitario) contattiamo le autorità di ciascun villaggio e organizziamo un incontro pubblico che coinvolga tutta la comunità. Durante l’incontro chiariamo che queste strutture fanno parte di un programma che le autorità locali della sanità pubblica hanno affidato al nostro centro di Dianra Village. Non si tratta, quindi, di costruire “la casa dei cristiani” ma di portare l’assistenza sanitaria al villaggio attraverso le regolari visite della nostra equipe mobile. Non solo: nell’incontro si cerca di ottenere dagli abitanti del villaggio l’impegno a collaborare con il nostro personale in modo che questo servizio rechi davvero beneficio».

In quel contesto rurale la gente tende a rimandare il momento in cui ricorrere alle cure mediche, finché non è chiaro che i rimedi tradizionali sono inefficaci e che le patologie si sono aggravate al punto da essere ormai invalidanti. Le donne devono chiedere il permesso ai mariti per essere dispensate dal lavoro nei campi e andare al centro di salute a farsi visitare, ad esempio durante la gravidanza, o a far visitare i bambini per scongiurare il rischio della malnutrizione. Creare sensibilità e consapevolezza è un lavoro lungo e delicato. Fare di corsa significa rischiare di offrire un servizio che poi nessuno usa.

«È interessante», prosegue Matteo, «come villaggi distanti pochi chilometri reagiscano in modi diversi: c’è una località nella quale non siamo riusciti a trovare un accordo, un’altra dove ci stiamo avvicinando a un’intesa e una terza in cui, al termine della riunione con la comunità, alcuni giovani avevano già scavato le fondamenta per la case de santé».

Quest’ultimo non è il solo esempio incoraggiante che il missionario cita. Mostra con evidente soddisfazione le foto di Sononzo Carrefour, altro villaggio che fa capo a Dianra, dove la chiesa e la moschea sono dello stesso colore, e ricorda: «L’anno scorso i musulmani di Sononzo hanno fatto una colletta per ridipingere la moschea e ci hanno proposto di dare il loro contributo per ridipingere anche la nostra chiesa. È stato un gesto davvero splendido, un atto di fratellanza che ci riempie di gioia e ci evangelizza».

Verso Sud, fra palma da olio e caucciù

Lasciando Dianra in direzione Sud gli alberi tornano lentamente ad essere verdi, segno che qualche sporadica pioggia – al Nord del tutto assente da mesi – ha lavato via dalle foglie la polvere rossa della stagione dell’harmattan1.

Grand Zattry si trova nel distretto di Bas-Sassandra, lungo la strada in parte asfaltata che collega il Nord a Soubré, cittadina a 130 chilometri dal mare. Ai lati della strada, mentre non vengono meno le piantagioni di cacao, spariscono quasi del tutto i fiocchi bianchi del cotone e i frutti arancioni dell’anacardio. Sono gli alberi di caucciù a dominare il paesaggio – ciascuno con il suo recipiente simile a un bicchiere legato sotto l’incisione nella corteccia dalla quale cola il lattice bianco – e le palme da olio, con i loro grappoli di frutti rossi adagiati dove la fronda si stacca dal tronco.

A Blesséoua, uno dei villaggi che la missione di Grand Zattry accompagna, la scuola primaria ha 458 allievi: troppi per le sei classi che fino a dicembre 2016 aveva a disposizione. Quasi ottanta bambini per aula sono davvero di difficile gestione, constata una maestra che si unisce alla riunione con il capo villaggio e altri responsabili della comunità che collaborano con padre James Gichane, missionario keniano a Grand Zattry. Per questo motivo il salone cucina che la generosità di una donatrice ha permesso di costruire nel 2016 è per il momento stato adibito ad aula. Nel frattempo, il Conseil Café-Cacao, l’ente pubblico che regolamenta la produzione e il commercio dei prodotti da cui prende il nome, sta finanziando la costruzione di altre tre classi. «Sono andato di persona alla sede del Conseil», spiega il capo villaggio, «per spiegare loro la situazione della scuola, e grazie a Dio mi hanno dato retta. Bisognava almeno aumentare il numero di aule, ma anche la mensa scolastica e i servizi igienici sono in pessime condizioni». Oltre al villaggio di Blesséoua, la scuola primaria serve diciassette campement (villaggi più piccoli e provvisori) dei dintorni, gli alunni vengono qui a piedi da cinque chilometri di distanza. La situazione di questa scuola, che è comune a molte altre nel paese, stride con le dichiarazioni d’intenti delle autorità pubbliche secondo le quali ogni classe dovrebbe avere non più di quaranta alunni.

Energia per un paese che vuol crescere

Per andare da Grand Zattry a Sago si passa da Soubré, città sulla quale gli occhi del Costa d’Avorio sono oggi puntati per via della costruzione di un’imponente diga che sfrutterà un dislivello naturale del Nawa, un affluente del fiume Sassandra, per produrre energia elettrica. Una volta ultimata, sarà la più grande diga del paese, con una potenza installata pari a 275 megawatt per una produzione annuale di 1.170 gigawatt ora.

L’opera, dal costo di 338 miliardi di franchi cfa (circa 515 milioni di euro), è finanziata all’85% dalla Cina (attraverso la banca Eximbank) e al 15% dalla Costa d’Avorio nel contesto della cooperazione sino-ivoriana; l’entrata in funzione è prevista per la fine del 2017, dopo cinque anni di lavori. Oggi la Costa d’Avorio ha una potenza installata di 1.975 megawatt forniti per tre quarti da centrali termiche (gas naturale e vapore) e per un quarto da centrali idroelettriche, e vende energia a Burkina Faso, Mali, Ghana, Togo e Benin. Il governo intende però raddoppiare la potenza prodotta entro il 2020 e ha pianificato una nuova centrale termica a gas a Songon, quartiere di Abidjan, e una a carbone a San Pedro, suscitando la perplessità per la contraddizione fra la scelta del carbone e la ratifica dell’Accordo di Parigi sul clima.

Sago: l’Africa occidentale in un villaggio

Lungo la strada verso Sago, villaggio a un’ottantina di chilometri dalla costa, è frequente vedere cartelli con il logo della Sipef – Società internazionale delle piantagioni e di finanza – un’agroindustria internazionale che opera nelle aree subtropicali fra cui la Costa d’Avorio. I cartelli recitano: Non au travail des enfants (no al lavoro dei bambini).

«È una campagna che va avanti da qualche anno», spiega padre Ramón, «nata come reazione al fenomeno dei bambini schiavi portati qui soprattutto dal Mali per lavorare nelle piantagioni di cacao».

Il tema ha cominciato ad essere noto all’opinione pubblica internazionale nei primi anni Duemila ma è probabilmente con documentari come il danese The Dark Side Of Chocolate2 che ha guadagnato maggiore visibilità. «Oggi», continua Ramón, «anche grazie a questa campagna, chi è a conoscenza di casi di sfruttamento li denuncia sapendo che, a differenza di un tempo, gli sfruttatori verranno puniti».

Quella del Bas-Sassandra è una zona con una notevole varietà etnica, dove ivoriani e stranieri vivono del lavoro nelle piantagioni o dei commerci che si svolgono nel grande mercato. «In dieci anni», spiega padre Silvio Gullino, missionario della Consolata attivo prima in Repubblica Democratica del Congo e, ora, uno dei decani della missione in Costa d’Avorio, «il villaggio è passato da quattromila a diecimila abitanti. Qui, assieme e agli autoctoni di etnia Godié, vivono Baoulé, Koulango, Abron, ma anche Mossi del Burkina Faso. Anzi, si può dire che siano rappresentati quasi tutti i paesi della Cedeao (Comunità economica degli Stati dell’Africa Occidentale): Togo, Benin, Senegal, Mali, Mauritania…».

Una cartina di tornasole di questa varietà è la messa domenicale nella chiesa di Sago, durante la quale le letture vengono fatte in cinque lingue. I cattolici a Sago sono una minoranza, precisa ancora padre Silvio, circa il dieci per cento della popolazione. Sei persone su dieci sono musulmane, il quindici per cento è cristiano di altre denominazioni e un altro quindici per cento pratica le religioni tradizionali.

La scuola primaria Notre Dame de la Consolata accoglie 250 alunni dai sei ai dodici anni; padre Celestino Marandu, missionario tanzaniano anche lui con diversi anni d’esperienza in Congo, è a Sago dal 2009 ed è il responsabile della scuola che, nel gennaio 2017, è stata una delle pochissime a non rimanere chiusa tre settimane per lo sciopero dei funzionari pubblici.

«Certo», osserva Celestino, «è giusto che gli insegnanti rivendichino il loro diritto a stipendi più alti e migliori condizioni di lavoro; ma qui è la scuola a pagare gli stipendi, regolarmente e senza contributi dal governo. Garantiamo ai docenti anche case ad affitti ragionevoli e un ambiente di lavoro organizzato dove possono segnalare, discutere e risolvere i problemi insieme alla dirigenza. E tutto questo per assicurare la cosa più importante: che i bambini abbiano un’istruzione davvero di qualità». Padre Celestino ha appena completato l’arredamento della sala e mensa scolastica finanziato grazie al contributo di alcuni donatori italiani. «L’ispettore regionale dell’insegnamento primario è venuto a visitare la scuola», racconta padre Marandu. «Alla fine ci ha fatto i complimenti per la mensa più bella e grande della regione del Gboklê».

Nell’immediato futuro padre Celestino ha in programma di terminare la recinzione per avviare l’orto che produrrà frutta e verdura per la scuola: «Senza recinto non si può coltivare, arriverebbero gli animali a devastare tutto». Vuole poi ristrutturare alcune delle case degli insegnanti, completare la case de santé della scuola per seguire i bambini anche dal punto di vista della sanità di base, ultimare il campo sportivo. «Il governo ha introdotto l’obbligo scolastico fino a 16 anni», riferisce il missionario, «ma serve anche un sistema uniforme ed efficace di controlli e sanzioni per chi non manda i figli a scuola. Qualcuno stima che i bambini di fatto non scolarizzati siano ancora almeno la metà».

San Pedro e Abidjan, cacao invenduto e grattacieli

L’aria impregnata dell’odore acre delle fave di cacao è forse uno dei tratti distintivi di San Pedro, insieme alle file di camion che trasportano, oltre al cacao, anche gli altri prodotti delle piantagioni ivoriane. Ma nell’inverno del 2016 nell’aria si respirava anche apprensione: 400 mila tonnellate di cacao erano bloccate nei porti ivoriani e cominciavano a marcire. Il Conseil Café-Cacao, riportava il quotidiano francese Le Monde3, aveva fissato per il 2016 il prezzo cosiddetto «a bordo campo» a non meno di 1.100 franchi al chilo, 1,67 euro. Gli esportatori devono vendere ad almeno 1.800 franchi (2,74 euro) per guadagnare qualcosa considerando anche i costi di manodopera e trasporto. Ma da agosto dell’anno scorso il prezzo del cacao sul mercato mondiale è diminuito del 25% e ora un chilo vale 1.300 franchi, poco meno di due euro. A febbraio, del fondo che il Conseil Café-Cacao ha a disposizione per rimborsare gli esportatori in questi casi nessuno aveva ancora visto un franco. E, spesso, i produttori ricevono il pagamento per il raccolto in parte alla consegna e in parte anche mesi dopo, perciò, se non arrivano prima i rimborsi agli esportatori per l’invenduto i coltivatori rischiano di non incassare nulla.

E se questo è il problema più immediato, non è però l’unico: la rivista Jeune Afrique4 riportava diverse testimonianze di addetti ai lavori secondo i quali la metà del cacao venduto come equo, solidale e sostenibile avrebbe avuto una certificazione fasulla. Questo tipo di cacao può essere venduto a un prezzo più alto di quello del cacao ordinario, perché, in teoria, ha costi di produzione maggiori dovuti a standard più elevati nel trattamento dei lavoratori e nei metodi di coltivazione. Dopo che i colossi del cioccolato, Mars e Lindt in testa, si sono impegnati ad arrivare entro il 2020 a comprare solo cacao certificato, questa fetta di mercato ha avuto un boom. Ma qualcosa non torna: la certificazione è un processo lungo e meticoloso, eppure nel 2015 un terzo del cacao ivoriano – cioè 600 mila tonnellate su un milione e 800 mila – risultava certificato. Troppo in troppo poco tempo, sostengono gli scettici. Alcuni operatori avrebbero fiutato l’affare e costituito delle cooperative intermediarie che comprano cacao ordinario al prezzo minimo, ottengono false certificazioni e rivendono il cacao come equo, facendo così una cresta che può arrivare a 170 Fcfa (18 centesimi di euro) al chilo. Il cacao, ricordava ancora Le Monde, genera due terzi dei posti di lavoro e dei redditi nel paese, la metà degli introiti delle esportazioni e il 15 per cento del Pil. È un settore con il potere di mettere in crisi l’intero paese.

 

A guardare le scenografiche luminarie delle feste scintillare sui vetri dei grattacieli del Plateau, il quartiere chic di Abidjan, a sentire i comunicati con cui le Nazioni Unite annunciano che la situazione è abbastanza stabile da ritirare la forza di pace5, o a leggere che il volume degli scambi di denaro via cellulare tocca i 25 milioni di euro al giorno6 non si direbbe che la Costa d’Avorio possa ripiombare nel caos. E il ricordo ancora vivo del conflitto, della paura costante, del paese spaccato a metà potrà aiutare a contenere le spallate di inizio anno. Ma certamente il 2017 sarà un banco di prova fondamentale per evitare sia un nuovo conflitto sia il cronicizzarsi di una latente, logorante instabilità.

Chiara Giovetti
(2 – fine)

Note

1- L’Harmattan è un vento secco e polveroso che soffia a Nordest e Ovest, dal Sahara al Golfo di Guinea, tra novembre e marzo. È considerato un disastro naturale (Wikipedia).
2- The Dark Side of the Chocolate – Il Lato Oscuro del Cioccolato – Italiano, 02 agosto 2014, canale Youtube «doppiatorianonimi».
3- Charles Bouessel, Comment la Côte d’Ivoire se retrouve avec 400 000 tonnes de cacao invendues sur les bras,
lemonde.fr, 16 febbraio 2017.
4- Charles Bouessel, Agriculture : la filière cacao envahie par la fraude à la certification, jeuneafrique.com, 3 febbraio 2017.
5- Carlverth Kouakou, Côte d’Ivoire : Les casques bleus quittent le pays à partir du 15 février, laseve.info, 10 febbraio 2017.
6- Hamsatou Anabo, Côte d’Ivoire: Entre 15 et 18 milliards CFA de transactions quotidiennes via Mobile Money, connectionivoirienne.net, 3 febbraio 2017.

 




La Costa d’Avorio in ostaggio /1


Reportage dalla Costa d’Avorio. Dall’arrivo ad Abidjan, capitale economica e culturale del paese, proprio nella settimana dell’ammutinamento dell’esercito e dello sciopero dei dipendenti pubblici, alla visita alle missioni di Marandallah e Dianra, nel Nord del paese dove operano i missionari della Consolata.

«Sei stata in Costa d’Avorio dieci anni fa? La troverai molto cambiata, allora. Abidjan ad esempio: ora ha strade nuove, un nuovo ponte con il pedaggio ed è molto, molto più pulita». Così mi dice durante il volo una trentenne ivoriana che vive da vent’anni in Germania, dove lavora in proprio come parrucchiera. Di Costa d’Avorio, in realtà, sa poco o nulla, ormai: torna una volta all’anno per vedere i fratelli e per godersi il buon cibo ivoriano: il foutou, una sorta di polenta fatta con la banana, la manioca o l’igname a seconda della zona e il pesce cotto al vapore dentro una foglia di banano.

Ammutinamento dei militari

All’uscita dell’aeroporto della capitale ivoriana, però, le notizie che raccogliamo non riguardano i passi avanti nell’urbanistica di Abidjan, ma l’ammutinamento dei militari del Nord del paese, in particolare a Bouaké. Non di tutti i militari, bensì degli anciens combattants, cioè i ribelli integrati nell’esercito che avevano sostenuto, nella fase di uscita dalla crisi, la corsa alla presidenza dell’attuale capo di Stato ivoriano, Alassane Dramane Ouattara, detto Ado. L’attuale insubordinazione in seno all’esercito altro non è che il batter cassa degli ex ribelli, ai quali la compagine politica di Ado aveva promesso premi in denaro e privilegi in cambio del loro sostegno. Nel novembre 2014 c’era stata un’avvisaglia, ma si trattò di una semplice protesta; quello di oggi, gennaio 2017, è un vero e proprio ammutinamento iniziato la settimana successiva all’Epifania dalle città del Nord ed esteso poi agli ex ribelli nell’esercito di stanza in tutto il paese.

La richiesta al governo era chiara: soldi, miglioramento delle condizioni delle caserme e case per le famiglie dei soldati. Ouattara era in Ghana alla cerimonia di insediamento del suo omologo dopo le elezioni nel vicino anglofono. È rientrato in tutta fretta per convocare un Consiglio dei ministri e reagire all’emergenza. Dopo momenti di grande tensione culminati nel sequestro del ministro della Difesa inviato a Bouaké a trattare, un accordo è stato raggiunto e i militari sono rientrati nelle caserme. Ma il 13 gennaio, giudicando insufficienti i gesti del governo in direzione del rispetto degli accordi, i soldati hanno ricominciato a protestare creando disordini, stavolta più violenti.

Proteste e disordini

«Padre Alexander Likono, uno dei nostri confratelli, era a Bouaké per delle commissioni», racconta padre Ramón Lázaro Esnaola, superiore dei missionari della Consolata in Costa d’Avorio. «All’entrata in città ha trovato una cinquantina di militari: abbiamo preso Bouaké, dicevano, e prenderemo tutta la Costa d’Avorio. Poi gli hanno ordinato di scendere dalla macchina e di cederla a loro. Al suo rifiuto, lo hanno minacciato. Dopo una serie di negoziazioni e dopo avergli estorto denaro lo hanno lasciato andare, ma la paura è stata davvero tanta». I giornali hanno scritto che non ci sono stati incidenti seri, ma chi era a Bouaké parla di due morti e diversi casi di stupro.

«La situazione è grave», continua padre Ramón, «perché la popolazione, esasperata da una settimana di blocco delle attività economiche, si è ribellata ai militari, e questi hanno aperto il fuoco sulla folla. È un miracolo che non ci siano decine di morti».

Anche dopo i fatti del 13 gennaio governo e militari hanno siglato un accordo, ma il 17 gennaio c’è stata una terza ondata di disordini che ha causato quattro morti. A protestare non sono stati stavolta gli ex ribelli integrati nell’esercito, ma quelli entrati in forze alla gendarmerie e alla polizia, intenzionati a ottenere lo stesso trattamento dei «fratelli» militari. A peggiorare ulteriormente il clima è stato lo sciopero dei dipendenti pubblici a partire dal 9 gennaio, che ha portato, fra le altre cose, alla chiusura delle scuole per tre settimane.

La tensione sociale è alta: il governo avrebbe accettato, almeno sulla carta, l’esorbitante richiesta dei circa 8.500 militari ribelli, equivalente a circa 7.500 euro a testa (ma secondo altre fonti a questi si aggiungerebbero altri 10 mila euro da corrispondere in sette mesi), creando malumore in tutto il paese. I dipendenti pubblici, ad esempio, vivono la resa del governo come un’ingiustizia che aggrava l’inadeguatezza dei loro salari.

Il 7 febbraio le Forze speciali dell’esercito si sono ammutinate a Adiaké, città di confine con il Ghana. Reclamano pure loro premi economici come quelli accordati ai commilitoni.

Malumore popolare

Ma, ricorda ancora padre Ramón, il malcontento è diffuso soprattutto nella fascia più ampia della popolazione, quella che non può far valere le sue ragioni attraverso le armi né far sentire la propria voce con uno sciopero. Si tratta della gente comune, che un salario non lo ha mai visto e che vive di agricoltura e commercio. «Con quali soldi il governo pagherà i ribelli?», si chiede la gente. «Userà denaro pubblico sottraendolo agli investimenti in infrastrutture, sanità e scuola?».

La popolazione è disgustata dai militari che, riconvertendo i blocchi stradali del tempo di guerra in improvvisate frontiere interne, non hanno mai smesso di estorcere denaro a chi passa per trasportare cacao, anacardi, cotone o per andare a coltivare i campi. È stufa di non poter mandare i figli a scuola e di avere i servizi sanitari ridotti al minimo a causa dello sciopero. È, infine, spaventata dalla possibilità di ricadere in un conflitto – logorante, estenuante – come quello che solo dieci anni fa aveva trasformato il Paese modello dell’Africa Occidentale in una discarica di odio interetnico, di macerie di interi settori economici e di detriti di servizi pubblici e infrastrutture, sbriciolati dai tarli della corruzione. Alla data di chiusura di questo articolo la situazione sembra essersi stabilizzata, ma sono tanti a temere che il ritorno della tensione sia dietro l’angolo.

Marandallah, la missione del dialogo

Marandallah è una sottoprefettura nel Nord Ovest della Costa d’Avorio a poco meno di 500 chilometri da Abidjan. Siamo in piena zona koro, gruppo mandé presente in tutto il Nord ivoriano. Il 72 per cento della popolazione è musulmano, seguito da un 25 per cento che pratica le religioni tradizionali, mentre le diverse denominazioni cristiane si dividono il restante tre per cento. I cattolici sono 912 su un totale di 42mila abitanti.

«Date queste premesse», dice padre Alexander Likono, keniano missionario della Consolata che lavora a Marandallah (quello scampato al posto di blocco di Bouaké), «è facile capire come il dialogo interreligioso sia al centro del nostro lavoro qui. Al servizio del dialogo è anche il nostro impegno nel campo della sanità e dell’istruzione e formazione».

Le attività economiche principali della zona sono le coltivazioni dell’anacardo e del cotone. «I campi hanno un’estensione di un ettaro o due per famiglia», spiegano John Baptist Ominde Odunga, confratello e connazionale di padre Alexander. «A lavorare la terra sono, insieme agli adulti, anche i bambini, che spesso per questo smettono di frequentare la scuola primaria o addirittura non iniziano nemmeno il percorso scolastico.

La scuola secondaria conta circa 450 allievi, ma i professori – assegnati a settembre – hanno iniziato ad arrivare solo a gennaio. «È un luogo troppo isolato», continuano i due missionari, «qui gli insegnanti non ci vogliono venire. Per questo abbiamo proposto una soluzione temporanea ispirandoci a quel già avviene nel paese dal 2002 a causa della crisi: abbiamo coinvolto i giovani che hanno finito la secondaria chiedendo loro di darci una mano». A partire da novembre questi giovani sono impegnati come insegnanti volontari. Le famiglie degli studenti si auto tassano e riescono a dare ai volontari un piccolo rimborso di trentamila franchi al mese, pari a circa 45 euro, un quinto del salario di un insegnante statale. «Io stesso ho insegnato inglese», racconta Alexander. «Certo non può essere una soluzione definitiva, ma l’alternativa era lasciare 450 ragazzi senza scuola».

Il dialogo interreligioso e, più in generale, la reciproca conoscenza e cooperazione con la popolazione di Marandallah ha come luogo simbolo il Jardin de l’Amitié (Giardino dell’amicizia), una sorta di parco poco fuori dal villaggio. Nel Jardin, ideato e curato da padre João Nascimento, missionario portoghese attivo a Marandallah fino a dicembre 2016, si svolgono, oltre alle celebrazioni cattoliche, momenti di aggregazione ai quali partecipano tutti gli abitanti del villaggio. Altro luogo di aggregazione è il centro per le attività sociali di fronte alla missione, che ha sale per la formazione, un piccolo ristorante, un campo da gioco. Vi è poi l’alfabetizzazione, che si svolge sia a Marandallah che nei villaggi intorno all’interno degli appatames, strutture aperte simili a paillotte (tettornie circolari aperte, con tetto di paglia).

Altra attività fondamentale dei missionari a Marandallah è il centro di salute Notre Dame de la Consolata. Il centro ha un dispensario, una maternità che segue fra le quaranta e le sessanta donne per mese, un laboratorio utilizzato anche per la diagnosi e il monitoraggio dei casi di Hiv. Dalla fine dello scorso anno, poi, la maternità dispone anche dell’ecografia. Il centro è una struttura di riferimento per la diagnosi e cura dell’Hiv/Aids in collaborazione con Sev-Ci, Ong ivoriana specializzata in questo campo. «La difficoltà maggiore», spiega ancora padre Likono, «è far capire alle persone quanto sia importante venire tempestivamente al centro di salute quando hanno un problema. Spesso tentano di curarsi con i metodi tradizionali e si trascinano per mesi malattie guaribili in pochi giorni. Lo stesso vale per quelle donne incinte che non vengono a farsi visitare durante la gravidanza e che, in caso di parti problematici, arrivano qui in condizioni terribili, a volte troppo tardi». Portare i pazienti all’ospedale più vicino, se il caso è troppo complicato per essere risolto al centro, significa far loro affrontare ore di viaggio in ambulanza su piste difficili, specialmente con le piogge, per un costo fra i 60 e i 90 euro.

Dianra. Salute, alfabetizzazione e microcredito

Ottanta chilometri di pista più a Nord – l’asfalto finisce una quarantina di minuti prima di arrivare a Marandallah ed è praticamente assente in tutto il Nord – si trova Dianra. Un bambino di una decina d’anni attraversa il cortile della missione nel buio della sera, ha in mano una busta di plastica con dentro penna, matita, quaderno e lavagnetta. Raggiunge gli altri circa 160 bambini e adulti che si intravedono nei quadrati luminosi di porte e finestre delle aule della missione, le teste chine sui banchi o protese verso la lavagna.

«Questi sono i corsi di alfabetizzazione, sono cominciati quindici anni fa», spiega padre Raphael Njoroge Ndirangu, un altro missionario keniano che lavora a Dianra. «Non sono decollati subito, ma poi piano piano le persone hanno cominciato a vederne l’utilità nel loro quotidiano». Hanno capito, ad esempio, che saper leggere e scrivere permette loro di gestire direttamente la vendita del cotone o degli anacardi che producono invece di mettersi nelle mani di intermediari che barano sul peso e si accordano con i compratori per spartirsi il maltolto. Oppure hanno visto tre loro colleghi degli anni passati superare l’esame di stato che riconosce il livello scolastico raggiunto e trovare così lavori che altrimenti non avrebbero potuto avere. «Certo, non è facile per loro rimanere concentrati dopo una giornata nei campi, ma sono motivati e in questo gli insegnanti hanno un ruolo fondamentale». Altra attività che riesce a influire sul quotidiano delle persone è il microcredito, cornordinato da padre Manolo Grau, missionario spagnolo con all’attivo parecchi anni di Congo, poi approdato in Costa d’Avorio. «A oggi abbiamo 165 donne che partecipano al programma di microcredito, che è un’iniziativa stabile e, anzi, in crescita». A gestire le donne, suddivise in gruppi di cinque, sono sei responsabili, una delle quali è musulmana, a riprova che anche la missione di Dianra, come Marandallah, ha nel dialogo con le altre religioni uno dei suoi punti fermi. «Finora i vari gruppi di donne hanno semplicemente completato i cicli triennali di microcredito con percentuali di rimborso che non sono scese mai sotto il 98 per cento. Ora, dato il consolidamento dell’iniziativa, padre Manolo e le sei responsabili cominciano a pensare a un salto di qualità. «Potrebbe essere una cornoperativa, un orto comunitario, un’attività generatrice di reddito che riunisca alcune di queste donne in un progetto comune. Ma un’iniziativa del genere può funzionare solo se viene da loro. Il nostro lavoro è quello di accompagnarle nella riflessione e nell’eventuale formalizzazione di una proposta».

Un salto di qualità, invece, lo ha fatto nel 2016 il Centro di Salute Giuseppe Allamano a Dianra Village, località a 22 chilometri da Dianra. Padre Matteo Pettinari, missionario italiano e responsabile del centro, ha radunato tutto il personale nell’atrio del dispensario e Victor, infermiere recentemente entrato in forze al centro, guida la visita alla maternità, al laboratorio, allo studio dentistico terminati nel febbraio 2016. Questi completano il dispensario e la farmacia, che esistevano già; il centro così ampliato riceve crescenti richieste da parte di nuovi pazienti. I parti sono arrivati a circa 28 al mese.

«Grazie al sostegno di Amico, di Mco e di una parrocchia di Pesaro», spiega padre Matteo, «abbiamo inoltre costruito le cases de santé nei villaggi intorno a Dianra Village. Si tratta di piccole strutture presso le quali facciamo sanità di base e portiamo avanti il programma sulla lotta alla malnutrizione». «In quattro degli undici villaggi che serviamo», afferma Suzanne, ausiliaria responsabile con Victor del programma malnutrizione e membro dell’équipe mobile del Centro, «seguiamo 152 bambini malnutriti, ma prevediamo di ampliare progressivamente il programma anche agli altri piccoli che abbiamo individuato nei restanti villaggi».

Chiara Giovetti – [continua]




Brasile. Il morbo che segrega


Venga chiamata «hanseniasi» o «lebbra» (come un tempo), questa patologia non soltanto produce gravi conseguenze sul fisico delle persone colpite, ma porta anche alla loro segregazione. Abbiamo incontrato un’operatrice sanitaria che segue la patologia nel Piauí, uno degli stati brasiliani più colpiti. Il Brasile, dopo l’India, è il secondo paese al mondo per numero di nuovi casi registrati ogni anno.

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Floriano (Piauí). La lebbra può deturpare, mutilare e sfigurare chi ne è colpito. E può portare all’emarginazione dei malati e dei loro familiari. A tal punto spaventosa ed escludente che, in Italia, venne emanata una legge, la numero 4 del 1974, per vietare (con l’articolo 3) l’utilizzo del termine «lebbra», sostituito da «morbo di Hansen», dal nome dello scopritore del batterio che la provoca.

Leggendo le statistiche della Organizzazione mondiale della sanità (Oms), si scopre che il Brasile è il secondo paese con il maggior numero di nuovi casi di lebbra dopo l’India: 31.064 contro 125.785 nuovi casi su un totale mondiale di 213.899 nel 20141. Le stime, inoltre, parlano di 1-2 milioni di persone con disabilità irreversibili legate al morbo di Hansen2.

Sul tema abbiamo rivolto qualche domanda a Olívia Dias de Araújo, specialista in salute pubblica e professoressa d’infermeria presso la Università Federale del Piauí, a Teresina. La professoressa sta attualmente seguendo un progetto sull’hanseniasi – denominato «IntegraHans-Piauí» e cornordinato dalla dottoressa Telma Maria Evangelista de Araújo3 – a Floriano, piccola città dove, in questi anni, il numero dei malati ha raggiunto livelli preoccupanti.

Professoressa, l’hanseniasi si riscontra soprattutto in persone e ambienti poveri. Si può parlare di una correlazione di causa-effetto tra indigenza e malattia?

«Anche se l’hanseniasi oggi riguarda i paesi più poveri e, all’interno di questi, gli strati più svantaggiati della popolazione, non si sa con certezza quale sia il peso di variabili quali l’alloggio, lo stato nutrizionale, infezioni concomitanti (come HIV e malaria), o precedenti infezioni causate da batteri. Il ruolo dei fattori genetici è stato valutato per un lungo periodo di tempo: la distribuzione della malattia in conglomerati urbani, famiglie o comunità con corredo genetico comune suggerisce anche questa possibilità».

Anche a causa del suo aspetto esteriore (piaghe, deformità del corpo, piedi e mani in particolare), il malato di hanseniasi ha sempre sofferto di uno stigma sociale che lo ha emarginato dalla comunità. Questo è vero ancora oggi?

«Il coinvolgimento dei nervi periferici è la caratteristica principale dell’hanseniasi. Questa condizione può evolvere in disabilità e deformità fisiche. Disabilità e deformità sono causa di svariati problemi per il malato: riduzione della capacità lavorativa, limitazione della sua vita sociale, insorgenza di problemi psicologici, rifiuto da parte della società. Pertanto, la risposta è: sì, ancora oggi la lebbra provoca stigma sociale e pregiudizi».

Così, per evitare lo stigma e l’esclusione sociale, le persone con hanseniasi cercano di nascondere la propria malattia.

«È vero. Per paura e vergogna i malati nascondono la propria condizione anche a familiari e parenti. Ci accorgiamo di questo in tutte le classi sociali e a tutti i livelli di istruzione. D’altra parte, è realtà che, una volta scoperti, i malati sono evitati ed esclusi anche da molte persone della propria cerchia familiare e sociale».

Il Brasile è di gran lunga il paese americano con più casi di hanseniasi.

«L’hanseniasi sta gradualmente restringendosi a un piccolo numero di paesi. La maggioranza (l’81% circa) di tutti i nuovi casi oggi si verifica in soli tre paesi: India, Brasile e Indonesia.

Il Brasile si trova al secondo posto al mondo per numero totale di nuovi casi. In America, è l’unico che non ha raggiunto l’obiettivo globale di eliminare la lebbra. Per intenderci, l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) ha stabilito che l’hanseniasi si considera eliminata quando si registra al massimo un caso ogni 10 mila abitanti.

In Brasile, la situazione epidemiologica4 è molto eterogenea a causa della grande variabilità del “tasso di prevalenza”5 nelle varie regioni del paese. Mato Grosso, Tocantins, Maranhão, Pará e Piauí hanno il maggior numero di casi. Invece, negli stati brasiliani del Sud la lebbra è praticamente inesistente».

Secondo lei, il governo brasiliano combatte in maniera adeguata l’hanseniasi?

«Secondo la mia personale percezione, il Brasile si sta impegnando nella lotta con strategie corrette, ma anche commettendo errori, che finiscono con il compromettere il raggiungimento degli obiettivi fissati dall’Oms. Il governo federale sostiene che oggi siamo vicini all’eliminazione dell’hanseniasi. La realtà è diversa: i casi di lebbra sono più numerosi di quanto dicano le statistiche ufficiali, perché ci sono situazioni nascoste in alcune regioni dove la malattia è endemica. Il problema è che, senza un miglioramento delle condizioni generali di vita, sarà difficile arrivare alla scomparsa dell’hanseniasi».

Lei sta seguendo un progetto (IntegraHans) contro l’hanseniasi qui a Floriano. Come mai è stata scelta questa cittadina?

«Perché la città di Floriano è un comune storicamente iperendemico per quanto concee l’hanseniasi. Lo dimostrano i numeri. Esso ha un coefficiente di prevalenza della malattia sei volte superiore a quello ideale: sei casi ogni 10.000 abitanti. Negli anni 2001-2014 la città ha notificato 1.083 casi di lebbra, piazzandosi al secondo posto nello stato del Piauí, preceduta soltanto dalla capitale Teresina, pur risultando la quinta città come popolazione a livello statale. Pertanto, Floriano presenta una situazione preoccupante».

Cosa fare per aiutare i malati e per evitare la propagazione della malattia?

«Per aiutarli sarebbe importante investire fortemente nei servizi igienico-sanitari di base, migliorare le condizioni abitative e l’alimentazione, fornire un’istruzione pubblica di qualità e un accesso ai servizi sanitari a tutti i livelli, includendo il diritto alla riabilitazione.

Invece, per evitare nuovi casi, un’alternativa è quella di fare ciò che stiamo facendo con il progetto IntegraHans: una ricerca attiva dei contatti familiari e sociali dei pazienti, posto che queste persone sono esposte a un rischio sette volte maggiore di contrarre la malattia. Soltanto così potremo spezzare “la catena epidemiologica”. Senza un miglioramento della qualità della vita e delle condizioni sanitarie il ciclo della malattia non si chiuderà».

Lei fa visita ai malati nelle loro case. Durante queste visite ci sono state situazioni che l’hanno particolarmente colpita?

«Diverse situazioni mi hanno molto segnato in questo periodo. Ricordo soprattutto due casi. Quello di un uomo al quale non era nemmeno consentito l’accesso all’Unità sanitaria di base per il trattamento delle sue lesioni. Lo abbiamo trovato in una situazione disastrosa: una grave condizione di malnutrizione, ferite ai piedi con osso esposto, alcolismo, un odore insopportabile. È stato triste constatare che il sistema sanitario che lo avrebbe dovuto accogliere e curare semplicemente lo aveva escluso. Lo abbiamo portato a Teresina, affidando il suo caso ai responsabili comunali. Così, oggi, è vivo e vegeto.

Un altro caso emblematico riguarda due sorelle le cui vite sono state distrutte a causa della lebbra. Vivevano vicino a una scuola, che è stata chiusa a causa dei casi di lebbra scoppiati nella loro famiglia. Una delle sorelle vive ancora confinata nella sua casa, senza neppure aver imparato a leggere o scrivere. Stigma e pregiudizio sono immensi. Una situazione devastante. Personalmente non ho mai sentito una cosa così triste e spaventosa. L’essere umano è crudele».

Come operatrice sanitaria e come persona, qual è la sua maggiore speranza?

«La mia più grande speranza è che il “Sistema unico di salute” (Sus)6 – a cui sono orgogliosa di appartenere e di cui sono un ferreo difensore – funzioni come prevedono le sue linee guida: con completezza, universalità, equità ed efficienza; con professionisti e amministratori impegnati e condizioni adeguate di lavoro. Come persona, per la nostra gente del Nord-Est e dell’intero Brasile, spero che vengano sradicati l’analfabetismo, la fame, la povertà e la grande disuguaglianza sociale esistente».

Paolo Moiola
(con Rosa Maria Duarte Veloso – Faesf)


Note

(1) World Health Organization, Weekly epidemiological record, 4 settembre 2015, n. 36.
(2) Dato riportato da www.salute.gov.it
(3) Al progetto partecipano l’Università federale (Ufpi), il governo del Piauí, le città di Floriano e Picos, e due organizzazioni europee: la Nhr (Paesi Bassi) e la Ciomal (Svizzera).
(4) L’epidemiologia è la disciplina che studia la distribuzione e la frequenza delle malattie.
(5) Le misure di frequenza delle malattie distinguono la prevalenza e l’incidenza: la prima misura l’insieme di tutti i casi in un determinato momento per una determinata popolazione; la seconda riguarda il numero dei nuovi casi.
(6) Il Sus è il sistema di salute pubblico dello stato brasiliano. È stato istituito con la Costituzione federale del 1988 (articoli 196-198).

Siti

  • – www.aifo.it
    È il sito dell’Associazione italiana amici di Raoul Follerau, attiva contro la lebbra dal 1961.
  • – www.ilepfederation.org
    È il sito della federazione internazionale delle Ong che combattono contro l’hanseniasi.



Tanzania streghe e stregoni


La stregoneria continua a esistere e a fare danni. Sia quando viene praticata, sia quando viene combattuta. Per questo i missionari si muovono con cautela. Facendo anche attenzione a non sbagliare bersaglio, come in passato a volte accadeva. Ad esempio, i «medici tradizionali» non sono stregoni. Anzi, essi hanno un ruolo e una funzione positivi.

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Le morti si susseguirono una dopo l’altra, con ritmo impressionante, nella casa di Makene, un facoltoso anziano della tribù dei Wasukuma in Tanzania.

Dopo la celebrazione dell’ultimo lutto rituale, il figlio maggiore di Makene interrogò il genitore: «Padre, un tempo i nostri capi come punivano gli stregoni?». Seguì un lungo e inquietante silenzio. Poi l’anziano Makene indugiò su alcune considerazioni. Infine il figlio maggiore e i suoi fratelli se ne andarono senza proferire parola. Ma in cuor loro avevano deciso: bisognava sopprimere subito quel losco stregone, responsabile di tutti gli oscuri mali che avevano funestato la loro casa. Il giorno successivo i figli di Makene fecero irruzione nello «studio dello stregone» proprio mentre stava trattando una paziente. Lo stregone venne immobilizzato in un lampo, portato fuori e impiccato ad un albero sotto lo sguardo compiaciuto di tutti.

Quello era uno stregone davvero singolare. Anni prima era un sacerdote cattolico: padre Joni. Invaghitosi di una giovane donna, stava per abusae. Ma lei resistette. Non solo, con un sasso colpì sul volto l’aggressore. La notizia fece il giro del villaggio, e il prete divenne il bersaglio della derisione generale. Ebbro di rabbia e di vergogna, si disse: «Io sono figlio di uno stregone pagano. Perché dovrei seguire la religione straniera dei bianchi? Ne abbraccerò un’altra: l’islam, ad esempio». Detto, fatto. Il prete gettò la tonaca alle ortiche e divenne un seguace di Muhammad. Partì per il Senegal, dove sposò una ricca musulmana, dalla quale ebbe cinque figli. Però non si accontentava solo della propria moglie. «Passeggiava» pure con altre donne. Troppo.

Un pomeriggio la consorte, con l’aiuto di alcune amiche, aggredì il marito, lo denudò da capo a piedi e lo minacciò: «Amore mio, sta’ bene attento! Se continui a disonorarmi, ti sgozzo come un maiale». E gli puntò al collo un coltello affilato.

Il libertino ebbe paura e fuggì ritornando in Tanzania, non prima però di aver sottratto alla famiglia un’ingente somma di denaro.

In Tanzania l’ex padre Joni si dedicò alla stregoneria, facendo soldi a palate. La sua prima impresa fu l’assassinio di quella donna che, un tempo, non solo aveva resistito alle sue voglie, ma lo aveva svergognato come nessun altro. «Scovate quella strega – ordinò ai suoi manutengoli – e portatemi qui su un piatto il suo basso ventre». Così fu.

Medicine e sacrifici

Questa vicenda è narrata dallo scrittore tanzaniano, Gabriel Ruhumbika, nel suo libro del 2001 «La piaga endemica degli indigeni»1. Qual era a quel tempo la «piaga endemica» del Tanzania? La stregoneria, appunto, piaga diffusa ovunque. La popolazione la temeva più degli artigli delle bestie feroci, più della lebbra, più dell’aids. Pertanto gli stregoni, se individuati, potevano anche essere linciati coram populo, come era toccato allo spregiudicato personaggio ex padre Joni.

Tali esecuzioni erano pure un sacrificio espiatorio e propiziatorio per i benestanti che continuavano a frequentare gli stregoni, che promettevano di accrescere la loro fortuna.

D’altro canto, i ricchi (uomini di affari, generali dell’esercito e della polizia, papaveri del governo ecc.) erano i primi a bussare dallo stregone per ottenere, a pagamento, «la medicina» che avrebbe garantito loro potere e prestigio. Talora la medicina consisteva in «arti umani», tra cui dita e organi sessuali di persone albine.

Il traffico della stregoneria prosperava clandestino, indisturbato e criminale. A volte i clienti dello stregone dovevano pagare le sue prestazioni persino con il «sacrificio cruento» di un loro figlio.

Il sospetto uccide

Questo e altro viene illustrato dal libro di Gabriel Ruhumbika. Ma oggi, dopo quindici anni, qual è il panorama della stregoneria in Tanzania?

Il governo si è impegnato a sanare questo morbo contagioso, con l’intento soprattutto di fermare gli omicidi, perché a fae le spese sono spesso persone innocenti ed innocue, vittime di pregiudizi: donne con gli occhi rossi, portatori di handicap, albini ecc.

La legge sanziona con pene la pratica della stregoneria. Tuttavia il fenomeno, invece di diminuire, cresce. È sintomatico che nel 2010 le uccisioni legate alla stregoneria fossero 579, mentre nel 2012 erano salite a 630.

Ecco i nomi di alcune persone giustiziate, perché ritenute stregoni: Lorenza, anni 70, di Geita: uccisa e bruciata dagli abitanti del suo villaggio; William, 68 anni, di Mbeya: soppresso dai suoi stessi figli; Gaetano, 60 anni, di Iringa: squartato e fatto a pezzi da ignoti2.

Sovente è lo stesso stregone ad accusare altri di stregoneria, decretandone la fine. La vicenda segue questa trafila: un individuo, afflitto da malore, ricorre allo stregone per trovarvi rimedio; se l’interessato peggiora e addirittura muore, lo stregone può ravvisare in un «nemico» la causa del male; allora il «nemico» può essere eliminato con qualsiasi mezzo.

Oggigiorno la stampa del Tanzania si sofferma su diversi casi di stregoneria. Ad esempio: il quotidiano Mwananchi (Il cittadino) ha scritto che il mercato all’aperto di Mbeya è stato più volte bruciato per ragioni di stregoneria. Ma c’è di più nella regione di Mbeya: il sospetto di stregoneria fa sì che si siano seppellite persino persone ancora vive e vegete3.

Bussare a due porte

Circa la stregoneria, la Chiesa cattolica si appella alla Bibbia. Plagiare persone, evocare spiriti o «battere assicelle» (kupiga bao), erano atti che si compivano pure nella terra di Israele, «nazione eletta» di Dio. Ma erano severamente proibiti dall’Onnipotente.

Il libro dell’Esodo 22,18 recita: «Non lascerai vivere colei che pratica la stregoneria». Il Deuteronomio 18,10-12 precisa: «Non si trovi in mezzo a te chi immola, facendoli passare per il fuoco, il figlio o la figlia, né chi esercita la divinazione o il sortilegio o la magia; né chi faccia incantesimi, né chi consulti gli spiriti o gli indovini, né chi interroghi i morti, perché chiunque fa queste cose è in abominio al Signore».

Nel catechismo della Chiesa cattolica, al n. 2117 si legge: «Tutte le pratiche di magia e stregoneria… sono gravemente contrarie alla virtù della religione. Tali pratiche sono ancor più da condannare quando si accompagnano all’intenzione di nuocere agli altri o quando si ricorre all’intervento di demoni. Anche portare amuleti è biasimevole…».

Né si scordi il Secondo Sinodo dei vescovi dell’Africa, svoltosi a Roma nel 2009, secondo il quale la stregoneria esercita una forte attrazione. L’incertezza di fronte all’ambiente, alla salute, al futuro dei figli, nonché il timore di spiriti malvagi, inducono la gente a ricorrere a pratiche contrarie all’insegnamento di Cristo. L’aderire, nello stesso tempo, a due fedi diverse ed opposte (paganesimo e cristianesimo) è una grossa sfida4.

Più esplicitamente, la sfida investe il cristiano tanzaniano che, alla domenica mattina va a messa in chiesa, e nel pomeriggio bussa alla porta dello stregone. Ecco «l’aderire, nello stesso tempo, a due fedi diverse ed opposte».

Stregoni, medici tradizionali e missionari

Da sempre i missionari hanno combattuto la stregoneria (scontrandosi con gli antropologi), perché hanno ritenuto e ritengono che il fenomeno sia causa di divisioni all’interno della comunità, fomentando odi e vendette a non finire. Tuttavia, il missionario, specie nel passato, di fronte alla stregoneria ha fatto spesso di ogni erba un fascio. Non sempre ha saputo distinguere tra «stregone» (sorcerer in inglese e mchawi in swahili) e «medico tradizionale» (medicine-man e mganga wa kienyeji). Il primo era ed è una figura essenzialmente negativa, mentre il secondo può effettivamente guarire da varie malattie.

Detto questo, i missionari della Consolata sanno come comportarsi. E recentemente si sono sentiti gratificare anche da Tarcisio Ngalalekumtwa, vescovo di Iringa e presidente della Conferenza episcopale del Tanzania. Ai cristiani della parrocchia di Sadani il vescovo ha infatti raccomandato: «Fratelli, rifuggite con coraggio dalla vendetta e dalla stregoneria. Queste sono piaghe che incretiniscono, impoveriscono e trasformano in figli delle tenebre»5.

Anche il citato Ruhumbika sostiene che la stregoneria sia «il grande inizio della povertà». A parere dello scrittore, in Tanzania è in atto una guerra contro la stregoneria e «alla fine si conseguirà la vittoria»6. Tuttavia non basta reprimere. Bisogna proporre un’alternativa alla stregoneria.

Per i missionari l’alternativa è l’istruzione e la formazione. Senza scordare che un certo Gesù ha sconfitto il mondo, compresa la sua stregoneria. Egli sarà con i suoi fratelli tutti i giorni sino alla fine della storia7.

Francesco Beardi
(missionario in Tanzania)

Note

1 – Autore e titolo originale del romanzo in lingua swahili: Gabriel Ruhumbika, Janga sugu la wazawa, Dar Es Salaam 2001.
2 – Cfr. Taarifa ya haki za binadamu, 2012, LHRC & ZLSC 2013, pp. 34, 192.
3 – Cfr. Mwananchi, 13 novembre 2013.
4 – Cfr. Africarne Munus, 93.
5 – Cfr. la rivista Enendeni, machi-aprili 2014.
6 – G. Ruhumbika, op. cit., pp. 187, 193.
7 – Cfr. Giovanni 16,33 e Matteo 28,20.




Italia alcol non abusare


Ogni anno oltre tre milioni di persone nel mondo perdono la vita a causa dell’alcol. Ma il problema non riguarda solo il singolo individuo. Da qui la creazione di «club» in cui intere famiglie si riuniscono per superare insieme le difficoltà.

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C’è Franco, 68 anni, ex dirigente di una multinazionale, andato in crisi con il sopraggiungere della pensione; Maria, caduta in depressione in seguito alla morte del marito; Giulia e Gianni, che dopo molti tentativi hanno dovuto rassegnarsi a non avere figli; e poi Marcello, che ha solo 17 anni ma già da sette si ritrova ogni settimana con il padre e gli altri membri del club. Un club «speciale» dove si può ridere e scherzare, ma anche piangere e sfogarsi; dove tutti fanno amicizia e finiscono per brindare ai successi l’uno dell’altro: ma sempre, rigorosamente, senz’alcol. Stiamo parlando dei Cat, i Club alcologici territoriali fondati negli anni ‘60 dallo psichiatra crornato Vladimir Hudolin e presenti oggi in oltre 30 paesi del mondo.

Metodo ecologico-sociale

Nell’ospedale psichiatrico di Zagabria dove lavorava, Hudolin si era accorto che molti pazienti erano alterati non perché «matti», ma perché sotto i fumi dell’alcol. Si convinse allora che i bevitori non erano malati da trattare con i farmaci (o, peggio ancora, viziosi da disprezzare), ma persone che avevano sviluppato un’abitudine di vita scorretta, portatrice di sofferenze fisiche, psicologiche, relazionali. Per uscie, il bevitore doveva quindi cambiare le sue abitudini modificando il proprio stile di vita. Il che poteva avvenire in modo tanto più facile e duraturo quanto più nel processo di cambiamento era coinvolta l’intera famiglia. Nasceva così il metodo ecologico-sociale. Sociale perché, attraverso le famiglie, produce un effetto positivo sull’intera società: infatti i problemi alcol correlati (patologie fisiche e psichiche, incidenti d’auto o sul lavoro, violenze domestiche, ecc.) interessano il 75% della popolazione. Ed ecologico perché, per una vita più sana, occorre ripulire non solo l’ambiente ma anche la cultura (vedi box), liberandola dagli aspetti che favoriscono l’impiego di sostanze dannose. Esistono infatti in tutto il mondo tradizioni che favoriscono il consumo di alcol, ad esempio alcune popolazioni latinoamericane consigliano alle puerpere di bere birra per aiutare la produzione di latte. Anche in Italia ci sono credenze, soprattutto d’origine contadina, molto radicate: «Avevo 5 anni e il nonno nei giorni di festa insisteva per farmi bere lo spumante, dicendo: dai che ti fa bene, prima inizi e più ti rafforzi», racconta Mario, che da adulto ha dovuto rivolgersi ai club per risolvere quello che per lui era diventato un problema.

Lo spazio per i bambini

Oggi in Italia i club alcologici sono 2.050, e raggruppano 20.000 famiglie. La partecipazione di queste, spiega Stefano Alberini dell’Acat, l’associazione dei club, «costituisce una differenza significativa rispetto ad altri gruppi di auto mutuo aiuto (che spesso, inoltre, tendono a considerare il bere come una malattia a tutti gli effetti, nda)». Il coinvolgimento dei familiari nei club hudoliniani avviene quasi in maniera naturale: «È raro che un bevitore prenda l’iniziativa di chiedere aiuto, per vergogna o perché nega il problema anche a se stesso. Nella maggioranza dei casi sono proprio i familiari a contattarci e, specie all’inizio, sono loro che cominciano a frequentare il club per primi».

Ma come funziona la vita dei club? Ognuno comprende da 2 a 12 famiglie che si riuniscono a cadenza settimanale, bambini inclusi, insieme a un facilitatore detto «servitore insegnante» (lo si può diventare dopo una specifica formazione, aperta anche a chi è già membro di un club).

Negli incontri ognuno si esprime in libertà, racconta come ha trascorso la settimana, condivide dolori e difficoltà, ma anche conquiste e progetti per il futuro. «Ci si concentra sul qui e ora, evitando di rivangare gli aspetti penosi del passato e cercando di far emergere le risorse e le forze positive» spiega Alberini, da 26 anni servitore insegnante a Guastalla (Re). Le regole del club sono poche ed essenziali: puntualità, divieto di fumare o usare il cellulare durante gli incontri, ascoltare gli altri senza giudicare, rispetto della privacy e segretezza su quanto viene detto.

Potrebbe stupire la partecipazione dei bambini, visto lo «spessore» dei discorsi e degli argomenti affrontati, e visto l’orario (in genere i club si riuniscono dopo cena per un’ora e mezza, due). In realtà la loro presenza è molto positiva: «Portano freschezza, allegria e serenità», dice Franco, membro di un club di Livoo, e lo è sia per gli adulti che per loro stessi. Lo conferma Alessio, che oggi ha 20 anni e frequenta un club dall’età di 8. «A casa stavo male, mio padre beveva ed era spesso assente, non aveva mai tempo per me o per mia madre, rientrava tardi ed erano continui litigi. Anche mamma aveva iniziato a bere. La prima volta che siamo andati al club, a fine serata il servitore insegnante ci ha detto di buttare tutte le bottiglie che c’erano in casa, e noi l’abbiamo fatto. Ero piccolo, e durante gli incontri mi facevo i fatti miei, giocavo, disegnavo, però ogni tanto tendevo l’orecchio. Capitava anche che intervenissi, rimproverando mio papà se lo sentivo raccontare bugie…». Un’esperienza che, alla fine, è stata positiva per tutta la famiglia: il papà di Alessio ha smesso di bere, diventando poi lui stesso servitore insegnante di club. E Alessio (che, inutile dire, è astemio) ne ha seguito le orme: da un anno è facilitatore di un club, e da cinque fa sensibilizzazione nelle scuole sui rischi legati ad alcol, fumo, gioco d’azzardo.

Famiglie solidali

Ma se qualcuno è meno fortunato e non ha familiari che possano (o vogliano) partecipare al club? «Questo è stato il mio caso», racconta Bianca, 51 anni, che frequenta un club a Torino. «Ho iniziato a bere dopo la morte di mia madre, anche lei con problemi di alcol, e sono andata avanti per otto anni. A un certo punto ho sentito di aver toccato il fondo e, malgrado un’enorme vergogna, mi sono rivolta a un club. Ho trovato però incomprensione e ostilità da parte di mio fratello e di mio padre che, visti i trascorsi familiari, mi hanno liquidata dicendo di aver “già dato”». Nel club Bianca ha trovato una seconda famiglia, che l’ha aiutata a ricostruirsi una vita. «Adesso non bevo da quattro anni, ho di nuovo un lavoro, e c’è stato anche un riavvicinamento con mio padre. Ma, certo, non avere vicini i miei cari mi ha reso tutto più difficile».

In casi simili, all’interno del club è prevista la figura di «familiari solidali» che affiancano la persona sola: possono essere amici o altre famiglie del club. «Si tratta di una forma di cittadinanza attiva, quella solidarietà intesa come interdipendenza fra individui di cui parlava Giovanni Paolo II nella Sollicitudo Rei Socialis: non una vaga compassione o un superficiale intenerimento per chi si ritiene “portatore” del problema, ma un’autentica condivisione, perché comprendo che potrei essere io a trovarmi al posto dell’altro», spiega Alberini. «Come dice la Sollicitudo, tutti siamo responsabili di tutti. E alla fine, come sanno bene i servitori insegnanti e i membri del club, partecipare agli incontri è per ciascuno fonte di benessere e arricchimento personale, e occasione per sviluppare nuove amicizie». Spezzando il cerchio della solitudine in cui l’alcol imprigiona.

Astinenza e sobrietà

L’approccio hudoliniano punta non tanto all’astinenza, cioè la rinuncia all’alcol, quanto alla sobrietà intesa come percorso di crescita e maturazione. «Se, ad esempio, uno smette di bere ma continua con i suoi vecchi comportamenti, in famiglia e fuori, significa che non è ancora sobrio», spiega Alberini. A cambiare stile di vita dovrebbe essere l’intera famiglia, sia smettendo di bere, per rispetto e sostegno alla persona, sia cercando di intervenire sulle dinamiche relazionali che sono causa/effetto del problema.

Non bisogna però pensare che i club siano la panacea per tutti i mali. Roberto, 60 anni, la maggior parte dei quali passati a bere, ci racconta: «Sono in un club da un anno e mezzo, e adesso sto bene, ma ho dovuto seguire un lungo percorso in cui è stato fondamentale l’appoggio che ho trovato al Sert (Servizio per le tossicodipendenze). Non credo che ce l’avrei fatta solo attraverso la solidarietà e l’amicizia che si creano nei club o in altri gruppi di auto aiuto». Dietro l’angolo c’è poi sempre il rischio di ricadute, anche dopo molto tempo. «Sono stato 15 anni senza bere, poi un giorno, convinto di aver superato definitivamente il problema, sono entrato in un bar per un bicchiere. Ma dopo il primo non sono riuscito più a fermarmi», racconta Giovanni. «Per fortuna l’esperienza passata mi ha fatto risuonare un campanello d’allarme, e dopo una settimana ho deciso di tornare al club, che avevo lasciato da un paio d’anni. Lì sono stato accolto a braccia aperte e ho potuto ricominciare».

Ma se è vero che i club non risolvono tutto, è anche vero che vantano percentuali di successo molto alte: l’astinenza media (superiore ai 3 anni) per quanti li frequentano regolarmente è infatti del 73%. «Un risultato notevole, visto che solo il 20% di chi si rivolge ai servizi pubblici riesce a smettere di bere», osserva Alberini. «Inoltre, in tempi di crisi e tagli alla sanità, un metodo come quello dei club, praticamente a costo zero, andrebbe diffuso in maniera capillare su tutto il territorio».

Stefania Garini