«Capisco le paure, il dolore, la solitudine»

testo di Giuliana Chiorrini |


Giuliana Chiorrini è la moglie di Carlo Urbani, il medico di Castelplanio (Ancona) morto nel 2003, a 46 anni, a causa del virus Sars-CoV. In queste pagine ricorda quei giorni drammatici e li mette a confronto con quelli di oggi, dominati dalla pandemia del Sars-CoV-2, «fratello» del virus che Carlo aveva individuato e combattuto. Perdendo la battaglia, ma segnando per sempre la strada.

Ricordo che la notizia arrivò in casa, a Castelplanio, a gennaio del 2000. Carlo ci informò che era stato contattato dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) per seguire un progetto in Vietnam come infettivologo ed epidemiologo.

Accettò il prestigioso incarico divenendo così responsabile dell’Oms per le malattie parassitarie in alcuni paesi del Sudest asiatico: oltre al Vietnam, la Cambogia, il Laos, la Thailandia, la Cina e le Filippine. Nel suo nuovo ruolo Carlo avrebbe dovuto coordinare le numerose agenzie di cooperazione internazionale e i ministeri della Sanità dei vari paesi. Al tempo, io ero incinta per la terza volta. Feci in tempo a partorire Maddalena (il 3 maggio) e a battezzarla. Il 28 luglio del 2000 partimmo per Hanoi, capitale del Vietnam. Per Carlo, per me e per i nostri tre figli – Tommaso, Luca e Maddalena – aveva inizio una nuova esperienza.

Furono due anni ricchi di soddisfazioni. Nonostante le grandi responsabilità che lo trattenevano lunghe giornate in ufficio davanti al computer, o lo impegnavano in viaggi e riunioni internazionali, Carlo era rimasto un medico appassionato del contatto con i malati e, proprio per questo, privilegiava le missioni sul campo, nelle comunità più bisognose. Era contento quando, insieme ad altri colleghi, partiva per qualche missione, rimanendo lontano da Hanoi per giorni o anche per settimane.

Poi, inaspettatamente e in pochi mesi, tutto cambiò. Ad Hanoi, arrivò un virus prima di allora sconosciuto, il Sars-CoV.

Carlo Urbani, amico e collaboratore di MC, all’ospedale pediatrico di Hanoi con un collega vietnamita. Foto: Carlo Scialdone.

Castelplanio, febbraio-maggio 2020. È arrivato un nuovo virus, «fratello» di quello che si è portato via Carlo, ma questa volta non si è fermato in Estremo Oriente: si è diffuso anche in Italia e in tutto il mondo.

Credo che a eventi come questo non si possa mai essere preparati, anche se l’esperienza di 17 anni fa forse – lo dico non da esperta ma da spettatrice – avrebbe dovuto insegnarci qualcosa di più. In queste settimane per me è stato un susseguirsi di ricordi, di sensazioni, di momenti vissuti con paura e angoscia. Nemmeno a farlo apposta, anche il periodo coincide.

Era il 26 febbraio 2003 quando, ad Hanoi, Carlo fu chiamato all’Ospedale francese (una struttura privata di piccole dimensioni, ndr) dove era ricoverato un paziente – un uomo d’affari americano di 48 anni – che aveva una patologia strana, sospetta. Carlo aveva già messo in atto tutte le procedure necessarie e adottato i provvedimenti e le precauzioni indispensabili, nel momento in cui si era reso conto che la situazione cominciava ad aggravarsi (come mostrano i messaggi inviati il 7 marzo 2003 all’Oms in cui descriveva in dettaglio ciò che stava accadendo in ospedale).

Quando lo scorso dicembre sono cominciate ad arrivare notizie dalla Cina di questo strano virus, il mio pensiero non poteva non tornare indietro nel tempo. Quando in televisione ho visto ospedali pieni di pazienti intubati che lottavano tra la vita e la morte, i medici e gli infermieri in prima linea ma spesso impotenti, sono stata invasa da tristezza, paura, angoscia.

Le stesse sensazioni provate 17 anni fa quando vissi l’esperienza in prima persona. Anche le parole sono spesso le stesse: ricordo che Carlo cercava di rassicurarci dicendo che tutto era sotto controllo, diceva che lui stesso era impegnato in prima linea nel tentativo di circoscrivere l’epidemia.

Oggi naturalmente vedo tutto con altri occhi, ma non per questo sono meno coinvolta, perché nelle ansie e nelle paure di persone e famiglie rivivo sensazioni e ricordi che al solo riemergere mi fanno rabbrividire.

Carlo Urbani a Oslo nel 1999 come presidente di «Medici senza frontiere»; in quell’anno all’organizzazione venne assegnato il Premio Nobel per la pace. Foto: archivio AICU.

Ripenso alle giornate frenetiche di Carlo, alle sue preoccupazioni, alle ore, alle notti trascorse in ospedale e negli uffici dell’Oms, per valutare e cercare di risolvere la grave situazione. Lui si era subito reso conto che qualcosa di strano stava accadendo e per questo motivo aveva allertato il sistema sanitario, il ministero della Salute vietnamita, il governo locale e la stessa Oms.

La sera tornava a casa stanco, sfinito e temeva di non riuscire più ad avere la situazione sotto controllo. Ricordo che una sera mi confidò: «Se non si riesce a fare qualcosa, a prendere provvedimenti, sarà una strage tra le persone che si ammaleranno. Sarà come la “spagnola” (l’influenza che fece tra i 50 e i 100 milioni di morti nel mondo tra il 1918 e il 1920, ndr)».

Nel frattempo, organizzava riunioni con l’ambasciatore italiano ad Hanoi, Luigi Solari, nel suo ufficio, con tutto il personale, per aggiornare sulla situazione. Le direttive erano quelle di oggi: stare assolutamente chiusi in casa. Passarono alcuni giorni e dopo essere riusciti a convincere il governo vietnamita a chiudere le frontiere e isolare il paese, l’11 marzo Carlo partì per Bangkok.

Durante il volo si manifestarono però i primi sintomi della malattia: febbre e tosse. Si rese subito conto della gravità della cosa, tanto da avvisare, al suo arrivo all’aeroporto, il personale medico: questo avrebbe dovuto stare distante e accompagnarlo in ospedale con le necessarie precauzioni.

Parlai con Carlo la sera, quando al telefono mi informò che – purtroppo – non stava bene ed era in ospedale.

Ricordo che ero fuori casa e che sentii mancare la terra sotto i piedi. Da quel momento cominciarono i giorni della preoccupazione, della paura e dell’impotenza. Stavo a casa con i miei figli pensando a cosa fare, a come si sarebbe potuta risolvere la situazione; alla salute di Carlo che sentivamo al telefono ogni giorno sempre più provato e affaticato, visto l’aggravarsi della malattia.

Comunque, a dispetto della situazione drammatica, Carlo ci rassicurava sempre. Ci diceva di non essere preoccupati, era sicuro che tutto si sarebbe risolto. I giorni trascorrevano, ma io non riuscivo più ad aspettare, perché, stando ad Hanoi, non potevo rendermi conto con esattezza della sua salute. Ero in contatto con la rappresentante dell’Oms, signora Pascale Brudon, che in quei giorni mi contattava cercando di rasserenarmi. A un certo punto le chiesi però di partire per raggiungere Carlo all’ospedale di Bangkok e, nel contempo, di mandare i miei figli in Italia, dato che essi non potevano vedere Carlo essendo lui in isolamento.

Deciso il piano, non ebbi il tempo di pensare a nulla. Né di salutare i tanti amici che avevamo nella capitale vietnamita e che anche dopo mi sarebbero stati molto vicini. In fretta e furia preparai le valigie mettendo dentro lo stretto necessario. In quel momento non sapevo che non saremmo più ritornati ad Hanoi.

Il solo desiderio era quello di poter vedere Carlo. I ragazzi ed io partimmo il 18 marzo, accompagnati in aeroporto dal personale dell’Oms. Arrivati a Bangkok, i miei figli sarebbero ripartiti il giorno dopo per l’Italia. Ricorderò sempre quel momento: la loro partenza da soli e io che li salutavo, con le lacrime agli occhi. Vedo ancora Tommaso, non ancora sedicenne, che si incammina con Maddalena, quasi tre anni, in braccio che piange, e Luca, tenuto per mano, disperato, che si gira a guardarmi mentre si allontanano. Una scena che rivedo spesso, soprattutto in questo periodo.

Un soldato vietnamita sparge disinfettante all’entrata dell’Ospedale Francese di Hanoi, considerato il focolaio della Sars in Vietnam (17 aprile 2003). Foto: Hoang Dinh Nam / AFP.

I momenti successivi purtroppo non li ricordo molto bene. Troppo forti furono il dolore, la paura di non riuscire a farcela da sola. Il pensiero di dover raggiungere l’ospedale e vedere Carlo in brutte condizioni prendeva il sopravvento su tutto. Ma cercavo di farmi coraggio.

Sapevo che dovevo mettercela tutta, che Carlo sarebbe stato fiero di me, visto che mi incitava sempre a fare da sola e a non dipendere ogni volta da lui, come può capitare quando si vive in un paese straniero. I giorni successivi passarono tra l’ospedale e l’albergo dove alloggiavo. Quando andavo in ospedale, accompagnata dal personale dell’Oms di Bangkok, speravo di vedere Carlo migliorare, avere buone notizie dai medici. Purtroppo non era così.

Entravo nella sua stanza completamente protetta, ma la vestizione era sempre angosciante. Scoppiavo a piangere quando non ero sicura di aver eseguito tutte le procedure correttamente: dai calzari doppi, ai guanti, ai doppi camici, alla maschera, che mi faceva mancare l’aria. Ricordo che ero preoccupata di non riuscire a metterla nel modo corretto.

I medici non parlavano la mia lingua né il francese e, quindi, facevo fatica a capirli.

Una volta entrata, spesso chiedevo addirittura a Carlo di aiutarmi a sistemare quella maledetta maschera. Restavo poco tempo, anche perché negli ultimi giorni Carlo era molto affaticato. Si alzava sempre meno e la tosse era persistente. Durante quei giorni non mi fece mai capire la sua preoccupazione, mai mi parlò della paura di morire. Mi ripeteva solo che, piano piano, tutto si sarebbe sistemato. Voleva notizie dei figli, visto che non poteva più nemmeno parlarci. Poteva vederli in foto, che le infermiere avevano attaccato alla parete, su un cartellone. Erano giorni difficili e dolorosi. Poi la situazione peggiorò e i medici decisero di intubarlo. Mi spiegarono che era per farlo soffrire di meno e aiutarlo a superare quel momento. Era giovedì 27 marzo. Carlo era sedato e non si rendeva più conto di nulla.

Negli ultimi giorni della sua vita ebbi la fortuna di essergli al fianco, quando ancora riusciva a parlare, a collaborare con i medici. Ricordo che una volta lui chiese un bloc notes e una penna per scrivere alcune cose: consigli per i medici che erano in visita dentro la sua stanza. Spesso ebbi la chiara sensazione che lui si rendesse perfettamente conto di cosa lo aspettasse, perché aveva seguito i malati all’interno dell’Ospedale francese, aveva visto morire pazienti che facevano fatica a respirare e sapeva come si moriva in quelle circostanze, ma non disse mai nulla.

Soffriva molto per i dolori, ma anche per la consapevolezza che ormai era rimasto poco tempo. Quando un sacerdote si recò a trovarlo nella sua stanza, dopo un breve colloquio, gli disse: «Dalla vita ho avuto tutto, ho realizzato i miei sogni, ho fatto tanto, sono pronto… L’unica cosa che mi fa star male è dover lasciare i miei figli». Aveva capito che non ce l’avrebbe fatta a resistere ancora.

La mattina del 29 marzo, verso le 12, bussarono alla porta del mio albergo. Era il rappresentante dell’Oms di Bangkok. Capii subito cosa era successo.

Oggi, quando penso alle migliaia di malati costretti in ospedale da soli, senza avere un familiare accanto, mi rattristo subito perché i ricordi mi assalgono e perché ho provato sulla mia pelle cosa significa avere un proprio caro colpito da un virus come questo.

È terribile dover abbandonare qualcuno nella solitudine. È terribile la sensazione di sentirsi abbandonati dalle persone più care, non poter stringere la mano di chi, magari per una vita, ti è sempre stato accanto, il non poter scambiare una parola di conforto. Almeno in questo, Carlo ha avuto fortuna: prima di morire, ha potuto stringere la mano di qualcuno, scambiare due parole. Non è morto in solitudine.

Giuliana Chiorrini durante una celebrazione per la festa del Comitato di Castelplanio della Croce Rossa, di cui è presidente da otto anni. Foto: Vittorio Chiocca.

Subito dopo la sua morte, io ho cercato di reagire, ho avuto la forza di non mollare, ma di andare avanti nonostante le tante difficoltà. Inizialmente, ho trovato conforto anche nella fede, ma con il passare del tempo me ne sono allontanata. Con rabbia, in particolare nei momenti più difficili, di fronte a problemi che si presentavano più grandi delle mie capacità. Per un lungo periodo la mia fede è stata assente e io ho cercato conforto in altre cose.

La morte di Carlo ha avuto un’attenzione mediatica che nessuno di noi si sarebbe mai aspettato. È servita ad affrontare il dolore della perdita, ci ha aiutati a continuare, ad andare avanti. Per due anni è stato un susseguirsi di eventi, cerimonie, inviti, premiazioni, libri. La famiglia era chiamata un po’ ovunque.

Allo stesso tempo, quell’attenzione ci ha forse troppo distratti, facendoci mancare i momenti della riflessione per capire davvero, per renderci conto che Carlo non era più con noi. C’è

stato poco tempo per elaborare il lutto e le conseguenze si sono viste a distanza di anni, quando si è fatta sentire, nella crescita della famiglia, la mancanza di un padre e anche di un marito.

Oggi, a distanza di 17 anni dagli eventi che hanno travolto la mia vita e quella dei miei figli,

davanti alla diffusione di questo nuovo virus, ho capito ancora meglio il ruolo avuto da Carlo, come medico, marito, padre. Ho capito quanto sia giusto ricordarlo attraverso Aicu (Associazione italiana Carlo Urbani, ndr), l’associazione nata dopo la sua morte e oggi presieduta da Tommaso.

È assieme ai miei figli e ad Aicu che da anni cerchiamo di far camminare i progetti di Carlo nel campo della prevenzione e cura delle malattie infettive e parassitarie e dell’accesso ai farmaci essenziali. Quanto i suoi sogni fossero giustificati lo stiamo vedendo con chiarezza in questi mesi.

Giuliana Chiorrini

Un ritratto di Carlo Urbani davanti al luogo dove il personale delle Nazioni Unite di Hanoi ha commemorato il medico italiano (8 aprile 2003). Foto: Hoang Dinh Nam / AFP.




I virus e noi, convivenza inevitabile

testo di Rosanna Novara Topino |


Questa pandemia ha portato morti, malati, crisi generalizzate. E non è finita. Viste le caratteristiche del virus Sars-CoV-2, è meglio infatti non illuderci: un vaccino non pare dietro l’angolo.

Come se non fosse cambiato alcunché rispetto alle grandi epidemie del passato, e nonostante i traguardi raggiunti in campo medico, dall’inizio del 2020 il mondo si trova a fare i conti con una nuova pandemia di vaste proporzioni. Si chiama Covid-19, dove «Co» sta per corona, «vi», per virus, «d» per disease (malattia) e «19» per l’anno della prima manifestazione. È causata da un ceppo di coronavirus finora sconosciuto.

Quest’ultimo è stato inizialmente indicato come 2019-nCoV in quanto identificato il 31 dicembre 2019 nei campioni di lavaggio broncoalveolare di un paziente affetto da polmonite a eziologia sconosciuta nell’ospedale Jinyintan di Wuhan, nella regione dell’Hubei, in Cina. Successivamente, è stato però rinominato Sars-CoV-2, dopo che è stata rilevata una omologia di circa il 79,5% tra la sua sequenza genetica e quella del coronavirus che, tra il 2002 e il 2003, causò la epidemia di Sars (Severe acute respiratory syndrome).

In particolare, il nuovo coronavirus è classificato nel sottogenere Betacoronavirus Sarbecoronavirus. Oltre al già citato virus della Sars, il Sars-CoV, alla stessa famiglia appartiene anche il Mers-CoV, il responsabile della Mers (Middle east respiratory syndrome), che si verificò tra il 2012 e il 2015 in Medio Oriente.

I coronavirus sono una famiglia di virus, i cui primi esemplari vennero identificati a metà degli anni ’60 del secolo scorso e alcuni di questi, gli Alphacoronavirus, possono dare i comuni raffreddori, così come anche gravi infezioni del tratto respiratorio inferiore. Tali virus, oltre all’uomo, possono infettare alcuni animali tra cui uccelli e mammiferi, e hanno come cellule bersaglio primarie le cellule endoteliali dei vasi, causando un’infiammazione vascolare sistemica, e le cellule epiteliali degli apparati respiratorio e gastrointestinale.

Il «salto di specie»

La comparsa di questo, come di altri nuovi virus patogeni per l’uomo, presenti inizialmente solo negli animali è dovuta a un fenomeno noto come «spillover» o «salto di specie». Nel caso del Sars-CoV-2 c’è un’omologia del 96,2% con un coronavirus simile a quello della Sars, presente nel pipistrello a ferro di cavallo (BatCoV RaTG13). Questa omologia ci induce a pensare che tale pipistrello sia il principale serbatoio del virus. Si tratta, quindi, di una «zoonosi». Solitamente, il passaggio di un virus all’uomo da un animale serbatoio è favorito da un ospite di amplificazione, cioè un altro animale: nel caso della Sars è stato la civetta delle palme (non è il piccolo rapace da noi conosciuto, ma lo zibetto o mustang); nel caso della Mers è stato il cammello; nel caso della febbre emorragica di Marburg sono state le scimmie verdi importate dall’Uganda per una fabbrica di vaccini a Marburg in Germania. Nel caso dell’attuale coronavirus non è ancora stato identificato l’ospite intermedio anche se sono state fatte ipotesi relative a qualche specie di serpente, al pangolino o ai cani randagi. Il salto di specie tra animali, e da questi all’uomo, è frutto di mutazioni e adattamenti virali alla specie ospite favoriti dal tipo di genoma virale, cioè l’Rna. I virus a Rna – come i coronavirus, i filovirus dell’Ebola, i paramixovirus come Hendra e Nipah (rispettivamente agenti eziologici di una grave sindrome respiratoria soprattutto equina in Australia nel ’94 e di una forma di encefalite in Malesia nel ’98) – presentano mutazioni genetiche molto più frequentemente dei virus a Dna – come, per fare qualche esempio, l’Herpes virus o il Papilloma virus o quello del vaiolo (Poxvirus) -. I virus a Rna non possiedono, infatti, un efficiente sistema enzimatico di riparazione delle mutazioni, a differenza di quelli a Dna, che risultano molto più stabili.

Questo comporta due cose: i virus come i coronavirus sono molto più capaci di adattarsi a nuovi ospiti, tra cui l’uomo, ed è molto più difficile produrre un vaccino efficace nei loro confronti, perché le mutazioni genetiche del loro Rna si traducono in variazioni degli antigeni di superficie, verso i quali sono spesso diretti gli anticorpi stimolati dai vaccini. Per produrre un vaccino efficace contro questi virus diventa pertanto necessario riuscire a individuare al loro interno qualche molecola che risulti stabile nel tempo. Questa è la difficoltà incontrata nella produzione di vaccini efficaci a lungo termine per l’Aids e l’influenza, patologie provocate anch’esse da virus a Rna frequentemente mutanti. Quindi, l’attesa di un vaccino contro l’attuale pandemia sarà lunga, soprattutto in considerazione del fatto che non esiste ancora un vaccino nemmeno per la Sars del 2003.

Tampone per Covid-19. Autore: Prachatai.

La tramissione del virus

Il coronavirus dell’attuale pandemia, come già quello della Sars, si trasmette da uomo a uomo in tre diversi modi:

⚫︎ per via aerea, per mezzo di gocce di saliva (Flügge’s droplets) e dell’aerosol delle secrezioni delle vie aeree superiori, soprattutto in caso di tosse o starnuto, ma anche durante una conversazione tra persone vicine meno di 1,8 metri, che viene perciò indicata come distanza minima di sicurezza;

⚫︎ per contatto diretto ravvicinato, cioè con la stretta di mano, toccandosi successivamente occhi, naso e bocca con le mani; c’è, inoltre, la possibilità di contagiarsi toccando oggetti contaminati, che possono risultare tali fino a 48 ore nel caso dell’acciaio e 72 nel caso della plastica; secondo uno studio dell’Istituto superiore di sanità, la sopravvivenza del virus nell’ambiente dipende dalla temperatura e sarebbe di circa un giorno a 37°C, mentre potrebbe arrivare ad una settimana a 22°C;

⚫︎ per via oro-fecale; nei pazienti cinesi, una ricerca ha dimostrato una maggiore positività nei tamponi anali, rispetto a quelli orali in una fase tardiva dell’infezione, quindi si può pensare anche a questa via d’infezione; il virus, del resto, è stato trovato nelle fogne di Roma, Milano e Parigi.

Finora è stata esclusa la via di trasmissione materno-fetale e si pensa che i neonati positivi al virus, nati da madri positive, lo siano diventati solo dopo la nascita, per contatto diretto con la madre.

È stata recentemente rilevata la presenza del virus nel liquido lacrimale, del resto uno dei sintomi della Covid-19 è la presenza di congiuntivite, quindi questa potrebbe essere una fonte d’infezione.

Si pensa che il periodo d’incubazione sia variabile tra 2 e 14 giorni, con una media di 5 giorni. Le persone positive possono già trasmettere il virus nel periodo di incubazione, in assenza di sintomi.

I sintomi dell’infezione

Per quanto riguarda le manifestazioni dell’infezione, si va da quelle meno gravi, che indicano un interessamento delle alte vie respiratorie (febbre, tosse, cefalea, mal di gola, raffreddore, difficoltà respiratorie, perdita del gusto e dell’olfatto, diarrea, malessere generale per un breve periodo di tempo), a quelle più gravi, con interessamento delle basse vie respiratorie (come polmonite o broncopolmonite, sindrome respiratoria acuta grave, insufficienza renale, meningoencefalite, problematiche cardiovascolari, tromboembolia generalizzata e polmonare in particolare, ictus, a seguito di alterazioni nella coagulazione del sangue come conseguenza di una eccessiva risposta infiammatoria da parte dell’organismo indotta dal virus, e infine morte).

Secondo le osservazioni condotte finora, l’80% circa della popolazione colpita dal virus risulta asintomatica o paucisintomatica (cioè senza o con pochi sintomi), mentre il 15% presenta una più grave sintomatologia con necessità di cure intensive con somministrazione di ossigeno e il 5% raggiunge uno stadio critico, che comporta la ventilazione polmonare. Va detto che molte delle persone risultate positive ma asintomatiche al momento del test, hanno successivamente sviluppato i sintomi della malattia.

Il tasso di letalità

Per quanto riguarda il tasso di letalità, è molto difficile dare un valore attendibile in corso di pandemia in quanto, finché non sarà terminata, non si può conoscere il totale delle morti causate dal virus. I numeri attualmente oscillano tra il 2 e il 5,7% dei positivi. Una delle principali difficoltà risiede nel fatto che molte morti per coronavirus non sono state finora prese in considerazione, perché avvenute in residenze per anziani (le cosiddette Rsa) dove ai pazienti non è stato fatto il tampone per accertare la positività al virus, nonostante i sintomi, a differenza delle persone ricoverate in strutture ospedaliere. Anche in quest’ultime peraltro si sono riscontrate delle morti di persone non testate per il coronavirus, ma con sintomatologia compatibile. Ciò di cui ci si sta rendendo conto, tardivamente purtroppo e in seguito a diverse indagini in corso da parte della magistratura italiana, è che la metà delle morti sono avvenute nelle case di riposo (fenomeno riscontrato anche nel resto d’Europa) e, secondo l’Istat, il numero dei decessi nei mesi di marzo e aprile in Italia sarebbe superiore di 10mila unità rispetto ai dati diffusi dalla Protezione civile, che al 14 maggio 2020 si attestano a 31.368 unità.

Facendo un paragone con la Sars e la Mers, sembrerebbe che la Covid-19 sia più infettiva, ma meno letale, dal momento che la Sars ebbe un tasso di letalità del 9,6% e la Mers del 34,4%.

Rosanna Novara Topino
(fine prima parte)

L’infografica mostra quando nasce e come si sviluppa una pandemia. Autore: Arimaslab per WWF Italia, 2020.


Dove, cosa, perché

La pandemia da Covid-19 causata dal virus Sars-CoV-2 si è manifestata per la prima volta in Cina, probabilmente nel mese di novembre 2019, diffondendosi poi in quasi tutti i paesi del mondo. In Italia, dopo due mesi in cui soprattutto le regioni del Nord sono state duramente colpite, si contano a decine di migliaia i morti e i malati. Da maggio si sta faticosamente passando da una prima fase di chiusura generalizzata, il cosiddetto «lockdown», ad una seconda fase di graduale ripresa delle attività. Tuttavia, non ci siamo ancora lasciati alle spalle la possibilità di contagio e gli ospedali sono ancora pieni. Ne scrivo in questo e in due successivi articoli, cercando di descrivere le principali caratteristiche del nuovo coronavirus responsabile di questo dramma.

(R.N.T.(

Nome e caratteristiche

Esterno e interno dei coronavirus

Si chiamano coronavirus per via del loro aspetto. Si tratta infatti di particelle sferiche sormontate da una specie di corona formata dall’insieme di proteine superficiali a forma di spuntone, o spike, come vengono chiamate. In realtà, ogni spuntone è un trimero formato da tre glicoproteine S, che si legano specificamente al recettore Ace2 (Angiotensin converting enzyme 2) presente sulle cellule endoteliali dei vasi sanguigni dei polmoni, dei reni, dell’intestino, del cuore e di altri organi, tra cui l’encefalo, l’esofago e il fegato. Il virus presenta un rivestimento o envelope, costituito da una membrana ereditata dalla cellula ospite dopo averla infettata. Oltre alla proteina spike, che fuoriesce dal rivestimento e forma la corona, il virus presenta la proteina M, che attraversa il rivestimento ed interagisce all’interno del virione con il complesso Rna-proteina. C’è poi il dimero emoagglutinina-esterasi (He), sempre nel rivestimento virale e con una importante funzione nel rilascio del virus all’interno della cellula ospite. Un’altra proteina virale, la E, aiuta la glicoproteina S, e perciò il virus, a legarsi al recettore Ace2 della cellula bersaglio. All’interno del virus si trova il suo genoma costituito da un singolo filamento di Rna a polarità positiva, delle dimensioni comprese tra 27 e 32 kb (chilobase), tra i più grandi conosciuti, che codifica per sette proteine virali ed è associato alla proteina N, la quale ne aumenta la stabilità. Il coronavirus possiede, inoltre, un enzima responsabile della sua moltiplicazione, la polimerasi nsp 12, contro la quale sembra funzionare il «Remdesivir», un farmaco antivirale nato per la cura dell’Ebola.

(R.N.T.)

I serbatoi dei virus zoonotici

Non è colpa di un pipistrello

I pipistrelli o chirotteri, che peraltro sono utilissimi al genere umano come insettivori (soprattutto nel contenimento della malaria, cibandosi in primis di zanzare), come impollinatori e per il loro guano altamente fertilizzante, purtroppo sono il principale serbatoio di virus, seguiti da primati e roditori. Essi sono presenti sulla Terra da molto prima dell’uomo. Comparvero più o meno tra 65 e 55 milioni di anni fa, quando i virus erano già presenti, mentre i primi ominidi si staccarono dalla linea evolutiva del gorilla solo 8 milioni di anni fa e 5 da quella dello scimpanzé, quindi i pipistrelli hanno avuto molto più tempo per adattarsi ai virus. Questo li ha portati a una sorta di tolleranza immunitaria, una specie di permeabilità virale. Oltretutto sono animali molto sociali (nello stesso sito possono esserci milioni di individui), rappresentano circa un quarto di tutti i mammiferi, con 1.116 specie conosciute, e sono caratterizzati dal volo, che consente loro di portare e contrarre virus su aree molto estese. I virus zoonotici portati dai pipistrelli sono maggiormente diffusi in alcune regioni asiatiche e nell’America centro-meridionale, mentre quelli portati dai primati sono tipici dell’America centrale, dell’Africa e del Sud-est asiatico e quelli trasmessi dai roditori sono principalmente distribuiti in certe aree dell’America del Nord e del Sud e dell’Africa centrale.

(R.N.T.)

L’infografica mostra i passaggi del Coronavirus dagli animali all’uomo; evidenziati in rosso, ci sono i tre virus più importanti. Autore: MDPI, Basel, 2020.




La sanità pubblica ai tempi del coronavirus

testo di Francesco Gesualdi |


Forse adesso abbiamo imparato che la sanità pubblica non è uno spreco come politici ed economisti volevano farci credere. Per capirlo meglio, confrontiamo i sistemi sanitari degli Stati Uniti, della Gran Bretagna e dell’Italia (con un occhio critico sulla Lombardia).

Più pubblico, meno privato

Nella puntata di maggio di questa rubrica, abbiamo iniziato a descrivere le conseguenze economiche dell’arrivo del nuovo coronavirus sulla vita delle persone. Abbiamo parlato del nuovo ruolo che lo stato dovrebbe avere (o riavere) nell’economia. In questa puntata, vedremo quanto un efficiente sistema sanitario pubblico (di tutti e per tutti) sia indispensabile. (F.G.)

L’aggressività del coronavirus e il numero di persone che ha  avuto bisogno di cure ospedaliere fino ai limiti più estremi, dove il confine fra la vita e la morte si fa incerto, ci hanno fatto riscoprire il valore della sanità. L’importanza cioè di quell’insieme di persone e strutture che ci permettono di riparare i danni provocati da agenti infettivi (come i virus) e da malattie in genere, per tornare alla pienezza della nostra vita. In una parola ci hanno fatto riscoprire il valore di quella sanità pubblica (cioè di tutti i cittadini) che, in tempi normali, non teniamo nella dovuta considerazione. Anzi, tendiamo a vedere come uno spreco da ridimensionare.

Interpretare i parametri

È successo anche in Italia dove la spesa sanitaria da parte delle strutture pubbliche è passata dal 7,1% del Pil nel 2009 al 6,5% nel 2018. Il dato è fornito dall’Osservatorio conti pubblici italiani dell’Università Cattolica di Milano, ed è stato calcolato in termini reali, ossia mantenendo fermo il livello dei prezzi.

Stando alle statistiche internazionali, l’Italia non si trova ai primissimi posti per spesa sanitaria, ma la statistica è una materia sofisticata che, a seconda dei dati prescelti, può darci informazioni molto diverse fra loro, talvolta fino a confonderci. Gli indicatori riguardanti la sanità sono un caso di scuola. Uno dei parametri abitualmente utilizzati per capire quanta importanza si dà alla sanità è la spesa sanitaria totale in rapporto al Prodotto interno lordo (Pil). Da questo punto di vista all’avanguardia troviamo gli Stati Uniti, che nel 2018 hanno registrato una spesa sanitaria totale pari al 16,9% del Pil. Otto punti percentuale in più dell’Italia la cui spesa sanitaria complessiva è stata pari all’8,8% del Pil. Un dato che, a prima vista, potrebbe indurci a credere che gli Stati Uniti siano il paese con la maggiore attenzione per la salute al mondo. La spesa sanitaria indica però quanti soldi sono stati spesi per le cure mediche senza precisare né la destinazione, né i beneficiari. Ad esempio, sappiamo che gli Stati Uniti sono un paese altamente disuguale, poco propenso alla solidarietà collettiva. Per cui quel 17% potrebbe nascondere un alto numero di interventi di chirurgia plastica comprati dai più ricchi, mentre i più poveri non riescono a curarsi neanche un’appendicite. Il dato che ci dice quanto un paese sia attento alla salute di tutti è la spesa pubblica dedicata alla sanità, ed ecco che se concentriamo l’attenzione solo su questa voce, gli Stati Uniti scendono al 5,3%. E, tuttavia, anche rispetto all’idea di sanità pubblica ci sono idee molto diverse.

Mascherine anche per le statue di Sheffield, in Inghilterra. Foto: Tim Dennell.

Costi e profittI

Il problema della sanità è il suo costo che, con l’andare del tempo, si è fatto sempre più alto, non tanto per le medicine e gli onorari dei professionisti, quanto per le attrezzature che giocano un ruolo sempre più decisivo con l’evolversi della tecnologia. Per cui è sempre stato chiaro nella testa di tutti che la sanità è una spesa che non conviene affrontare da soli, ma assieme agli altri. L’alleanza è però un concetto che non trova spazio nelle logiche di mercato, per definizione individualista e competitivo. Tuttavia, il capitalismo non fa mai troppo lo schizzinoso e non esita a passare sopra ai propri fondamenti culturali se questi sono di ostacolo agli affari. È stato proprio osservando le soluzioni adottate dal movimento operaio che il mondo degli affari ha capito come trasformarsi in imprenditore dell’alleanza. Ai primordi della rivoluzione industriale, i salari erano così bassi da non permettere ai lavoratori nemmeno di dare sepoltura ai propri cari. Il che indusse a individuare nella mutualità la soluzione per affrontare i gravi problemi della vita. Operai di una stessa città, di una stessa categoria, versavano un tanto al mese in un fondo comune, acquisendo così il diritto di essere soccorsi in caso di necessità. Nascevano le società di mutuo soccorso, talune orientate anche al sostegno scolastico, ma principalmente create per dare assistenza in caso di malattia, invalidità, infortunio, disoccupazione e anche vecchiaia. Esperienze basate sul principio assicurativo che diedero luogo a due importanti sviluppi: l’uno in ambito privato, l’altro in ambito pubblico. In ambito privato diedero impulso alle assicurazioni previdenziali, società per azioni che, al pari delle società di mutuo soccorso assicurano contro malattia, infortuni, morte, vecchiaia, con la differenza che il vero obiettivo è garantire profitto agli azionisti. Quindi, premi e indennizzi sono calcolati in modo da lasciare sempre un margine di guadagno per i proprietari.

Le Assicurazioni sanitarie

A questo filone di attività appartengono le assicurazioni sulla vita, i fondi pensione e anche le assicurazioni sanitarie che, pur essendosi sviluppate ovunque, hanno trovato terreno particolarmente fertile oltre Atlantico dove la mentalità mercantile è più radicata. Negli Stati Uniti, il sistema sanitario si regge di fatto sul sistema assicurativo per il 50% pubblico e il 50% privato, laddove la parte pubblica è ulteriormente suddivisibile in due porzioni: 36% finanziata dal sistema fiscale per prestazioni a favore di anziani e incapienti, 14% finanziata dai prelievi sugli stipendi dei dipendenti pubblici per prestazioni sanitarie a loro favore. Ogni forma assicurativa garantisce prestazioni diversificate. Nel caso di chi gode dell’assicurazione sociale, i limiti sono fissati dalla legge. Per tutti gli altri sono fissati dall’ammontare dei premi pagati. In definitiva, in caso di necessità di cure, la probabilità di dover compartecipare alla spesa farmaceutica o ospedaliera è molto alta per ogni tipo di assicurato: sia esso iscritto all’assicurazione pubblica o cliente dell’assicurazione privata.

Questa intricata rete assistenziale rende l’impalcatura sanitaria statunitense molto complicata con la contemporanea presenza di enti pubblici, come Medicare e Medicaid, e di società assicurative dai più vari connotati. Analoga complicazione si trova anche nell’ambito degli ospedali e di tutte le altre strutture che forniscono servizi sanitari. Pochi ospedali statali al servizio degli assistiti dagli enti pubblici convivono con una pletora di ospedali privati, alcuni posseduti da enti caritatevoli,   la maggior parte da società per azioni. In ambito assicurativo, dieci società, fra cui United Health Group, Kaiser Foundation, Anthem, Humana, si aggiudicano il 50% dei premi assicurativi di tipo sanitario. In ambito ospedaliero, l’operatore più grande è Hospital Corporation of America, che possiede 185 ospedali e 2mila cliniche con un fatturato annuo di 28 miliardi di dollari e 190mila dipendenti. Gli ospedali ricevono i loro compensi dalle assicurazioni e dai diretti interessati se la prestazione fornita va oltre la copertura assicurativa. Secondo l’organizzazione non profit Fair Health, il coronavirus potrebbe fare arrivare a migliaia di ospedalizzati conti salatissimi in base alla loro posizione assicurativa: da 40 a 75mila dollari se totalmente scoperti e da 20 a 38mila dollari se coperti da polizze di bassa entità.

La nascita del Sistema  sanitario nazionale

Fino al 1978 anche in Italia l’assistenza sanitaria era gestita su base assicurativa, ma da parte dello stato. In pratica, ogni lavoratore era obbligato a versare una percentuale del proprio stipendio a una specifica cassa statale che assicurava la sanità ai partecipanti. La più importante era l’Inam – Istituto nazionale assistenza malattie – a favore dei lavoratori dipendenti. Il limite del sistema era che forniva assistenza solo a chi partecipava ai versamenti, mentre escludeva tutti gli altri. Il che contrastava con il dettato dell’articolo 32 della Costituzione secondo il quale la Repubblica deve tutelare la salute come fondamentale diritto dell’individuo. Per definizione, i diritti appartengono a tutti e sono indipendenti dalle condizioni personali di ricchezza, sesso, età. Lo spirito della Costituzione venne attuato nel 1978 tramite l’introduzione del Servizio sanitario nazionale concepito come servizio universale e gratuito, finanziato attraverso la fiscalità generale. Dotato di tutti i servizi, dagli ospedali agli ambulatori territoriali, il servizio sanitario italiano è ritenuto uno dei migliori al mondo, ma alcuni segnali fanno temere per la sua integrità. Fra essi il restringimento dei farmaci a carico del servizio sanitario nazionale, l’introduzione dei ticket sulle prestazioni diagnostiche, le lunghe liste di attesa per visite, esami ed interventi che spingono le famiglie più abbienti a rivolgersi alle strutture private, che non sono scomparse.

La Lombardia  e la sanità di mercato

In alcune regioni, ad esempio la Lombardia, c’è (o c’è stata) la tendenza ad accrescere il numero di convenzioni che abilitano le strutture private ad erogare servizi per conto del Servizio sanitario nazionale. Nel 2017, ad esempio, le strutture private lombarde hanno assorbito il 35% dei ricoveri ordinari e il 40% del denaro messo a bilancio per questo scopo dal servizio sanitario della regione.

Segnali preoccupanti che denotano una graduale demolizione del servizio pubblico a favore della sanità di mercato, anche perché è un fenomeno che sta avvenendo anche in altri paesi. Tipico il caso della Gran Bretagna dove il servizio sanitario universale esiste dal 1948 e subito venne amato dagli inglesi. Negli anni Ottanta del secolo scorso subì però una prima incrinatura quando Margaret
Thatcher decretò la possibilità di esternalizzare a imprese private servizi specifici come pulizie, mense, lavanderie, sterilizzazione. Nel 2000 la crepa si approfondì ulteriormente con la decisione, questa volta da parte del  governo laburista di Blair, di poter appaltare a società private anche mansioni di più diretta pertinenza sanitaria come indagini di laboratorio e piccoli interventi chirurgici. Ma la definitiva apertura ai privati è stata decretata dalla riforma approvata nel 2012 che spinge ulteriormente il Servizio sanitario nazionale verso il mercato attraverso due meccanismi principali: la possibilità per ogni cittadino di scegliere lui a quale struttura rivolgersi, sia essa privata o pubblica, per ottenere la prestazione specialistica pagata dal Servizio sanitario nazionale e la possibilità per quest’ultimo di appaltare l’assistenza ospedaliera alle strutture private in base al criterio monetario. Uno dei settori a maggior coinvolgimento privato è quello psichiatrico. Secondo un’indagine condotta dal Financial Times, a Bristol il 95% dei posti letto dedicati ai pazienti psichiatrici sono in strutture private, prevalentemente società statunitensi quotate in borsa quali Acadia Healthcare e Universal Health Service. Nel novembre scorso, durante la campagna elettorale, il Partito laburista sosteneva di avere documenti comprovanti l’intenzione dei conservatori di uscire dall’Unione europea anche per consentire alle imprese sanitarie statunitensi di penetrare ulteriormente sul suolo inglese.

In Italia, gli ospedali hanno fatto il massimo per curare i malati da coronavirus, ma i momenti di difficoltà che hanno vissuto debbono indurci a impegnarci sempre di più per rafforzare la nostra sanità pubblica al servizio di tutti.

Francesco Gesualdi




Come il fisico, così lo spirito

Testo e foto di Luca Salvatore Pistone |


Wat Tham Krabok è un monastero che si è specializzato in recupero di tossicodipendenti. Offre una terapia d’urto, fisica e spirituale. Molto rigorosa ma efficace. E così è frequentato da thailandesi e stranieri. E qualcuno finisce per fermarsi.

A 150 chilometri da Bangkok, nella provincia di Saraburi, poco distante dalla trafficatissima Phahonyothin Road, nascosto tra le montagne, si trova il tempio buddhista di Wat Tham Krabok. Dalla sua fondazione, avvenuta sessant’anni fa, quando la Thailandia era in pieno boom di consumatori di oppiacei, il santuario funge da centro di riabilitazione per tossicodipendenze. La terapia cui i pazienti vengono sottoposti dai monaci include trattamenti poco ortodossi, primo tra tutti la «cerimonia del vomito».

All’ingresso del tempio si trova un piccolo altare votivo pieno di fiori e piccole luci, un omaggio alla fondatrice dell’ordine monastico Tudong, una principessa thai vissuta il secolo scorso che dedicò tutta la sua vita alle opere caritatevoli. A Wat Tham Krabok tutto è perfettamente organizzato. Coloro che vogliono essere ammessi al sacro recinto devono compilare a penna un modulo dettagliato dichiarando il loro stato di dipendenza da sostanze nocive e, quindi, impegnandosi ad accettare ogni regola imposta. Lo stesso atto di abbandono degli abiti civili ha un significato simbolico e religioso: spogliandosi, si rinuncia a quanto arriva dal mondo esterno per entrare in una differente dimensione psichica prima che fisica.

Altrettanto significativo e simbolico è il fatto di mettersi a gattoni sulla grata di una fognatura, con un secchio pieno d’acqua accanto e un misurino contenente un miscuglio dal fetore insopportabile, per rigettare tutto ciò che si ha in corpo. Eee è al suo quarto giorno e ancora non si è abituato a tutto ciò. Nei primi cinque giorni di riabilitazione a Wat Tham Krabok, alle tre in punto del pomeriggio, i pazienti devono prendere parte alla cosiddetta «cerimonia del vomito»: vomitare a oltranza espellendo tutte le tossine dopo aver ingerito un intruglio di erbe amare e semi locali fatto dai monaci la cui ricetta è segretissima. Se il beverone non è sufficiente a indurre il rigetto, il soggetto si infila due dita in gola o beve acqua fino a esplodere. Il tutto, alla presenza di un vasto pubblico di monaci e pazienti che applaude alla fine del rituale.

Thailandia, monastero disintossicazione. Foto Luca Salvatore Pistone

La storia di Eee

Ventiquattrenne, dipendente dalle metanfetamine, Eee è uno degli ultimi arrivati a Wat Tham Krabok. «Lavoravo al mercato dei fiori di Bangkok – racconta mentre pulisce dalle foglie uno dei cortili del tempio – e le cose non mi andavano male. Poi ho cominciato a fare uso di metanfetamine e di conseguenza ad avere allucinazioni durante l’orario lavorativo. Sono stato licenziato ed è stato allora che mi sono deciso a venire qui. Non mi sono ancora abituato a tutte queste strane pratiche».

«Il miscuglio della cerimonia del vomito – spiega Richard, un monaco neozelandese da diversi anni a Wat Tham Krabok – scatena fortissime e incontrollabili contrazioni dei muscoli intercostali e addominali, provocando una sensazione di dolore e di soffocamento. I muscoli della parete dello stomaco si contraggono spasmodicamente e i contenuti vengono espulsi in una irrefrenabile crisi di vomito. Questa crisi dolorosa e provocata non è tesa solo alla liberazione fisica da ogni impurità residua dovuta agli stupefacenti, ma anche a un rifiuto psichico della dipendenza. Attraverso l’espulsione violenta, il paziente raggiunge annullamento fisico e psichico cadendo in uno stato di prostrazione che gli dona una sensazione liberatoria». La permanenza a Wat Tham Krabok è di almeno due settimane, senza la possibilità di ricoveri successivi. «Questa non è una clinica a porte girevoli» sono soliti ripetere i monaci. Alloggi e trattamenti sono gratuiti. Di tasca loro i pazienti devono esclusivamente pagarsi il vitto, che può essere consumato solo una volta al giorno alle sette di mattina. La sveglia è alle quattro e mezza mentre alle otto di sera si spengono le luci. Nel complesso del tempio è vietato fare entrare sostanze stupefacenti e alcol, come sono vietate le visite di parenti e amici. Ogni paziente deve indossare l’uniforme fornita dai monaci, un camicione di colore bordeaux con la scritta «vincitore» sulla schiena. Niente telefoni cellulare né tablet. Gli unici svaghi concessi sono un pallone da calcio sgonfio, un tavolo da ping pong malconcio, qualche chitarra scordata e un televisore sintonizzato su uno dei canali nazionali thailandesi. È proibito mettere piede fuori dal perimetro del tempio: in più occasioni i monaci hanno scovato piccoli spacciatori, nascosti tra i cespugli, intenti a offrire droghe ai pazienti.

Thailandia, monastero disintossicazione. Foto Luca Salvatore Pistone

Spiritualità e terapie

Nella cura delle tossicodipendenze, Wat Tham Krabok racchiude un misto di spiritualità e terapie fisiche di forte impatto. Quello del vomito è il trattamento più invasivo, ma la terapia dei monaci buddhisti non si limita a esso. Il primo giorno il nuovo arrivato viene sottoposto alla cerimonia del sajta, il sacro voto di astinenza. Alla presenza di un monaco anziano, i pazienti giurano solennemente di rinunciare a ogni sostanza stupefacente. Il religioso scrive su dei foglietti il nome e la promessa dei novizi e li inserisce in un braciere che accende con dei lunghi fiammiferi. Al temine di una nenia tra il canto e la preghiera, il monaco porge il braciere a una statua del Buddha. È così che il voto diventa sacro – chi lo infrange non potrà più mettere piede a Wat Tham Krabok – e il sajta si conclude.

Ancora, la «cerimonia della sauna». Seguiti a vista dai monaci, i pazienti escono dall’area dormitorio e si recano all’area sauna che è composta da due stanzini che hanno una tenda nera in cotone pesante come porta. Il calore al loro interno è prodotto da un forno a legna situato sul retro della struttura. Ammassati l’uno contro l’altro, i pazienti devono realizzare tre sessioni di sauna di cinque minuti l’una, intervallati da pause di due minuti durante le quali è possibile trovare sollievo con dell’acqua gelata.

«La temperatura all’interno degli stanzini – dice stremato Peter, svedese al penultimo giorno di ricovero – sfiora i cento gradi e non sono rari i casi di mancamenti. Io stesso la prima volta sono svenuto. I monaci mi hanno rianimato con dei sali. Gran brutta storia… Bisogna fare dei sacrifici per rimettersi in forma e io sento di essere ormai a buon punto. Non avrei mai detto che uno stile di vita così spartano avrebbe risolto i miei problemi».

Non molto distante dalla zona sauna c’è un rudimentale laboratorio di artigianato. «Questa officina – racconta Phra Kru Vichit, uno dei monaci anziani – è un altro dei nostri fiori all’occhiello. Insegniamo ai nostri pazienti a creare opere d’arte servendosi di oggetti riciclati».

Thailandia, monastero disintossicazione. Foto Luca Salvatore Pistone

Storia e numeri

Wat Tham Krabok nacque nel 1959. L’idea di rendere un tempio buddhista un luogo di disintossicazione fu – precisa Phra Kru Vichit – «una scelta dettata dal fatto che a quei tempi il maresciallo Sarit Thanarat (primo ministro della Thailandia dal 1957 al 1963 in seguito ad un colpo di stato da lui attuato, nda) aveva lanciato una feroce campagna contro le coltivazioni di oppio. Migliaia di oppiomani ed eroinomani vennero giustiziati e così i monaci si sentirono in dovere di aiutare queste persone».

Il centro raggiunse una grande popolarità nel 1997, quando la Thailandia assistette a un boom della dipendenza da metanfetamine. La terapia prevede anche mezzora al giorno di meditazione guidata da un monaco. Di norma presso Wat Tham Krabok ci sono in cura una trentina di persone alla volta, ma è capitato spesso di superare quota cinquanta. Il tempio non riceve sovvenzioni statali e va avanti solo grazie agli sforzi dei suoi quasi duecento monaci.

I numeri di Wat Tham Krabok sono davvero impressionanti. Dalla sua fondazione, oltre 110mila tossicodipendenti sono stati presi in cura. Continua Phra Kru Vichit: «Oggi il novanta per cento dei nostri assistiti completa il programma e il sessanta per cento per tutto l’anno successivo alla terapia rimane lontano dalle droghe. Per noi il tossicodipendente non è un semplice malato che necessita di cure fisiche ma è essenzialmente un uomo che deve ritornare alla pace attraverso la rinuncia, la purificazione e il sacrificio. Abbiamo avuto molti pazienti che dopo avere seguito il trattamento hanno deciso di farsi monaci, circa il venti per cento del totale. Il fatto che molti nostri monaci siano ex pazienti crea una certa empatia con i nuovi arrivati».

A tal proposito, Phra Kru Vichit convoca un altro monaco anziano con braccia e petto coperti da tatuaggi. Il religioso chiede di celare il suo nome. «Sono qui da trent’anni – dice – e posso dire che Wat Tham Krabok mi ha salvato la vita. Da ragazzo non ho mai lavorato e mi facevo di ogni cosa. Una notte, durante una violentissima retata della polizia, mi salvai per un pelo. Fu allora che mia madre mi supplicò di venire al tempio. Mai scelta fu più giusta. La nuova dimensione conosciuta grazie ai monaci mi ha fatto capire che un nuovo corso era possibile. Da allora non ho mai lasciato i miei confratelli. Oggi, oltre a occuparmi della mensa, aiuto i nuovi arrivati ad ambientarsi al meglio. Capisco perfettamente cosa hanno passato».

Il monastero tratta un numero sempre maggiore di pazienti dipendenti dallo ya-ba, un mix potentissimo di metanfetamine e caffeina. Lo ya-ba, il cui significato in lingua thai è «droga della follia», ha incontrato larga diffusione non solo in Thailandia ma anche al di fuori del territorio asiatico.

Thailandia, monastero disintossicazione. Foto Luca Salvatore Pistone

Pazienti dall’estero

I portentosi risultati del tempio attirano ormai da anni anche pazienti dall’estero, soprattutto da Stati Uniti, Australia ed Europa settentrionale. Danielle, inglese, è all’ultimo giorno di ricovero a Wat Tham Krabok per alcolismo, dice: «Ho scoperto questo posto meraviglioso perché avevo letto in rete che Pete Doherty (il noto musicista britannico leader della band punk Libertines, nda) ci era stato tempo fa senza però resistere alla terapia oltre il terzo giorno. Mi sono informata e alla fine ho trovato molte critiche positive. All’inizio è stata davvero dura ma, trascorsi i primissimi giorni, ho cominciato ad abituarmi. È stato solo dopo aver espulso tutto il marcio che avevo dentro attraverso le sessioni di vomito e sauna che ho davvero apprezzato questo luogo di pace. Ho potuto riscoprire me stessa, rinascere, ma senza un reale sforzo personale non si va da nessuna parte. Adesso voglio solo rimanere pulita e proseguire il mio percorso interiore».

«Ci si prospetta una nuova vita – le fa eco Andrew, statunitense, al tempio per la sua dipendenza da metanfetamine e cocaina -. Devo ringraziare mia moglie che ha trovato questo centro navigando su internet e mi ha convinto a venirci. È stata un’esperienza meravigliosa, più intensa di quelle provate nei centri di disintossicazione conosciuti prima nel mio paese. Ho imparato molto, ho visto molto. Sono stato in grado di capire chi sono davvero. Non sono buddhista, ma ritengo che la meditazione, la disciplina e la semplicità del tempio mi abbiano fatto elevare a uno stato superiore».

A contribuire alla straordinarietà di Wat Tham Krabok è il complesso di statue del Buddha all’ingresso del santuario. Sculture fatte di un composto di ossidiana e altri minerali meno nobili, che vanno dai venti ai quaranta metri di altezza e che sono state interamente fabbricate dai monaci. «Lasciano senza fiato, vero? – riprende la parola Danielle – Io rimango estasiata ogni volta che le osservo. Pensare che delle persone così pacate possano arrivare a fare tanto è strabiliante. Sono uomini unici questi monaci. Sono stati in grado di aiutarmi, riuscendo a fare qualcosa in cui molte cliniche pubbliche e private europee avevano fallito».

Luca Salvatore Pistone

Thailandia, monastero disintossicazione. Foto Luca Salvatore Pistone




Pyongyang e la pandemia:

Dai missili al coronavirus

testo di Piergiorgio Pescali |


Stretto tra la Cina e la Corea del Sud, il paese ha affrontato il coronavirus con misure molto drastiche. Pur avendo come fattori negativi anche le sanzioni internazionali, un fragile Sistema sanitario e problemi cronici come la malnutrizione, Pyongyang pare aver retto l’urto.

La Corea del Nord ha considerato il Sars-CoV-2 (il virus che causa la malattia Covid-19) come una minaccia per la propria sicurezza nazionale immediatamente dopo la notizia della virulenza con cui si stava espandendo. Gli organi d’informazione hanno chiesto alla popolazione di mostrare uno «spirito rivoluzionario» nel contrastare quella che è stata definita come un’«emergenza nazionale». Nonostante la sua economia dipenda quasi esclusivamente dal commercio con la Cina, Pyongyang non ha esitato a sigillare le proprie frontiere con Pechino e con la Russia sin dalla fine di gennaio, annullando tutti i pacchetti turistici e gli incontri diplomatici in programma.

Per una nazione soggetta a embargo internazionale da parte delle Nazioni Unite, la decisione di chiudere le porte al turismo non è cosa da poco: nel 2019 circa 350mila cinesi hanno visitato il paese e l’industria turistica ha portato nelle affamate casse nordcoreane 175 milioni di dollari. Una boccata d’ossigeno non indifferente per un’economia sempre alla ricerca di valuta pregiata, eppure il governo nordcoreano non ha esitato un attimo nel prendere le misure necessarie per contrastare una possibile epidemia.

Dopo la serrata internazionale è stato il turno delle scuole e dei principali centri di aggregazione sociale, ritenuti non indispensabili per la sopravvivenza quotidiana dei 25 milioni di nordcoreani, arrivando ad ordinare la quarantena a trecentottanta stranieri residenti nel paese e circa settemila persone nelle provincie settentrionali e meridionali di Phyongan e di Kangwon. Sono queste le zone considerate più a rischio: Kangwon confina con la Corea del Sud, mentre le provincie di Phyongan sono attraversate dalle arterie principali che collegano la Corea del Nord con la Cina. Sinuiju, il capoluogo con 360mila abitanti, è la città più esposta al contagio: al di là del fiume Yalu, lungo le cui rive si sviluppa il centro urbano, c’è la metropoli cinese di Dandong, due milioni e mezzo di abitanti molti dei quali hanno attività commerciali collegate alla Corea del Nord.

Durante i periodi normali, quando il confine rimane aperto, migliaia di persone passano da una parte all’altra del fiume. Chiaro, quindi, che le autorità nordcoreane siano state particolarmente apprensive verso questa zona a rischio. Proprio da qui, secondo un rapporto non confermato del Daily NK (sito sudcoreano specializzato in notizie sulla Nord Corea, ndr), sarebbe partito il primo focolaio che avrebbe infettato il paese estendendosi nella zona a economia speciale di Rason, nella città di Heju, nella provincia di Hwanghae meridionale e nella stessa capitale del paese. Notizie che non sono state ufficialmente confermate. Tuttavia, è assai improbabile che un virus assai contagioso come il Sars-CoV-2 possa essere stato contenuto al di fuori delle frontiere nazionali, soprattutto in un paese schiacciato tra due degli stati più colpiti dalla malattia.

Se i 238 chilometri di confine condivisi con la Corea del Sud non rappresentano un grosso problema, in quanto divisi da una zona demilitarizzata invalicabile, controllare 1.416 chilometri di confine con la Cina è praticamente impossibile e il fiorente commercio clandestino tra i due paesi non gioca a favore delle restrizioni imposte da Pyongyang.

Le politiche di contenimento messe in atto dal governo hanno, però, funzionato grazie a diversi fattori tra cui la coesione culturale e l’orgoglio nazionale attorno a cui è stata plasmata la società nordcoreana durante l’arco della sua storia attraverso le visioni e le idee imposte dai leader che si sono succeduti dal 1948 ad oggi. Era già accaduto durante l’Ardua Marcia, il periodo di profonda crisi economica accompagnato da una terribile carestia tra il 1994 e il 1999 quando, anziché ribellarsi alle autorità, i nordcoreani si sono riorganizzati all’interno del sistema avviando una serie di riforme sociali ed economiche che hanno costituito le fondamenta dell’attuale struttura nazionale.

Ricercatori ala lavoro su nuovo disinfettante / Photo by KIM Won Jin / AFP

Propaganda e timori (taciuti)

La lotta contro la propagazione del virus è funzionale anche alla propaganda di Pyongyang: ogni giorno gli organi di Stato informano la popolazione sul numero sempre maggiore di contagiati e di morti in Corea del Sud, enfatizzando il sistema nordcoreano che sta «adottando tutte le misure necessarie per proteggere il popolo».

Paradossalmente il sistema dittatoriale e fortemente centralizzato che governa la nazione, si è mostrato più efficace e agile rispetto ai sistemi democratici nel fronteggiare la crisi virale (Vedi più sotto: Collettivismo vs individualismo). Mentre in Europa si discuteva su quali fossero le misure più appropriate a livello etico, politico ed economico da adottare per debellare il contagio perdendo tempo prezioso, in Corea del Nord le poche persone al comando decidevano e imponevano azioni. In pochi giorni l’intero paese ha adottato i provvedimenti emanati dall’unica linea di comando dell’emergenza coadiuvata da équipe di scienziati ed esperti sanitari. Sono stati predisposti presidi medici in tutte le provincie, il Centro epidemiologico di Pyongyang ha allestito succursali nelle zone più a rischio e centinaia di volontari della Croce Rossa sono stati mobilitati per dare manforte alle squadre inviate per informare la popolazione come difendersi dal contagio. Ciò che veniva imposto dall’alto doveva essere adottato senza se e senza ma. In questo modo l’emergenza è stata affrontata, contrastata e, a quanto risulta, vinta.

Il timore della dirigenza nordcoreana è che un’espansione incontrollata del Sars-CoV-2, come è accaduta in Cina e in Corea del Sud, faccia collassare il già precario sistema sanitario nazionale.

L’economia del paese, pur crescendo con una media annua del 5-7%, è ancora estremamente fragile e le sanzioni imposte dalle Nazioni unite rendono questo sviluppo fluttuante e discontinuo. Il riflesso sul sistema sanitario è diretto: negli ospedali mancano strumentazioni e apparecchiature, spesso non c’è riscaldamento (il petrolio e suoi derivati sono prodotti sottoposti ad embargo) e il personale medico è ormai risicato. Per far fronte alla penuria di farmaci Ebm (Evidence-based medicine, i prodotti approvati dall’Oms) l’industria farmaceutica ha potenziato la produzione delle cosiddette medicine Koryo, preparati a base di ingredienti naturali secondo antiche tradizioni popolari che però spesso risultano inefficaci nella cura di malattie.

A Pyongyang, acquisto di fiori per la Giornata internazionale della donna / Photo by KIM Won Jin / AFP

Anziani trascurati

Il ministero della Sanità ha stabilito che, per tenere sotto controllo la salute della popolazione, servirebbe un medico ogni 130 famiglie, un rapporto che dalla fine degli anni Novanta non è mai stato raggiunto. Inoltre, il sistema sanitario nordcoreano si è storicamente concentrato sulla salvaguardia delle fasce più giovani della popolazione, soprattutto nella fase neonatale. I poster dei leader (in particolare Kim Il Sung) circondati da folle di bambini sorridenti ed entusiasti sono divenuti una costante nella propaganda nordcoreana, mentre quasi mai vengono ritratti anziani. La facilità con cui la malattia Covid-19 colpisce persone meno giovani trova del tutto impreparata la sanità nordcoreana: il 14% della popolazione ha più di sessant’anni, ma la percentuale dovrebbe raddoppiare entro il 2030 secondo le previsioni statistiche. Il 37% di loro ha una disabilità ed è costretto a vivere con i figli; la famiglia rimane, quindi, un punto importante nell’assistenza sociale e sanitaria del paese.

Anche le fasce più giovani, però sarebbero colpite in modo aggressivo in caso di diffusione virale. Sebbene negli ultimi anni la mortalità infantile sia diminuita, nelle campagne rimane 1,2 volte maggiore che in città. Sono aumentate anche le vaccinazioni e i servizi di ostetricia, ma le cause principali di mortalità infantile continuano ad essere polmoniti e diarrea. E le polmoniti, si sa, sono proprio le malattie tipiche su cui si sviluppa il Covid-19. La diarrea, invece, è causata dalla mancanza di accesso ad acqua potabile e alle precarie condizioni igieniche, non solo in famiglia, ma all’interno stesso delle strutture sanitarie. La Fao stima che il 23% della popolazione (5,7 milioni di persone) non può contare su servizi igienici adeguati e quasi tre milioni di nordcoreani non hanno accesso diretto all’acqua nelle loro abitazioni.

Una volta passata la fase di contenimento del virus Kim Jong Un dovrà quindi ripensare a un sistema di assistenza sociale che tenga conto anche delle generazioni di età più avanzata, ma anche a una maggiore tutela generale della popolazione. Un aiuto potrebbe arrivare dalla scienza.

Sotto l’attuale leader, le discipline scientifiche e tecnologiche in Corea del Nord hanno avuto uno sviluppo considerevole soprattutto, ma non solo, per la scelta di adottare un programma di politica nucleare. Le decisioni prese dal governo hanno portato la Corea del Nord a incentivare tutte le attività scientifiche collegate al programma atomico, dalle facoltà universitarie ai centri di ricerca. Le ricadute di queste ricerche si sono ripercosse anche su ambiti non prettamente militari, come gli studi sanitari.

Senza, però, un’apertura al commercio e agli scambi internazionali sarà difficile per il paese asiatico risalire la china di un pozzo di cui intravede la luce, ma lungo le cui pareti è difficile arrampicarsi.

Bambino controllato all’aeoporto / Photo by KIM Won Jin / AFP

Le sanzioni e l’ambiguità degli Stati Uniti

Nel dicembre 2019, l’ambasciatore cinese all’Onu, Zhang Jun, ha chiesto all’Assemblea generale di togliere temporaneamente le sanzioni imposte dalla comunità internazionale così da aiutare Pyongyang nella lotta contro il Covid-19. Il Dipartimento di stato Usa ha però negato il consenso affermando che non è ancora giunto il tempo per rimuovere i paletti economici che puniscono l’economia nordcoreana.

Di diverso avviso sembra invece essere lo stesso presidente Trump, che sempre più spesso si trova in contrasto con la sua stessa amministrazione. In nome dell’amicizia che lo lega a Kim Jong Un, il presidente statunitense si è impegnato personalmente a far arrivare aiuti al giovane collega asiatico, così come nel 2019 si era opposto efficacemente all’inasprimento delle sanzioni contro la Corea del Nord come richiesto dal Dipartimento del tesoro.

Pochi giorni dopo il pronunciamento di Trump e la sua dichiarazione di non essere interessato a incontrare di nuovo Kim Jong Un prima delle elezioni di novembre, il leader nordcoreano ha inviato al suo collega sudcoreano Moon Jae-in una lettera.

Nelle righe, oltre ad esprimere le condoglianze alle vittime del coronavirus, Kim si preoccupava della salute del presidente sudcoreano e si diceva ottimista sul futuro delle relazioni con Seul. Un cambio di rotta radicale, a cui peraltro chi si occupa di affari coreani è abituato, rispetto alle dichiarazioni di pochi giorni prima espresse da Kim Yo Jong, la sorella minore di Kim Jong Un, nelle quali esprimeva, in toni non proprio conciliatori, il proprio disappunto verso le proteste avanzate dal governo di Seul riguardo i lanci missilistici nordcoreani.

CC BY-SA / Ryan Hodnett

la difficile lotta  alla malnutrizione

L’attenzione mostrata verso il coronavirus non ha però allontanato altri problemi cronici di cui è malata la nazione, primo fra tutti la malnutrizione. Dopo essere riuscita a debellare malattie come il morbillo e la malaria, a diminuire la Tbc e a sconfiggere la morte per inedia che ha falcidiato nella seconda metà degli anni Novanta tra le 300mila e le due milioni di persone, Pyongyang oggi deve fare i conti con la scarsità alimentare.

Secondo la Fao circa dieci milioni di nordcoreani necessitano di assistenza alimentare e sei milioni di questi rientrano nelle fasce più vulnerabili, tra cui 1,7 milioni di bambini al di sotto dei cinque anni d’età e 342mila donne incinte. La malnutrizione dei bambini al di sotto dei cinque anni non è dovuta tanto alla mancanza di cibo, quanto alla qualità dei servizi sanitari, alla mancanza di medicine, di integratori e alla discontinuità con cui il cibo è disponibile.

Ci sono periodi in cui si ha grande abbondanza di cibo, durante i quali i genitori cercano di sovralimentare i figli, alternati ad altri periodi invece in cui la scarsità di alimenti fa esplodere situazioni di grave sottoalimentazione. Questa discontinuità influisce negativamente sulla crescita della popolazione più giovane.

La lotta al Sars-CoV-2 potrebbe, quindi, rappresentare un modo anche per ricompattare il fronte degli aiuti umanitari per garantire alla Corea del Nord un futuro più sereno e accelerare uno sviluppo sociale, oltre che economico, già in atto, ma non privo di ostacoli. Non tutti causati dal regime di Pyongyang.

Piergiorgio Pescali

© Devrig Velly EU-ECHO


Oriente e Occidente

Collettivismo versus individualismo

Questi mesi di pandemia da coronavirus hanno messo in evidenza grandi differenze tra Oriente e Occidente. Una diversità non solo politica, ma culturale.
Le modalità della lotta al Covid-19 hanno suscitato molte polemiche e critiche, come del resto è logico che sia in una società democratica e fortemente individualista come quella Occidentale. Nonostante si parli sempre più di Europa unita come entità sovranazionale, in questo frangente (come in molti altri) non c’è stata alcuna direttiva imposta da Bruxelles sul comportamento da tenere per contrastare il coronavirus. Ogni stato ha agito secondo le proprie direttive, spesso in contrasto con quelle del vicino. L’Italia ha adottato un sistema di contenimento simile a quello cinese, anche se non altrettanto drastico: chiusura delle attività ritenute non essenziali, delle scuole, restrizione negli spostamenti. Con la furbizia che ci contraddistingue migliaia di persone, appena subodorato il primo decreto restrittivo del governo, hanno preso d’assalto treni per fuggire dalla cosiddetta zona rossa per ritrovarsi, pochi giorni dopo, in un’altra zona rossa. I cinesi, invece, hanno accolto l’imposizione del governo centrale con più senso civico e, oserei dire, coraggio. Forti dell’esperienza della Sars 2003, dopo l’evidenza del nuovo virus (pur con tutti i ritardi addebitati al governo centrale) Pechino ha imposto senza indugi il coprifuoco mobilitando in massa anche l’esercito. La cultura asiatica è basata su un caposaldo: il rispetto del bene comune e della collettività.

La popolazione, da sempre più numerosa rispetto a quella europea, ha una concentrazione demografica che ha costretto a far fronte a piaghe sociali, economiche e sanitarie durante l’arco della sua storia. Inoltre l’economia risicola ha imposto uno stile di vita comunitario coordinando collettivamente le fasi di lavorazione delle risaie: aratura, trapianto, irrigazione, raccolto devono essere programmate collettivamente. Ne consegue che la libertà individuale in Asia viene sottomessa a quella sociale. Inoltre il pensiero cinese, basato sul «Dao» (armonia, equilibrio, per il taoismo ma anche per il confucianesimo), è molto più mobile e agile rispetto a quello occidentale del «Logos». La società cinese si trasforma e si adatta ai cambiamenti molto più di quanto faccia la nostra: mentre noi contiamo singole menti brillanti puntando sulla creatività della singola persona, in Asia (Cina, Corea, Giappone, Vietnam, Laos) il lavoro di squadra è sempre stato la forza trainante dello sviluppo. Mentre da noi si impiegano settimane solo per decidere se e quali locali destinare ad emergenze ospedaliere, in Cina sono bastati pochi giorni per costruire interi reparti sanitari. Ciò che conta per il sistema cinese è mantenere la stabilità sociale e l’armonia anche a costo di limitare le libertà individuali. La democrazia impone lunghi ed estenuanti dibattiti prima di adottare decisioni; il sistema comunitario orientale (che è comune a tutta l’Asia, anche se rafforzato in Cina dall’autoritarismo del partito unico) detta le regole dall’alto secondo un sistema antico e collaudato. E in Asia, nata e costruita su fondamenta culturali assai diverse da quelle occidentali, spesso funziona.

Piergiorgio Pescali

© Roman Harak




Coronavirus,

il primo impatto nelle missioni

testo di Chiara Giovetti |


Attraverso le testimonianze dei nostri missionari in Africa e America Latina, ricostruiamo le reazioni a fine marzo dei paesi alla diffusione del contagio da coronavirus@, come sono state recepite le direttive dei vari governi e quali sono stati i primi provvedimenti presi nelle missioni.


I dati presentati in questo testo sono ovviamente quelli disponibili al momento delal chiusura del testo, il 24 marzo.

Per dati aggiornati vedi la mappa della diffusione del Covid-19 nel mondo nella pagina di apertura del sito.


Era circa metà marzo quando i nostri missionari in Africa e America Latina hanno iniziato a condividere via Whatsapp i primi documenti dei governi e delle conferenze episcopali nazionali con le disposizioni per contenere il contagio da Sars-Cov-2, il nuovo coronavirus.

Ne citiamo uno a titolo di esempio: il comunicato del Consiglio nazionale di sicurezza (Cns) della Costa d’Avorio presieduto dal presidente della repubblica Alassane Ouattara, che il 16 marzo segnalava sei casi confermati, saliti a 74 al 24 marzo.

Costa d’Avorio

Il Cns disponeva il rispetto delle norme igieniche fra cui il lavaggio delle mani, il divieto di scambiarsi baci, abbracci e saluti che comportino un contatto delle mani, il divieto di consumare carne di animali selvatici. Proibiva inoltre i raduni di più di 50 persone e fissava ad almeno un metro la distanza interpersonale da tenere negli ipermercati, nei maquis (piccoli ed essenziali locali dove è possibile consumare cibo e bevande, tipici della Costa d’Avorio e di diversi altri paesi africani, ndr), nei ristoranti, nelle aziende; imponeva la chiusura delle scuole per un mese e delle discoteche, dei cinema e dei luoghi per gli spettacoli per 14 giorni, la sospensione degli eventi sportivi e culturali e il rafforzamento dei controlli sanitari alle frontiere marittime, terrestri e aeroportuali. Il comunicato introduceva anche il divieto di ingresso nel paese, per quindici giorni prorogabili, ai viaggiatori non ivoriani provenienti da paesi con più di cento contagi. La messa in quarantena per 14 giorni, nei centri controllati dallo stato, era prevista per i cittadini ivoriani e per gli stranieri con permesso di soggiorno permanente che rientravano nel paese, per tutti i casi sospetti e per coloro che erano venuti a contatto con delle persone infettate. Il comunicato annunciava poi l’apertura in 13 grandi centri del paese di siti complementari equipaggiati per la presa in carico dei casi di Covid-19, l’aumento della sicurezza sanitaria per gli agenti di salute e per tutto il personale dei servizi pubblici e la riattivazione dei comitati dipartimentali di lotta alle epidemie. Il 24 marzo, in una situazione in continua evoluzione, il presidente Ouattara con un discorso alla nazione introduceva un ulteriore irrigidimento delle misure che comprendeva il coprifuoco dalle 21 alle 5.

Altri paesi

Altri governi africani hanno proposto nei giorni a seguire provvedimenti molto simili. La Repubblica Democratica del Congo, attraverso le indicazioni fornite in un discorso alla nazione dal presidente Félix Tshisekedi il 18 marzo, imponeva misure come quelle della Costa d’Avorio, con varianti come il divieto di ogni raduno, riunione, celebrazione con più di venti persone in luoghi pubblici fuori dal domicilio familiare e la sospensione di tutti i voli provenienti dai paesi a rischio e dai paesi di transito, non solo di quelli provenienti dai paesi con oltre cento casi (escludendo però i voli e le navi cargo)@.

Il Mozambico, con una comunicazione del presidente della repubblica, Filipe Nyusi, aumentava il 20 marzo le limitazioni e divieti decisi la settimana precedente, allineandosi a quelli degli altri paesi già citati. Nel comunicato@, il presidente Nyusi informava anche che fino a quel momento erano stati sottoposti al test 35 casi sospetti, che erano poi risultati negativi, mentre 267 cittadini mozambicani e stranieri provenienti da paesi ad alto rischio si trovavano in quarantena domiciliare.

Anche il Kenya, che ha registrato il primo caso il 12 marzo@,  ha chiuso le scuole quattro giorni dopo e il 22 marzo ha ulteriormente inasprito le direttive per contenere il contagio@: sospesi tutti i voli tranne i cargo dal 25 marzo, chiuse chiese e moschee, proibiti gli incontri delle chama (gruppi di microrisparmio e investimento), i compleanni e ogni altro assembramento, chiusi tutti i bar.

Quanto al servizio di trasporto in comune (i matatu), già dal 20 marzo le indicazioni erano quelle di ridurre il numero di passeggeri: i mezzi da 14 posti potevano portare al massimo otto passeggeri, non più di 15 passeggeri per matatu da 25. I bus da 30 posti dovevano infine limitarsi a usare il 60% della loro capienza@.

Matatu semi-vuoto a Nairobi, Kenya / foto di Dona Nyapola

Queste restrizioni al numero di passeggeri hanno provocato un immediato effetto indesiderato: l’aumento dei prezzi delle corse. Per questo il ministero della Sanità nel comunicato del 23 marzo ha fatto un «appassionato appello» ai proprietari dei matatu affinché smettano di imporre ai pendolari questi aumenti@.

Secondo il Johns Hopkins Hospital, il 15 aprile 2020 l’Africa contava 53 nazioni contagiate, 16.356 casi confermati e 872 decessi.

America Latina

Quanto all’America Latina, il Venezuela è certamente fra i paesi che destavano più preoccupazioni dal momento che il rischio del contagio si inserisce in una situazione politico economica già molto compromessa. Il presidente Nicolas Maduro ha annunciato la messa in «quarantena totale» del paese a partire dal 18 marzo, quando i casi di Covid-19 accertati erano 33@ (saliti poi a 84 il 24 di marzo).

Da Dianra, Costa d’Avorio

© AfMC – Matteo Pettinari da Dianrà

Sulla situazione abbiamo sentito alcuni missionari. «L’analfabetismo è la malattia più mortale che esista: scrivilo, questo». Al telefono dalla Costa d’Avorio, padre Matteo Pettinari, responsabile del Centro di salute Joseph Allamano di Dianra (Csja), non ha dubbi su quale sia il principale avversario da battere nella partita del contenimento del contagio. Secondo il censimento del 2014, precisa il missionario, la regione del Béré, dove si trova Dianra, ha l’81% di analfabeti. Far passare messaggi sulle corrette pratiche igieniche e contrastare la marea di notizie false che circolano diventa così ancora più difficile.

«Nei villaggi più isolati», continua padre Matteo, «circolano informazioni come: “questo virus è un complotto degli europei per ucciderci, basta mangiare le foglie bollite di questa o quell’altra pianta, l’africano è forte e resiste ai microbi…”. Capisci che a volte dobbiamo essere molto duri, fare leva sulla nostra autorità di uomini di Dio e addirittura chiamare “emissario del demonio” chi diffonde simili informazioni, altrimenti rischiamo di rimanere inascoltati».

I problemi però non si limitano agli ostacoli alla diffusione di informazioni corrette. Si aggiungono anche la carenza di strutture sanitarie adeguate a gestire pazienti bisognosi di respirazione assistita – la terapia intensiva più vicina a Dianra si trova al Centre Hospitalier Universitarie (Chu) di Bouaké, a 250 chilometri – e un tessuto economico fragile. «Qui non ci sono ammortizzatori sociali, strumenti per iniettare liquidità nelle famiglie e nelle imprese: dire a una piccola imprenditrice “non uscire di casa, non andare più al mercato a vendere il bissap [bevanda a base di ibisco molto diffusa in Africa Occidentale, ndr]” significa metterla in condizione di non poter più garantire il sostentamento alla sua famiglia».

A marzo, il Centro di salute Joseph Allamano stava recependo le direttive del ministero della Sanità mettendo all’entrata e all’uscita di ogni reparto un dispositivo per lavarsi le mani. «Più complicato», constata padre Matteo, «sarà creare una zona dedicata per eventuali malati di Covid-19 che andrebbero isolati fuori dal complesso del Csja, in una struttura a parte».

Il personale del Centro aveva avviato la sensibilizzazione nei villaggi e presso i piccoli centri periferici della rete sanitaria già una settimana prima del primo caso riscontrato in Costa d’Avorio. Il dato positivo è che il Centro ha sempre potuto contare sulla piena collaborazione del direttore del dipartimento sanitario, molto dinamico e impegnato in prima persona a diffondere informazioni raggiungendo, in moto, i villaggi per sovrintendere o anche svolgere direttamente le attività di sensibilizzazione.

Dalla RD Congo

Padre Rinaldo Do, dalla parrocchia di Saint Hilaire a Kinshasa, riporta le difficoltà a rispettare le direttive del governo in un quartiere popoloso come quello dove lui vive. «Scuole e chiese sono chiuse e i ragazzi dovrebbero restare in casa. Ma questi giovani vivono in abitazioni dove ci sono a volte più di venti persone e non hanno computer, tv, libri a disposizione per fare i compiti o per passare il tempo. Per questo succede spesso di vederli fuori per strada, a giocare».

Preparativi per combattere il Covid_19 a Kinshasa / AfMC – Rombaut Ngaba Ndala

Dal Centre Hospitalier la Consolata nel quartiere di Bikiku, a Kinshasa, il responsabile, fratel Rombaut Ngaba Ndala, riferisce di

come sia in corso un intenso lavoro di sensibilizzazione per spiegare alle persone come comportarsi. «Ancora non si rendono conto», scrive il 25 marzo il missionario, «alcuni pensano basti prendere il Congo bololo, un’erba (la vernonia amygdalina) che di solito usano contro la malaria».

Radio Okapi, la radio a diffusione nazionale fondata nel 2002 dalle Nazioni unite e da una Ong svizzera, ha raccolto lo scorso 23 marzo alcune testimonianze da tutto il paese su come stava procedendo l’adeguamento alle istruzioni del governo.

Un ascoltatore da Bukavu, nella provincia orientale del Sud Kivu, riportava che le regole erano rispettate «al 70%» e segnalava l’arresto di un pastore di una delle cosiddette «chiese del risveglio» che aveva riunito i fedeli nonostante i divieti.

Un altro intervento da Kikwit, città del Congo centro occidentale, sottolineava il problema degli assembramenti – difficili da evitare – delle tante persone che dipendono dalle fontane e dai rubinetti pubblici per procurarsi l’acqua. L’ascoltatore lamentava, inoltre, che la recente esperienza dell’epidemia di ebola avrebbe dovuto educare la popolazione ma che questo era avvenuto solo in parte e invocava misure di legge più mirate per sanzionare chi non rispetta le indicazioni del governo.

Bambino con catino di foglie Congo Bololo, un’erba ritenuta efficace contro la malaria ed erroneamente creduta buona contro il Covid_19. Nome scientifico: Vernonia amygdalina

Da Kisangani, città sul fiume Congo nel centro Nord del paese, un ascoltatore – con un’obiezione che si è peraltro rivelata dannosa in altri contesti colpiti dal virus – avanzava perplessità sull’estensione a tutto il paese di misure inizialmente prese per Kinshasa, dove erano stati individuati i primi casi, considerando che Kisangani non era ancora stata toccata dai contagi. Riferiva di prezzi al rialzo nei mercati e sosteneva che servisse più tempo per regolamentare gli aspetti economici prima di procedere a una chiusura più decisa delle attività, perché la gente rischia «di morire di fame, invece che di virus».

Il governatore del Nord Kivu, Carly Nzanzu, nel suo intervento alla trasmissione sottolineava l’importanza delle misure di sensibilizzazione comunitaria e sosteneva che era fondamentale «evitare l’ingresso della malattia». Portava poi l’attenzione su una particolare sfida che la RD Congo – come molti altri paesi africani – deve affrontare, quella dei trasporti in comune. Anche in Congo si è tentato di ridurre le presenze sui minibus, imponendo ad esempio che i mezzi da 16 posti portino al massimo dieci persone.

Un ultimo intervento, dalla produttiva Lubumbashi, nella provincia meridionale dell’Alto Katanga, sottolineava che «ci sono più misure che dispositivi», cioè che alle indicazioni sulla carta non sempre corrispondono i mezzi per realizzarle. A titolo di esempio, l’ascoltatore di Lubumbashi riportava il fatto che i casi positivi della città erano accolti in una struttura sanitaria dove però si trovavano già altri malati, non cioè in un una struttura dedicata così da assicurare l’isolamento@.

Da Ikonda, Tanzania

Padre Marco Turra, responsabile del Consolata Ikonda Hospital, scrive che nonostante il numero di casi ancora basso – dodici al 25 marzo – c’è preoccupazione nel paese, dove il governo ha assunto misure molto simili a quelle degli altri esecutivi africani. «Qui in ospedale», precisa padre Marco, «abbiamo disposto all’ingresso luoghi per il lavaggio e disinfezione delle mani. Ai nostri lavoratori sono stati distribuiti flaconi di gel igienizzante e maschere. Abbiamo già sistemato un locale apposito per eventuali malati di Covid-19».

Da Tucupita, Venezuela

Padre Andrés Garcia Fernandez, che lavora a Nabasanuka, nella diocesi di Tucupita, il 19 marzo invia aggiornamenti nei quali lamenta la scarsità di informazioni che arrivano nelle comunità più isolate, così che anche i comportamenti corretti da seguire per non contrarre il nuovo coronavirus non raggiungono tutta la popolazione. Vi è inoltre mancanza di controllo sull’applicazione effettiva delle misure preventive e i trafficanti della Guyana o di Trinidad che attraversavano i confini senza controllo (e ovviamente senza protezioni come mascherine o guanti) rischiano di contribuire ulteriormente a diffondere il virus, in un contesto nel quale i servizi sanitari sono già fortemente provati da lunghi mesi – ormai anni – di crisi politica ed emergenza umanitaria.

«A Nabasanuka», racconta padre Andrés, «passiamo le giornate piuttosto occupati a ricevere le persone che vengono a cercare farmaci, ami da pesca, cibo, quaderni, matite». Ma, conclude, «non abbiamo paracetamolo né niente che gli somigli in tutta la zona della nostra parrocchia».

Chiara Giovetti




L’ad gentes della cooperazione

testo di Chiara Giovetti |


Salute mentale in Costa d’Avorio, biogas per le scuole del Kenya, rifugiati venezuelani in Brasile. Sono tre degli ambiti nei quali i missionari della Consolata si impegneranno in questo 2020,  cercando di coniugare la più che centenaria esperienza di lotta alla povertà con gli attuali temi dell’inclusione e dell’ambiente.

(© AfMC/Ariel Tosoni)

1. Costa D’Avorio

La malattia mentale, terra di nessuno della sanità

«Si può dire che i malati mentali siano l’ad gentes del mondo della salute: quelli che nessuno ha ancora avvicinato, di cui nessuno vuole occuparsi». Padre Matteo Pettinari, missionario italiano che lavora a Dianra, Costa d’Avorio, usa questa immagine per sottolineare come la salute mentale sia ancora un ambito inesplorato e ai margini, così come ad gentes indica appunto la missione che si rivolge a chi ancora non è stato raggiunto dall’annuncio del Vangelo.

Insieme ai confratelli padre Ariel Tosoni, argentino, e padre Raphael Ndirangu, kenyano, padre Matteo ha avviato un dialogo con la sanità pubblica ivoriana, in particolare con il professor Asséman Médard Koua, direttore dell’ospedale psichiatrico di Bouaké – struttura sanitaria che si occupa della salute mentale di tutta la regione settentrionale del paese – e con la sua équipe. «L’ospedale in cui il professor Koua lavora», spiega padre Ariel, «dovrebbe gestire i pazienti psichiatrici di un bacino d’utenza pari a undici milioni di persone».

Numeri in linea con quelli riportati sul sito di Samenta-com@, il progetto di salute mentale comunitaria lanciato dal ministero della Salute e igiene pubblica ivoriano e dalla tedesca Mindful-Change-Foundation.

In Costa d’Avorio, si legge sul sito, a partire dal 2002 la popolazione è stata colpita psicologicamente e socialmente dalle varie crisi, cioè dai disordini e conflitti che hanno scosso il paese nel primo ventennio del XXI secolo. L’offerta e l’accesso alle cure per la salute mentale sono limitati: due ospedali psichiatrici pubblici e circa trenta psichiatri per oltre 26 milioni di abitanti.

Secondo i dati dell’Organizzazione mondiale della sanità, le persone colpite da disturbi mentali e neurologici sono presenti in tutte le regioni del mondo, in tutti i contesti sociali e in ogni fascia d’età, indipendentemente dal livello di reddito dei loro paesi. A livello mondiale, il peso di questi disturbi sul carico complessivo delle malattie è del 14%; nei paesi a basso reddito tre su quattro pazienti affetti da tali disturbi non hanno accesso alle cure di cui hanno bisogno.

(© AfMC/Ariel Tosoni)

«Chi li aiuterà se non voi?»

In Costa d’Avorio esiste un coordinamento chiamato Urss-Ci, acronimo di Unione dei religiosi e delle religiose nella salute e nel sociale in Costa d’Avorio, del quale i missionari della Consolata sono parte. «Il professor Koua ci ha avvicinato in quanto membri Urss-Ci», spiegano ancora i padri Matteo, Ariel e Raphael. «La sanità pubblica fatica a seguire questi malati, ci ha detto il medico: se anche voi religiosi impegnati nell’ambito sanitario restate prigionieri di timori e remore e li rifiutate, allora chi li aiuterà?».

A questo primo dialogo è succeduta poi una sessione di formazione che lo psichiatra ha tenuto al centro sanitario Beato Joseph Allamano (Csja) di Dianra, gestito dai missionari della Consolata, e l’avvio di una collaborazione che ha coinvolto anche il neonato Distretto sanitario di Dianra per mezzo del suo direttore.

Sono già attivi alcuni servizi che permettono di seguire pazienti affetti da epilessia e da malattie psichiatriche: tutte persone che la comunità emargina perché le considera possedute.

«Fin dalla prima visita del professor Koua al centro sanitario», racconta padre Matteo, «abbiamo toccato con mano l’urgenza di fornire servizi in questo ambito. Noi missionari non avevamo fatto preventivamente una grande pubblicità alla cosa. Avevamo giusto segnalato, durante la messa e nelle comunità di base, che sarebbe venuto un medico specializzato in salute mentale e che, se qualcuno conosceva persone con disturbi di questo tipo, poteva farle venire per una consultazione: si sono presentate 72 persone solo il primo giorno».

Oggi il centro di Dianra lavora applicando un protocollo e utilizzando schede fornite da Samenta-com; offre consultazioni ai pazienti per identificarne con precisione, sulla base di una serie di domande contenute nelle schede, il tipo di disturbo e definire poi la terapia.

(© AfMC/Ariel Tosoni)

Formare operatori

ll 2020 sarà dunque l’anno in cui si penserà a come dare maggior forma, struttura ed efficacia a questa collaborazione appena partita e già così significativa. «Certo», riconoscono i missionari di Dianra, «non possiamo fare un centro psichiatrico. Ma se già con la formazione del nostro personale sanitario siamo in grado di accompagnare diverse di queste persone che prima erano lasciate ai margini, perché non pensare a uno spazio piccolo e semplice da costruire – ad esempio un appatam, la versione locale della paillote – che diventi una sorta di centro dove i pazienti possano svolgere attività diurne?».

Lo spazio, per come lo stanno concependo i missionari, potrebbe ospitare corsi di teatro, danza e varie forme di arte-terapia che vanno dalla pittura alla musica e alla scrittura, e diventerebbe un luogo dove, anche grazie all’aiuto di volontari, si ferma la dinamica di emarginazione e ci si sforza, viceversa, di invertirla, riavvicinando di nuovo i pazienti psichiatrici al resto della comunità attraverso l’arte come strumento di socializzazione.

Immagini della costruzione dell’impianto di biogas finanziato dalla Caritas italiana nel 2019 (© AfMC/Denis Mwenda)

2. Kenya, il biogas

Energia pulita per le scuole

La ricerca di fonti energetiche rinnovabili resa urgente negli ultimi anni dalla necessità di limitare le emissioni di anidride carbonica ha portato maggior attenzione sulle cosiddette biomasse, di cui fanno parte i rifiuti biodegradabili derivanti dall’agricoltura e dall’allevamento. Il biogas può essere prodotto a partire da questi rifiuti e utilizzando i cosiddetti digestori.

I digestori, spiega la Fao, sono grandi serbatoi in cui il biogas viene prodotto attraverso la decomposizione di materia organica mediante un processo chiamato digestione anaerobica. Sono chiamati digestori perché il materiale organico viene «mangiato» e digerito dai batteri per produrre biogas@.

Nel 2019, una delle strutture educative gestite dai missionari della Consolata in Kenya, la scuola materna e primaria Familia Takatifu (Santa Famiglia) di Rumuruti, in Kenya, ha utilizzato questo metodo per dotarsi del gas necessario a soddisfare il fabbisogno di energia della cucina che serve gli oltre 700 allievi della scuola.

Il progetto, finanziato da Caritas Italiana nell’ambito del suo programma che sostiene ogni anno centinaia di microprogetti nel mondo, si è concluso lo scorso gennaio e ha visto diverse fasi: lo scavo dello spazio dove collocare il digestore, la costruzione di quest’ultimo in cemento, l’introduzione della biomassa nel digestore, la sua messa in funzione per la produzione di biogas e l’installazione nelle strutture della scuola di un impianto in grado di portare il gas dal punto dove viene prodotto alla cucina.

Immagini della costruzione dell’impianto di biogas finanziato dalla Caritas italiana nel 2019 (© AfMC/Denis Mwenda)

I vantaggi del biogas

«La scuola ora usa il sistema a biogas per la cottura dei cibi, la bollitura dell’acqua e anche, in parte, per l’illuminazione», riporta il responsabile di progetto padre Denis Mwenda Gitari. «Il residuo prodotto, inoltre, si può usare come fertilizzante per l’orto della scuola e», conclude il missionario, «il biogas ci permette ora di risparmiare sui costi necessari a garantire la qualità e la continuità delle attività scolastiche».

Già nel 2013 a Familia ya Ufariji, la casa per i ragazzi di strada che i missionari della Consolata gestiscono nella capitale Nairobi, si era installato un biodigestore che usava scarti e rifiuti della struttura integrati con quelli derivanti dall’allevamento di sei mucche e tre vitelli@. Nel corso del 2020 si tenterà poi di portare il biogas anche nella scuola primaria di Mukululu.

Le tecnologie per la produzione di questo tipo di energia si sviluppano continuamente e cercano di adattarsi alle esigenze e al potere d’acquisto delle comunità rurali dove vengono utilizzate. Il Fondo internazionale per lo sviluppo agricolo delle Nazioni Unite (Ifad) promuove, nel suo portale dedicato alle soluzioni per lo sviluppo rurale individuate dalle comunità locali@ , un sistema per la produzione di biogas che è più flessibile@ perché utilizza plastica e non cemento per costruire digestori trasportabili, facili da installare e rapidamente produttivi.

Costruzione dell’impianto di biogas per la scuola Familia Takatifu a Rumuruti (© AfMC/Denis Mwenda)

 


3. Boa vista

La migrazione venezuelana

La situazione politica ed economica del Venezuela non ha ancora smesso di spingere migliaia di persone a emigrare. L’Alto Commissariato Onu per i rifugiati parla di 4 milioni e mezzo di migranti e rifugiati Venezuelani nel mondo@.

Alimentação crianças – alimentazione dei bambini (© AfMC/Jaime Patias)

Il reportage di Marco Bello e Paolo Moiola, di cui nel numero scorso di MC è uscita la prima puntata@ – vedi questo MC pag. 10 -, ha raccontato la vita dei migranti venezuelani arrivati nello stato brasiliano di Roraima e, in particolare, delle oltre 630 persone che vivono in uno spazio occupato e autogestito a Boa Vista. Ka Ubanoko, questo il nome dello spazio, ospita 150 famiglie indigene in prevalenza di etnia warao, ma ci sono anche gruppi E’ñepa, Cariña, Pemon e 76 famiglie non indigene.

Un’équipe itinerante di missionari della Consolata assiste questi rifugiati e migranti: da fine luglio 2019, cento bambini e venti adulti hanno cominciato a ricevere ogni martedì e venerdì un pasto preparato sul posto da volontari. I fondi per l’intervento sono venuti da donatori privati che sostengono direttamente l’Istituto missioni Consolata (Imc), da benefattori della città di Boa Vista e da alcune parrocchie del Sud del Brasile più sensibili alla situazione dei migranti e dei rifugiati.

Dallo scorso dicembre, grazie al sostegno di un donatore statunitense, è stato possibile intensificare e stabilizzare il programma di lotta alla malnutrizione, estendendolo a 12 mesi (cioè per tutto il 2020) e aumentando fino a 150 i bambini e a trenta gli adulti assistiti.

(© AfMC/Jaime Patias)

Bambini sradicati

«Una delle conseguenze più preoccupanti di questa situazione», riportava lo scorso autunno il consigliere generale Imc, padre Jaime Patias, al rientro dalla sua visita a Ka Ubanoko, «è che questi bambini, completamente sradicati, non riceveranno per mesi, forse per anni, alcuna forma di istruzione». Uno dei rischi connessi alla crisi venezuelana, in altre parole, è quello di far crescere una generazione di giovani privi di formazione e di competenze, limitando molto le loro possibilità di contribuire in modo attivo alla ricostruzione del loro paese.

Alimentação crianças – alimentazione dei bambini – volontari al lavoro per preparare il cibo (© AfMC/Jaime Patias)

Per questo, prima del pasto, i bambini seguiti dall’équipe missionaria ricevono almeno una formazione civico-sociale. Nel corso del 2020 si valuterà la fattibilità di un intervento il cui obiettivo sia quello di fornire a questi bambini una formazione più continua e strutturata.

Chiara Giovetti




Lavoro o malattia: un dilemma inaccettabile

testo di Francesco Gesualdi |


Per anni dai camini e dai depositi dell’Ilva di Taranto sono uscite tonnellate di sostanze inquinanti e cancerogene: diossido di azoto, anidride solforosa, metalli pesanti, diossine. A parte le vicende economiche, politiche e giudiziarie attorno alla fabbrica, il vero conflitto è tra diritto al lavoro e diritto alla salute. Un conflitto che nelle acciaierie di Linz (Austria) a Duisburg (Germania) è stato risolto.

Il 7 novembre 2019, quando il presidente del Consiglio Giuseppe Conte andò a Taranto per approfondire il caso ex Ilva, si trovò difronte a due città: quella rappresentata dai lavoratori che chiedevano la difesa a oltranza dell’acciaieria e quello delle mamme che ne chiedevano la chiusura. Gli uni in nome del lavoro, le altre in nome della salute. Molte delle mamme venivano dal quartiere Tamburi, il rione sorto a ridosso della fabbrica Ilva in cui vivono 18mila persone. Il quartiere dove bisogna «pulire due tre volte al giorno se non vogliamo pattinare sulla polvere», spiega una di loro. «E nei giorni di vento la troviamo anche nel frigorifero». La polvere è quella del ferro e del carbone, in parte proveniente dai depositi, in parte dai camini, in ogni caso piena di sostanze che oltre a sporcare pavimenti e biancheria, fanno ammalare.

Emissioni e complicità

Negli anni prima che intervenisse la magistratura, le emissioni erano quantificate nell’ordine delle migliaia di tonnellate. I rilievi relativi al 2010 parlano di   oltre 4mila tonnellate di polveri, 11 mila tonnellate di diossido di azoto, 11.300 tonnellate di anidride solforosa oltre a quantità variabili di metalli pesanti e diossine. Polveri respirate da persone con i balconi a pochi metri dal muro di cinta della fabbrica che durante i pasti avevano come panorama i camini fumiganti degli altiforni. Polveri che si mescolavano con l’aria che respiravano e con i cibi che inghiottivano procurando tumori in ogni parte del corpo.

Nell’agosto 2016 il Centro ambiente e salute, finanziato dalla regione Puglia, ha pubblicato

il rapporto conclusivo sulla morbosità e mortalità della popolazione residente a Taranto. Lo studio, condotto dal 1998 al 2014 su un totale di 321mila persone residenti nei comuni di Taranto, Massafra e Statte, ha accertato 36.580 decessi collegabili alle emissioni dell’ex Ilva. Del resto già lo studio epidemiologico commissionato dall’Istituto nazionale di sanità e pubblicato nel 2012, aveva accertato che, nei territori circostanti lo stabilimento Ilva, c’era un eccesso di tumori femminili del 20%; un eccesso di tumori maschili del 30% e, quel che è peggio, un aumento dell’incidenza di tumori infantili del 54% e un aumento della mortalità infantile dell’11% rispetto alla media regionale.

Si poteva evitare? Sembrerebbe di sì a giudicare dalle buone prassi attuate da altre acciaierie. Un esempio in tal senso viene dall’acciaieria di Linz in Austria, per molti versi comparabile a quella di Taranto: entrambe con la stessa capacità produttiva, entrambe con le stesse fasi produttive, entrambe a ridosso della città, entrambe gestite da privati. Quella di Taranto è stata trascinata in tribunale per disastro ambientale, quella di Linz è portata come esempio di compatibilità ambientale. E, alla fine, si scopre che, nel caso specifico della produzione di acciaio, le vere minacce per la salute e per l’ambiente sono avidità e negligenza, quest’ultima non solo da parte dei proprietari delle imprese, ma anche di chi ricopre ruoli istituzionali. Di sicuro a Taranto lo scempio si è compiuto con la complicità di molti: c’è chi ha inquinato, chi ha chiuso gli occhi, chi ha provato a nascondere la polvere sotto un tappeto ormai ridotto a brandelli, chi non ha deciso, chi ha scelto di non decidere, chi ha guardato solo agli interessi economici di breve termine. Per molti, troppi anni.

Passaggi di proprietà

La prima pietra dell’acciaieria di Taranto venne posata il 9 luglio 1960 da parte dell’Iri, cassaforte dello stato italiano, e partì subito male: per far posto allo stabilimento si estirparono migliaia di piante di olivo. Nel 1964, prima ancora che lo stabilimento fosse completato, l’ufficiale sanitario di Taranto, il medico Alessandro Leccese, aveva messo in guardia contro il possibile inquinamento da benzo(a)pirene, berillio, e molto altro. Ma ottenne solo ingiurie, isolamento e denunce da cui dovette difendersi in tribunale. Nel luglio 1971 la rivista «Taranto oggi domani» denunciò l’alto grado d’inquinamento atmosferico e marino, e localizzò nel quartiere Tamburi la massima concentrazione di sostanze velenose. In quel quartiere si svolsero molte inchieste, sollecitate dalla popolazione e dalle donne in particolare, che non ne potevano più della polvere nera che si infilava dappertutto. Tanto più che, negli anni a seguire, venne deciso il raddoppio della capacità produttiva. Scelta sciagurata non solo per la salute dei tarantini, ma anche per la stabilità finanziaria dello stabilimento, considerato che di lì a poco il mercato dell’acciaio avrebbe registrato una certa saturazione. Fatto sta che nel 1995 lo stato vendette lo stabilimento alla famiglia Riva che diede il colpo di grazia alla salute dei tarantini. Fra il 1997 e il 2003 molti lavoratori anziani sindacalizzati andarono in pensione, la fabbrica rimase senza vigilanza interna e la famiglia Riva ne approfittò per trascurare gli investimenti necessari al miglioramento ambientale e della sicurezza. E a dimostrazione delle sue responsabilità, in quegli stessi anni un’altra acciaieria, quella di Duisburg in Germania, investiva pesantemente per rispettare la normativa europea in materia ambientale che, nel frattempo, aveva cominciato a muovere i primi passi. Venivano interamente sostituiti i forni a coke, mentre l’intera lavorazione del carbone veniva allontanata dal centro abitato. Un’operazione che alla ThyssenKrupp costò circa ottocento milioni di euro, ma che mise in sicurezza cittadini e lavoratori. Così, mentre a Duisburg il problema del benzo(a)pirene – uno dei cancerogeni più temibili – veniva sostanzialmente risolto, a Taranto continuava a rimanere al di sopra dei limiti sanciti dalla legislazione europea. Complice la politica: nel 2010 Stefania Prestigiacomo, ministro dell’ambiente del governo Berlusconi, con un decreto legge, spostò dal 1999 al 2013 l’entrata in vigore del valore obiettivo di 1 ng/m3 (nanogrammi per metro cubo) per il benzo(a)pirene. Quanto alla regione Puglia, vietò il pascolo nelle zone contaminate ma non fece nulla per imporre all’azienda di ridurre le emissioni. Il toro per le corna venne infine preso dalla magistratura di Taranto che il 26 luglio 2012 ordinò il blocco della produzione e l’arresto di otto vertici aziendali tra cui Emilio Riva e il figlio Nicola. Ma il governo si mise di traverso e nel dicembre dello stesso anno emanò un decreto legge che autorizzava la prosecuzione della produzione. Così si mise in moto un braccio di ferro fra giudici e governo, una sorta di Kramer contro Kramer, dove la magistratura imponeva divieti a difesa della salute e il governo li smontava a difesa della produzione. Quanto alla famiglia Riva, vista la montagna di guai giudiziari accumulati, optò per il basso profilo e se da un parte accettò di consegnare, a parziale indennizzo, una parte del tesoretto che aveva rifugiato in Svizzera (1,2 miliardi), dall’altra dichiarò fallimento. Così lo stabilimento di Taranto passò sotto gestione commissariale con l’intento di proseguire la produzione nonostante le problematicità esistenti. Il tutto in attesa di trovare una realtà industriale disposta a rilevarlo. Nel 2017 la gara di assegnazione venne vinta da Arcelor Mittal che però di lì a poco si accorse di avere fatto male i conti, e nel novembre 2019, accampando come pretesto il mutato contesto legislativo, annunciava di voler recedere dal contratto. Di nuovo senza proprietario, attorno allo stabilimento si è riaperta la vecchia contesa: approfittare della vacanza gestionale per fermare tutto e mettere finalmente la città in sicurezza o trovare in fretta un nuovo proprietario per mandare avanti la produzione? In altre parole, privilegiare la salute o il lavoro?

ILVA © Fabio Duma

Prevenire, vigilare, rimediare

Il dilemma è talmente assurdo e scandaloso che va rifiutato. Il lavoro è un diritto perché serve per vivere, ma se porta morte che lavoro è? In altri termini non può esistere lavoro, se non esiste salute. Per cui è compito della Repubblica creare le condizioni affinché non si ponga mai, nel paese, questo tipo di contrapposizione. E deve farlo attraverso tre strategie: prevenire, vigilare, rimediare.

Prevenire significa vietare la produzione di beni dannosi sia per chi li produce che per chi li usa. Tipico l’esempio dell’amianto che ha provocato migliaia di casi di tumore al polmone, sia nei lavoratori che nei cittadini. Molti altri prodotti andrebbero rimessi in discussione. Valgano come esempio i pesticidi e le sementi geneticamente modificate di cui non conosciamo tutte le ripercussioni sugli ecosistemi, né gli effetti nel lungo periodo. È responsabilità di ogni collettività fissare il limite di rischio accettabile e, nel dubbio, utilizzare come criterio il principio di precauzione.
Vigilare significa verificare che le aziende attuino tutte le misure che servono per portare le emissioni legate ai cicli produttivi al di sotto del limite di dannosità per la collettività e garantire ai lavoratori condizioni di sicurezza. E non importa se ciò comporta un aumento dei prezzi finali. La salute e la tutela ambientale vanno considerati costi  da includere nei prezzi finali al pari dell’energia o delle materie prime. Se lo avessimo fatto da sempre, forse avremmo evitato un consumismo sgangherato che ha portato a fenomeni di grave degrado del pianeta.
Rimediare significa correggere le situazioni malsane, tutelando al tempo stesso la salute e i posti di lavoro. Ogni volta con strategie appropriate alla situazione. Rispetto a Taranto, per esempio, la prima domanda da porsi è se la produzione di acciaio va mantenuta o abbandonata tenendo conto della sostenibilità economica e ambientale del paese.

Lo stato e i lavoratori

Ci serve produrre acciaio? E in che quantità? Per farne cosa? A quale prezzo rispetto ai cambiamenti climatici? E se la conclusione dovesse essere affermativa, dovremmo comunque accettare che prima di fare ripartire la produzione, lo stabilimento sia rimesso a norma. Con spese a carico di chiunque lo rilevi. E se dovesse succedere che nessun privato si fa avanti, lo dovrebbe fare lo stato, nazionalizzando lo stabilimento. Il tutto senza fare subire contraccolpi alle maestranze che, durante il periodo di chiusura, dovrebbero comunque ricevere uno stipendio. Che non significa automaticamente una cassa integrazione in cambio di niente, ma in cambio di lavori socialmente utili. Se invece dovessimo giungere alla conclusione che lo stabilimento di Taranto non ci serve più, allora deve essere creata occupazione alternativa per tutti i lavoratori coinvolti. Nell’immediato, tramite il soddisfacimento dei bisogni ambientali e sociali, primo fra tutti la bonifica del territorio e dei corsi d’acqua. Più in prospettiva, tramite la produzione di beni e servizi che possono generare reddito utilizzando correttamente ciò che il territorio è in grado di mettere a disposizione sotto il profilo naturale, culturale, professionale. Con un forte ruolo da parte dello stato, che solo per motivi ideologici lo si vuole escluso dall’attività produttiva ed economica. Però, quando si dice stato, si dice comunità. È tempo che la comunità torni protagonista della propria economia.

Francesco Gesualdi

 




Il nostro cervello e il frigo intelligente

testo di Rosanna Novara Topino |


Siamo circondati e spesso sommersi da onde elettromagnetiche. Quasi sempre nell’indifferenza, anche per mancanza d’informazioni comprensibili e affidabili. Adesso arriva la tecnologia detta del 5G e l’«internet delle cose». Quali sono le conseguenze per l’ambiente e la salute? Siamo certi che questo futuro così pubblicizzato sia una rivoluzione positiva?

Salgo su un’auto che si guida da sola, per portarmi al lavoro in un’azienda 4.0 (nel mio reparto siamo solo quattro umani, tutti gli altri sono robot) e intanto mi arriva sullo smartphone un messaggio dal mio frigorifero intelligente, che mi comunica un suo certo vuoto interiore, a cui posso porre immediato rimedio ricorrendo all’app del mio ipermercato. Con essa posso scegliere i miei prodotti preferiti e concordare l’orario per l’arrivo del drone, che me li porterà direttamente sul terrazzo di casa. Sembra fantascienza, ma invece l’«internet delle cose» è già realtà, magari a livello di prototipo, come nel caso delle auto a guida da remoto.

La tecnologia 5G

L’espansione della tecnologia wireless (senza fili) 5G (5th Generation) per le telecomunicazioni – che consente l’«internet delle cose» – è attualmente in fase sperimentale in alcune smart city italiane come Milano, l’Aquila, Matera, Prato, Bari e Torino – quest’ultima è la prima città d’Italia con la rete live 5G Edge («Edge computing» è un sistema di elaborazione delle informazioni ai margini della rete servita, che riduce i tempi di latenza dei dati, permette risposte in tempo reale e risparmio di banda) con droni connessi, utilizzabili per il monitoraggio ambientale e la sicurezza dei cittadini. Questa tecnologia migliorerà enormemente anche la telemedicina. Peccato che quest’ultima potrebbe ritrovarsi a curare proprio le patologie eventualmente indotte dalle radiofrequenze su cui è basata la tecnologia 5G. Già, perché la sua sperimentazione è partita nelle suddette città e in un centinaio di comuni italiani minori verrà effettuata nei prossimi due anni, senza minimamente mettere in conto i possibili rischi per la salute umana e animale e per l’ambiente, non essendo stati coinvolti né il ministero della Salute, né quello dell’Ambiente. Ma che tecnologia è il 5G e a quali rischi possiamo andare incontro con la sua diffusione?

Le radiazioni e le frequenze

La tecnologia 5G, come le tecnologie wireless di grado inferiore, che l’hanno preceduta e che tuttora usiamo, impiega onde elettromagnetiche, in particolare onde radio, cioè onde non ionizzanti di frequenza di gran lunga superiore a quella delle tecnologie precedenti ed è caratterizzata da lunghezze d’onda millimetriche. In particolare le bande di frequenza utilizzate per il 5G sono inizialmente comprese in tre fasce da 700 MHz,  3,4-3,8 GHz, 26 GHz (in fisica l’Hz è l’unità di misura della frequenza; 1 Hz = un impulso al secondo; 1 MHz = 1.000.000 Hz e 1 GHz = 1 miliardo Hz) e successivamente verranno utilizzate bande comprese tra 24-25 e 86 GHz (secondo l’Agcom, Autorità per le garanzie nelle comunicazioni). Considerando le tecnologie 2G, 3G, 4G attualmente in uso (che non verranno sostituite, ma affiancate dal 5G), le loro frequenze vanno complessivamente da 800 a 2600 MHz.

Il fatto che per il 5G le radiofrequenze abbiano una lunghezza d’onda millimetrica implica che sono necessarie migliaia di stazioni radio base e un numero molto elevato di mini-antenne sul territorio, che permetteranno il collegamento tra loro di circa un milione di oggetti per chilometro quadrato, con una iperconnessione permanente e ubiquitaria e una velocità di trasferimento dati da 100 a 1.000 volte superiore, rispetto all’attuale. Per implementare l’iperconnessione, le società di telecomunicazioni (supportate dai governi) non si limiteranno all’uso di stazioni radio terrestri, ma nelle previsioni arriveranno ad utilizzare circa 20mila satelliti posizionati nella magnetosfera. L’obiettivo è quello di arrivare ad un cambiamento tecnologico su scala globale per avere case, imprese, autostrade, città di tipo «smart», cioè «intelligenti» e auto a guida autonoma. In Italia è prevista una copertura del 5G del 99,4% del territorio entro giugno 2023.

Studi e rapporti: a chi credere?

Cosa comporta tutto questo per la salute e per l’ambiente?

La risposta a questa domanda vede schierati su fronti opposti i sostenitori di questa tecnologia: da un lato solitamente fisici, informatici, ingegneri, matematici spesso legati alle società di telecomunicazione, e dall’altro medici e biologi che portano i risultati di almeno 10mila studi peer review (la procedura di selezione di articoli e progetti operata dalla comunità scientifica, ndr) i quali dimostrano effetti biologici avversi a seguito dell’esposizione a campi elettromagnetici (Cem).

La prima contestazione dei sanitari riguarda il limite, secondo loro troppo elevato, della potenza massima di trasmissione attestato in Italia sui 6 V/m (6 volt/metro misurati in una media di 6 minuti), limite stabilito dall’Icnirp (International Commission on Non-Ionizing Radiation Protection), un organismo non governativo, basato in Germania e riconosciuto dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), che si occupa di ricercare i possibili effetti nocivi sul corpo umano dell’esposizione a radiazioni non ionizzanti. Questo organismo ha elaborato linee guida, cioè delle raccomandazioni ai governi nazionali per l’adozione di limiti di esposizione per la protezione delle persone (pubblico e lavoratori). Sulla base di tali linee guida, nel 1999 l’Unione europea ha emanato una raccomandazione, affinché gli stati membri adottassero una normativa comune per la protezione del pubblico basata sui dettami dell’Icnirp e nel 2004 è seguita una direttiva per la protezione dei lavoratori. I medici contestano i valori limite dettati dall’Icnirp, perché ottenuti studiando gli effetti dei Cem su manichini riempiti di gel, i phantom, come modelli umani, senza considerare che tali modelli non possiedono le stesse proprietà dielettriche del corpo umano. Essi inoltre affermano che sono stati presi in considerazione unicamente gli effetti termici delle radiofrequenze, ma non quelli biologici, le cui conseguenze sono state dimostrate dagli studi sunnominati, che sono in parte epidemiologici ed in parte sperimentali.

Secondo il rapporto indipendente sui campi elettromagnetici e diffusione del 5G dell’Isde (International society of doctors for environment, l’Associazione dei medici per l’ambiente) pubblicato il 10 settembre 2019, la maggior parte degli studi che rassicurano sul rischio per la salute da esposizione a radiofrequenze, tra cui il progetto Interphone, sul quale si basano le posizioni dell’Oms, hanno ricevuto finanziamenti da soggetti privati, tra i quali i gestori della telefonia mobile. Per quanto riguarda l’Icnirp, la quale afferma che sotto i limiti da essa fissati per la protezione dalle radiazioni non ionizzanti non vi sono rischi per la salute umana, in un’inchiesta pubblicata il 16 gennaio 2019 da il Fatto Quotidiano si legge che diversi membri di questa commissione collaborano a vario titolo con le società di telecomunicazione e da quel settore ricevono compensi.

Le patologie indotte

Nel 2015 scienziati di 41 paesi hanno informato le Nazioni Unite e l’Oms che molti studi scientifici dimostrano che i campi elettromagnetici colpiscono gli organismi viventi a livelli anche molto più bassi rispetto a quelli indicati come sicuri dalla maggior parte delle linee guida internazionali e nazionali (già da 0,6 V/m). Oltre agli effetti termici da esposizione acuta, i Cem determinano effetti biologici da esposizione cronica. Tra i principali effetti biologici, indipendenti da quelli termici, ci sono i danni alla barriera ematoencefalica, con un aumento del rischio di malattie neurodegenerative come l’Alzheimer, l’infertilità soprattutto maschile (lesioni strutturali e funzionali del testicolo, alterazione dei parametri dello sperma e della sua concentrazione nell’epididimo), disturbi neuro-comportamentali, danni alle cellule neuronali, danni al feto e alterazioni del neuro-sviluppo, aumento dello stress ossidativo, danni al Dna, disturbi metabolici e del sistema endocrino, alterazioni del ritmo cardiaco. In particolare l’aumento dello stress ossidativo e i danni al Dna si traducono in un aumentato rischio di tumori. A seguito di esposizione prolungata a radiofrequenze è stato osservato l’aumento dei gliomi cerebrali soprattutto ipsilaterali, dei neurinomi acustici, dei linfomi, dei tumori del pancreas, del cuore e delle ghiandole surrenali.

Nel 2011, la Iarc (International agency for research on cancer) inserì le radiofrequenze in classe 2B (possibile cancerogeno), ma, alla luce delle nuove evidenze scientifiche di numerosi studi, tra cui quelli compiuti su modelli animali da due autorevoli e indipendenti gruppi di ricerca, l’Istituto Ramazzini in Italia e il National toxicology program negli Stati Uniti, essa ha deciso di rivedere la classificazione delle radiofrequenze, che potrebbero passare in classe 2A (probabile cancerogeno) o addirittura in classe 1A (cancerogeno certo).

Accade nelle nostre scuole

Diversi studi hanno evidenziato una particolare vulnerabilità alle radiofrequenze nei bambini e nelle donne in gravidanza. In particolare uno studio svedese di Hardell et al., 2013, ha dimostrato che l’uso del cellulare prima dei 20 anni porta a un rischio di glioma ipsilaterale quattro volte superiore, rispetto ai controlli. Questo dato è particolarmente importante, se si pensa che ormai bambini e adolescenti sono costantemente immersi nei campi elettromagnetici, che tutti insieme vanno a costituire l’elettrosmog. Non solo i bambini e ragazzi ormai dispongono quasi tutti di un cellulare, pc o tablet, ma passano parecchie ore delle loro giornate in scuole sempre più connesse, per le quali il cosiddetto «Bando Wi-Fi» del luglio 2015 ha stanziato un finanziamento di circa 90 milioni di euro per la realizzazione o il miglioramento delle reti wi-fi all’interno delle scuole del I e II ciclo d’istruzione. Purtroppo, nei bambini e nei ragazzi, la capacità di assorbimento delle radiofrequenze è superiore rispetto agli adulti a causa del maggiore contenuto di acqua dei loro tessuti e del minore spessore delle ossa craniche. Questo espone i ragazzi ad un maggiore rischio di contrarre patologie importanti come il cancro.

Del resto, si può immaginare il livello di esposizione in una classe dove siano contemporaneamente presenti 25-30 cellulari (liberalizzati dalla ex ministra all’Istruzione Fedeli, che ha sostenuto il Byod, Bring your own device, «Porta il tuo dispositivo», nell’ambito del progetto Buona scuola), alcuni pc o tablet, la lavagna elettronica (detta Lim) e la connessione wi-fi della scuola.

Nel 2017 l’Isde italiana (il suo sito: www.isde.it) ha chiesto una moratoria al governo, per interrompere la sperimentazione del 5G in atto, finché non si sappia qualcosa di più circa la sua pericolosità o innocuità. Tutti i dati scientifici a disposizione si riferiscono a frequenze di gran lunga inferiori a quelle utilizzate dal 5G e di fatto ci ritroviamo a fare da cavie umane in questa sperimentazione. Sarebbe perciò doveroso applicare il principio di precauzione ed evitare di esporre la popolazione a inutili rischi, in assenza di studi mirati.

Nell’agosto 2019 l’Istituto superiore di Sanità ha emesso il rapporto Istisan 19/11, nel quale gli autori, dopo avere escluso dalla loro analisi importanti studi sia epidemiologici, che sperimentali in modo del tutto arbitrario, con motivazioni errate come la mancanza di significatività statistica o pretestuose come la non ancora avvenuta pubblicazione su riviste peer review, sono giunti a conclusioni rassicuranti sugli effetti delle radiofrequenze e sull’utilizzo dei cellulari. Addirittura essi sostengono che, alla luce dei dati attuali, l’uso comune del cellulare non sia associato all’aumento del rischio di alcun tumore cerebrale, mantenendo un certo grado d’incertezza per un uso molto intenso soprattutto dei vecchi modelli di cellulare con maggiori potenze di emissione rispetto a quelli di ultima generazione. Anch’essi inoltre affermano di non potere fare previsioni sull’impatto del 5G sulla salute. Poiché il rapporto Istisan è stato stilato a seguito di un esame incompleto della letteratura scientifica, senza la valutazione delle più recenti evidenze sperimentali, per cui esso tiene in conto solo gli effetti termici delle radiofrequenze e non quelli biologici (in linea con l’Icnirp), l’Isde italiana ha chiesto il ritiro di questo documento all’Istituto superiore di Sanità ed una sua rielaborazione più ampia.

Ne vale la pena?

Il 2 ottobre 2019 è terminata l’asta per l’assegnazione delle frequenze 5G. Le offerte per le bande messe a disposizione hanno superato i 6,5 miliardi di euro, superando la cifra minima stabilita dalla legge di bilancio. Il 5G inizialmente funzionerà con elementi emittenti nella fascia 3,5-3,6 GHz e antenne phase array, cioè a «schiera in fase». Sarà necessaria l’installazione nelle aree urbane di moltissimi micro-ripetitori, con conseguente aumento della densità espositiva, poiché i molti palazzi e piante rappresentano un ostacolo alla trasmissione lineare (in teoria le piante non dovrebbero superare i 4 m di altezza, quindi potranno verificarsi generose potature, se non addirittura eliminazioni). Quando la tecnologia 5G sarà potenziata, ogni operatore dovrà installare stazioni base ogni 100 m in ogni area urbana del mondo e ricorrerà anche a satelliti in orbita, che emetteranno onde millimetriche a fasci focalizzati e orientabili, con una potenza effettiva irradiata di 5 milioni di watt. Secondo i meteorologi, tutto ciò potrebbe interferire pesantemente sulle previsioni dei gravi eventi atmosferici, con grande rischio per le popolazioni delle aree interessate.

Siamo sicuri che valga la pena di correre tutti questi rischi per avere case, auto, industrie, oggetti «intelligenti», che probabilmente renderanno noi sempre più stupidi? Ma soprattutto, tutto questo ci rende felici o schiavi della tecnologia imperante e di chi la controlla?

Rosanna Novara Topino




La nostra salute e quella del pianeta


Le abitudini alimentari di ciascuno di noi producono sempre due tipi di conseguenze: sulla salute del nostro corpo e su quella della terra. Quali sono i cibi più dannosi per la salute? Quali sono quelli a maggiore impatto ambientale? Esiste una dieta sostenibile? A queste domande cercheremo di dare una risposta con una serie di articoli.

Testo di Rosanna Novara Topino

Quando mangiamo, di solito ci preoccupiamo (tuttalpiù) di cosa ci indicherà la bilancia il giorno dopo o del rimprovero che potrebbe farci il nostro medico alla lettura dei risultati nel nostro prossimo esame del sangue, ma difficilmente pensiamo a quanto la produzione di ciò che mangiamo sia costata in termini ambientali (energia consumata, occupazione del suolo, sofferenza umana e animale) e di inquinamento del pianeta, ovvero di quanto la nostra dieta sia sostenibile.

La Fao – Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura – dice che una dieta può essere considerata «sostenibile» se risponde a tre requisiti: convenienza, alto potere nutrizionale, basso impatto ambientale.

Ormai da decenni (dagli anni Sessanta del secolo scorso) lo sviluppo economico, l’urbanizzazione e l’aumento del reddito procapite si accompagnano ad una trasformazione delle abitudini alimentari via via che i paesi si sviluppano. Si assiste cioè a uno spostamento verso un maggiore consumo di cibi ricchi di zuccheri raffinati e di grassi (anche se forniscono calorie «vuote», cioè alimenti privi di altro nutrimento oltre all’apporto calorico) e di prodotti a base di carne, latte e uova. Questa tendenza ha ripercussioni sia in termini di salute con un incremento a livello globale di patologie come il diabete di tipo 2 (che viene già considerato dall’Oms un’epidemia globale), le malattie cardiovascolari e alcune forme tumorali, che per quanto riguarda l’impatto sull’ambiente dell’allevamento e dello sfruttamento intensivo dei terreni agricoli.

Il peso (insostenibile) dell’allevamento

Secondo la Fao, la produzione globale di carne (riquadro a pag. 62) è destinata a più che raddoppiare, passando da 229 milioni di tonnellate nel periodo 1999-2001 a 465 milioni di tonnellate nel 2050, in linea con l’aumento della popolazione mondiale, che si prevede sarà di 9 miliardi di persone. Inoltre, si stima che la produzione di latte passerà da 580 a 1.043 milioni di tonnellate.

Già attualmente l’impronta ecologica della produzione zootecnica è altamente impattante e le analisi dei diversi sistemi produttivi alimentari dimostrano che, se permane l’attuale trend, nel 2050 le emissioni di gas serra relative a questo comparto produttivo saranno più elevate dell’80% rispetto ai livelli attuali, mentre aumenterà ancora la distruzione degli habitat naturali per fare spazio ai terreni agricoli. Sempre secondo la Fao, l’allevamento produce attualmente circa l’80% delle emissioni di gas serra dell’intero comparto agricolo e il 18%  del totale complessivo a livello mondiale. In pratica, questo settore risulta più impattante di quello dei trasporti. L’allevamento provoca il 9% delle emissioni totali di anidride carbonica (CO2, soprattutto a causa degli incendi di foreste per fare posto a pascoli), il 37% di quelle di metano (si forma nel rumine dei bovini ed è 23 volte più impattante della CO2) e, per via delle deiezioni, il 65% di quelle dell’ossido di azoto (296 volte più impattante della CO2). Anidride carbonica, metano e ossido di azoto sono i tre gas serra responsabili del riscaldamento globale. A tutto ciò si aggiunge il rilascio del 64% delle emissioni totali di ammoniaca, che causa le piogge acide e l’acidificazione degli ecosistemi.

L’allevamento è – inoltre – responsabile dell’uso del 70% dell’acqua consumata sulla terra (acqua impiegata nelle coltivazioni di prodotti usati nella zootecnia, per lo più su terreni irrigati, in aggiunta a quella necessaria ad abbeverare gli animali e a quella usata per pulire le stalle) e di buona parte del suo inquinamento. Sebbene non ci siano stime a livello mondiale, negli Stati Uniti si stima che l’allevamento comporti il 55% dell’erosione dei suoli, il 37% dell’uso totale dei pesticidi, il 50% dell’uso di antibiotici e un terzo del carico di azoto e di fosforo nell’acqua potabile. Inoltre il 10% delle specie minacciate perde il proprio habitat a causa dell’allevamento, che è quindi corresponsabile della perdita di biodiversità.

I costi del cibo per gli animali allevati

Gli animali d’allevamento sono «macchine» (così – purtroppo – sono considerati negli allevamenti) poco efficienti in termini di conversione di proteine vegetali in proteine animali, perché consumano molte più calorie vegetali, di quante ne producono sotto forma di carne, latte e uova. Per produrre una caloria di origine animale, ne vengono consumate circa 15 di origine vegetale, sotto forma di mangimi.

Per l’utilizzo zootecnico, negli Stati Uniti vengono impiegati il 70% degli alimenti vegetali (cereali e semi oleosi), in Europa il 55%, mentre in India solo il 2%. Gli allevamenti intensivi competono per il cibo con gli umani, considerando che il 50% dei cereali e il 75% della soia prodotti nel mondo vengono destinati agli animali allevati. Una persona con una dieta ad elevato consumo di carne attualmente necessita di circa 4.000 metri quadri di terreno per la produzione di foraggio e cereali per nutrire gli animali necessari, mentre per un vegetariano bastano 1.000 metri quadri. Attualmente si stima che siano disponibili circa 2.700 metri quadri di suolo coltivabile a testa a livello mondiale, ma per l’aumento della popolazione nel 2050 tale disponibilità pro capite sarà di 1.200-2.000 metri quadri.

Oltre all’impiego di almeno la metà dei suoli fertili dell’intero pianeta per la produzione di cereali, semi oleosi, proteaginose (colture industriali a elevato tenore proteico per la produzione di mangimi) e foraggi, poiché per produrre più carne è indispensabile puntare all’ottimizzazione delle rese agricole, l’allevamento industriale comporta un enorme uso di fertilizzanti, diserbanti e pesticidi. Negli Stati Uniti l’80% di tutti gli erbicidi viene impiegato nei campi di mais e di soia destinati all’alimentazione animale.

In Italia l’atrazina (erbicida) utilizzata nelle coltivazioni di mais e bandita 25 anni fa per la sua cancerogenicità è ancora presente nell’acqua del Po e si pensa che ci vorranno ancora parecchi anni per eliminarla. Nel bacino del Po sono contaminate le acque superficiali e buona parte di quelle sotterranee.

I costi della produzione della soia

In Sud America ci sono forse le conseguenze più gravi da allevamento intensivo. Qui, in soli tre paesi – Brasile, Paraguay e Argentina – viene prodotto il 95% della soia mondialmente esportata. Questa monocoltura è responsabile della deforestazione di una parte rilevante della foresta amazzonica sia per ricavarne terreni agricoli, sia per la costruzione di reti stradali per il trasporto del prodotto ai porti principali. Inoltre, poiché la soia coltivata in questi paesi è in buona parte Ogm, essa è responsabile del massiccio uso del Roundap (glifosato) della Monsanto, un pesticida probabilmente cancerogeno secondo l’«Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro»(Iarc). In particolare, a esso sarebbe associato il linfoma non-Hodgkin. I danni provocati da questo erbicida sono ingenti non solo per l’ambiente, ma anche per i contadini e per le loro famiglie, che si ammalano sempre di più, dal momento che lo spargimento sui campi avviene per mezzo di aerei. Un’altra conseguenza della monocoltura di soia è l’accaparramento del terreno da parte dei latifondisti, con l’esproprio (spesso tramite l’uso delle armi) delle popolazioni rurali, che sono costrette ad abbandonare la terra abitata da generazioni e ad andare ad aumentare il numero di presenze nelle periferie delle grandi città. Infine questa monocoltura comporta il massiccio uso di acqua fossile per irrigazione e provoca lisciviazione e progressiva desertificazione del terreno (fenomeno comune a ogni tipo di coltivazione intensiva in cui ci sia uso di grandi quantità di fertilizzanti e di irrigazioni con acqua di falda ricca di sali minerali). In Italia la soia viene utilizzata negli allevamenti (dopo la proibizione dell’uso delle farine animali, a seguito della crisi della «mucca pazza») e quella d’importazione dai paesi sudamericani (quindi prevalentemente Ogm) ammonta al 95% del totale.

Il consumo di energia fossile

Per quanto riguarda il consumo espresso in Kcal di energia fossile necessaria per la produzione di 1 Kcal di alimento, il rapporto più sfavorevole riguarda la carne di agnello con 57:1, seguito da quella di manzo con 40:1, 39:1 per le uova, 14:1 per il latte e la carne di suino, mentre per il grano il rapporto è di 2:2.

È evidente che è necessario ridurre i consumi di carne, sia per salvaguardare la nostra salute, che per un minore impatto ambientale, ma anche per salvaguardare la salute e i diritti di popolazioni, che vengono espropriate dei loro terreni e a cui viene impedito di coltivare piante per la loro sussistenza, nel rispetto della biodiversità, che invece va persa.

Per non parlare del fatto che è assolutamente sbagliato considerare gli animali come macchine per produrre cibo, prive di sensibilità e di consapevolezza di sé, infliggendo loro le peggiori sofferenze, quando ormai sono moltissimi gli studi di etologia che hanno dimostrato esattamente il contrario. Sono innumerevoli gli esempi di grande intelligenza e di sensibilità nel mondo animale, di cui comunque l’essere umano fa parte. Invece di avere pretese di superiorità sugli altri animali e trattarli come merci piuttosto che come esseri viventi, dovremmo prendere esempio dai grandi carnivori, che predano esclusivamente quando hanno fame, non sprecano nulla e solitamente si nutrono di animali per lo più già deperiti.

Rosanna Novara Topino
(fine prima parte – continua)

 

Approfondimento

Il consumo di carne

Negli ultimi vent’anni i consumi di carne hanno subito un incremento a livello globale e sono destinati a crescere in futuro. Probabilmente di molto, in considerazione del loro aumento nei paesi emergenti.

Basti ricordare che nel 2011, anno in cui la disponibilità mondiale di carne è stata di circa 300 milioni di tonnellate, poco meno della metà è stata utilizzata nel solo continente asiatico. Esistono però sostanziali differenze nei consumi tra le varie regioni del mondo. Sebbene i paesi asiatici siano i maggiori consumatori in volume di carne, tuttavia risultano tra quelli con il valore pro capite inferiore (pur se decisamente in crescita a partire dagli anni Ottanta). I paesi del Nord America presentano il consumo più alto rispetto a quello degli altri continenti. Qui il consumo pro capite è 4 volte quello medio africano. In Italia il consumo apparente, secondo i dati della Fao, è di 230 g di carne al giorno, mentre quello reale è di 110 g, per un totale annuo a testa di circa 40 Kg. La differenza tra consumo apparente e reale è dovuta agli scarti rispetto alla carne commestibile.

R.N.T.