La morte nel pancione: «Mi dispiace, non c’è battito»

Secondo i dati dell’Istat, in Italia, un bimbo concepito ogni quattro non sopravvive. La perdita di un figlio in gravidanza è un evento traumatico che va elaborato. Nel vissuto dei genitori, al lutto si aggiunge il dolore dell’incomprensione e della solitudine. Amici, famigliari e operatori sanitari faticano a superare il tabù che circonda la morte e la sofferenza. Alcune iniziative stanno tentando di porre il tema all’attenzione pubblica.

«Alla prima ecografia, questa è la prima cosa che ho visto di te: un puntino, il battito del tuo cuore», scrive Silvia in una lettera al suo bimbo, nato morto dieci giorni prima della data attesa del parto, «dopo aver saputo che eri un maschietto abbiamo deciso il tuo nome. Matteo: “Dono di Dio”».

Silvia e Nicola sono genitori speciali che non hanno potuto tenere in braccio il loro bimbo vivo, sentire il suo pianto o incrociare il suo sguardo. Un giorno, alla 38ª settimana, Silvia non ha più sentito i movimenti di Matteo, ed è corsa in pronto soccorso: «Trovo un’ostetrica. Mi scuso, ma a costo di sembrare paranoica ho deciso di fare un controllo. Prendono la sonda, l’appoggiano sulla pancia: silenzio. […] Mi spostano nella sala ecografia e chiamano il ginecologo. […] punta il cuore: silenzio. Tutti sono zitti. Allora parlo io: “Non c’è battito vero?”».

Silvia e Nicola raccontano così il loro passaggio dalla gioia dell’attesa al lutto. Un lutto incompreso perché personale sanitario, amici, famigliari sembrano non capire che quel bimbo nato senza vita era una persona ed era un figlio.

foto Ciao Lapo Onlus

Quattro ogni dieci

Quella di Matteo viene definita dalle organizzazioni internazionali «morte perinatale». Riguarda i bimbi tra la 28ª settimana di gravidanza e il 7° giorno dopo il parto. Per i bimbi sotto le 28 settimane si parla di «aborti spontanei» (miscarriage) che sono molto più frequenti e difficili da registrare.

Secondo i dati dell’Organizzazione mondiale della sanità1, nel mondo si sono contati nel 2015 circa 2,6 milioni di bimbi nati morti (stillbirth): 18,4 ogni mille nati vivi. Di questi, 1,3 milioni sono deceduti durante il travaglio, prima della nascita e, per la gran parte, erano morti evitabili. Il 98% degli stillbirths avvengono nei paesi a basso e medio reddito dove l’assistenza sanitaria è carente o assente. Nello stesso periodo i bimbi morti entro i primi 7 giorni dalla nascita sono stati 2 milioni: 4,6 milioni di morti perinatali.

In Italia, la morte perinatale riguarda 4,1 bimbi ogni mille nati vivi. Nel 2016, quando le nascite sono state 468.345, le morti perinatali sono state 1.920: circa 700 nei primi sette giorni dalla nascita, gli altri in utero, dopo la 28a settimana. Nello stesso anno, secondo l’Istat2, nel nostro paese gli aborti spontanei sono stati 61.580. Di questi, l’89% (55mila) sono avvenuti entro le prime 12 settimane (46.500 entro le 10). Le interruzioni volontarie di gravidanza sono state 84.874.

In Italia, un bimbo concepito su quattro, il 23%, non sopravvive.

Uno studio della Johns Hopkins University3 stima che negli Usa finiscano in un aborto spontaneo il 30-40% dei concepimenti. Si parla di stima e non di dati registrati perché la maggior parte di essi avviene prima che la donna si sia accorta di essere incinta e non danno luogo, quindi, a un ricovero ospedaliero. Lo stesso studio, inoltre, afferma che il 50% delle perdite di gravidanza non hanno spiegazione.

foto Ciao Lapo Onlus

Un tabù che genera solitudine

L’arrivo di una gravidanza nella vita di una coppia è un evento spartiacque che richiede ai genitori una rivoluzione nel loro modo di affrontare la vita. La morte del bimbo atteso è un secondo spartiacque, un terremoto.

Anche per quelli che hanno già altri bambini, il lutto per il piccolo che si spegne nel grembo è grande. L’evento costringe la coppia a rinunciare al suo progetto genitoriale. Quella creatura già tanto amata viene a mancare.

I genitori sono assaliti dall’incredulità e dal dolore, poi da una grande confusione emotiva: si mischiano in loro vissuti di vergogna, paura, rabbia, dubbi e sensi di colpa: «Non siamo riusciti a proteggerlo»; «Se fossimo andati subito al pronto soccorso…».

Assieme al dolore, allo spaesamento e al senso di colpa, sovente i genitori in lutto sentono una grande solitudine. La morte in gravidanza, pur essendo frequente, è percepita come innaturale e vissuta come un tabù. Spesso, di fronte a essa, le persone fuggono (dai, non parliamo di queste cose tristi) o negano (non era neanche un bambino; ma sì, ne farete altri), qualcuno è insofferente (dopo tre mesi soffri ancora?).

Sembra che il lutto di questi genitori non abbia diritto di esistere, che sia un sentimento inopportuno ed esagerato. Sembra che quei bambini siano figli solo per loro: «Allora dentro di me – scrive Silvia – inizia a salire il grido di una mamma orfana. È il grido di una madre che vuole far sapere al mondo che ha avuto un figlio che è morto! Non è stata una fantasia, è stato reale!».

foto Ciao Lapo Onlus

L’associazione CiaoLapo

La storia di Silvia e Nicola è stata raccolta in un libro4 dall’associazione CiaoLapo5, nata nel 2006 a Prato da due «genitori speciali», Claudia Ravaldi e Alfredo Vannacci, in ricordo del loro piccolo Lapo, morto in utero a 38 settimane. CiaoLapo si occupa, da un lato, di accompagnare le famiglie in lutto e, dall’altro, di ricerca scientifica e di formazione rivolta al personale sanitario.

Ai tempi del loro lutto, in Italia non c’era sensibilità sul tema, e per Claudia e Alfredo è stato fondamentale conoscere associazioni che operavano in altri paesi. Avendo formazione medica e psicologica, hanno iniziato a importare la ricerca scientifica estera strutturando un modello per accompagnare i genitori e uno di istruzioni per operatori sanitari.

Oggi l’associazione ha referenti in tutte le regioni italiane e accompagna genitori in lutto con l’aiuto psicologico individuale e i gruppi di auto mutuo aiuto seguiti da professionisti volontari.

Abbiamo sentito Micarnela Darsena, psicoterapeuta volontaria di CiaoLapo dal 2012: «L’associazione accoglie tutti. Che siano genitori passati attraverso l’interruzione terapeutica o volontaria, che abbiano subito un aborto spontaneo, o morti perinatali. Non facciamo distinzioni. Accogliamo il genitore e il dolore che porta per il proprio bambino, e ci occupiamo di sostenerlo e aiutarlo a elaborare il lutto».

Micarnela è entrata nell’associazione dopo aver vissuto in prima persona la perdita di due gemelline, Elisa e Silvia, nate alla 23° settimana e vissute solo pochi minuti. Dopo aver fatto il suo percorso come genitore, ora, come psicoterapeuta, offre sostegno agli altri, facilita i gruppi e fa formazione agli operatori sanitari.

foto Ciao Lapo Onlus

Psicologia e fede

Oltre all’associazione CiaoLapo, sono nate negli anni in Italia anche altre iniziative6. Una di esse è quella promossa da Benedetta Foà7, psicologa clinica e counselor, esperta di lutto in gravidanza. Grazie alla sua esperienza professionale ha dato vita, cinque anni fa, al seminario «dalle tenebre alla luce»: cinque giorni residenziali nei quali un gruppo di 10-15 genitori per volta viene accompagnato da Benedetta stessa e da un sacerdote in un percorso di elaborazione del lutto che mette in rilievo anche la dimensione religiosa, portando i genitori a una riconciliazione con sé, con il bambino perduto e con Dio. «Si parla poco del tema aborto – ci dice Benedetta al telefono -, sia di quelli spontanei che di quelli procurati. Soprattutto, si parla poco dello stress post aborto. La nostra società fa difficoltà a stare davanti al dolore. Una volta si partoriva e moriva in casa. Oggi, con l’ospedalizzazione, la sofferenza non si vede più, ed è diventato impossibile parlarne. Amici e parenti tacciono, magari per paura di far soffrire i genitori in lutto, ma, alla fine, li lasciano nella solitudine. Inoltre, spesso, i genitori non riescono neppure ad avere il corpicino del loro bimbo per seppellirlo e lasciarlo andare, e non hanno il conforto religioso».

Sentiamo al telefono anche don Roberto Panizzo, il sacerdote che Benedetta Foà ha coinvolto nell’esperienza dei seminari: «Mi era già capitato d’incontrare persone che non riuscivano a riconciliarsi con se stesse e con Dio per la loro esperienza di aborto spontaneo, oppure voluto. Chi ha avuto un aborto spontaneo, spesso sente forti sensi di colpa perché si vede inadeguato al ruolo, incapace di generare. Chi provoca un aborto ha un peso in più. In fondo però i sentimenti sono gli stessi: senso di colpa, motivato da cause differenti, disistima e difficoltà a lasciarsi perdonare. Mettere tutto questo in un rapporto filiale con Dio e in una condivisione con altri è terapeutico, sia dal punto di vista psicologico che spirituale».

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Stare nel dolore

Con le loro attività, CiaoLapo e le altre iniziative contribuiscono a creare uno spazio di dibattito che oggi è ancora inesistente: «Già si fa fatica a parlare di morte e di lutto in generale – afferma Micarnela -, ancora di più se si tratta di un bambino. Le persone si difendono. È un dolore che non viene riconosciuto».

Anche gli operatori sanitari spesso minimizzano quello che sta succedendo alla coppia che si presenta in pronto soccorso: «Questo è fatto nel tentativo di far superare il dolore. Ma il dolore va attraversato. Per i genitori non è possibile fare finta che non sia successo niente. Per loro niente sarà più come prima – sottolinea con forza Micarnela -. Elaborare non vuol dire dimenticare, ma integrare quello che è successo nella mia storia di vita, dargli un personale significato, e cercare di riadattare la mia vita tenendo conto di quella perdita. I genitori soffrono molto la mancata comprensione del loro dolore, il mancato riconoscimento di quel bambino così amato. Soffrono l’invito a reagire, a superare velocemente, a non piangere più… a non stare in quel dolore.

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Ogni genitore vive il suo lutto in modo personale e deve potersi sentire accolto».

«Ho terminato da poco un percorso con una coppia che ha perso il figlio otto anni fa – racconta Benedetta -. Lei per otto anni ha negato a se stessa che aveva perso un figlio. Però stava male. Quando la situazione si è incancrenita è arrivata da me.

Sono tante le ragioni per cui le persone reagiscono in modi diversi. C’è qualcuno che ci passa sopra dicendo “va bene, è la natura”, qualcuno se ne occupa, ad esempio facendo dire una messa e pregando per lui, qualcun altro invece va in depressione, si ammala, non riesce più a reagire. Ho in mente una signora che ha perso il bambino il giorno prima di partorire. Io l’ho incontrata dieci anni dopo. Nel frattempo era entrata e uscita da ospedali psichiatrici e aveva, di fatto, abbandonato la prima figlia per gestire il lutto del secondo».

«L’esperienza ci fa dire che il dolore non lo si può ignorare – aggiunge don Roberto -, non si può evitare facendo finta di niente. L’unico modo per superarlo è quello di renderlo presente con una lettura positiva, e qui la fede ci aiuta, perché Cristo ha assunto su di sé la sofferenza. Non ti dà una spiegazione, però condivide con te il cammino. Puoi affrontare il dolore cercando non tanto di evitarlo o di dargli delle ragioni di comodo, quanto di dargli ragione nell’oggi. Dare al dolore un senso oggi, per quello che sei ora, permette di trasformare qualcosa di oggettivamente negativo in qualcosa di salvifico. È fondamentale che il dolore si accolga. Il dolore ha un senso. Nella mia libertà, solo io posso darglielo».

«Dalle tenebre alla luce»

Se il dolore non si può evitare, e zittirlo spesso significa amplificare la sua voce, il primo passo è riconoscerlo e dargli un nome. Per questo è importante il confronto con qualcuno che sappia aiutare, e anche la condivisione con chi ha dei vissuti simili.

foto Ciao Lapo Onlus

L’esperienza del seminario «dalle tenebre alla luce» mette in rilievo proprio queste due dimensioni, aggiungendo, per i credenti, quella spirituale. «È un percorso sul lutto, nel quale ci si prende cura del bambino che non è nato», spiega Benedetta.

Nei seminari, organizzati ogni volta in una città diversa, è condensato tutto ciò che nel suo lavoro quotidiano Benedetta propone con approccio laico ai singoli genitori in lutto, associando a esso l’aspetto religioso.

Nel seminario i genitori vivono quattro passaggi fondamentali: possono parlare dell’accaduto in un clima di ascolto privo di giudizio; lasciano emergere sentimenti che a volte loro stessi negavano; vivono un incontro simbolico con il figlio attraverso un oggetto, una lettera scritta e l’uso guidato dell’immaginazione; dopo aver recuperato l’identità del figlio, gli dicono addio, lo lasciano andare.

Don Panizzo racconta: «Si comincia con l’accoglienza e il racconto vicendevole. L’obiettivo è di aiutare i genitori a ristabilire un rapporto con i loro figli, un rapporto che da un lato è interrotto, ma dall’altro è continuamente presente come un’esperienza traumatica. Benedetta chiede alle persone di portare un oggetto: un ciuccio, un pupazzetto, nel quale identificare la creatura che non c’è più. Questo oggetto viene manipolato, tenuto in mano per tutto il percorso, in modo che il contatto fisico crei un rapporto. A un certo punto si dà un nome al bambino e gli si scrive una lettera. Una lettera di addio, di ricordo, di espressione di affetto. Il momento in cui si ristabilisce un contatto con il bambino è molto delicato e doloroso. Poi Benedetta chiede ai genitori di figurarsi un incontro con lui. Il figlio può essere immaginato nel luogo che preferiscono, può avere qualsiasi età. A volte ha 5 anni, altre volte è un giovane. Spesso l’età corrisponde a quella che avrebbe se fosse vivo. I genitori sono chiamati a immaginare l’incontro con il figlio, e poi anche la sua morte. Questo perché rivivano la perdita nel momento presente, in un contesto comunitario, di accoglienza e di fede. L’ultimo momento è quello nel quale i genitori seppelliscono l’oggetto.

Infine si celebra una messa nella quale si benedicono delle vesti bianche, come nei battesimi. Questa messa aiuta i genitori a sperimentare la comunione con Dio che dipende anche da quanto lasciano entrare nella gloria di Dio il loro bambino.

Se il percorso ha successo, i genitori non sono più legati all’episodio in cui hanno perso il loro bambino. Lo lasciano andare. Iniziano a ricordarlo non più legato in maniera traumatica a loro, ma ormai lasciato a Dio».

foto Ciao Lapo Onlus

Un corpo da toccare

I genitori che perdono il proprio bimbo nelle prime settimane di gravidanza non possono avere con lui nemmeno il più elementare contatto fisico. Ma quando è possibile, l’aspetto del toccare, del vedere, del poter vivere un rito di separazione è importante. Micarnela conferma: «Questo è un tema su cui stiamo formando gli operatori sanitari. La vista, il contatto con il bambino, il poter avere dei ricordi, sono elementi preziosi per l’elaborazione, per il distacco, per poter salutare il bambino. Quando i genitori non riescono a farlo, in seguito si trovano a gestire molte emozioni in più: “Avrei dovuto fare, dire…”.

Per le perdite molto precoci, quando non c’è nessun contatto fisico, a volte i genitori compiono qualche rito personale: piantano un albero, fanno volare un palloncino in memoria del figlio. È importante poter celebrare il passaggio di quel bambino».

Benedetta aggiunge: «Molte persone mi hanno detto di non aver avuto la forza di vederlo, però poi rimane un vuoto. Se l’aborto avviene quando il bimbo è un po’ più grande, spesso i genitori chiedono il corpo e lo seppelliscono. Il seppellimento è molto consolatorio. So che il mio bambino è lì, posso andare a piangerlo lì. Ci sono molti cimiteri che hanno degli spazi dedicati ai bimbi piccoli. Senza questo, invece, i genitori dopo un po’ iniziano a dire: “Ma dov’è il mio bambino? L’ospedale cosa ne ha fatto?”. Diventa tutto una ricerca, un dolore. A volte, quando si scopre cosa ne ha fatto l’ospedale è ancora più doloroso, perché magari è stato buttato via insieme ai rifiuti speciali».

«Per il mondo, per la medicina, quando il feto è molto piccolo, è solo materia, qualcosa di scarto – afferma don Roberto -. Quando l’aborto avviene presto, il genitore non ha la possibilità fisica di avere un contatto con suo figlio. Quando, con il tempo, la problematica viene fuori, è proprio questa mancanza che gioca un ruolo importante: nell’immaginazione l’evento rimane continuamente presente. Non c’è un parto, un dare alla luce. Il percorso del seminario “dalle tenebre alla luce” ha proprio questo fine: ripercorrere quello che non è avvenuto, cioè un contatto fisico, una relazione, ma anche il distacco.

Noi siamo degli esseri simbolici, abbiamo la capacità di trarre dalle cose, dalla natura, un significato più profondo. Anche un ciuccio può essere rivelatore. Siamo esseri simbolici e viviamo nella nostra carne, nella nostra creaturalità fisica, oltre che psicologica e spirituale, e quindi abbiamo bisogno di materia, di cose concrete per entrare in relazione».

Lasciare andare

Nei casi di aborti dalla 20a settimana in su è più facile che i genitori e, in molti casi, anche i fratelli più grandi, possano vedere e toccare il corpo del bimbo. Si può vestirlo, fare delle foto, creare dei ricordi tangibili da portare a casa. «CiaoLapo fornisce agli ospedali la Memory box, una scatola con una copertina, degli abitini in cui avvolgere il bimbo. Tutto quello che i genitori possono fare in quelle poche ore è importantissimo, perché possano tornare a casa non proprio a braccia vuote. Questo, a livello internazionale, è riconosciuto come un buon inizio di elaborazione».

Per quanto riguarda un vero e proprio rito funebre, Micarnela ci spiega: «Non so in altre regioni, ma in Lombardia, che venga richiesto o meno dai genitori, si procede alla sepoltura del corpicino a qualsiasi epoca gestazionale. I genitori possono portare a casa il bimbo e fare personalmente la sepoltura. A volte non se la sentono e lasciano che sia l’ospedale a occuparsene. Se intendono farlo loro devono fare richiesta entro 24 ore. Purtroppo non sempre il personale informa i genitori di questo».

Benedetta ci parla della sua esperienza: «Faccio parte dell’associazione Difendere la vita con Maria che ha aperto delle convenzioni con diversi ospedali per occuparsi del seppellimento. Il problema è che il genitore, quando sta perdendo il bambino, è sconvolto. In quel momento non è in grado di pensare in modo lucido e, qualunque cosa gli venga proposta dall’ospedale, si adegua. Sovente non sa neanche che si può seppellire, e quindi lascia fare all’ospedale. Se quest’ultimo ha la convenzione con la nostra associazione, allora propone il seppellimento».

La giornata del BabyLoss

Micarnela ci parla della giornata internazionale del BabyLoss di sensibilizzazione sul lutto perinatale celebrata ogni anno il 15 ottobre: è un’iniziativa a livello mondiale che propone dei riti per ricordare i bimbi che i loro genitori non sono riusciti a vedere, a salutare, a tenere in braccio.

CiaoLapo, già diversi anni fa, ha fatto una proposta di legge per istituire una giornata nazionale di consapevolezza sul tema delle morti in utero. «La proposta è ferma in parlamento da anni, ogni tanto torniamo a fare questa richiesta proprio per allinearci a ciò che succede a livello internazionale». La richiesta è che anche l’Italia riconosca questa giornata e inizi a far uscire dal silenzio il lutto di questi «genitori speciali».

Luca Lorusso

Stacy Lynn Baum

Note

1- Dati riportati nella pagina dedicata alla mortalità perinatale di www.epicentro.iss.it il portale dell’epidemiologia per la sanità pubblica a cura del Centro nazionale per la prevenzione delle malattie e la promozione della salute dell’Istituto superiore di sanità. 
2- http://dati.istat.it
3-Johns Hopkins Manual
of Gynecology and Obstetrics edito nel 2012 dal Dipartimento di Ginecologia e Ostetricia della
Johns Hopkins University School of Medicine.
4- Claudia
Ravaldi (a cura di), La tua culla è il mio cuore, Officina grafica,
Verona 2016.
5- www.ciaolapo.it http://www.ciaolapo.it 
6- Ne citiamo solo alcune, ma ciascuno può trovarne nella propria zona di residenza: Il Mandorlo, studio di psicologia-psicoterapia a Torino (www.post-aborto.it/equipe/); La Vigna di Rachele, rete ecclesiale per l’elaborazione del lutto per aborto (www.progettorachele.org); A braccia vuote, (www.luciarecchione.it/sportello-a-braccia-vuote/).
7- www.benedettafoa.it

LIBRI

– Claudia Ravaldi ha scritto diversi volumi sul tema della morte in gravidanza e del lutto. Citiamo qui solo La morte in-attesa e La tua culla è il mio cuore, entrambi pubblicati da Officina Grafica Edizioni, Verona 2016;

– Benedetta Foà, Dare un nome al dolore, Effatà editrice, Cantalupa (To), 2014; Le doglie del ri-nascere, San Paolo, Cinisello Balsamo (Mi), 2018;

– L. Bulleri, A. De Marco, Le madri interrotte, Franco Angeli, Milano 2013.

Il lutto dei padri

Quelle poche volte che si parla della perdita di un figlio in gravidanza, ci si riferisce soprattutto al lutto delle madri. E il lutto dei padri? «Il lutto dei padri – risponde Micarnela Darsena dell’associazione CiaoLapo – purtroppo è ancora meno riconosciuto di quello delle mamme. Questo accade per un problema culturale generale con le emozioni maschili: gli uomini devono essere forti, devono reagire, non devono piangere, e così via. Molti papà ci dicono: “Per un po’ mi hanno chiesto ‘come sta tua moglie?’, ma a me non hanno mai chiesto come sto”. Caspita! Anche quel papà ha sofferto per la perdita di quel bambino, anche quel papà aveva investito in progettualità su quella nascita. Quanto dolore c’è in un papà che ha perso il suo bimbo.

Quando nei nostri incontri di gruppo sono presenti dei papà, spesso ci dicono che quelli sono gli unici momenti in cui possono parlare del loro dolore.

Hanno sempre detto loro: “Tu devi essere forte per tua moglie, devi sostenerla”. Certo, nelle dinamiche di coppia è facile che inizialmente uno dei due sostenga l’altro e poi, quando questo inizia a stare meglio, il primo si permetta di lasciar andare le emozioni. Questa cosa generalmente succede ai papà: cominciano a stare male quando le mamme stanno meglio, perché finalmente se lo concedono».

L.L.

La sepoltura

Le linee guida internazionali sull’assistenza al lutto, in gravidanza o dopo il parto, prestano molta attenzione alle informazioni da dare ai genitori in merito ai riti funebri e alla sepoltura. È esperienza condivisa a livello transculturale che poter sancire il passaggio, poter chiudere un cerchio, anche solo simbolicamente, è molto importante per i genitori e per il loro lutto. […] È molto importante che i genitori possano conoscere chiaramente le opzioni possibili […]. I genitori che dopo mesi, in molti casi addirittura dopo anni dalla perdita del loro bambino, chiedono informazioni in merito alla sepoltura, riferiscono di aver provato sollievo, e pace, quando si sono potuti recare al cimitero […].

In caso di morte perinatale
(dalla 28ª settimana di gestazione)

In questi casi vige l’obbligo di registrazione presso l’anagrafe come previsto dall’art. 74 del Regio Decreto 09/07/1939 n. 1238 […].

In caso di aborto

I regolamenti cimiteriali italiani, pur con variazioni locali, si basano sul D.p.r. 10/09/1990 n. 285, il quale nell’articolo 7 dichiara: […]

2. Per la sepoltura dei prodotti abortivi di presunta età gestazionale dalle 20 alle 28 settimane complete e dei feti che abbiano presumibilmente compiuto 28 settimane di età intrauterina […] i permessi di trasporto e di seppellimento sono rilasciati dall’unità sanitaria locale.

3. A richiesta dei genitori, nel cimitero possono essere raccolti con la stessa procedura anche prodotti del concepimento di presunta età inferiore alle 20 settimane.

4. Nei casi previsti dai commi 2 e 3, i parenti o chi per essi sono tenuti a presentare, entro 24 ore dall’espulsione o estrazione del feto, domanda di seppellimento alla unità sanitaria locale […].

C. Ravaldi,
da La morte in-attesa, Officina Grafica, Verona 2016, pp. 155-158




Indagine sulla maternità surrogata


Le attuali conoscenze scientifiche dicono che il rischio di conseguenze psichiatriche sulla madre surrogata e sul bambino è elevato. È difficile sostenere la tesi che avere dei figli sia un diritto. È altrettanto difficile non considerare la maternità surrogata come una particolare forma di sfruttamento della povertà. Per ora la sola e indiscussa certezza è che la pratica si è trasformata in un enorme affare.


Testo di Rosanna Novara Topino


In Italia le tecniche di Procreazione medicalmente assistita (Pma) restano precluse alle coppie omosessuali, ai single e alle mamme-nonne. Sono inoltre vietate la fecondazione post-mortem, cioè l’utilizzazione dei gameti del marito o compagno deceduto e l’utilizzazione degli embrioni a scopo di ricerca (permessa invece dal 2016 in Gran Bretagna). Peraltro il Tribunale di Milano, con una sentenza del 15 ottobre 2013 che riguardava un caso di surrogazione di maternità richiesta da una coppia italiana in Ucraina, stabilì che doveva escludersi la consumazione del delitto, da parte della coppia italiana, di falsa dichiarazione di maternità poiché l’atto di nascita del figlio era conforme alla lex loci, che in Ucraina impone il riconoscimento dello status di madre alla madre sociale (la committente) e non alla madre surrogata (cioè della gestante) o alla madre biologica (cioè della donatrice degli ovuli). Per quanto riguarda le coppie omosessuali, che hanno avuto un figlio mediante maternità surrogata all’estero, attualmente in Italia il figlio viene registrato a nome di un unico genitore, come genitore single. Non è infatti passata la proposta di legge della stepchild adoption, che prevede il riconoscimento, come genitore adottivo, del compagno di un genitore biologico. Va detto che il Tribunale di Roma, la Corte d’Appello di Torino e la Corte di Cassazione hanno più volte concesso la stepchild adoption ai partner dei genitori biologici, nell’ambito di coppie omosessuali, sottolineando la preminenza dell’interesse del minore rispetto a qualsiasi altro interesse dello stato.

(Arizona reproductive institute / iStock)

Affari e turismo riproduttivo

Nei paesi in cui è consentita la surrogazione della maternità, essa si è ben presto trasformata in un enorme giro d’affari. Negli Stati Uniti esistono oltre 400 cliniche dedicate. Le donne single o le coppie lesbiche possono scegliere su internet gli spermatozoi in base alle caratteristiche genetiche, al quoziente intellettivo e al carattere del donatore. L’acquisto viene recapitato dai corrieri in una notte, per cui si parla di overnight-male, cioè di «uomo di una notte». Gli ovociti di donne belle e intelligenti (spesso vengono messi annunci per cercarne sui giornali studenteschi universitari) arrivano a costare 50mila dollari. Naturalmente sono nate numerosissime agenzie specializzate nel far incontrare la domanda e l’offerta: forniscono le madri in affitto (che spesso possono essere scelte su catalogo), si occupano eventualmente della ricerca dei gameti se la coppia richiedente è sterile, delle visite mediche della futura gestante e della clinica in cui avverrà il parto e infine delle pratiche legali. Con un piccolo sovrapprezzo, di circa 250 dollari, è inoltre possibile scegliere il sesso del nascituro.

Naturalmente l’acquisto di gameti, il pagamento delle madri in affitto e tutte le spese mediche, assicurative, legali, di sostegno psicologico per la gestante che dovrà poi cedere il neonato alla coppia committente, sono a carico di chi richiede la Gestazione per altri (Gpa), quindi è evidente che il presunto «diritto alla procreazione», sbandierato da chi sostiene questa pratica, è senza alcun dubbio un privilegio per persone o coppie facoltose, che molto spesso alimentano il turismo riproduttivo per recarsi dai paesi come il nostro, dove la Gpa è vietata, in quelli dove tutto è permesso. In California nel 2010 sono nati 1.400 bambini con maternità surrogata, metà dei quali richiesti da coppie straniere, mentre in India, dove sono attive oltre 3.000 cliniche, nascono oltre 1.500 bambini l’anno con Gpa, un terzo dei quali per coppie straniere. In Ucraina nel 2011 sono state portate a termine con Gpa 120 gravidanze, ma il numero reale potrebbe essere più elevato.

Sfruttamento della povertà

(laboratorio_Instituto Ingenes, Mexico)

Non c’è dubbio che la maternità surrogata sia una particolare forma di sfruttamento della povertà da parte di persone facoltose. Basti pensare a cosa prevedono i contratti di maternità surrogata: la donna che si presta per la gravidanza deve rinunciare a ogni diritto sul bambino, deve acconsentire all’aborto in caso di malformazione, deve essere disponibile a fornire il proprio latte dopo il parto e deve pagare delle penali se non rispetta gli standard sanitari richiesti. In alcuni stati, come la Thailandia, i committenti possono rifiutare il figlio con una malattia o un handicap, come capitato nel 2014: una coppia australiana committente di due gemelli ne rifiutò uno, nato Down e con una grave patologia cardiaca.

In realtà, secondo i risultati di alcune ricerche scientifiche, la maternità surrogata è un’autentica violenza perpetrata sia alle madri surrogate che ai figli.

Le madri surrogate, infatti, per favorire l’impianto degli embrioni, devono essere sottoposte a ingenti dosi di ormoni, che ne possono pregiudicare la salute. Oltre a questo bisogna considerare che, secondo una ricerca condotta da neuroscienziati dell’Università autonoma di Barcellona e pubblicata su Nature Neuroscience, i cambiamenti ormonali che avvengono in gravidanza modificano la struttura cerebrale della madre, riducendo per un lungo periodo di tempo il volume di alcune specifiche regioni cerebrali deputate alla cognizione sociale e funzionali alla focalizzazione della madre sul figlio. Si tratta della rete neurale associata alla teoria della mente, cioè la capacità di attribuire stati mentali (pensieri, sentimenti, intenzioni, desideri) a sé stessi e agli altri. In alcune di queste regioni si verificherebbe, durante la gravidanza, un aumento dell’attività neuronale, che rende le madri particolarmente sensibili alle immagini dei propri neonati, molto più che a quelle di altri bambini. Nel cervello dei futuri padri, secondo questa ricerca, non si verifica niente di analogo. Questi risultati ci fanno intuire quale violenza ci sia nella richiesta a una donna di cedere il proprio neonato alla coppia committente e, nel contempo, fanno pensare che una coppia di omosessuali maschi oppure un uomo single siano forse meno adeguati ad allevare il proprio figlio, senza la presenza materna.

Un’altra ricerca, condotta da studiosi della Stanford University e pubblicata su Proceedings of the National Academy of Sciences, ha rivelato che per tutti i bambini, la voce della madre rappresenta una fonte importante di comfort emotivo, grazie alla complessa interazione tra diverse regioni cerebrali. Il feto sente la voce della madre mentre si trova in utero e, dopo la nascita, rappresenterà una costante nell’ambiente uditivo del bambino per tutta la fase del suo sviluppo. Essa inoltre accompagnerà molte delle informazioni fondamentali per il comportamento e l’apprendimento del piccolo. Durante l’ascolto della voce della propria madre, nel cervello dei bambini si attivano regioni che elaborano le informazioni uditive e le emozioni, le regioni che rilevano gli stimoli di ricompensa e li elaborano, le regioni che elaborano le informazioni sul sé e le aree che sono coinvolte nella percezione ed elaborazione dei visi. È chiaro che privare un bimbo della propria madre, sia pure surrogata, per farlo crescere con un single o una coppia di gay equivale a renderlo di fatto orfano di madre.

Conseguenze psichiatriche

Secondo le attuali conoscenze in campo psicanalitico e psichiatrico, la maternità surrogata è una pratica ad altissimo rischio di gravi patologie sia per la madre surrogata che per il bambino. L’osservazione del comportamento dei lattanti separati dalla madre che li ha portati in grembo e dei loro vissuti da adulti ha evidenziato la presenza di un grave trauma infantile. Il dialogo sensoriale ed emotivo fra madre e feto infatti si instaura durante la gravidanza, per cui, anche nel caso di maternità surrogata, si forma un vero e proprio legame madre-figlio. Inoltre, secondo le moderne teorie sull’epigenetica, l’espressività genetica viene modulata dall’ambiente che per il feto è rappresentato dalla madre che lo porta in grembo. Esperimenti condotti su animali hanno dimostrato che le madri e i cuccioli si riconoscono immediatamente dall’odore e dai suoni emessi, in linea con le ricerche sopra citate ed effettuate in campo umano. Cambiare la figura di riferimento, che per il neonato è soltanto la propria madre, può risultare pericoloso per la sua integrità psichica. Oltre a questo bisogna considerare le ripercussioni psichiche sulle donne, che hanno ceduto i figli portati in grembo. Spesso si verificano patologie psichiatriche di natura depressiva, che possono portare al suicidio. Un figlio ottenuto mediante maternità surrogata, una volta diventato adulto e venuto a conoscenza della sua reale origine, potrebbe vedere nei genitori sociali o biologici quasi degli aguzzini, nei confronti della propria madre surrogata.

L’assenza di una figura paterna, nel caso di figli di donne single o di coppie lesbiche, può avere ripercussioni altrettanto gravi, perché, secondo gli psichiatri, la figura paterna aiuta il bambino a comprendere le abilità sociali necessarie a vivere nel mondo esterno, nonché il senso del limite e del controllo. Inoltre la figura paterna aiuta a sostenere la frustrazione e a costruire l’autostima. L’assenza del padre determina un notevole senso di vulnerabilità, che può dare luogo a pensieri catastrofici riguardanti determinati accadimenti o la propria salute (con il rischio di cadere nell’ipocondria).

I sostenitori della gestazione per altri, della stepchild adoption o della genitorialità dei single dovrebbero seriamente prendere in considerazione i risultati di studi come quelli appena citati e ricordare che avere dei genitori è un diritto, mentre avere dei figli non lo è mai stato. In realtà al loro figlio mancherà per sempre un genitore.

Rosanna Novara Topino
(seconda puntata – fine)

 




Chi dice donna dice… dono


Quest’anno, per la nostra campagna di Natale, parliamo di donne: tanto preziose quanto poco valorizzate in molti dei paesi nei quali lavorano i missionari della Consolata. Le seguiamo in tutte le fasi della loro vita: bambine, ragazze, adulte, anziane, studentesse, lavoratrici, madri, nonne.

«Tanto tempo fa in un discorso fatto all’Onu dissi che volevamo che gli uomini facessero qualcosa per noi. Quel tempo è passato. Non chiederemo agli uomini di cambiare il mondo, lo faremo noi stesse». Così si è rivolta al World Economic Forum di Davos lo scorso gennaio Malala Yousafzai, premio Nobel per la pace 2014, attivista pachistana per il diritto all’istruzione che nel 2009 i talebani cercarono di zittire sparandole alla testa. Malala ha esortato ogni donna e bambina a farsi sentire, denunciando le discriminazioni e violenze che vedono nelle loro comunità e nelle loro società.

Se le donne e le bambine del mondo decidessero di farsi sentire tutte contemporaneamente, il pianeta diventerebbe un posto piuttosto rumoroso. Risuonerebbero, infatti, le parole di protesta di 34 milioni di bambine in età da scuola elementare che non sono in classe; più forte di tutte sarebbe la voce di 15 milioni di potenziali alunne – 9 milioni nella sola Africa – che probabilmente in un’aula non ci metteranno mai piede.

Si sentirebbe inoltre il lamento del miliardo e duecento milioni di donne che nel corso della vita hanno subito violenza fisica o sessuale almeno una volta e di 750 milioni di donne che si sono sposate prima dei 18 anni. Oggi continuano a essere costrette al matrimonio almeno 23 bambine al minuto, per un totale di 12 milioni all’anno@. Si udirebbe senz’altro il grido di dolore – e in questo caso non è un’espressione retorica – di 200 milioni di donne e bambine che hanno subito una forma di mutilazione genitale in trenta paesi del mondo@.

Questo coro è solo immaginario; ma le singole voci sono reali e ben distinguibili. I nostri missionari le ascoltano ogni giorno nel loro lavoro, cercando di fare loro da megafono e di trovare risposte efficaci.

Spose invece che alunne

Loyangallani, Kenya

Tra i Turkana (nel Nord Ovest del Kenya, distribuiti nelle contee del Turkana, Samburu e Marsabit), nascere femmina in una famiglia di pastori nomadi significa spesso dover rinunciare alla scuola. Lo sanno bene i missionari che operano a Loyiangalani e che da circa dieci anni portano avanti un’iniziativa di alfabetizzazione per bambini (destinati a essere pastorelli) e bambine (destinate al matrimonio precoce) che non sono mai andati a scuola.

La contea Turkana è una di quelle che ha il tasso di scolarizzazione più basso: solo metà dei bambini vanno a scuola, contro il 92% della media nazionale. Per le femmine, l’abbandono scolastico è ancora più probabile e i matrimoni precoci ne sono una causa.

Nella contea Samburu, dove si trova il Wamba Catholic Hospital – gestito dalla diocesi di Maralal di cui è vescovo monsignor Virgilio Pante, missionario della Consolata – la situazione delle bambine è ancora più complessa. Qui, secondo uno studio dell’Unicef (esteso anche ad altre quattro aree dove vivono i gruppi etnici Masaai, Pokot, Somali e Rendille) al problema dei matrimoni precoci si affianca e si lega quello delle mutilazioni genitali femminili (Mgf o – in inglese – Fgm, female genital mutilation). Su un campione di quasi 5.300 donne intervistate, per Wamba i dati sono preoccupanti: la mutilazione (escissione della clitoride senza infibulazione, la quale, quest’ultima, comporta anche la cucitura della vagina, ndr) riguarda il 95% delle donne di 18-49 anni e il 57% delle bambine fra i 10 e i 17@.

Alcuni punti sulla Mgf

La questione delle mutilazioni genitali femminili è complessa e va capita bene nel suo contesto. L’esperienza dei nostri missionari e missionarie evidenzia che:

– è una pratica ben radicata nella tradizione culturale di molti (non tutti) popoli africani;
– non viene praticata per ragioni igieniche e non è un fatto privato;
– è sempre legata a due riti di alto significato culturale e sociale, come l’iniziazione o il matrimonio;
– è il segno della nuova identità sociale della bambina (o giovane) che, con il rito, diventa «adulta».

Si tratta dunque di un fenomeno culturalmente complesso e radicato, al punto che molte ragazze chiedono di essere sottoposte all’escissione prima di iniziare la scuola secondaria per non essere escluse o umiliate dalle loro compagne. Per contrastare questa pratica non basta quindi dire «no alle Mgf»: occorre aiutare la comunità a creare forme alternative e socialmente accettate di rituali di passaggio e iniziazione.

L’abolizione delle Mgf o la loro sostituzione con altri riti devono conciliare il diritto della persona all’integrità del proprio corpo con la sua esigenza di essere pienamente inserita, accettata e rispettata nella sua società e cultura.

Il peso dei condizionamenti sociali

Ragazza samburu con gli ornamenti del giorno del «taglio»

Che la pressione sociale e la mancanza di consapevolezza dei propri diritti spingano molte donne a prendere posizioni che le danneggiano è confermato anche dal dato riportato in un rapporto Unicef del 2014. Nel mondo, quasi la metà delle adolescenti (15-19 anni) pensa che un marito o un partner siano giustificabili se picchiano la moglie o la compagna in alcune circostanze: se la moglie litiga con il marito, esce senza avvertirlo, trascura i bambini, rifiuta di avere rapporti sessuali o brucia il cibo. In Africa subsahariana, Medio Oriente e Nord Africa le adolescenti convinte di questo superano la metà@.

In America Latina, la Colombia è uno dei paesi con il tasso più alto di violenza contro le donne, incluse le giovani dai 15 ai 19 anni, da parte di un marito o di un partner: il 37%@.

Il lavoro dei nostri missionari in questo paese si è recentemente arricchito di un metodo di formazione che si chiama «pedagogia della cura» e che nella zona di Puerto Leguizamo coinvolge gli studenti delle scuole superiori in percorsi di controllo e gestione delle frustrazioni e della rabbia e di risoluzione pacifica dei conflitti interpersonali. Anche attraverso questi percorsi si sta tentando di eliminare la violenza che spesso nasce «in contesti familiari caratterizzati da abuso di alcol, machismo e povertà» e che nella stragrande maggioranza dei casi hanno nelle bambine e nelle donne le principali vittime.

Le barriere invisibili

Gli ostacoli che impediscono alle donne di avere accesso a istruzione e sanità non sono sempre facili da individuare: solo una relazione costante e ravvicinata con le comunità può permettere di scorgerli e rimuoverli. Spesso, infatti, questi ostacoli derivano dalla reticenza ad affrontare temi considerati tabù, come il ciclo mestruale, oppure dal delicato equilibrio nei rapporti fra uomo e donna all’interno della famiglia.

Unicef stima che le scuole prive di servizi igienici adeguati nei paesi a basso reddito siano circa la metà. E basta che una scuola manchi dei servizi perché le ragazze rinuncino ad andare a lezione durante il periodo mestruale. Questo problema, stando ai dati diffusi dall’Unesco, interessa una ragazza su dieci in Africa subsahariana, causando per ciascuna una riduzione del venti per cento del tempo passato sui banchi e, a volte, il totale abbandono del percorso scolastico.

Ecco perché la costruzione di bagni nelle scuole primarie e secondarie è una delle esigenze che i responsabili dei nostri progetti sul campo non mancano di fare presenti@.

Povera sanità

Quanto all’accesso ai servizi sanitari di base: ci sono ostacoli evidenti come la mancanza di strutture, e poi altri meno visibili, ma ugualmente determinanti, come le resistenze culturali. Un esempio è il lungo dialogo tra i missionari della Consolata di Dianra, Costa d’Avorio, e le comunità locali per decidere la costruzione di alcuni centri di salute nei villaggi legati al dispensario di Dianra Village (vedi Cooperando, MC Aprile 2017). Poiché lì le donne devono chiedere il permesso ai mariti per essere dispensate dal lavoro nei campi (e quindi andare dall’équipe medica per se stesse o i figli), i missionari hanno dialogato con i leader comunitari perché tutti fossero sensibilizzati sull’importanza dell’assistenza sanitaria.

La Costa d’Avorio ha uno dei tassi di mortalità materna più alti dell’Africa subsahariana (645 madri decedute ogni 100mila nati vivi nel 2015@) e quasi tre donne su dieci partoriscono senza l’assistenza di personale qualificato.

Il difficile accesso al mercato del lavoro

La partecipazione attiva delle donne alla vita economica di una comunità genera benefici per tutti. Uno studio McKinsey del settembre 2015 ha stimato che, se le donne fossero economicamente attive alla pari degli uomini, il Pil mondiale aumenterebbe di 28mila miliardi entro il 2025. Se ogni paese, anche non raggiungendo la completa parità di genere, si impegnasse almeno a «copiare» il vicino più virtuoso nel garantire alle donne la partecipazione alla vita economica, l’aumento del Pil sarebbe comunque pari a 11mila miliardi di dollari a livello globale, con un aumento del 12% in Africa e del 14% in America Latina. La sola India vedrebbe aumentare la sua crescita del 16%. Per i paesi in via di sviluppo presi nel loro insieme la fetta di aumento del Pil sarebbe di circa 4mila su 11mila miliardi di dollari@.

Il World Economic Forum ha stilato una classifica dei paesi del mondo che misura la parità di genere: i quattro più vistuosi sono l’Islanda, la Norvegia, la Finlandia e il Ruanda, mentre il primato negativo va allo Yemen, seguito da Pakistan, Siria e Ciad.

Nonostante le numerose conferme del loro valore, le donne rimangono a livello globale meno pagate e più probabilmente disoccupate o occupate in lavori precari rispetto agli uomini. Su di loro ricade quasi sempre l’incombenza di occuparsi dei familiari, si tratti di bambini, anziani o malati.

Investire sulle donne

Le esperienze dei nostri missionari confermano che investire sulle donne paga: i numerosi progetti di piccola imprenditoria e microcredito in RD Congo, Kenya, Costa d’Avorio hanno consentito alle donne di sostenere le proprie famiglie, pagare le spese mediche e coprire i costi per l’istruzione dei figli. Il microcredito che i missionari gestiscono nel Nord della Costa d’Avorio ha percentuali di restituzione del prestito che non scendono mai sotto il 98%. A Camp Garba, in Kenya, il lavoro con le donne dei gruppi etnici turkana e borana iniziato con un progetto di agricoltura e sartoria è stato fondamentale nel ricostruire i rapporti fra le comunità all’indomani degli scontri che nel 2012 opposero i due gruppi etnici e che avevano portato alla morte di trenta persone, alla distruzione di 150 case e all’esodo forzato di tremila sfollati. Oggi, un gruppo consolidato di donne turkana, borana e somale continua a collaborare per mandare avanti le attività ed è riuscito a coinvolgere altri membri della comunità in un progetto di allevamento di bestiame.

Le incerte prospettive per le donne anziane

Il mondo sta invecchiando, avverte la prestigiosa rivista scientifica inglese The Lancet: nel 2015 le persone sopra 60 anni di età erano 900 milioni, nel 2050 saranno due miliardi e la maggior parte di queste vivrà nei paesi in via di sviluppo, principalmente in Asia. Ma anche l’Africa subsahariana vedrà i suoi anziani triplicare: dagli attuali 53 milioni a 150. Eppure, lamenta il direttore dell’International Longevity Centre all’Università di Cape Town, Sebastiana Kalula, nell’agenda politica dei governi africani il fenomeno e il tema di come affrontarlo non appaiono fra le priorità. L’invecchiamento interesserà maggiormente le donne, che tendono a vivere più a lungo degli uomini sia nei paesi ad alto reddito che in quelli più poveri@. A questo fenomeno se ne combinano altri due: in primo luogo, la migrazione verso le città porterà i due terzi della popolazione mondiale a vivere in centri urbani; inoltre, la precarietà del lavoro spingerà le persone a lavorare più a lungo e più lontano da casa. Un possibile effetto del combinarsi di invecchiamento, inurbamento e precarietà potrebbe essere che le donne anziane non solo non saranno accudite dai familiari più giovani, ma potrebbero trovarsi loro stesse costrette a occuparsi dei loro nipoti. Già oggi, la condizione degli anziani abbandonati, ammalati e in povertà assoluta è ben nota ai missionari della Consolata che a Sagana, Kenya, gestiscono una casa per le anziane o che a Guiúa, in Mozambico, hanno avviato un programma per anziani malnutriti fra i quali le donne sono la maggioranza.

Chiara Giovetti


CAMPAGNA

DI NATALE 2018

Un dono…
per riparare i danni

«Chi dice donna dice danno», recita un detto popolare. Nel detto può esserci del vero, a patto di completarlo: «Chi dice donna dice danno… che lei subisce». Ogni giorno, in tutto il mondo.
Il nostro impegno è da sempre quello di proteggere, promuovere e valorizzare le donne, ma quest’anno vogliamo fare di più: ci impegneremo a eliminare i danni che le donne subiscono e aiutarle a dimostrare alle comunità quanto la loro presenza sia un dono.

Vuoi aiutarci?

❤ Con 10 euro puoi donare il materiale didattico a una bimba
nei nostri asili.
❤ Con 10 euro garantisci a una donna un parto sicuro,
con 50 euro un parto cesareo.
❤ Con 50 euro copri un mese di cibo, farmaci e assistenza
per un’anziana seguita nei nostri centri.
❤ Con 100 euro sostieni il salario mensile di un insegnante
per l’alfabetizzazione delle donne.
❤ Con 300 euro sostieni a distanza una bambina
della scuola primaria.




Le due Gambo: l’ospedale in Etiopia e la borgata nelle Langhe

Testodi Ugo Pozzoli su l’incontro tra Gambo in Etiopia e Gambo nelle Langhe |


Incontro Enza Fruttero per la prima volta nel suo laboratorio, nel più grande ospedale di Torino. Ha un sorrisone stampato sulla faccia, proprio di chi sta per andare in pensione e di chi ti sta parlando di una delle grandi passioni della sua vita. Interessante – mi viene da pensare. È sempre coinvolgente ascoltare persone che ti raccontano la missione in prima persona e lo fanno con la luce negli occhi, come se non avessero trovato senso a fare null’altro nella vita.

«Ma tu sei mai andato a Gambo?», mi chiede, quasi per capire se vale la pena di parlare con chi si trova davanti. In effetti, sono stato a Gambo non molto tempo fa. Ricordo bene la missione, l’ospedale, fratel Francisco Reyes, medico e missionario della Consolata allora incaricato della struttura, le suore, la fattoria, le scuole… e la grandissima sensazione di vuoto provata in quell’occasione.

Un giorno intero, passato a vagolare nell’ospedale deserto insieme a Francisco, mio cicerone, che mi dicenva: «Immagina questo reparto stracolmo di gente, queste sale operatorie in continua attività… in questo cortile la gente si accampa… tantissime persone». Quel giorno l’ospedale di Gambo era tutto vuoto. Pochi malati facevano la fila al pronto soccorso, alcuni degenti nei reparti, i lebbrosi visitati a casa loro. Era la festa del compleanno del Profeta e questo spiegava la vacanza dalle scuole, il personale quasi tutto a casa, l’ospedale deserto. Del resto Gambo si trova in Oromia, una vasta regione dell’Etiopia a maggioranza musulmana.

Ciò che non ho potuto vedere quel giorno mi è successivamente diventato familiare grazie ai racconti di Enza Fruttero, biologa, le ferie degli ultimi vent’anni «consumate» in Africa a organizzare un laboratorio ben diverso dal suo di Torino, quello di un piccolo dispensario sperduto nella foresta, al servizio dei lebbrosi, diventato poi un ospedale, punto di riferimento e segno di speranza per gran parte della popolazione circostante.

Lì, il giorno del compleanno di Maometto del 2013, è iniziata la mia storia con Gambo, un luogo divenutomi poi familiare pur non avendoci più rimesso piede.

I tanti amici e volontari, medici e tecnici specializzati che dedicano tempo, energia e sapere allo sviluppo dell’ospedale, mi hanno reso un servizio prezioso, raccontandomene ciascuno un pezzetto, narrando motivazioni, esperienze, successi e sovente non poche difficoltà. Gambo è soprattutto la loro storia, così come è la storia di tante persone che da varie parti del mondo hanno contribuito finanziariamente e spiritualmente per costruire, pezzo dopo pezzo, una struttura di eccellenza al servizio dei più poveri.

Dell’Ospedale di Gambo si è molto parlato anche su questa rivista. Dal 1974, infatti, i missionari della Consolata ne hanno la gestione, continuando a offrire ininterrottamente un servizio di promozione umana che completa in modo perfetto l’azione di annuncio e accompagnamento pastorale della missione. Nel corso di questi anni, si sono portate avanti molteplici attività per finanziare e appoggiare gli operatori locali con il servizio di una cinquantina di medici e specialisti provenienti da Spagna, Italia e Olanda che si danno il turno durante l’anno e quello di tecnici e manutentori in grado di consentire l’operatività della struttura in un ambiente complesso come quello in cui sorge.

Da Gambo a Gambo

«Ma tu sei mai andato a Gambo?». Questa volta a chiedermelo è la dottoressa Paola Palesa. È stata Enza a presentarmela. Si sono conosciute a un master di bioetica e l’entusiasmo di Enza ci ha messo poco a far breccia anche nel cuore di Paola. Racconto nuovamente la piccola, quasi insignificante, storia del mio rapporto diretto con Gambo, ma anche le tante occasioni di contatto indiretto che sono maturate in questi anni.

Enza e Paola mi parlano di un’iniziativa che potrebbe prendere piede se decidiamo di unire le forze e provare a coinvolgere qualcun altro. Gambo ne ha bisogno. A Enza preme trovare i soldi per ristrutturare il villaggio dei lebbrosi che vivono intorno all’ospedale. Sono stati loro la prima vera attenzione dei missionari, il primo vero obiettivo dell’allora piccolo dispensario. Costretti a lasciare le loro famiglie e le loro comunità a causa della malattia e dello stigma che essa comporta, centinaia e centinaia di persone si sono radunate a Gambo per avere cura, ma anche protezione e autentica consolazione.

Per anni le missionarie della Consolata si sono prodigate nell’assistenza di queste persone. Adesso le case del villaggio che li ospita hanno bisogno di una seria manutenzione.

Paola vive a Torino, ma è originaria di La Morra d’Alba, terra di vino, comune con una vista mozzafiato sulle Langhe in cui viene prodotto il Barolo D.o.c. Il belvedere de La Morra è patrimonio dell’umanità, decretato dall’Unesco, roba mica da ridere. Più in basso, all’entrata del paese, a circa tre chilometri dalla signorile piazza del Castello c’è una frazione che curiosamente si chiama «Gambo». Il collegamento è presto fatto, veloce scatta l’idea: perché non proviamo a fare una sorta di gemellaggio?

Il progetto «Colline sorelle: da Gambo a Gambo. Volti e storie di Langa e di Etiopia» è nato così, dal tentativo di mettere a dialogare mondi differenti accomunati semplicemente da un nome e dall’ambiente collinare. Del resto, in questo mondo fluido in cui il «qui da noi» e il «là da loro» si perdono grazie a una maggiore facilità negli spostamenti e, soprattutto, al continuo migrare dei popoli, è bello poter pensare a un progetto in cui l’aiuto sia vicendevole, in cui ciascuno offra all’altro parte di quello che ha, ma anche di quello che è, condividendo cultura, storia, tradizioni, pensiero.

La risposta di La Morra nell’organizzazione dell’evento è stata entusiasta, amministrazione comunale e parrocchia in testa. Gli abitanti di frazione Gambo hanno acconsentito a ospitare una mostra fotografica e un concerto per celebrare i due luoghi omonimi. Sono molti coloro che hanno accettato di mettersi in gioco per aprire una finestra sul mondo.

Da domenica 1° luglio a giovedì 12, infatti, il belvedere cittadino offrirà un panorama ancora più esaltante. Lo sguardo non arriverà soltanto ai paesi dell’alta Langa, ma si spingerà fino alle «verdi colline d’Africa» che ci trasmetteranno suoni, voci, persino i sapori. Sarà divertente e, penso, interessante vedere la cucina dell’Etiopia fare capolino in uno dei centri emergenti del turismo etnogastronomico a livello europeo.

Non si ama se non ciò che si conosce: lo scopo di questi giorni e far entrare la Gambo etiope nella casa della Gambo delle Langhe, sperando che un giorno qualcuno dei tanti, che passeranno a La Morra a inizio luglio, trovi la strada per restituire la visita.

«Ma tu ci sei stato a Gambo?». Questa volta, dopo luglio, la mia risposta sarà differente: «In quale delle due?».

Ugo Pozzoli


Gambo Hospital

Comincia con un villaggio di capanne in paglia e fango, rifugio per alcune centinaia di lebbrosi. Nel 1965 diventa un lebbrosario in muratura, completato nel 1969. Dal 1972 sono presenti i missionari della Consolata. Nel 1980, su richiesta del governo, parte del lebbrosario è trasformata in ospedale generale. Il numero dei posti letto passa da poche decine a novanta con tre sezioni: lebbrosario, medicina generale, Tbc (particolare attenzione è data ai malati di tubercolosi, molto numerosi nella regione). Oggigiorno l’ospedale ha centocinquanta letti e i seguenti reparti: Tbc, lebbrosario, pediatria, medicina, maternità, chirurgia, sala operatoria, ambulatorio e servizi di laboratorio analisi, ecografia, radiologia, per la cura di circa duecentocinquanta persone al giorno. Il bacino di utenza ufficiale è di centomila persone, ma la zona di provenienza dei pazienti è molto più ampia. Oltre alle cure mediche, ai malati che accedono all’ospedale vengono offerti servizi di medicina preventiva prenatale e di terapia per i bambini malnutriti e denutriti su un territorio composto da 23 villaggi.

da www.missioniconsolataonlus.it

Fotogalleria del’Ospedale da Gambo dall’Archivio Fotografico MC

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Colline sorelle: da Gambo a Gambo

Volti e storie di Langa e di Etiopia
Iniziativa in favore dell’Ospedale/lebbrosario di Gambo Etiopia

Comune di La Morra d’Alba (CN)

Domenica 1 luglio

Ore 11 – Santa Messa presieduta da S.E. Mons. Marco Brunetti, Vescovo di Alba.
Ore 12 – Inaugurazione dell’esposizione di prodotti artigianali e dipinti tipici dell’Etiopia (Chiesa di San Rocco).
Orario esposizione: 10.30/12 – 14.30/18 tutti i giorni.

Ore 15 – Presentazione dell’evento: obiettivi, finalità, progetti e testimonianze (Chiesa di San Sebastiano).
Partecipa p. Marco Marini, Superiore Regionale dei Missionari della Consolata in Etiopia.

Ore 17 –  Concerto del Coro “Il Bell’Humore”.
Repertorio: spirituals, classico piemontese e corali sacre di Bach (Chiesa di San Martino).

Mercoledì 4 luglio
Pomeriggio: Animazione Estate Ragazzi.

Giovedì 5 luglio
Ore 16 – Animazione con diapositive e presentazione dell’iniziativa alla Casa di riposo.

Domenica 8 luglio
Ore 11 – Santa Messa. Concelebrata da don Massimo Scotto, parroco di La Morra, e p. Ugo Pozzoli, missionario della Consolata.

Ore 12 – Pranzo etiope presso l’enoteca “Vigne Bio”.

Ore 17 – Frazione Gambo: Cerimonia dell’Amicizia, con caffè etiope e baci di La Morra.
Presenti le “Lamorresine” e costumi tipici etiopi. Concerto di fisarmoniche locali.
Esibizione di tamburi e gong con Marina Gallo e Paola Simonelli (operatrici del suono).
Durante tutto il giorno: Mostra fotografica a cielo aperto:
“Le due Gambo”.

Per dettagli sulle eventuali altre iniziative
e sulla manifestazione di chiusura prevista per giovedì 12 luglio:
Ufficio turistico di La Morra 0173 500344
www.lamorraturismo.it.

Fotogalleria della giornata dell’8 luglio a Gambo, La Morra

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I Perdenti 36: Annalena Tonelli

Testo «intervista» di Mario Bandera a Annalena Tonelli |


Annalena Tonelli nasce a Forlì il 2 aprile 1943, terza di cinque figli. Sin dall’infanzia si sente chiamata a donarsi per gli altri, come racconta nel dicembre 2001, durante un convegno al quale è stata invitata, svolto presso l’Aula Nervi in Vaticano: «Scelsi che ero una bambina di essere per gli altri, i poveri, i sofferenti, gli abbandonati, i non amati, e così sono stata e confido di continuare fino alla fine della mia vita. Volevo seguire solo Gesù Cristo, null’altro mi interessava così fortemente: Lui e i poveri attraverso Lui».

Dopo aver frequentato il liceo classico e un anno di stage a Boston in America, si iscrive alla facoltà di giurisprudenza dell’Università di Bologna. Si forma nell’Azione Cattolica forlivese, nella sua parrocchia e nella Fuci (Federazione Universitaria Cattolica Italiana), della cui sezione femminile locale diviene presidente. Nel tempo libero dagli studi, organizza convegni e incontri. Grande trascinatrice, porta le amiche al brefotrofio, trasformandole in mamme di tanti bambini. Nel 1963 contribuisce in modo determinante a far nascere a Forlì il «Comitato contro la fame nel mondo». Dopo la laurea, conseguita nel 1969, desidera partire per l’India, che ha imparato a conoscere attraverso la lettura dei libri di Gandhi.
I familiari non vogliono che parta né per l’India né per altri paesi, ma lei coglie la prima occasione possibile e, dietro consiglio di un’amica, parte per Nairobi, capitale del Kenya. Proprio in terra d’Africa comincia così la sua straordinaria avventura come missionaria laica, da cui scaturisce il nostro colloquio.

Primo piano di Annalena Tonelli scattato a Boston (1961) – © Erebfan

Annalena come è stato il tuo primo impatto con la realtà africana?

Padre Giovanni De Marchi, missionario della Consolata nella diocesi di Nyeri, mi accoglie a Nairobi e con lui vado come insegnante di inglese nella Chinga Boys, una scuola secondaria fondata nel 1964 vicino a Othaya nella missione di Karema. Lì comincio a farmi le ossa, a conoscere l’ambiente e ad allargare il mio interesse verso il Nord desertico del Kenya. Più passano i mesi, più mi convinco che il mio futuro è in Africa. A un amico sacerdote scrivo: «Sono certa che alla fine scoprirò che anche la vita qui è grazia, perché tutto è grazia, se io dovunque mi trovo, vivo semplicemente, nello sforzo umile ma potente e continuamente rinnovato di imitare il Cristo».

Come si caratterizza la tua permanenza in Africa?

Nel 1970 mi faccio trasferire nella scuola governativa di Wajir, nel Nord Est del Kenya, dove padre Salvatore Baldazzi, sempre missionario della Consolata e romagnolo come me, ha appena aperto una Girls’ Town. Lì mi raggiunge la mia amica Maria Teresa Battistini e poi altre compagne. Insieme diamo vita a una piccola comunità di laiche missionarie. Ci dedichiamo in particolare ai nomadi – prevalentemente somali – del deserto, dei quali ammiro la fede semplice e l’abbandono totale in Dio.

La vostra presenza in quell’ambiente non è certamente priva di rischi.

Siamo ostacolate in diversi modi. Ci prendono a sassate e una notte i ladri non solo ci derubano ma anche ci malmenano pesantemente. Non molliamo però. Con gli aiuti che riceviamo da Forlì, fondiamo un centro di riabilitazione per disabili – non esisteva niente del genere in quel vasto territorio – e inizio anche a occuparmi dei malati di tubercolosi, tanto che riesco a mettere a punto un nuovo metodo efficace di cura (la TB manyatta) che si adatta perfettamente alla vita dei nomadi.

La situazione nel Nord del Kenya è tesa a causa della guerriglia degli Shifta e voi vi trovate coinvolte in un fatto molto grave.

Nel febbraio 1984 miliziani filogovernativi bruciano alcuni quartieri di Wajir accusando i residenti di essere sostenitori dei guerriglieri Shifta. Radunano poi migliaia di uomini nell’aeroporto di Wagalla, picchiano e torturano e il giorno 10 li cospargono di benzina e danno loro fuoco. È un massacro, anche se la maggioranza si salva togliendosi i vestiti. Alla notizia, dipingo una croce rossa sulla nostra Toyota e vado a curare i feriti, recuperare i morti e dare loro sepoltura. Per questo sono minacciata e anche picchiata. Mi salvo perché un vecchio capo musulmano locale mi difende.

Con l’aiuto di amici, mandi alle ambasciate a Nairobi le fotografie di mucchi di cadaveri e feriti per fermare l’eccidio che rischiava di estendersi.

Per tutti questi motivi veniamo espulse dal paese come «persone non gradite» e la nostra comunità di laiche missionarie deve sciogliersi.

Di fronte alla nuova situazione venutasi a creare, come reagisci?

Decido di trasferirmi in Somalia, prima a Merca e poi, nel 1996, a Borama. Lì fondo un ospedale con 250 letti, per i tubercolotici e gli ammalati di Aids, e una scuola per bambini sordi e disabili. Sono più che mai convinta che con l’istruzione si possa far evolvere la situazione economica e sociale di quella che ormai considero la mia gente.

Un bel progetto non c’è che dire.

Mi oppongo anche alla pratica delle mutilazioni genitali femminili, in questo molto appoggiata dalle donne somale. Aggiornandomi continuamente, riesco a ottenere dei diplomi a Londra e in Spagna per la cura delle malattie tropicali e della lebbra. Pur non essendo laureata in medicina, investo tutti i miei sforzi in favore dei malati e perfeziono anche la profilassi per la tubercolosi già sperimentata con la TB manyatta a Wajir. Il metodo verrà utilizzato in seguito su larga scala dall’Organizzazione mondiale della sanità.

Da dove ricavi la forza per andare avanti?

Se devo proprio essere sincera la radice che sostiene tutta la mia attività sta nella preghiera contemplativa, nella meditazione del Vangelo e nell’adorazione eucaristica, quando questa è possibile. Nei miei ritorni in Italia frequento l’eremo di Cerbaiolo, tra Toscana e Romagna, o quello di Spello, o ancora a Campello sul Clitunno. In tutta la mia vita ho sentito costantemente la tensione verso una vita più contemplativa, ma il pensiero dei miei amati somali mi spinge sempre a tornare da loro.

Con questa forza interiore impari a far fronte alle difficoltà dell’ambiente e ai rischi e pericoli quotidiani.

Anche se sono continuamente minacciata, perché bianca, donna, cristiana e non sposata, non ho mai avuto paura, e anche questa è una cosa che ho imparato giorno dopo giorno vivendo con fede la mia situazione.

Alcune volte sono stata in pericolo di vita, mi hanno sparato, picchiata, sono stata anche imprigionata, ma non ho mai avuto paura. Quando poi quel vecchio e rispettabile capo di Wajir decretò che sarei andata ugualmente in Paradiso, anche se ero un’infedele, tutti hanno accettato che io fossi l’unica cristiana residente in quel luogo.

Nella condizione singolarissima come quella da te vissuta in terra d’Africa, avrai messo a fuoco una visione più approfondita del messaggio di Gesù di Nazareth.

L’esperienza maturata vivendo in mezzo ai poveri mi ha dato la convinzione incrollabile che ciò che conta nella vita è amare, solo amare! Quando si ama, la nostra vita diventa degna di essere vissuta. Io perdo la testa per i brandelli di una umanità ferita; più gli esseri umani sono feriti, più sono maltrattati, disprezzati, senza voce, di nessun conto agli occhi del mondo, più io sento di amarli. E questo amore è tenerezza, comprensione, tolleranza, assenza di paura, audacia.

Praticamente sei sempre vissuta con i somali, in un mondo rigidamente musulmano.

Foto di Annalena Tonelli durante l’incontro tenutosi a Forlì dopo aver ricevuto a Ginevra il Nansen Refugee Award. PASQUALE BOVE/ANSA/DEF 2003

Dove ho lavorato in Africa non c’era nessun cristiano con cui poter condividere un cammino di fede. All’inizio tutto mi era contro. Ero giovane, dunque non degna né di ascolto né di rispetto. Ero bianca, dunque disprezzata da quella gente che si considerano superiori a tutti. Ero cristiana, dunque oltraggiata, rifiutata, temuta. E poi non ero sposata, un assurdo in quel mondo in cui il celibato non esiste e non è un valore, anzi è un disvalore. Solo chi mi conosce bene dice e ripete senza stancarsi che io sono somala come loro. Io mi sento madre autentica di tutti quelli che ho salvato.

Questa è certamente un’esigenza fondamentale della tua natura.

Certo io in loro vedo Lui, Gesù il Cristo, l’agnello di Dio che patisce nella sua carne i peccati del mondo. Ma il dono più straordinario, il dono per cui ringrazierò Dio e loro per sempre, è il dono dei miei nomadi del deserto. Loro musulmani mi hanno insegnato la fede, l’abbandono incondizionato, la resa a Dio, una resa che non ha nulla di fatalistico, una resa rocciosa e arroccata in Dio, una resa che è fiducia e amore. I miei nomadi del deserto mi hanno insegnato che devo fare tutto, tutto incominciare, tutto operare, tutto sperare, sempre nel nome di Dio.

Sei mai stata aiutata da altri volontari nel tuo lavoro?

Dall’Italia e da altri paesi europei arrivavano in periodi diversi dei volontari per aiutarmi: c’era chi rimaneva qualche mese, chi trascorreva un determinato periodo, come le ferie estive, ma nessuno ha mai deciso di fermarsi per qualche anno. Economicamente le opere che avevamo avviate erano sostenute da un Comitato di aiuto sorto nella mia città a Forlì, e da altre organizzazioni internazionali. Del resto, io non appartenevo a nessuna congregazione od organismo religioso o laico, mi bastava la scelta fatta nella gioia della mia gioventù, di dedicarmi a Dio e al prossimo senza etichette o simboli esteriori.

Si può dire che tu donna di poche parole, eri impegnata più ad agire che a parlare, tanto meno di te stessa.

In compenso se in Italia, al di fuori della mia città, potevo essere poco conosciuta, le somale emigrate nel nostro paese, i nomadi del Kenya, i tubercolotici della manyatta, i malati di Aids di Borama e i rifugiati del Nord Somalia, cioè gli ultimi e più sconsolati della Terra, mi facevano buona pubblicità parlando delle nostre attività non appena se ne presentava l’occasione.

Inoltre, tu credevi fermamente nel dialogo: tra le persone, le culture, tra fedi diverse.

Si, ma senza indietreggiare di un millimetro, senza dimenticare l’assoluta originalità del Vangelo. Ogni giorno noi ci adoperavamo per la pace, per la comprensione reciproca, per imparare insieme a perdonare. Sapessi come è difficile il perdono! I miei musulmani facevano tanta fatica ad apprezzarlo, ma lo chiedevano per la loro vita, riconoscevano in questo l’originalità della nostra presenza in mezzo a loro.

Il 25 giugno del 2003 Annalena Tonelli riceve dall’Alto Commissariato dell’Onu per i rifugiati, il prestigioso premio «Nansen Refugee Award», per la sua opera a favore dei rifugiati e dei perseguitati. La sua tenace dimostrazione di amore gratuito – capace di perdonare anche chi tenta di ammazzarla – fa breccia in tante delle innumerevoli persone che Annalena accosta durante la sua avventura africana. Solo alla luce di questo si capisce come mai donne musulmane accettino che una straniera (per di più cristiana) insegni loro – ben prima che la lotta alle mutilazioni genitali diventi una bandiera delle femministe occidentali – come liberarsi da una pratica tanto antica quanto devastante per le donne. Il paradosso è che a capire in profondità il segreto di quella donna umile e tenace è proprio il vecchio capo musulmano di Wajir: «Noi musulmani abbiamo la fede – confidò una volta alla missionaria italiana -, voi l’amore».

Il 5 ottobre 2003, mentre compie l’ultimo giro tra gli ammalati del suo ospedale a Borama, Annalena viene uccisa con un colpo alla nuca, sparato da un fanatico. Ha 60 anni, dei quali 34 trascorsi in Africa tra i poveri più poveri. Per suo espresso desiderio, è sepolta a Wajir, in Kenya, dove c’è il suo primo ospedale.

Don Mario Bandera

Documentario dall’Alto Commissariato dell’Onu per i rifugiati su Annalena in inglese.

[youtube https://www.youtube.com/watch?v=TgTVdj1WXKQ?feature=oembed&w=500&h=281]

Versione italiana dello stesso documentario.

[youtube https://www.youtube.com/watch?v=SpTCSEzDuk4?feature=oembed&w=500&h=281]

«L’UNHCR Somalia ha girato un documentario di 26 minuti, prodotto e diretto da Matt Erickson della Poet Nation Media, per celebrare il suo incredibile lavoro. É stato girato a Nairobi, Borama e Wajir. Il filmato è stato doppiato in italiano dalle ragazze e dai ragazzi della A.C.R. di Vecchiazzano Forlì».




Per un mondo di Stephen Hawking

Testo di Rosanna Novara Topino |


Si stima che in Italia ci siano 4 milioni di disabili (80 nell’Unione europea). Nonostante le normative non manchino, nei loro confronti c’è ancora discriminazione e isolamento. Scuola e lavoro sono gli ambiti dove occorre fare di più. Senza dimenticare le difficoltà economiche delle famiglie costrette a supplire alle carenze dello stato.

Lo scorso 14 marzo è scomparso Stephen Hawking, il grande matematico e astrofisico inglese costretto da 55 anni su una sedia a rotelle a causa di una gravissima forma di malattia del motoneurone (inizialmente diagnosticata come sclerosi laterale amiotrofica). Da diversi anni, inoltre, non aveva più possibilità di parlare in seguito a un intervento di tracheotomia eseguito per salvarlo da una grave forma di polmonite. Nonostante una vita irta di enormi difficoltà, la sua mente è stata però capace di compiere studi tali da arrivare ad approfondire teorie scientifiche, che hanno rivoluzionato l’astrofisica e la cosmologia: la teoria del big bang e dell’espansione dell’universo, il principio di indeterminazione, la termodinamica dei buchi neri e l’esistenza non di un solo universo, ma di moltissimi, quindi di un multiverso. Tra le tante riflessioni che la sua opera ci impone, una in particolare riguarda l’enorme potenziale racchiuso nella mente di una persona così grandemente limitata nel fisico dalla malattia e dalla disabilità. Questo dovrebbe essere un monito per spronare il governo di ogni nazione a mettere in atto tutte le misure possibili per rendere migliore la vita dei disabili, in modo che essi siano in grado di esprimere tutte le loro potenzialità. Quasi sempre invece si parla di uguaglianza dei diritti per tutti, si fanno campagne contro le discriminazioni di genere, etnia, religione, orientamento sessuale, ma puntualmente ci si arena di fronte alle particolari esigenze che i vari tipi di «diversità» presentano. Si accampano spesso ostacoli di natura economica alla eliminazione delle barriere di ogni tipo, che, permanendo, comportano un’autentica discriminazione e molto spesso l’isolamento delle persone disabili. Troppo spesso i disabili sono invisibili, se non addirittura un peso per la società.

Non è un paese per disabili

Secondo l’Onu, l’Italia, che conta oltre 4 milioni di disabili (si tratta di un valore stimato, poiché non ci sono dati certi a riguardo), non è un paese a misura di disabile per diverse ragioni tra cui l’esiguità dei fondi messi a disposizione, il clima discriminatorio, le barriere architettoniche, le disuguaglianze in campo occupazionale, sanitario e scolastico.

Nel nostro paese, il 12 dicembre 2017 è stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale il secondo programma di azione biennale per la promozione dei diritti e l’integrazione delle persone con disabilità, che rappresenta il punto di arrivo del lavoro svolto dall’Osservatorio nazionale sulla disabilità. Nonostante il formale riconoscimento dei diritti dei disabili e i programmi che vengono stilati per loro in ogni settore – dalla scuola ai trasporti, dal mondo del lavoro alla sanità – permangono gravi carenze e spesso assistiamo addirittura ad una retrocessione per alcuni diritti, che sembravano dati per acquisiti.

La scuola e i docenti

Un esempio di diritto dei disabili sancito dalla Costituzione, ma spesso disatteso è quello all’istruzione e in particolare al sostegno, sebbene il sistema scolastico italiano sia apprezzato in tutto il mondo per quanto riguarda l’inclusione degli studenti disabili.

Secondo i dati Istat, nell’anno scolastico 2015-2016 nella scuola primaria c’erano 88.281 alunni con diverse forme di disabilità (3% del totale), mentre nella scuola secondaria di primo grado erano 67.690 (4% del totale). Si stima che l’8% degli alunni disabili della scuola primaria non sia autonomo in alcuna delle seguenti attività: spostarsi, mangiare, andare in bagno. Nella scuola secondaria di primo grado, tali alunni rappresentano il 6% degli alunni disabili. In entrambi gli ordini scolastici considerati, le forme prevalenti di disabilità sono quella intellettiva, i disturbi dell’apprendimento e quelli dello sviluppo, che sono presenti nel 2,1% degli studenti. Secondo il Miur (Ministero dell’istruzione, università e ricerca), gli insegnanti di sostegno assegnati per l’anno scolastico 2017-2018 sono stati 150.000 – di cui però 47.000 in deroga – per 243.840 alunni disabili (1 ogni 1,6 alunni) nelle scuole statali di ogni ordine e grado.

Il maggior numero di ore di sostegno settimanali in media si registra nelle regioni del Mezzogiorno. Circa l’8% delle famiglie di alunni disabili della scuola primaria e il 5% della secondaria di primo grado hanno presentato ricorso al Tar, nel corso degli anni, per ottenere l’aumento delle ore di sostegno. A seguito di tali ricorsi e delle successive decisioni amministrative dell’ultimo momento, sono stati nominati gli insegnanti in deroga di cui sopra, che non erano previsti sulla carta, ma che di fatto si sono rivelati indispensabili per potere avviare l’anno scolastico. Purtroppo, sistematicamente non vengono assegnate in prima battuta tutte le ore di sostegno necessarie allo sviluppo e all’educazione dei ragazzi, così le famiglie sono costrette a fare ricorso per chiedere un’integrazione, che spesso comporta il raddoppio delle ore concesse inizialmente e la trasformazione di una «mezza» cattedra di sostegno in una intera, con un esborso stimato per le casse statali di circa 300 milioni di euro. Quest’ultimo perché ogni famiglia, a cui sia stata accolta la richiesta di aumento delle ore di sostegno, ha diritto a un risarcimento di 1.000 € per ogni mese di assenza dell’insegnante di sostegno, a partire dalla notifica del ricorso (in media 3 mesi), più il risarcimento delle spese legali, per un totale di circa 5.000 € a famiglia. Tutto questo è capitato perché nell’assegnazione degli insegnanti di sostegno si è fatto riferimento a dei limiti di assegnazione risalenti al 2007, che non sono più stati rivisti, mentre nel frattempo è aumentato il numero dei disabili riconosciuti.

Secondo il rapporto del Censis del 1° dicembre 2017, gli alunni disabili iscritti alle scuole materne, elementari e medie sono aumentati negli ultimi 10 anni del 26,8%, mentre alle superiori l’incremento è stato del 59,4%. Il maggiore incremento si è registrato nel Mezzogiorno, con 38,3% tra i più piccoli e 42,2% tra i più grandi.

Un altro problema, soprattutto per i ragazzi disabili, è dato dal fatto che non solo si ritrovano a cambiare spesso gli insegnanti di sostegno, ma questi ultimi, se reclutati all’ultimo momento, spesso sono precari o non hanno l’abilitazione al sostegno. Questo perché il ministero ha dato la possibilità, in caso di esaurimento delle graduatorie dei docenti specializzati, di coprire i posti di sostegno con insegnanti non abilitati, iscritti nelle graduatorie di circolo o di istituto o con insegnanti di classi di concorso in esubero o in assegnazione provvisoria. È chiaro che tutto questo si traduce in una carenza di recupero delle disabilità, soprattutto quelle intellettive.

L’assurdo declino del braille

Tra le criticità dell’insegnamento di sostegno presenti nella scuola italiana c’è quella della scarsa formazione – specifica sulle singole disabilità – del personale scolastico (sia insegnanti specializzati, che curricolari). Ciò è particolarmente evidente nel caso della scarsissima (o assente) «competenza tiflologica» nell’ambito della disabilità visiva, cioè sono pochi gli insegnanti che conoscono il braille, il sistema di scrittura per i ciechi, e l’apparato tecnologico e didattico indispensabile per l’insegnamento a questo tipo di disabili. La mancanza di queste conoscenze da parte degli insegnanti, degli educatori e degli operatori scolastici aggrava l’handicap dell’allievo ipovedente, isolandolo di fatto dal contesto degli altri e oscurandone le reali potenzialità. Questo è un problema non da poco, se pensiamo che in Italia i non vedenti in età scolare sono circa 2.600 (molti purtroppo pluridisabili, come i sordociechi).

Per questi ragazzi è fondamentale imparare il braille e potere comunicare con i propri insegnanti con questo metodo. In Italia attualmente, stiamo assistendo al fatto che, sia per la difficoltà di integrazione scolastica, sia per la facilità di utilizzare i mezzi di comunicazione con voce digitale, molti giovani non vedenti si allontanano dall’apprendimento del codice braille, risultando così di fatto analfabeti e questo non può che ripercuotersi negativamente sulla loro vita futura, soprattutto a livello lavorativo.

Basta pensare al fatto che alla fine degli anni ’80, quando erano molto più numerose le persone non vedenti che conoscevano e utilizzavano il braille, in Italia c’erano un migliaio di insegnanti, 1.300 massofisioterapisti, 800 professionisti (soprattutto avvocati) e circa 9.000 operatori telefonici ciechi, mentre attualmente è rimasto qualche migliaio di operatori telefonici, il numero di avvocati e di insegnanti è circa un centinaio e abbiamo qualche centinaio di massofisioterapisti. Tra l’altro il codice braille potrebbe essere utilizzato anche per le schede elettorali, in modo da rendere più autonomi gli elettori ciechi, che adesso votano solo con il sistema del voto assistito. Per ovviare alla mancata conoscenza del braille da parte del personale scolastico, recentemente l’Irifor (Istituto per la ricerca, la formazione e la riabilitazione) dell’Uici (Unione italiana ciechi e ipovedenti) ha approvato un corso di aggiornamento di tiflologia di 200 ore e uno di formazione di 600 ore attivati sulla piattaforma e-learning dell’istituto.

Lo scandalo mobilità

Oltre al sistema scolastico, anche quello dei trasporti in Italia presenta notevoli criticità per i disabili. Basta pensare alle barriere architettoniche presenti in molte stazioni ferroviarie, dove spesso mancano gli ascensori, oppure al fatto che nelle carrozze ferroviarie dedicate al trasporto di persone disabili è possibile imbattersi in pedane sollevatrici nuovissime, ma inutilizzabili a causa di qualche cavillo burocratico, che ne impedisce l’uso. Per i disabili che devono viaggiare, la Rfi (Rete ferroviaria italiana) ha predisposto il servizio Sala blu, che permette di prenotare l’assistenza al viaggio. Nel caso non ci siano convogli attrezzati su una certa tratta, però, il disabile non può viaggiare perché, per ragioni di sicurezza, la normativa vigente in materia dice che non può salire su convogli non adibiti al trasporto di sedie a rotelle.

Salute e lavoro

La situazione non è certa migliore per quanto riguarda la salute. I dati dell’Osservatorio nazionale sulla salute delle regioni italiane dicono che lo stato fisico e quello psicologico dei disabili sono peggiori rispetto al resto della popolazione. In particolare, le loro condizioni di salute sono più precarie a causa del mancato accesso alle cure previste dai Lea (Livelli essenziali di assistenza). Sono molte infatti le famiglie italiane che, vivendo in difficoltà, non riescono ad ottenere né visite mediche, né trattamenti a domicilio. Si stima che il 14% dei disabili rinunci alle cure, rispetto al 3,7% della popolazione. Questo dato è più alto nel Mezzogiorno dove troviamo una percentuale del 30% in Puglia e del 22% in Calabria.

Per quanto riguarda il mondo del lavoro, solo il 18% dei disabili italiani risulta occupato, contro il 58,7% del resto della popolazione. In particolare, solo il 23% degli uomini disabili è occupato (contro il 71,2% dei normodotati), mentre le donne disabili occupate sono il 14% del totale (contro il 46,7% delle normodotate).

Da questi ultimi dati risulta per le donne disabili una doppia discriminazione, in quanto donne e in quanto disabili, ma questo non è tutto. Nel 2015, con il convegno «Fiori recisi», l’Uici volle mettere in evidenza la drammatica realtà delle violenze subite dalle donne disabili e il fatto che alcune donne sono diventate disabili in seguito alle violenze subite.

Le difficoltà economiche

Tra le varie difficoltà incontrate dai disabili italiani ci sono infine quelle economiche, poiché per loro è spesso difficile disporre di un reddito e le famiglie con persone disabili mediamente dichiarano un reddito inferiore rispetto alle altre. Del resto, i disabili, per avere una qualità di vita accettabile devono spendere di più dei normodotati per assistenza, apparecchi sanitari, dispositivi medici, ecc. A questo si aggiunge il fatto che il welfare italiano si basa ormai prevalentemente sulle famiglie che, nell’assistenza ai disabili, sostituiscono lo stato e che spesso per questo arrivano a indebitarsi. Questo è vero soprattutto con la fine del ciclo di studi, quando molti disabili non vengono inseriti nel mondo del lavoro e finiscono in una condizione di invisibilità a carico della loro famiglia, che si impoverisce per sostenere i costi del loro mantenimento e che diventa sempre più anziana. Del resto, le aziende, pur essendo obbligate ad assumere persone disabili, preferiscono pagare una multa, piuttosto di assumerle.

Vedere oltre

Quanto visto finora è una descrizione sicuramente non esaustiva sia delle tante forme di disabilità, sia delle difficoltà affrontate quotidianamente dalle persone disabili, ma vuole essere un invito a riflettere sul fatto che tutti hanno diritto ad una vita dignitosa e, soprattutto, che anche in presenza di gravi disabilità, le persone possono avere enormi potenzialità. È nostro dovere aprire la mente e vedere oltre la disabilità.

Rosanna Novara Topino
(settima puntata – Fine)




Italia-Africa – L’epidemia dell’alcol – Alcol-oltre


Testi di Giordano Rigamonti, Mariacaterina Barcella, Paolo Franceschi, José Luis Ponce de León, Laura Poretti, Maria Raffaella Rossin, Emanuele Scafato, Laura Scomazzon, Lino Tagliani.
A cura di Luca Lorusso |


Indice


Chi beve per noia e chi per fame

L’abuso di alcol tra i giovani e gli adolescenti accomuna i popoli di tutto il mondo. Alcuni missionari della Consolata, osservando il fenomeno nei luoghi in cui operano, hanno dato vita a una campagna che coinvolge l’Italia e alcuni paesi africani, tra cui, in particolare, lo Swaziland.

Internet e gli spazi d’incontro virtuali che stanno rivoluzionando il pianeta rendono tutto apparentemente possibile e imitabile, riducendo la capacità critica, in un vortice di notizie e contatti cui non sempre siamo preparati.

I giovani sono tra i più influenzati, spinti a superare ogni limite, ad andare «oltre» senza avvertire il pericolo, pur di emulare modelli di forza e successo. Parte integrante di questi mondi fragili è il ricorso all’alcol e alle droghe. Milioni di persone annegano così le loro speranze nelle dipendenze.

Europa e Africa sono due continenti accomunati da questa stessa schiavitù: l’uso disordinato di alcol che colpisce qualsiasi fascia di età, e che spesso è l’inizio di un degrado profondo, l’ingresso in un labirinto dal quale è poi difficile uscire.

Chi beve per noia, chi per non sentire la fame. Chi beve per sballarsi, chi per sopravvivere. La spinta verso l’alcol può essere diversa alle diverse latitudini. Intanto, una volta iniziato, dopo un po’ non se ne può più fare a meno.

La Campagna AlcolOltre è nata allo scopo di sensibilizzare l’opinione pubblica, sia in Italia che in alcuni paesi africani nei quali operano i missionari della Consolata su questo problema.

Il caso dello Swaziland

Perché tra tanti paesi africani abbiamo scelto proprio lo Swaziland? Perché esso è uno di quelli con maggiore incidenza del problema dell’alcolismo. Nelle classifiche mondiali del 2012 era il terzo paese al mondo per consumo procapite di birra. Tra i paesi africani è uno di quelli nei quali è più alta l’incidenza dell’alcol come causa di morte.

Il «Rapporto globale su alcol e salute 2014», l’ultimo redatto dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms), conferma un alto consumo di alcolici prodotti artigianalmente, quindi con gradazione alta e senza controlli e, di conseguenza, con effetti peggiori sulla salute. Il rapporto dell’Oms denuncia anche la totale mancanza di politiche di prevenzione, a parte interventi volti alla semplice repressione e all’aumento delle tasse.

Altro motivo importante per la scelta dello Swaziland è la presenza nel paese dei missionari della Consolata, in particolare del vescovo monsignor José Luis Ponce de León a capo della diocesi di Manzini. La sua presenza e il suo ruolo offrono alla Campagna un supporto locale per lo svolgimento delle attività e dei progetti.

Senza scoraggiarsi

Le storie di vari amici e conoscenti che mi descrivono i traumi subiti dai giovani, ma anche dalle loro famiglie, a causa dell’alcol mi spingono a spendermi in questa campagna e a lottare per far conoscere questo nemico subdolo della nostra società globalizzata.

Dobbiamo agire insieme senza fermarci davanti ai fallimenti ma godendo di ogni adolescente che impara a liberarsi dalla schiavitù.

Giordano Rigamonti


Una catena che si può spezzare chiedendo aiuto

Quando il tenente colombiano è ubriaco

Quando uno beve non sa più quello che fa. È ciò che capita a molti in tutto il mondo. Spesso con brutte conseguenze. Padre Lino, antropologo, missionario della Consolata in Colombia per lunghi anni, ha incontrato più volte l’alcol come causa di eventi tragici. Anche nel contesto della guerra dove un militare ubriaco con i gradi e il fucile può decidere della vita o della morte.

La parola alcol viene dall’arabo al-kohl che indica la polvere finissima di antimonio che, fin dall’antichità, le donne del Medio Oriente utilizzavano per colorare di nero ciglia, sopracciglia e l’orlo delle palpebre. Indica qualcosa di finissimo, che non si vede quasi, che è volatile. Ma l’alcol è stato «scoperto» intorno al 1200 d.C., quando gli arabi hanno portato in Europa l’alambicco, indispensabile per produrlo.

Oggi, in America Latina, troviamo l’aguardiente, che vuol dire «Acqua che brucia». Noi parliamo di «superalcolici».

In tutte le culture si è sempre bevuto. Potremmo individuare una bevanda tipica per ogni zona del mondo: in Europa c’è il whisky, la vodka, in America Latina la tequila. Tutti i paesi hanno da bere.

Il tenente è ubriaco

In America Latina, soprattutto in Colombia, ci sono due problemi: il problema della violenza e quello della droga. Il primo è legato alla lunga guerra civile che sta faticosamente risolvendosi e che ha insanguinato il paese per decenni.

A questo proposito posso raccontare un fatto: un giorno devo recarmi in una scuola in un luogo che si chiama El Pato. In auto si arriva fino a un certo punto. Quando finisce la strada iniziano i sentieri, lungo i quali ti puoi muovere a cavallo o a piedi. Dove finisce la strada c’è l’ultimo posto di blocco dell’esercito. Ho già passato cinque blocchi. Arrivato lì, mi perquisiscono. Se non hai armi e fai vedere i documenti, puoi procedere. Verificano i miei documenti, vedono che non sono ricercato e mi dicono che posso andare. Ma improvvisamente avanza il tenente. È ubriaco, con una bottiglia di birra in una mano e con un mitra nell’altra, ci viene incontro barcollando.

«Cosa succede?», chiede. Il vecchietto che è con me gli fa vedere cinque pacchi di sale e dieci scatole di fiammiferi, un po’ di candele e qualche aspirina. «Tu collabori con la guerriglia!», lo accusa l’ufficiale, «Sono sicuro che di tutte queste cose, una parte la dai alla guerriglia!».

Io conosco quel vecchietto: vive con la moglie, qualche mese fa, durante uno scontro tra esercito e guerriglia, gli hanno ammazzato l’unico figlio. Non si sa se ucciso dagli uni o dagli altri.

Allora intervengo: «No, è un semplice vecchietto. Lui tutti i mesi prende un po’ di caffè e un po’ di fagioli, va giù al mercato e li scambia con queste cose. Fa la scorta perché per un mese non va più al mercato».

A questo punto il tenente distoglie lo sguardo da Josè Luis e guarda me. Mi chiede i documenti. Io ho anche il permesso del generale che mi autorizza ad andare nella zona occupata dalla guerriglia dove l’esercito non va. Senza quel documento ti considerano collaboratore della guerriglia. Io invece ce l’ho e faccio vedere la firma del generale, che è il suo superiore. Ma il tenente è ubriaco, non capisce più nulla e impreca. Mi dice: «Tu ti fermi qua» e, con il fucile M14 in mano, chiama due soldati che mette davanti e dietro di me. «Di qui non ti muovi. Se ti muovi applichiamo la legge della fuga» (se fai due passi, ti sparano).

I capelli mi si drizzano, ma rispondo: «Non mi muovo. Sto fermo come una statua».

Sono le 17.30. Alle 18 calerà la notte. Io ho da fare ancora tre ore a piedi. Sicuramente il tenente è convinto che, scendendo nella foresta al buio, la guerriglia mi ammazzerà. Alle 18 mi dice: «Puoi andare».

La guerriglia non mi fa nulla ed io arrivo a destinazione alle 23.

(Pan American Health Organization PAHO/flickr com)

Un ubriaco non sa più niente

Perché racconto questo? Perché quando uno è ubriaco non sa più cosa sta facendo. Non si rende conto. Purtroppo ho visto parecchi morti, anche giovani, per ubriachezza.

In Colombia mi dicevano: «Quando due ubriachi litigano, non ti mettere in mezzo». Solo una volta, per sbaglio, mi sono intromesso e, infatti, il machete di uno dei due mi ha sfiorato il torace strappandomi mezza camicia. Non l’ho mai più fatto. Proprio perché un ubriaco non ti riconosce: non sa se sei un amico, un fratello, una sorella, la mamma o il papà. Non sa più niente.

La «catenella» dell’alcolismo

Tutti bevono e dicono che lo fanno perché hanno sete o perché piace, per stare con gli amici o per dimenticare. Ma nessuno dice che beve perché lo fanno bere.

Se prendiamo una catenella, osserviamo che ha tanti anelli. L’ultimo anello siamo noi che beviamo. Salendo su per la catenella troviamo il luogo in cui beviamo. Dove beviamo? In un parco, in un bar, in una discoteca. Salendo ancora lungo la catenella troviamo chi ci dà da bere. Il barista. Ma chi fornisce questi posti di bevande alcoliche? In parole povere, arriviamo all’ultimo anello e vi troviamo i soldi.

Questa è la catena che lega i giovani. Se si entra in questo giro e a un certo punto non si decide di chiedere aiuto per spezzarla, la catena uccide. Quando invece si ha la forza di dire «dammi una mano per uscire», allora si riesce a farlo veramente. Io sbaglio, tu sbagli, tutti sbagliamo, ma quando ammettiamo «ho sbagliato, ho bisogno di te», allora ne usciamo.

Da soli non andiamo da nessuna parte.

Come una mucca nel fiume

Mi è capitato una volta di cadere in un fiume agitato che mi ha portato via persino i vestiti di dosso, lasciandomi in mutande. Per fortuna sono riuscito ad attaccarmi a una radice, ma per molto tempo sono rimasto lì perché non passava nessuno. Dopo un paio d’ore finalmente è arrivato un mio amico, grande cowboy che tirava benissimo il lazzo ai cavalli e alle mucche. È arrivato tutto felice e contento con il lazzo e il suo sigaro puzzolente e mi ha detto: «Ohe padre, ci crede alla salvezza?» e, trattandomi come una mucca, mi ha lanciato il lazzo. Mi ha agganciato e mi ha salvato. Mi ha dato una mano e mi ha tirato fuori dai guai.

Lino Tagliani

Trascrizione dell’intervento tenuto al convegno «Alcol e Giovani» di Torino, 3/11/2017.

(Matthias Ripp_mripp/flickr.com)


Maneggiare il dolore contro il vuoto

La cultura e l’economia dell’alcol sono due degli elementi decisivi nella scarsa consapevolezza dei rischi legati al bere. Nella sola Italia sono quasi sei milioni le persone che dichiarano di bere oltre i limiti consigliati. Quella giovanile è la fascia più a rischio per i danni correlati all’alcol. Tra gli antidoti: genitori capaci di una comunicazione sana con i propri figli.

In questi ultimi anni si parla spesso di giovani e alcol soprattutto per segnalare le abitudini alcoliche di molti ragazzi italiani che bevono da giovanissimi utilizzando, alcuni di loro, anche modalità rischiose come il binge drinking («abbuffata alcolica»).

Secondo l’Istat il consumo fuori pasto è diffuso soprattutto tra i giovani (18-24 anni) e i giovani adulti (25-44 anni). Altro dato preoccupante è quello che indica negli ultimi dieci anni una crescita del consumo fuori pasto tra le femmine: dal 14,9% del 2005 al 16,5% del 2014.

Nel nostro paese troppe persone (quasi 6 milioni) superano i limiti del consumo abituale che, secondo il ministero della Salute, prevede due unità alcoliche al giorno per gli uomini (un’unità alcolica corrisponde a 12 g di alcol puro: un bicchiere da 125 ml di vino, una bottiglia di birra da 330 ml, o 40 ml di superalcolico), un’unità per le donne e per le persone sopra i 65 anni, nulla per chi ha meno di 18 anni e per le donne in gravidanza.

L’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) dice chiaramente che non è possibile individuare quantità di alcol «raccomandabili» o sicure per la salute: l’unica strada sicura è non bere affatto perché le bevande alcoliche sono tossiche, potenzialmente cancerogene, in grado d’indurre dipendenza e di causare danni diretti alle cellule di molti organi, soprattutto del cervello.

Le resistenze culturali (ed economiche)

Chi si è confrontato con le problematiche connesse all’uso delle bevande alcoliche, e soprattutto del vino, si sarà senz’altro reso conto che ci sono forti resistenze nelle persone. L’Italia, infatti, ha una cultura vitivinicola molto importante con radici antichissime che si intrecciano anche con la storia religiosa. Per noi la vite è una pianta sacra. Inoltre è importante ricordare il peso economico della produzione del vino: le aziende vitivinicole in Italia sono 383.645, pari al 23,5% di tutte le aziende agricole, per un totale di 632mila ettari coltivati che danno lavoro a oltre 200mila addetti. Tra il 70 e l’80% della produzione è destinato all’export. Secondo Federalimentare il peso del vino sul fatturato complessivo dell’industria alimentare sfiora il 7,7%. Negli anni Novanta è esploso il turismo del vino: accanto agli eventi enogastronomici in ogni regione, per tutto l’anno si susseguono appuntamenti legati alla degustazione enologica. In Umbria, Toscana, Piemonte sono nati musei dedicati al vino.

Questi dati economici e culturali ci aiutano a comprendere come mai il messaggio trasmesso ai ragazzi sull’utilizzo delle bevande alcoliche, a differenza delle droghe illegali, è completamente inadeguato rispetto ai rischi.

Clark Street Ale House Chicago (Thomas Hawk/flickr.com)

Per i giovani è più pericoloso

Bisogna dare ai giovani e agli adulti gli strumenti per riconoscere un comportamento a rischio, il proprio, o quello di un amico o un famigliare.

Gli studiosi ci dicono che il rischio della dipendenza da droga o alcol non è uguale per tutti: alcune persone sono più vulnerabili rispetto ad altre. Bere alcolici in età giovanile, ad esempio, è più pericoloso: l’alcol può causare al cervello dei ragazzi alterazioni a delicati sistemi neuropsicologici bloccandone il normale sviluppo e mostrandone i danni solo nel tempo. Il cervello dei giovani, che raggiunge la sua completa maturazione solo intorno ai 20-21 anni, è più sensibile alla ricerca di gratificazioni veloci ed è più esposto ai rischi del piacere immediato che le droghe e l’alcol possono offrire.

Ma quali sono i fattori che, combinati insieme, possono determinare una situazione di alto rischio per un individuo? I neuroscienziati si stanno concentrando, ormai da anni, sugli effetti che le bevande alcoliche determinano su una specifica area cerebrale, il Nucleo Accumbens, che ci gratifica quando assumiamo determinate sostanze (cibi, come per esempio il cioccolato, alcol, droghe). Se il Nucleo Accumbens funziona bene, chi mangia cioccolato o assume alcol, lo fa in modo controllato. Se invece funziona male, il mancato controllo nell’assunzione di sostanze unito a un eventuale disagio psicologico, può innescare un meccanismo di dipendenza: l’individuo ha bisogno degli effetti positivi della sostanza per placare il suo malessere interiore.

L’influenza delle famiglie

Per poter prevenire disagi che si possono tradurre in abitudini alcoliche patologiche è, quindi, importante conoscere, nelle famiglie, situazioni di dipendenza nelle generazioni precedenti. Se un adolescente sperimenta le sostanze alcoliche, ma è interiormente forte e difeso da una rete familiare attiva e protettiva, sa fermarsi in tempo. Se è interiormente fragile, sensibile, vulnerabile, ma ha una rete familiare attiva e protettiva, può attraversare momenti difficili ma saper chiedere aiuto. I ragazzi fragili, sensibili, vulnerabili che bevono e non hanno una rete familiare attiva e protettiva, si sentono soli e possono trovare nell’alcol il sostegno e la complicità che gli affetti non offrono loro. Se poi c’è una familiarità alcolica la situazione si complica.

Si parla ancora molto poco dei danni che l’abuso di alcol e la dipendenza provocano nelle relazioni familiari e di quanto queste siano determinanti nel contribuire al disagio provato dall’individuo che, da adolescente o da adulto, diventerà un bevitore eccessivo o un dipendente.

Nella storia familiare dei bevitori emerge spesso che fin dall’infanzia si sono sentiti inadeguati, non voluti, caricati di aspettative troppo alte rispetto alle loro capacità, incapaci di realizzare le attese dei genitori, colpevoli per le vicissitudini familiari. Il dolore eccessivo è un elemento fondamentale nel vissuto del futuro bevitore e dell’alcoldipendente, e fin dall’infanzia occupa un posto importante nella sua interiorità. Il dolore riempie, di anno in anno, i vuoti lasciati nell’individuo dall’affettività mancata e lo «sazia». Il dolore che causa problemi è quello che non si sa gestire. È il dolore che ci travolge e dal quale scappiamo.

(Matthias Ripp_mripp / flickr.com)

Comunicare bene per maneggiare il dolore

Una buona relazione familiare, invece, aiuta i ragazzi a fortificarsi interiormente. Se un bambino è fragile, molto sensibile, poco capace di autodifendersi, quando si sente inadeguato si convince di esserlo davvero. Uno strumento fondamentale per aiutare i ragazzi a «maneggiare il dolore» è la comunicazione, una comunicazione sana.

La comunicazione, quella verbale e non verbale, è la modalità con cui ci relazioniamo al contesto in cui viviamo. Conta molto accorgersi del modo in cui comunichiamo: stiamo comunicando in modo sano o disfunzionale? Spesso, in famiglia si comunica in modo più efficace con i gesti e le occhiate – cioè tramite il linguaggio non verbale – piuttosto che con le parole. La comunicazione non verbale è più difficile da controllare e valutare, ma si può aumentare l’attenzione su di essa, in modo da arrivare a coordinare in modo armonico il linguaggio verbale e quello non verbale costruendo così una comunicazione sana.

Che cosa bisogna fare per avere una comunicazione verbale in sintonia con quella non verbale? Addestrarsi a essere chiari, coerenti, capaci di autocritica, capaci di autorettifica.

Il genitore attento fa «manutenzione» al suo ruolo almeno una volta alla settimana riflettendo, anche con il partner, su ciò che ha funzionato e ciò che non ha funzionato; facendo una riunione alla settimana con i figli nella quale tutti discutono sui problemi da affrontare o sugli argomenti importanti per i singoli, e prendendo decisioni insieme. Il genitore attento esprime l’affetto e lo lascia esprimere; costruisce regole chiare e non ha paura di sostenerle; gratifica i figli e valorizza le loro capacità; evidenzia chiaramente i comportamenti adeguati e quelli inadeguati; impara, insieme ai figli, ad affrontare le loro difficoltà; non teme di chiedere scusa.

La sintonia tra il verbale e il non verbale è il risultato di un lavoro interiore che il genitore fa con se stesso per rispettare i figli nella loro individualità e aiutarli a diventare quello che sono, non quello che il genitore vuole che siano.

Tutto questo serve a costruire strumenti che possono essere utili ai ragazzi per affrontare le sfide che si trovano di fronte nella complessa società globale in cui vivono, evitando loro di cercare aiuto in stampelle artificiali come alcol, droghe e altre dipendenze.

Maria Raffaella Rossin

(Photocapy/flickr com)

Bibliografia:

  • – Larn, Livelli di assunzione di riferimento di nutrienti, 2014.
  • – Tesi di laurea Università Luiss, Il mercato del vino italiano: scenario competitivo e strategie di internazionalizzazione in un settore in continua evoluzione, 2014.
  • – G. P. Brunetto, Alcol e giovani: cosa fare. Elementi di neuroscienze e dipendenze, Dipartimento politiche antidroga, Presidenza del consiglio dei ministri, 2010, pag. 269.
  • – G. Serpelloni et al., Cervello, mente e droghe. Struttura, funzionamento e alterazioni droga-correlate, Dipartimento politiche antidroga, Presidenza del consiglio dei ministri, 2014.

Di Alcol MC ha parlato anche in:

  • – S. Garini, Alcol, non abusare, MC aprile 2016.
  • – R. Novara Topino, tre puntate della rubrica Madre Terra in MC ottobre e novembre 2011 e gennaio 2012.

I dati dell’alcol in Italia

In base ai dati pubblicati dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms, Who in inglese) nel Global Status Report del 2014 (il più recente), l’Europa ha la più alta percentuale di consumo di alcol nel mondo, con una quantità procapite doppia rispetto alla media mondiale. Secondo il Report 2015 di Who Europa, il consumo di alcol nel nostro continente rimane il maggiore problema di salute pubblica insieme al tabacco e all’obesità. La riduzione dell’abuso di alcol e dei danni a esso correlati, in modo particolare del fenomeno del binge drinking, è un obiettivo del governo italiano, in linea con le politiche dell’Unione europea e dell’Organizzazione mondiale della salute.

Alcol: prima causa di morte tra i giovani

In Italia il consumo di bevande alcoliche sta mostrando un profilo nuovo e preoccupante, si registra un suo progressivo aumento in fasce orarie lontane dai pasti. Secondo i dati Istat, nel corso del 2015 ha consumato almeno una bevanda alcolica il 64,5% degli italiani dagli 11 anni in su (35 milioni di persone), con prevalenza notevolmente maggiore tra i maschi (77,9%) rispetto alle femmine (52,0%). Si registra un incremento dei consumi rispetto all’anno precedente. La percentuale dei bevitori a rischio, elaborata attraverso l’indicatore di sintesi e i dati dell’Osservatorio nazionale alcol dell’Istituto superiore di sanità, è stata nel 2015 del 23% per gli uomini e del 9% per le donne di età superiore agli 11 anni, per un totale di quasi 8 milioni e mezzo di individui, di cui 800mila tra i minori e altri 800mila tra i giovani dai 18 ai 25 anni.

Secondo la relazione del ministero della Salute al parlamento per l’anno 2016, sugli interventi realizzati in base alla legge 125/2001 (legge quadro in materia di alcol e di problemi alcolcorrelati, ndr.), «resta allarmante il fenomeno del binge drinking», che comporta l’assunzione di numerose unità alcoliche al di fuori dei pasti e in un breve arco di tempo. Nel 2015 è stato pari al 10,8% tra gli uomini e del 3,1% tra le donne di età superiore a 11 anni: 3 milioni e 700mila binge drinkers (persone che bevono per ubriacarsi). Le percentuali di binge drinkers aumentano nell’adolescenza e raggiungono i valori massimi tra i 18-24enni. Dei 900mila binge drinkers tra gli 11 e i 25 anni, circa 200mila sono 11-17enni e 325mila 18-20enni. Il 17% circa di tutte le intossicazioni alcoliche giunte in pronto soccorso si registrano tra giovani di età inferiore ai 14 anni.

Gli alcolici preferiti sono soprattutto aperitivi, superalcolici e amari e il loro consumo aumenta lontano dai pasti, quando è più dannoso per la salute.

In Italia l’alcol è la prima causa di morte tra i giovani (Istituto superiore di sanità), come in Europa e nel mondo, prevalentemente in correlazione con l’incidentalità stradale. Secondo l’Oms, il costo dell’alcol in Italia, in termini di sicurezza sociale, incidenti stradali e sul lavoro, e violenze è stimabile in 25 miliardi di euro l’anno.

Emanuele Scafato


La testimonianza di un giovane ex alcolista

«Mi sembrava impossibile, invece ci sono riuscito»

Sono Manuel di Milano. Ho 31 anni. Già dai 17 ho iniziato ad avere dei problemi: ero arrivato a bere fino a 4-5 bottiglie di Jägermeister al giorno.

L’abuso di alcol è un discorso di richiamo mentale. Tante volte si fa fatica a resistere perché manca la volontà oppure si è fragili o si sta attraversando un periodo difficile. Oppure può anche accadere che si vivano delle situazioni molto positive, gioie molto forti che conducono anch’esse a ricadere nel problema dell’alcolismo.

Ad un certo punto mi sono molto spaventato perché pensavo di non poter più tornare indietro. Mi sentivo veramente giù. Una volta mi ricordo di essere finito in psichiatria per abuso di alcol e psicofarmaci insieme, e sono rimasto legato al letto dell’ospedale per parecchi giorni. Lì mi sono accorto che rischiavo di finire sotto terra o comunque di avere dei problemi grandissimi nella vita.

Mi hanno proposto di entrare in comunità ed io ho detto sì. Stavamo bene, eravamo puliti e sentivi proprio la sensazione di essere amici non per qualcosa o qualcuno. Ero abbastanza motivato all’inizio e col tempo la motivazione è cresciuta sempre di più. Sono stato accompagnato ed ho avuto la fortuna di avere vicino delle persone che sono riuscite a trovare un giusto compromesso tra il dosaggio dei farmaci e la psicoterapia.

Sono riuscito a farmi accompagnare finché ho scalato tutti i farmaci. Neanche io ci credevo! Mi sembrava una cosa impossibile anche solo da immaginare: non prendere più alcun farmaco. Invece sono riuscito. Sono riuscito ad avere dei progetti, costruire delle cose. È stato bello e il tempo è volato.

Anche i genitori e l’intera famiglia, con il tempo, vedendo che stai bene, ti si riavvicinano e ci si scusa. Anche la fiducia piano piano la riconquisti. Questo riconquistare è una cosa veramente difficile: anche adesso non è ancora del tutto avvenuto.

Io non mi sento illuminato e completamente guarito. Il problema è comunque sempre lì. Devo sempre stare attento. Capitano dei momenti in cui ti senti a rischio: se uno per tanti anni ha usato delle sostanze, è normale che ogni tanto il corpo, in particolare il cervello, richieda la sostanza. Ciò è legato comunque agli stati d’animo. La sensazione di dire «vorrei…» è molto presente nell’inconscio. Non è una cosa che puoi toccare e sentire, però con la volontà, con la testa che ci pensa veramente 150 milioni di volte prima di ricaderci, ci si riesce.

Avere delle persone che ti sono vicine, con le quali condividi la tua vita, è fondamentale.

Può capitare a chiunque di avere dei problemi, non esiste la persona che sta sempre veramente bene, non esiste un mondo dove tutto va bene. L’importante è saper vedere che comunque ci sono delle persone che ti aiutano, che vedono che sei in difficoltà e non fanno finta di niente.

Adesso sono una persona che tutti i giorni cerca la sua strada, cerca di stare sempre attenta, ha dei momenti di alti e bassi e comunque, un po’ più di tutte le altre persone, ci sta attenta.

Manuel

Sul canale Youtube di Impegnarsi serve, si può visionare il video «Testimonianza di Manuel» da cui è tratto il testo.

[youtube https://www.youtube.com/watch?v=YOL1agDFumE?feature=oembed&w=500&h=281]

 


L’esperienza di due medici italiani

Spunti dall’Africa

Alcol è sinonimo di festa, di gioia, ma anche di stordimento: si beve per divertirsi e si beve per dimenticare la difficoltà di sopravvivere.

Così anche l’Africa paga il suo contributo al dio Bacco: là dove la povertà non permette di comprare bevande alcoliche «controllate», se ne producono in modo artigianale con notevoli rischi per la salute. Il mercato illegale dell’alcol, nel quale sono frequenti la contraffazione e la sofisticazione, fiorisce tanto più quanto minore è la disponibilità economica dei consumatori.

I sistemi sanitari africani sono generalmente molto carenti e spesso a pagamento. La popolazione, naturalmente, ne subisce le conseguenze: grande incidenza di malattie dell’infanzia, alti rischi per la donna gravida e per quella che allatta, anziani e disabili costretti a vivere in condizioni molto dure.

In questo quadro, l’alcol dà il suo contributo aumentando la diffusione di malattie del fegato (e non solo), la denutrizione e soprattutto il degrado della persona umana, che nei casi di alcolismo cronico si concretizza in situazioni di marginalità e abbandono, talora anche da parte dei famigliari.

(foto Alfredo Feletti)

Il pericolo dell’alcol artigianale

La nostra esperienza in Congo Rd, a Kinshasa, nel 2015, ci ha messi di fronte a una società nella quale molte persone vivono ogni giorno una battaglia per giungere a sera. Molti, e tra essi tanti giovani, trovano nell’alcol la medicina che per qualche ora permette loro di estraniarsi dalla miseria, dall’abbandono e dalla desolazione in cui versano.

Per le stradine del quartiere nel quale eravamo ospiti dei missionari della Consolata, vedevamo tavolini su cui venivano proposte in vendita bottiglie di alcol artigianale. Abbiamo voluto comprarne alcuni campioni per farli analizzare in Italia e capire così cosa beve la popolazione che non ha i soldi per acquistare la birra o altre bevande alcoliche nei negozi. Una volta tornati dal Congo, li abbiamo portati a un laboratorio di analisi e ne è venuto fuori un quadro preoccupante: su sei campioni analizzati, ben quattro avevano un tasso alcolico superiore al 34% (come un nostro superalcolico), in più in essi erano presenti quantità considerevoli di sostanze tossiche (forse provenienti dalla falda acquifera) come rame e zinco.

Non solo sanzioni, ma cura e prevenzione

La cosa che più ci ha colpito, non solo in Congo, ma anche in altre realtà africane che abbiamo visitato, è la negazione del problema da parte delle istituzioni e anche dei colleghi medici che tendono a sminuire l’importanza del rischio dell’alcol per la salute. È vero altresì che spesso in Africa le priorità sono altre e più drammatiche (malnutrizione, Aids, malaria).

Anche nei paesi in cui il problema è preso in maggiore considerazione, come nello Swaziland, l’abuso di alcol viene affrontato più come un vizio da sanzionare (ad esempio con multe) che come una dipendenza da curare e per la quale fare prevenzione. Il risultato è che il problema rimane.

Che fare?

Che fare allora? La risposta, ci pare, sta nella prevenzione. Ad esempio nelle scuole, come in quelle dei missionari; negli ambulatori medici, dove già si fa prevenzione per Aids, Tbc, malaria; negli ambienti di vita, per esempio nei mercati.

Questo implica ovviamente formare gli operatori: a Manzini, in Swaziland, la Caritas che va nei villaggi ad assistere le famiglie più bisognose, si è dichiarata disponibile a svolgere educazione sanitaria per la prevenzione dell’abuso alcolico.

Ma prevenzione è anche aiutare i giovani a credere nel loro futuro. Là dove il bere è una risposta alla mancanza di speranza in una vita degna di essere vissuta, occorre adoperarsi per costruire occasioni di lavoro e di aggregazione sociale, occorre la fantasia e la creatività di chi sa operare il bene e anche il sostegno finanziario di chi non è in prima linea, ma vorrebbe poter fare qualcosa.

Mariacaterina Barcella e Paolo Franceschi

(foto Alfredo Feletti)


Swaziland: Le parole del vescovo di Manzini

Mi dicono: «Se apro una bottiglia, devo finirla»

Il piccolo paese incastonato nel Sudafrica è il terzo al mondo per consumo procapite di birra. Conta una popolazione di 1,2 milioni di abitanti e il 27% di adulti sieropositivi. In questo contesto la chiesa cattolica sta cercando di attivare programmi educativi che aiutino la popolazione a prendere coscienza dei rischi legati al consumo di alcol.

Sono nato in Argentina e, come missionario della Consolata, sono stato destinato al Sudafrica nel 1994, qualche mese prima che Mandela diventasse presidente. Dopo 11 anni sono stato chiamato a Roma per svolgere un altro servizio finché papa Benedetto mi ha nominato vescovo per il Sudafrica. Sono quindi ritornato nel paese nel gennaio del 2009 e vi sono stato altri 5 anni, fino a quando papa Francesco mi ha nominato vescovo di Manzini, in Swaziland, una nazione circondata dal Sudafrica e confinante per un breve tratto anche con il Mozambico.

Piccolo regno, grandi problemi

Lo Swaziland è un piccolo regno di circa 200 per 150 km. I suoi abitanti sono 1.200.000. Al centro si trova Manzini, la cittadina più importante a livello commerciale e in posizione ottimale per gli spostamenti. La capitale è però Mbabane, dove ha sede il governo. Il parlamento e il Re stanno invece a Lobamba.

La nostra bandiera riporta al centro uno scudo con lance che identificano la nazione. I colori sono nero su bianco e bianco su nero per esprimere la relazione pacifica tra i popoli. A differenza del Sudafrica, infatti, lo Swaziland non ha vissuto il problema della segregazione razziale.

C’è un parlamento, e un capo di stato che è il Re. Come per il Sudafrica, la poligamia qui è legale e parte della nostra cultura.

Una cosa molto bella del paese è l’artigianato: la lavorazione dei tessuti, dai colori molto vivaci, la fabbricazione di candele e la lavorazione del vetro.

Sfortunatamente siamo conosciuti anche per l’Aids. Siamo la nazione con la percentuale più alta al mondo di sieropositivi: quasi una persona su tre – il 27,2% – tra i 15 e i 49 anni. Oggi, grazie ai farmaci non è più una condanna a morte. A causa dell’Aids l’aspettativa di vita alla nascita nei decenni passati era crollata, oggi è di 57 anni per gli uomini e 61 anni per le donne.

(foto Alfredo Feletti)

Alcol, problema individuale e sociale

In questo contesto, uno dei motivi di preoccupazione per la salute dei cittadini e per le condizioni generali del paese è anche l’abuso di alcol. Non si tratta solo di una sensazione: le statistiche governative ci dicono che il 50% degli incidenti stradali sono provocati dalla guida in stato di ebbrezza.

Da noi accade una cosa che non ho mai visto da nessun’altra parte: una volta alla settimana il giornale ci dà le statistiche di coloro che sono stati sorpresi nel fine settimana a guidare in stato di ubriachezza. Il fine settimana successivo al 20-22 del mese, quando si prende lo stipendio, il numero di coloro che vengono colti alla guida ubriachi sale. Avendo i soldi, è più facile bere. Si arriva anche a 170/180 persone. Negli altri fine settimana i numeri sono attorno a 100/120 persone. Di una ventina di loro il giornale riporta nome, cognome e la multa che dovrà pagare. Se non hanno i soldi, vanno in carcere per un certo periodo. Tutto è proporzionale al livello di alcol trovato nel sangue.

Di queste persone arrestate i giornali raccontano anche le storie: un ragazzo che aveva il livello di alcol tre volte maggiore a quello consentito ha testimoniato: «Sono andato con i miei amici e mi hanno fatto provare il whisky. Io avevo preso sempre delle cose più leggere. Non ero abituato». Il magistrato gli ha risposto: «Ringrazia pure i tuoi antenati, perché io dovrei portarti via la patente». Allora gli è stato fatto scegliere tra due anni di prigione oppure pagare 130 euro.

Un altro caso che mi ha colpito è stato quello di un ragazzo che, mentre guidava, quando ha visto la polizia, invece di fermarsi, ha accelerato. Una volta preso e portato in tribunale, lui ha spiegato: «A me piace giocare alla playstation. E allora ero convinto di giocare. Quando ho visto la polizia dietro di me sono andato ancora più veloce, più forte, pensando di vincere».

«Bevo per divertirmi», «bevo perché sono arrabbiato», «bevo per questo o per quello». La cosa che mi colpisce è che tutti salgono su una macchina e guidano senza accorgersi di mettere a rischio la propria vita e quella degli altri.

(foto Alfredo Feletti)

Educare contro le bugie dell’alcol

Di fronte a questa situazione, noi vogliamo poter fare qualcosa per educare sia i nostri giovani sia gli adulti. L’alcol infatti è presente anche tra questi ultimi. Lo constatiamo quando il titolare di una ditta ci dice: «Io il lunedì devo avere un po’ di pazienza perché so che, se hanno bevuto nel fine settimana, arriveranno al lavoro più tardi, o addirittura non ce la faranno a lavorare». Lo riscontriamo anche nelle situazioni di alcune delle famiglie che conosciamo, quando i giovani ci raccontano che la mamma o il papà bevono e che, se sono fortunati, quando tornano a casa non parlano con nessuno, se non lo sono, quando tornano a casa sono violenti.

L’alcol è un bugiardo: ti fa credere che hai tu il controllo, che puoi decidere tu quando smettere di bere, e invece non è così. Mi ricordo di un giovane con il quale ho parlato un po’ di tempo fa. Gli dicevo: «Sei mal messo, devi fare qualcosa. Tutti i tuoi amici e familiari parlano di te. Devi smetterla di bere, devi chiedere aiuto». Lui mi ha risposto: «No, no, vedrai che non mi capiterà mai più». Era un mercoledì, poi ha bevuto da giovedì fino a domenica, quando abbiamo dovuto metterlo in un centro per poterlo veramente aiutare.

Lui non mi diceva delle bugie, era veramente convinto di farcela. Invece è caduto di nuovo per quattro giorni di seguito.

«Se apro una bottiglia, devo finirla»

Parlavo con un giovane swazi riguardo questa situazione dell’alcol. Lui mi diceva: «Sai qual è il nostro problema? Quando abbiamo una bottiglia, dobbiamo finirla. Che sia birra o vino o qualcosa di più forte, non siamo capaci di prenderne un bicchiere e poi dire basta. Se apro la bottiglia, devo finirla».

Io non sono un esperto, parlo soltanto di quello che vedo e vivo, che trovo nella mia diocesi, nella mia nazione. Vedo ad esempio che l’alcol dà un senso di appartenenza a un gruppo. Ti dicono: «Io bevo per poter stare con i miei amici». Ma questa è un’altra grande bugia dell’alcol. Perché inizialmente ti senti accolto, poi però, quando le cose vanno male, l’accoglienza finisce. Rimani più solo di prima. Quando mi dici che bevi per stare con gli amici, che amici sono quelli che ti lasciano salire in macchina anche se sei ubriaco?

Ricordo soltanto un’occasione in cui un gruppo di amici, dopo aver bevuto insieme, vedendo che uno  di loro aveva esagerato, hanno preso le chiavi della macchina dicendo: «Tu oggi dormi qui».

(foto Alfredo Feletti)

Alcol «dopo le lacrime»

L’alcol, in modo particolare da noi, trova sempre strade nuove per entrare nella tua vita. E non te ne accorgi neanche. In Sudafrica, dove ho lavorato diversi anni, è entrato in un modo molto «originale»: quando muore qualcuno noi facciamo, se possibile, il funerale di sabato. Si aspetta fino al sabato per permettere ad amici e parenti di arrivare. Tutto comincia venerdì sera con una veglia di preghiera nella casa di colui che è morto. Si legge, si prega e si canta tutta la notte fino al mattino. Al mattino si fanno discorsi: amici e parenti parlano della persona che è morta. Dopo un’altra preghiera si va al cimitero. Dopo il cimitero tutti tornano a casa della famiglia. Fin qui è tradizione. Da qualche anno, però, si è aggiunta una nuova «usanza» che si chiama after tears, cioè «dopo le lacrime»: abbiamo pregato, abbiamo pianto e adesso è il tempo di celebrare, e allora si va avanti bevendo.

Sognare un futuro diverso

La nostra sfida è: come educare al bere in modo responsabile? Non si tratta di non bere più, ma di avere una relazione diversa con l’alcol. Quando dico che in Swaziland un adulto su tre è sieropositivo all’Hiv, non sarà forse anche frutto dell’abuso di alcol? Dopo che uno ha bevuto, si sente più libero e non ci pensa tanto. E poi, la violenza familiare che troviamo quasi ogni giorno sui giornali in Swaziland, da dove viene?

La nostra intenzione allora è di lavorare sulla prevenzione. Se un po’ di anni fa la nostra sfida era come poter sognare un futuro diverso davanti all’Aids, oggi il nostro sogno è poter aiutare i nostri giovani a scegliere di vivere, a scegliere una vita diversa, ad appassionarsi alla vita.

José Luis Ponce de León

Trascrizione dell’intervento tenuto al convegno «Alcol e Giovani» di Torino, 3/11/2017.


(Foto Beppe Mola)

La Campagna in Swaziland

«Educare per prevenire»

«Educare per prevenire» è il nome del progetto che è stato impostato in Swaziland per allontanare i giovani dal pericolo dell’abuso di alcol.

Perché lo Swaziland? Lo Swaziland è un piccolo paese nel quale è presente un’unica diocesi il cui vescovo è monsignor José Luis Ponce de León, missionario della Consolata. La disponibilità sua e dei suoi collaboratori, in modo particolare di padre Giorgio Massa, ha permesso di conoscere da vicino la realtà in cui vivono i suoi abitanti.

Durante la prima esperienza missionaria di un gruppo di volontari nell’agosto 2016 è stato possibile capire quanto il problema dell’abuso di alcol fin dall’età giovanile sia molto diffuso. Successivamente, a marzo 2017, sono andati in Swaziland alcuni volontari medici che hanno potuto verificare la scarsa consapevolezza nella cittadinanza dei problemi fisici causati dall’abuso di alcol.

Per questo motivo è nato il progetto «Educare per prevenire» che ha l’obiettivo di sensibilizzare i ragazzi delle scuole secondarie sulla problematica, approfondendo le motivazioni che portano a cadere nella trappola dell’abuso di alcol e gli effetti di questo sul corpo. Nel mese di agosto 2017 un altro gruppo di volontari ha visitato sei scuole dello Swaziland incontrando oltre mille studenti e riscontrando tra essi grande interesse.

Ma questo è stato solo l’inizio: dopo la fase di sperimentazione dell’estate scorsa, nell’agosto 2018 ci sarà una sessione di formazione di animatori locali che potranno dare continuità al progetto, diffondendo e approfondendo i temi della prevenzione in più scuole (almeno nelle 60 gestite dalla diocesi).

Laura Scomazzon

[youtube https://www.youtube.com/watch?v=cuclE122cWQ?feature=oembed&w=500&h=281]


La Campagna in Italia

Tende e scuole

Impegnarsi Serve, forte della sua decennale esperienza con i giovani, unisce a una informazione corretta sull’alcol e sui rischi connessi al suo consumo, un’apertura sul mondo per stimolare un confronto al fine di una formazione umana globale nella logica dell’interculturalità.

Oltre ai convegni con medici, operatori, testimoni e missionari e a giornate di animazione, due sono le attività su cui ha scelto di investire.

 

(Foto Beppe Mola)

Tende Live AlcolOltre

Un coinvolgente percorso che affronta il tema dell’alcol tramite stimoli diversi offerti in tre tende nelle quali giovani e adulti trovano racconti di chi l’alcol l’ha vissuto sulla propria pelle in Italia e in Africa; grandi immagini, video, dinamiche di animazione e esperienze sensoriali; un labirinto creato per far sperimentare lo smarrimento di chi cade vittima dell’alcol; stimoli alla riflessione per fare scelte alternative.

Filo conduttore è una rete: rete liberante di relazioni umane o rete da pesca che imprigiona.

Un animatore interagisce con i partecipanti per presentare l’atteggiamento costruttivo del personaggio Nemo che offre una via alternativa.

Progetti educativi interculturali

La Campagna propone alle scuole un percorso didattico che avvicina ad alcuni paesi africani presentando i loro modi diversi di vivere, le loro culture con le loro ricchezze e povertà. Sottolineando che in tanta diversità però i desideri sono gli stessi e anche le difficoltà: la fragilità delle relazioni e il disagio interiore che oggi più di ieri vengono colmati dall’alcol, in Italia come in Africa. Partire da lontano aiuta a superare la diffidenza iniziale dei ragazzi e rende possibile il confronto con l’esperto che li aiuta a riflettere sull’influenza del mondo esterno e delle reti sociali sulle proprie scelte di vita. Il fine è quello di sostenere cambiamenti positivi.

Il progetto prevede tre incontri nelle singole classi:

  1. Conoscenza del problema alcol in Africa.
  2. Avvicinamento alla realtà italiana, con dinamiche di gruppo e visione di filmati.
  3. Intervento dello psicologo sulle esperienze dei ragazzi.

I destinatari sono gli alunni delle classi terze delle scuole secondarie di primo grado e del biennio delle secondarie di secondo grado.

Laura Poretti

(M. Nikitin/flickr com)


Questo dossier è stato firmato da:

• Giordano Rigamonti – missionario della Consolata, è fondatore dell’Associazione Impegnarsi Serve Onlus – Odv e coordinatore della Campagna «AlcolOltre».
• Mariacaterina Barcella – è dirigente medico di 1° livello. Ha esperienza di volontariato internazionale in Africa e recentemente in Congo e Swaziland per la Campagna «AlcolOltre».
• Paolo Franceschi – dirigente medico di ° livello del Noa (Nucleo operativo alcologia) di via Perini, Milano. Ha esperienza di volontariato internazionale in Africa.
• José Luis Ponce de León – missionario della Consolata, vescovo della diocesi di Manzini in Swaziland. Argentino, già superiore regionale dei missionari della Consolata in Sudafrica e segretario generale dell’Istituto Missioni Consolata, è partner della Campagna «AlcolOltre».
• Laura Poretti – da 10 anni nell’Associazione Impegnarsi Serve, ne è attualmente consigliere nazionale con rappresentanza legale e amministratrice della Campagna «AlcolOltre».
• Maria Raffaella Rossin – è psicologa e psicoterapeuta responsabile del Noa di via Perini, Milano e del coordinamento tecnico scientifico del Noa Asst Fatebenefratelli-Sacco. È membro del direttivo nazionale della Società italiana di alcologia.
• Emanuele Scafato – direttore del Centro dell’Oms per la ricerca sull’alcol; direttore dell’Osservatorio nazionale alcol, Centro nazionale dipendenze e doping dell’Iss; presidente della Società italiana di alcologia e vicepresidente della Federazione europea delle società scientifiche sulle dipendenze (Eufas).
• Laura Scomazzon – referente dei progetti dell’Associazione Impegnarsi Serve in Swaziland.
• Lino Tagliani – missionario della Consolata in Colombia ed Ecuador, antropologo.

• Per approfondire: www.impegnarsiserve.org




Per un cromosoma in più: la sindrome di Down

Di Rosanna Novara Topino |


Un’anomalia cromosomica causa la sindrome di Down. Principale fattore di rischio è l’età della madre. Rispetto al passato le terapie e l’inserimento scolastico e lavorativo sono migliorati, ma molto rimane da fare. In particolare per non lasciare sole le famiglie. In Italia, le persone affette dalla sindrome di Down sono circa 38.000.

Nel nostro viaggio tra alcune delle più diffuse forme di disabilità, questa volta incontriamo quella che, più di tutte, associamo all’idea di diversità: la sindrome di Down. Il suo nome è dovuto al medico inglese John Langdon Down, che per primo ne descrisse le caratteristiche in una pubblicazione del 1866, in cui definì tale sindrome con il termine di «mongolismo», supponendo erroneamente un’affinità tra la forma degli occhi dei pazienti, dalle rime palpebrali oblique, e quella a mandorla tipica delle popolazioni asiatiche. Con una notevole approssimazione, dovuta sia al periodo storico, sia al fatto che osservò solo persone private delle cure familiari e mediche e isolate fin dalla nascita in istituti, egli definì questi pazienti come persone con grave ritardo mentale, ineducabili, insensibili e prive di personalità. Purtroppo, questo stereotipo spesso è ancora presente, nel comune modo di pensare. Fu del medico francese Jerome Lejeune la scoperta, nel 1958, della causa della sindrome di Down, cioè la presenza, nel corredo cromosomico cellulare dei pazienti, di un cromosoma 21 soprannumerario, per cui si parla di «trisomia 21». Le variazioni nel numero dei cromosomi*(46 nel normale corredo cromosomico umano, 47 nella sindrome di Down) sono di solito la conseguenza di una loro errata separazione alla meiosi* con la formazione di cariotipi* con cromosomi soprannumerari oppure mancanti di un cromosoma. La conseguenza di tutto ciò è uno sbilanciamento nelle dosi dei geni, che molto spesso è incompatibile con la vita e ha come esito un aborto spontaneo*. Solo nelle alterazioni del numero dei cromosomi sessuali e del cromosoma 21, c’è la possibilità di sopravvivenza dell’embrione e del raggiungimento dell’età adulta, ma non sempre. Si stima infatti che, nel caso della trisomia 21 o sindrome di Down, 3 feti su 4 vadano incontro ad aborto spontaneo specialmente nel primo trimestre della gravidanza. Nella letteratura scientifica è riportata una correlazione direttamente proporzionale tra età materna ed abortività spontanea di feti Down, con un aumento dell’incidenza degli aborti spontanei dal 23% per madri di 25 anni fino al 45% per madri di 45 anni. Si è osservato che la presenza del cromosoma 21 soprannumerario è per il 93% dei casi di origine materna e solo per il 7% dei casi paterna.

Le conseguenze

La trisomia 21 influisce notevolmente sullo sviluppo di diversi organi e tessuti, in particolare cervello e cuore e causa gradi diversi di ritardo mentale e molteplici rischi per quanto riguarda la salute. Basta pensare che i difetti cardiaci congeniti sono presenti in un individuo su due circa e, oltre a questi, possono essere presenti problemi dentari, di perdita dell’udito, della vista (strabismo), endocrini come l’ipotiroidismo, cutanei, gastrointestinali, obesità, anomalie ortopediche, un aumentato rischio di leucemia, la possibilità di attacchi epilettici. A tutto ciò si aggiunge l’invecchiamento precoce, con un aumento dei casi di demenza, causati spesso da morbo di Alzheimer, che in questi pazienti può insorgere prima, rispetto agli individui normodotati. La sindrome di Down inoltre comporta maggiore sterilità, rispetto alla popolazione generale, soprattutto tra i maschi. Il rischio di generare figli Down, per chi già presenta questa sindrome è più alto rispetto a quello dei normodotati, ma non superiore al 50%.

La diagnosi prenatale

Oltre al ritardo mentale, la trisomia 21 comporta la comparsa precoce delle manifestazioni neuropatologiche della malattia di Alzheimer e appaiono in generale più precoci tutti i processi di invecchiamento. Tra questi, oltre alla demenza, ci sono anche la produzione di autornanticorpi e lo sviluppo di patologie autornimmuni. Secondo recenti studi, alla base dell’invecchiamento precoce e dei fenomeni neurodegenerativi caratteristici della sindrome di Down ci sono lo stress ossidativo e le mutazioni del Dna mitocondriale. I mitocondri sono organuli presenti nel citoplasma cellulare e responsabili della respirazione cellulare, della produzione di energia sotto forma di molecole di Atp e dello smaltimento dei reagenti dell’ossigeno comunemente detti radicali liberi. Questi organuli sono gli unici, oltre al nucleo cellulare, a contenere Dna, che nei mitocondri è sempre di origine materna. Mutazioni di questo Dna portano ad un’alterazione delle funzioni mitocondriali, con declino in particolare della funzione respiratoria e apoptosi o morte cellulare. La riduzione del numero di cellule per apoptosi porta alla perdita di funzione di tessuti e di organi, evento cruciale del processo d’invecchiamento. Poiché l’alimentazione, il sistema ormonale, i fattori di crescita e l’esposizione a danni esterni influiscono sul metabolismo mitocondriale, sullo stress ossidativo e sull’espressione genica è di cruciale importanza la diagnosi prenatale della sindrome di Down, in modo che, qualora essa risulti presente, mamma e feto siano esposti il meno possibile a tutti quei fattori che possono accelerare il processo d’invecchiamento cellulare e che sia attuato un opportuno apporto di sostanze antiossidanti.

Amniocentesi e villocentesi

Il principale fattore di rischio per la sindrome di Down è l’età della madre, con errori di non disgiunzione cromosomica alla meiosi sempre crescenti a partire dai 35 anni (è però possibile che si verifichino anche prima di tale età, seppure con minore frequenza).

Fino a non molto tempo fa gli esami più attendibili, grazie allo studio del cariotipo, ma invasivi e pertanto a rischio di provocare aborto, erano solo l’amniocentesi e la villocentesi (con un rischio di aborto di 1:200 casi). Esse sono rispettivamente il prelievo del liquido amniotico e quello dei villi coriali della placenta, esami entrambi eseguiti con puntura addominale sotto controllo ecografico. La villocentesi permette una diagnosi più precoce, ma meno attendibile (perché il cariotipo di alcune cellule placentari potrebbe essere diverso da quello delle cellule embrionali), rispetto all’amniocentesi, che dà un risultato sicuro al 100%, ma più tardivamente. Prima di effettuare l’amniocentesi o la villocentesi, consigliate dai 35 anni in su, viene effettuato il tri-test, un esame del sangue per la valutazione dell’alfa-fetoproteina (Afp), della gonadotropina corionica (Hcg) e dell’estriolo non coniugato (E3 free), unitamente all’ecografia, per conoscere esattamente l’età del feto. La valutazione di questi tre parametri, sostanze prodotte dal feto o dalla placenta, permette di stabilire la probabilità che il feto possa presentare anomalie cromosomiche o difetti del tubo neurale (spina bifida), ma serve solo a segnalare una situazione di rischio, che, nel caso sia presente, va poi verificata con l’amniocentesi, essendo possibili dei falsi positivi. Da poco è disponibile un test innovativo, che permette lo studio del cariotipo fetale analizzando il Dna fetale libero (cfDna) circolante nel sangue materno, ottenuto quindi con un normale prelievo di sangue, senza alcun rischio per il feto.

L’aborto e la Danimarca

La sindrome di Down è ubiquitariamente diffusa in tutte le popolazioni e ad ogni latitudine. Attualmente la sua incidenza è di circa 1:1.000-1.100 nuovi nati. Si stimano circa 3-5.000 nuovi casi all’anno nel mondo. In Italia nasce un bambino Down su 1.200 e si stimano circa 500 nati Down all’anno. Attualmente i portatori di sindrome di Down in Italia sono circa 38.000. In assenza di aborto volontario*, l’incidenza dovrebbe essere circa di 1:650. Nei paesi del Nord Europa, il numero di nuovi nati con sindrome di Down è sceso drasticamente negli ultimi anni, tanto che la Danimarca mira a diventare il primo paese «Down free»: nel 2015, il 98% di donne con diagnosi di gravidanza Down ha scelto l’aborto volontario. Nel 2004 il governo danese lanciò un piano di accesso gratuito ai test prenatali per individuare la sindrome di Down. Nel 2014 lo scienziato Richard Dawkins, docente a Oxford, scrisse su Twitter, uno dei più diffusi social network, che partorire un figlio Down, avendo a disposizione gli attuali strumenti per la diagnosi prenatale, è secondo lui altamente immorale. Come abbiamo visto, però, la sindrome di Down ha un’ampia gamma di manifestazioni, per cui possiamo avere individui con gradi diversi di disabilità, che in ogni caso possono migliorare notevolmente, se si utilizzano fin dalla più tenera età tutti gli strumenti a disposizione in campo medico e pedagogico.

Inserimento scolastico

Grazie alle attuali terapie che permettono di eliminare o ridurre i difetti cardiaci congeniti, l’aspettativa di vita delle persone Down è passata, in meno di un secolo, da 10 a 60 anni circa e la probabilità di sopravvivenza fino a 12 mesi è passata dal 69%, negli anni ’50 del secolo scorso, al 93% per i nati dopo il 1990. Check up medici regolari, programmi di fisioterapia e di counseling personalizzati sono fondamentali per mantenere un buon livello di qualità della vita. Oltre a questo si è rivelata particolarmente importante la partecipazione delle persone Down a qualche forma di attività sportiva, dal momento che l’esercizio fisico è in grado di stimolare la neurogenesi e la plasticità sinaptica, quindi di migliorare le funzioni cerebrali e le capacità cognitive. Inoltre l’azione riabilitativa dello sport consente anche sia il miglioramento delle capacità motorie (di solito le persone Down tendono ad avere una vita sedentaria, pur non avendo difficoltà motorie particolari) che l’adattamento e l’integrazione nella società. A livello scolastico, grazie al fatto che in Italia i portatori di handicap sono stati inseriti in classi normali, dopo l’abolizione, con la legge 517 del 1977, delle classi differenziali e delle scuole speciali, pur con tempi di apprendimento diversi e più lunghi rispetto a quelli dei compagni normodotati, i bambini Down mostrano step di apprendimento sostanzialmente uguali. Grazie ai programmi di integrazione scolastica, oggi in Italia molti giovani Down riescono a raggiungere un buon grado di autonomia e ci sono già stati alcuni ragazzi che sono riusciti a intraprendere studi universitari e a laurearsi.

Inserimento lavorativo

Se da un lato, in Italia è stato raggiunto un buon livello di inserimento scolastico per i bambini e ragazzi Down, attualmente solo il 13% di persone Down adulte è assunto con un regolare contratto di lavoro, il che dimostra che il pregiudizio nei loro confronti e il rischio di scivolare nell’oblio sociale è ancora molto elevato. A questo si aggiunge il disagio per le loro famiglie, lasciate pressoché sole nel loro accudimento. Da alcuni anni sono stati avviati programmi di inserimento per ragazzi Down nel mondo del lavoro, come il progetto Omo («On my own… at work», «Da solo… al lavoro», 2014-2017), finanziato dalla Commissione europea nell’ambito del programma Erasmus plus e seguito dall’«Associazione italiana persone down» (Aipd), che prevedeva l’inserimento in strutture alberghiere, aziende di ristorazione e agenzie formative resesi disponibili per stage e assunzioni di persone Down in Italia, Spagna e Portogallo. A seguito di questo programma è nata una rete di imprese alberghiere e di ristorazione, che s’impegnano ad accogliere tirocinanti e lavoratori con disabilità intellettiva, ottenendo il marchio «Valuable». Nel mondo della moda, alcune importanti maison del gruppo Lvmh si sono impegnate a sostenere progetti d’inserimento lavorativo in Italia per giovani Down e a promuovere il volontariato tra i propri dipendenti, che sono stati invitati a mettere a disposizione di questi ragazzi un po’ del loro tempo e la loro professionalità. Anche i grandi marchi della moda hanno offerto delle possibilità: nel 2015 la prima modella al mondo con sindrome di Down ha potuto calcare le passerelle della New York Fashion Week.

La scelta

Portare avanti una gravidanza Down certamente non è una scelta facile, ma questi ragazzi stanno dimostrando di essere capaci di fare la loro parte nella società, se seguiti adeguatamente. Perché dunque non farli nascere? Perché non accettarli? È però fondamentale che vengano attuati adeguati programmi di sostegno alle famiglie delle persone Down, che non devono essere lasciate sole nel loro difficile compito.

Rosanna Novara Topino
(sesta puntata – continua)

* Termini essenziali:

  • Cariotipo: insieme dei cromosomi cellulari, come appaiono alla mitosi.
  • Cromosoma: unità funzionale di Dna e nucleoproteine, che si compatta durante la divisione cellulare e viene trasmessa alle cellule figlie, veicolando così parte del patrimonio genetico.
  • Gene: unità ereditaria fondamentale, che occupa una posizione fissa su un cromosoma e porta l’informazione per il corrispondente prodotto proteico.
  • Meiosi: processo di divisione delle cellule germinali progenitrici, che porta a ovociti e spermatozoi.
  • Mitosi: processo di divisione delle cellule somatiche.
  • Aborto spontaneo: interruzione spontanea della gravidanza prima della 22a settimana, per cause genetiche e non come diabete gestazionale, ipertensione, malformazioni uterine o fetali.
  • Aborto volontario: interruzione volontaria di gravidanza. Può essere chirurgica o farmacologica.


Approfondimento

Trisomia?21

Esistono diverse forme di trisomia 21, a cui corrispondono gradi diversi di disabilità. Nel 95% dei casi si ha la trisomia 21 piena o in forma libera, cioè il cromosoma soprannumerario fluttua libero nel nucleo cellulare ed è presente in tutte le cellule dell’organismo. Nel 2-3% dei casi si ha la forma a mosaico, in cui non tutte le cellule presentano il cromosoma 21 in più. Gli individui con questo tipo di trisomia 21 tendono ad avere prestazioni cognitive, linguistiche e sociali migliori di quelli con trisomia piena. In meno di un caso su 40.000 c’è una traslocazione del cromosoma 21 soprannumerario su un altro cromosoma e questo fenomeno è in alcuni casi di tipo ereditario, cioè è stato trasmesso da un genitore asintomatico, per cui è necessaria una consulenza genetica che informi del rischio di avere ulteriori figli Down. Vi sono poi forme rare con un cromosoma 21 soprannumerario ad anello o con solo una parte di esso. Il cromosoma 21 è il più piccolo dei cromosomi umani e rappresenta solo l’1,5% dell’intero genoma cellulare. Finora sono stati identificati poco più di 400 geni di questo cromosoma, di cui 20-50 localizzati in una regione terminale del braccio lungo del cromosoma detta Down Syndrome Critical Region (Dscr). Tali geni, presenti in triplice copia nella sindrome, hanno effetto sull’intero genoma, poiché condizionano l’espressione di moltissimi altri geni, attivandoli o inibendoli, a seconda della costituzione genetica individuale, il che spiega la variabilità di grado della malattia e la diversità individuale delle manifestazioni patologiche.

R.N.T.

La?mente

Recentemente si è scoperto che il cromosoma 21 contiene 5 micro-Rna regolatori dell’espressione genica, la cui sovraespressione nella trisomia 21, a livello dei tessuti nervoso e cardiaco fetali, determina una ridotta espressività delle proteine codificate, che si traduce nelle anomalie cerebrali e cardiache tipiche della sindrome di Down. La facies tipica dei soggetti Down sarebbe dovuta ad anomalie dello sviluppo embrionale, secondarie a difetti di migrazione e proliferazione delle cellule della cresta neurale. Nei neonati Down sono spesso presenti disordini mieloproliferativi transitori e nei bambini c’è un’elevata incidenza di leucemia acuta linfoblastica e megacarioblastica. Sicuramente la trisomia 21 è la principale causa di ritardo mentale presente in tutti i pazienti, in gradazioni da moderato a severo. I soggetti Down presentano spesso un deficit nella produzione del linguaggio, mentre sono migliori l’espressione non verbale e lo sviluppo sociale. In età pediatrica sono spesso presenti deficit di attenzione, iperattività, disturbo oppositivo della condotta o comportamenti aggressivi. L’8-13,6% dei soggetti sviluppa epilessia, il 7-11% autismo, mentre in età adulta il 6,1% presenta depressione maggiore o un comportamento aggressivo. Nei soggetti Down sono state riscontrate dimensioni cerebrali e cerebellari significativamente ridotte, in particolare per quanto riguarda l’ippocampo, la corteccia cerebrale e la sostanza bianca, con una significativa riduzione del numero dei neuroni e delle loro sinapsi, che comporta deficit di apprendimento e di memoria.

R.N.T.




A 50 anni dal primo trapianto di cuore

Sudafrica | testi di Ernesto Bodini |


Da sempre l’idea del trapianto affascina l’umanità. Nel 1967 un cardiochirurgo del Sudafrica riuscì nell’intento di trapiantare addirittura il cuore. Riviviamo la storia di un evento che entusiasmò il mondo.

«Le opere meravigliose di Cosma e Damiano», quadro anonimo del 1515 conservato nel Landesmuseum Württemberg di Stoccarda in Germania. | Cosma e Damiano erano fratelli gemelli, nati a Costantinopoli nel III sec. Si dedicarono alla cura dei malati dopo aver studiato l’arte medica in Siria. Furono dei medici speciali, poiché prestarono la loro opera gratuitamente, e per questo erano noti come medici anargiri (anárgyroi – dal greco ana argiria, senza argento, senza denaro). Furono martirizzati pare sotto l’impero di Diocleziano intorno al 303. Il culto di Cosma e Damiano è attestato con certezza fin dal V secolo.

I trapianti di parti del corpo umano da un individuo all’altro affascinano l’uomo da tempo immemorabile. Assai noto, ad esempio, è un dipinto del XVI sec. che raffigura la storia di un presunto miracolo operato dai due santi e fratelli Cosma e Damiano (medici anargiri del III secolo che visitavano e curavano i malati senza farsi pagare, ndr) i quali, secondo la tradizione, presero una gamba sana da un etiope deceduto e la posero al posto di una gamba affetta da cancrena di un uomo bianco.

Non sorprende quindi che l’evoluzione della medicina moderna sia stata accompagnata da continui tentativi di trapianto, che hanno evidenziato al tempo stesso le difficoltà operative e i limiti delle conoscenze biologiche alla base delle tecniche impiegate, soprattutto nell’ambito della cardiochirurgia. Nel suo libro del 1896 sulla chirurgia, il chirurgo inglese Stephen Paget (1855-1926) scriveva: «La chirurgia del cuore ha probabilmente raggiunto il limite impostato per natura a tutti gli interventi chirurgici; nessun nuovo metodo e nessuna nuova scoperta possono superare le difficoltà naturali che attendono una ferita del cuore».

Una tappa fondamentale nella trapiantologia si è raggiunta nel 1967, quando il cardiochirurgo sudafricano Christiaan N. Barnard (1922-2001), suo fratello Marius (1927-2014) e uno staff di 30 operatori tra medici, infermieri e perfusionisti all’ospedale Groote Schuur di Città del Capo, effettuarono il primo trapianto cardiaco al mondo. Un mondo che subito si chiese chi fosse questo chirurgo anonimo, divenuto in poco tempo un idolo, adorato ovunque.

Christiaan Neethling Barnard nacque in uno dei sobborghi più poveri di Johannesburg, secondo di quattro fratelli (il padre, Adam, era un pastore della comunità bianca). Dopo la laurea in medicina nel 1946 e un tirocinio di tre anni al Groote Schuur, fece pratica come medico di famiglia dal 1948 al 1951, per poi trasferirsi negli Usa dove conseguì la specialità in chirurgia generale con il prof. Owen H. Wangensteen (1898-1981), ottenendo il riconoscimento di un livello superiore e un dottorato di ricerca per esercitare in Sudafrica. Il prof. Wangensteen gli fece avere una borsa di studio e una macchina cuore-polmone che permise a Barnard di portare la chirurgia di by pass cardiopolmonare a Città del Capo, dove tornò nel 1954 per far parte del Dipartimento di chirurgia come aiuto. Da quel momento in poi si dedicò alla chirurgia sperimentale intervenendo su cavie (prevalentemente cani), quale presupposto per agire poi sull’uomo, grazie alla tecnica acquisita da due cardiochirurghi americani della Stanford University, Norman Shumway (1923-2006) e Richard Lower (1929-2008) che Barnard visitò nel 1966.

Dai suoi esperimenti si convinse sempre di più che, nonostante la disponibilità dei farmaci, l’unico vero trattamento per l’insufficienza cardiaca fosse il trapianto.

Il primo ostacolo che Barnard dovette affrontare fu quello di trovare il paziente adatto per il primo trapianto di cuore: doveva essere un malato terminale sul quale fosse inutile ogni cura conosciuta e anche un intervento chirurgico tradizionale.

Louis Washkansky e Denise Darvall

Il 10 novembre 1967 Louis Washkansky si rivelò essere il paziente ideale in quanto affetto da «respiro di Cheyne-Stokes» a causa di insufficienza cardiaca, diabete e cellulite agli arti inferiori. Nel pomeriggio del 2 dicembre 1967 la giovane Denise Darvall subì un incidente stradale con conseguente grave trauma cranico, e giunta al pronto soccorso dell’ospedale le fu riscontrata la morte cerebrale. Il capo della cardiologia, il dottor Schrire, acconsentì di considerare come donatrice Denise Darvall e come ricevente Louis Washkansky. Seguì il consenso del padre della giovane appena deceduta, il quale, rivolgendosi a Barnard, disse: «È una bella fortuna, se non puoi salvare mia figlia, devi provare a salvare quest’uomo».

Sulla questione etica del decretare la morte cerebrale come irreversibile, Barnard nella sua autobiografia scrisse: «La maggioranza dei cardiochirurghi sono d’accordo con il pontefice Pio XII il quale, già nel febbraio 1957, disse a un gruppo di medici che non vi è l’obbligo morale di usare mezzi artificiali e straordinari per resuscitare un corpo, purché sia esclusa ogni speranza di ripresa» (facendo riferimento a un discorso del papa del 24 febbraio 1957 su tre quesiti della «Società Italiana di Anestesiologia», ndr). Ciò valeva per Denise Darvall il cui cervello era stato distrutto.

1967 Christiaan Barnard durante il primo trapianto di cuore

Il grande evento avvenne il 3 dicembre 1967. Nel reparto di cardiochirurgia era già tutto predisposto nella sala B. Il giovane Barnard, coadiuvato dai dott. Rodney Hewinston e Terry O’Donovan, asportò parte del cuore della ragazza; simultaneamente, nella contigua sala A, un’altra équipe asportò parte del cuore del paziente ricevente. Bloccando i grossi vasi, Barnard estrasse il cuore di Denise e lo depositò per un istante in una bacinella tenuta dall’infermiera Peggy Jordan. Ora cominciava la parte più delicata dell’intervento. Prendere il cuore di Denise e trapiantarlo nel petto di Washkansky. Barnard, rifacendosi al metodo ingegnoso ideato da Shumway, procedette alla saldatura: non si asportava tutto il cuore, ma se ne lasciava in situ la «calotta», ossia la parte superiore. Immerso in una soluzione ghiacciata di acido lattico, sembrava molto piccolo accanto a quello del ricevente. Non si vedevano segni di attività, ma Barnard sapeva che vi era una scintilla di vita, e sapeva che l’organo si sarebbe messo a battere non appena le prime gocce di sangue caldo ossigenato fossero arrivate attraverso le arterie coronariche. E solo allora il cuore avrebbe ripreso vita salvando l’uomo che Denise Darvall non conosceva. L’intervento raggiunse la fase cruciale. Il cuore di Denise, privato della sua «calotta», venne accollato al «residuo» del cuore di Washkansky. In pratica, circa i due terzi inferiori del cuore della ragazza vennero accostati e suturati al terzo superiore del cuore del ricevente. Quasi un «gioco ad incastro». Terminato l’intervento, seguirono lunghi minuti di silenzio, nella trepidante attesa che il cuore trapiantato desse i primi segni di un’attività autonoma. Il giovane cuore di Denise riprese a battere nel petto di un uomo di trent’anni più anziano. Il più bel tramonto del mondo al giovane cardiochirurgo non sarebbe sembrato altrettanto stupendo. Diciotto giorni dopo il paziente subì un’infezione polmonare che lo portò al decesso.

Ma Barnard non si scoraggiò e il 2 gennaio 1968 effettuò il suo secondo trapianto su Philip Blaibertg. «Questa – spiegò – è stata un’operazione veramente importante. È stato in questo caso che il mondo ha conosciuto il trapianto cardiaco. Abbiamo dovuto dimostrare che un paziente sottoposto a un trapianto di cuore era in grado di riprendersi dall’intervento, di lasciare l’ospedale e di condurre una vita normale». Infatti, il paziente sopravvisse 593 giorni (19 mesi) dopo il trapianto. Il famoso clinico effettuò altri 51 trapianti prima di «depositare» il bisturi a causa di una grave forma di artrite. Morì il 2 settembre 2001 a Cipro in seguito ad un attacco acuto di asma, e non per arresto cardiaco come divulgato da alcuni mass media.

Ernesto Bodini

Louis Washkansky dopo il trapianto.




Convivere con la sclerosi multipla


Testo di Rosanna Novara Topino |


Malattia neurologica del giovane adulto, la sclerosi non è mortale ma potenzialmente invalidante. In Italia si contano 3.400 nuovi casi all’anno. Oggi la diagnosi precoce e la ricerca scientifica stanno dando risultati importanti.

La sclerosi multipla (Sm), detta anche sclerosi a placche, è una malattia in aumento soprattutto nella popolazione femminile. Si tratta di una patologia infiammatoria su base autornimmune del sistema nervoso centrale (Snc), caratterizzata dalla comparsa di lesioni rotondeggianti e ben delimitate (placche) in molteplici aree dell’encefalo e del midollo spinale. Tali lesioni possono essere rosee e mollicce oppure grigiastre e dure. Le loro dimensioni variano da pochi millimetri a diversi centimetri e sono caratterizzate dalla scomparsa progressiva della mielina presente nella sostanza bianca e dalla proliferazione delle cellule della neuroglia. Queste ultime sono cellule connettivali, che formano l’impalcatura di sostegno dei neuroni e provvedono al loro mantenimento. Nel Snc coesistono la sostanza bianca e quella grigia.

Sostanza bianca e grigia

La sostanza grigia è costituita dai corpi cellulari dei neuroni, dal primo tratto del loro assone (fibra nervosa lunga, per il trasporto degli impulsi nervosi in uscita dal neurone; insiemi di assoni formano i nervi) e dai dendriti (fibre nervose brevi e ramificate per gli impulsi in ingresso nel neurone). È localizzata nella corteccia cerebrale e nella parte centrale del midollo allungato e spinale.

Si è visto che la degenerazione di alcuni assoni comincia presto, all’inizio della malattia, comportando la morte del neurone corrispondente e conseguente deficit funzionale, ovvero alterazione delle prestazioni sensitivo-motorie e, a lungo termine, compromissione cognitiva e comportamentale. All’inizio della malattia, tuttavia, gli assoni degenerati non sono numerosi, per cui i deficit funzionali sono dovuti soprattutto alla flogosi (infiammazione). Quando quest’ultima si risolve, il paziente recupera completamente o in parte le sue funzioni.

Evoluzione della Sm

Come colpisce questa patologia? La Sm evolve da una fase acuta infiammatoria iniziale ad una fase cronica, quindi, una volta insorta, sarà presente per sempre nella vita del paziente.

Questa malattia è caratterizzata dalla disseminazione spaziale e temporale delle placche, cioè le aree di demielinizzazione della sostanza bianca compaiono in zone diverse del Snc e in tempi diversi. Il danno mielinico, che caratterizza la Sm è conseguente ad un’anomala attivazione del sistema immunitario sia cellulare che umorale indotta da fattori genetici e ambientali. Questi ultimi sono probabilmente rappresentati da virus come quello del morbillo (verso il quale sono stati trovati anticorpi nel liquor dei pazienti in quantità superiore rispetto ai controlli), ma finora nessun virus è stato correlato con certezza alla Sm. Sicuramente i fattori genetici hanno un peso importante nella predisposizione ad ammalarsi, come è dimostrato dalla concordanza di casi tra i gemelli monozigotici (20-30%), che scende al 4% tra i gemelli dizigotici. I geni coinvolti sembrano essere numerosi. Tra questi ci sono quelli del maggior complesso di istocompatibilità (DR2, DQW1), quelli che codificano per gli interferoni, per le catene leggere dei linfociti T, per il Tnf (Tumoral Necrosis Factor). Recentemente è stata identificata una mutazione genetica del tipo «nonsenso» (in presenza della quale, anziché esserci la codifica di un aminoacido, viene dato il segnale di stop alla sintesi proteica), direttamente collegata alla Sm, localizzata sul gene NR1H3; tale mutazione causa la perdita di funzione del prodotto genico, la proteina LXRA, che controlla l’espressione di diversi geni coinvolti nell’omeostasi dei lipidi (costituenti della mielina, oltre alle proteine), nei processi infiammatori e immunitari. È chiaro quindi che, perché si sviluppi la malattia, è necessaria una predisposizione genetica, su cui devono intervenire dei fattori esogeni (grafico di pagina 63). Gli studi condotti sulle migrazioni di popolazioni hanno evidenziato che c’è un fattore ambientale (forse un virus), che predispone alla Sm e che agisce prima della pubertà (14-15 anni). Un soggetto emigrato prima di questa età acquisisce la prevalenza del paese in cui si è recato, mentre se emigra dopo mantiene la prevalenza del paese d’origine. Tra i virus maggiormente sospettati come parti in causa per la Sm ci sono i Coronavirus, i Papovavirus, come già detto il virus del morbillo, gli Herpesvirus, il Simian V5 e i Retrovirus. Altri fattori di rischio esogeni sono la carenza di vitamina D, per la sua regolazione del sistema immunitario e l’esposizione al fumo di sigaretta.

Giovani e donne

Si stima che al mondo vi siano 2,5-3 milioni di malati di Sm. In Europa essi sarebbero circa 600.000 e in Italia 110.000. Nel nostro paese ci sono oltre 3.400 nuovi casi all’anno. Si prevede che in media una persona su 1.000 avrà la Sm nel prossimo futuro. Il rischio di ammalarsi è maggiore per le donne rispetto agli uomini (2:1). Si sospetta che questo divario sia dovuto a fattori neuroendocrini, che influenzano a più livelli il sistema immunitario. Quest’ultimo, attivato in modo anomalo, colpisce la mielina dell’organismo considerandola come non-self, ovvero estranea (autornimmunità). Il coinvolgimento dei fattori ormonali nella prevalenza della Sm nelle donne è indirettamente dimostrato dal fatto che essa è più frequente in giovani donne in età fertile e dagli effetti della gravidanza e del parto sulle ricadute (queste ultime diminuiscono durante la gravidanza, in particolare nel 2°-3° trimestre e aumentano nel puerperio). Rischiano di ammalarsi 30-50/1.000 persone, se hanno uno dei genitori ammalato di Sm, mentre se sono ammalati entrambi i genitori, il rischio sale a 120/1.000.

L’età di esordio di questa patologia è tra i 15-50 anni e colpisce prevalentemente le persone di 20-30 anni, mentre si rileva raramente sotto i 12 anni e sopra i 55. Per frequenza, la Sm è la seconda malattia neurologica del giovane adulto, dopo i traumi al Snc derivati dagli incidenti stradali e la prima di tipo infiammatorio cronico.

Tipologie di Sm

Nel 1869 il neurologo Jean Martin Charcot definì i sintomi clinici della malattia e i primi criteri diagnostici, raggruppati nella triade che da lui prende il nome: nistagmo, tremore intenzionale e parola scandita.

Nonostante nel tempo la Sm presenti un’evoluzione diversa da persona a persona, è possibile classificare le varie forme di decorso clinico in quattro gruppi principali: a ricadute e remissioni (SmRR), secondariamente progressiva (SmSP), primariamente progressiva (SmPP) e progressiva con ricadute.

La forma di Sm più diffusa all’esordio è la recidivante-remittente o SmRR (circa 85% tra le 4 forme principali), la quale presenta attacchi ben definiti (pousses), che si risolvono completamente o parzialmente dopo diverse ore o giorni, seguiti da periodi di benessere (remissioni) di durata variabile. Tra i sintomi più frequenti ci sono i problemi alla vista (diplopia), la spasticità o rigidità, le funzioni sfinteriche e viscerali alterate, la minzione imperiosa o urgenza urinaria. Tra un attacco e l’altro, la malattia può rimanere inattiva per mesi o anni.

Il passaggio alla forma secondariamente progressiva (SmSP) avviene dopo circa 10 anni. In questa seconda fase, la malattia cambia gradualmente dal processo infiammatorio tipico della SmRR alla progressione costante, caratterizzata dallo sviluppo di disabilità progressive, che non escludono la sovrapposizione di recidive.

Nella Sm primariamente progressiva (SmPP) non ci sono vere e proprie ricadute. I malati di questa forma di Sm (meno del 10%) presentano fino dall’esordio della malattia dei sintomi, che progrediscono in modo graduale, senza fasi di remissione. Le persone colpite da questa forma hanno più lesioni a livello del midollo spinale che dell’encefalo, tendono ad avere maggiori problemi di deambulazione e il rapporto maschi / femmine colpiti è circa 1:1.

La Sm progressiva con ricadute (SmPR) è una forma poco comune in cui, oltre ad un andamento progressivo fin dall’inizio, sono presenti anche episodi acuti di malattia, con scarso recupero. Passando dalla forma remittente-recidivante a quella secondariamente progressiva, può essere presente questa forma per qualche tempo.

A queste forme principali si aggiungono la Sm benigna, che, al contrario di tutte le altre forme, non peggiora col passare del tempo, esordisce con uno o due episodi acuti, che si risolvono senza lasciare disabilità o quasi e la Sm maligna di Marbourg o Sm fulminante acuta o tumefattiva, una rara forma con decorso tumultuoso ed esito letale nel giro di un anno o due circa. Ultimamente questa forma è risultata sensibile ad alcuni farmaci antitumorali ed al trapianto di cellule staminali.

Alcuni ricercatori ritengono che le forme benigne di Sm siano il 20% di quelle con diagnosi clinica.

Conseguenze della Sm

Tranne la forma maligna di Marbourg, la Sm non è una malattia che porta a morte il paziente, ma purtroppo in molti casi a grave invalidità.

Nonostante la ricerca faccia costantemente nuove scoperte, la causa primaria della malattia resta sconosciuta. Si sa che il sistema immunitario attacca la proteina basica della mielina, considerandola estranea all’organismo, grazie alle sue cellule, che superano la barriera emato-encefalica di difesa e si dirigono nel sistema nervoso centrale, provocando infiammazione e perdita della mielina.

Anche se c’è una predisposizione genetica, tuttavia la Sm non è una malattia ereditaria. È quindi infondato il timore di trasmetterla ai figli (al massimo viene trasmessa la predisposizione ad ammalarsi, che però necessita, come visto, anche di fattori ambientali per dare origine alla malattia). Questo significa che per le donne con Sm, che lo desiderano, non è impossibile intraprendere una gravidanza. È però necessario valutare attentamente la necessità di essere aiutate nell’accudimento dei figli, nel momento in cui dovessero presentarsi ricadute della malattia.

Tra i sintomi della Sm, oltre a quelli già citati precedentemente, ci sono anche i problemi di equilibrio e di coordinazione (compromissione delle funzioni cerebellari), le sensazioni alterate (formicolii, parestesie, dolore), senso di affaticamento, disturbi della sfera sessuale come l’impotenza, disturbi affettivi, ansia, depressione (dapprima psicogena reattiva e successivamente biologica da squilibrio dei sistemi serotoninergici).

Dopo circa 20-30 anni di malattia, compare un decadimento cognitivo nella maggior parte dei pazienti.

Le terapie attuali e future

Le terapie attualmente usate sono sintomatiche per limitare i danni delle ricadute e di tipo immunosoppressivo per allungare il più possibile i tempi di remissione della malattia e rallentarne la progressione. Già da alcuni anni però sono in corso ricerche, che prevedono l’uso di cellule staminali, nel tentativo di stimolare la produzione di nuova mielina, per ridurre il danno assonale.

Per i malati di Sm è fondamentale l’aiuto dei loro cari o comunque di persone che se ne prendano cura non solo per la disabilità a cui vanno incontro, ma per gli stati depressivi in cui possono trovarsi e che possono portare a tentativi di suicidio (il rischio di suicidio tra i malati di Sm è di 1:15, rispetto alla popolazione normale). La depressione può ridurre l’aderenza alla terapia, le performance cognitive e aumentare il senso di affaticamento, quindi è fondamentale un suo trattamento, che si è osservato essere associato a una riduzione della produzione di citochine pro-infiammatorie nei pazienti con Sm recidivante-remittente.

Rosanna Novara Topino
(quinta puntata – continua)


Approfondimenti

LE?PLACCHE

Le placche possono formarsi in ogni punto del Snc, ma sono più frequenti attorno ai ventricoli degli emisferi e del tronco cerebrale, nelle formazioni ottiche, nei peduncoli cerebellari superiori e medi e nel midollo spinale. Al microscopio ottico, le placche rosee si presentano con segni di infiammazione e sono localizzate prevalentemente in zona perivenulare, contengono linfociti T e plasmacellule mentre la mielina si presenta rigonfiata e incapace di assumere la tipica colorazione istologica di Niessel. Inoltre essa risulta frammentata e i suoi frammenti vengono fagocitati dai macrofagi. Le placche grigie sono croniche, in esse la mielina è andata persa e sostituita dalla deposizione di fibre prodotte dalle cellule connettivali, con conseguente cicatrizzazione o sclerosi, che porta allo stiramento e alla frammentazione degli assoni. Finché questi ultimi non sono lesionati, è possibile una riparazione perché la mielina può rigenerarsi. Quando però gli assoni si lesionano, diventano incapaci di trasmettere l’impulso nervoso. Quest’ultimo peraltro rallenta moltissimo già con la perdita del rivestimento di mielina.

R.N.T.

 LA?DIAGNOSI

Caratteristica della Sm è la sintesi nel liquor cefalorachidiano di IgG (immunoglobuline G, cioè anticorpi) per cui, per porre la diagnosi di Sm, oltre alla valutazione dei segni clinici, alla risonanza magnetica nucleare (Rnm), ai potenziali evocati, si fa ricorso anche a un prelievo di liquor per verificare la presenza di abnormi quantità di IgG endogene.

R.N.T.

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