Il buon sonno migliora la vita


Dormire è una necessità primaria, ma avere un sonno di qualità non è affatto facile. A disturbarlo ci sono i ritmi della società, vari inquinamenti, gli stili di vita personali e, infine, i veri e propri disturbi del sonno.

Trascorriamo a dormire un terzo della nostra esistenza. Eppure, in una società sempre più frenetica, tendiamo a considerare il sonno come un lusso, mentre, invece, è una necessità primaria tanto quanto il cibo e l’acqua. Il sonno, infatti, non è un semplice «spegnimento del cervello», utile a ricaricarci, ma uno stato di coscienza diverso dalla veglia durante il quale vengono svolte funzioni essenziali per la nostra esistenza.

Oggi sappiamo che, nel sonno, il sistema nervoso centrale svol-ge processi indispensabili al buon funzionamento cerebrale durante lo stato di veglia. Ne è conferma il fatto che, nel corso del sonno Rem (Rapid eye movement, fase del sonno distinta da quella non Rem), l’attività del cervello, misurata con l’elettroencefalogramma (Eeg), è simile a quella presente quando siamo svegli.

Pulizia, riordino, memoria

Da recenti studi di neuroscienze è emerso che, durante il sonno, il cervello compie un’importante operazione di pulizia e riordino, eliminando buona parte delle sinapsi (la giunzione tra due cellule nervose) neoformate durante la veglia.

Si tratta di «tagli» indispensabili al cervello per evitare che esso raggiunga la saturazione e per permettergli di imparare nuove cose. Questo meccanismo, conosciuto come ipotesi dell’omeostasi sinaptica, è molto selettivo e risparmia sempre più o meno il 20% delle sinapsi che racchiudono memorie importanti, le quali non devono essere eliminate. Un’altra fondamentale funzione, che si attua nel sonno, è quella dello smaltimento dei radicali liberi e di altre molecole potenzialmente tossiche formatesi durante la veglia. Tutto questo avviene grazie alla produzione di molecole come il glutatione in grado di contrastare lo stress ossidativo.

Il sonno Rem pare, inoltre, avere un ruolo determinante nella maturazione del sistema nervoso centrale poiché, durante questa fase del sonno, si svolgerebbe il processo di fissazione nella memoria a lungo termine dei dati appresi durante la veglia. Questo fatto è stato dimostrato in due modi: dall’osservazione di soggetti sottoposti a sessioni intensive di apprendimento, i quali hanno dimostrato un aumento significativo del sonno Rem, e dall’osservazione dei neonati, che presentano una percentuale maggiore di sonno Rem rispetto agli adulti e una maggiore capacità di apprendimento.

Infine, il sonno, soprattutto quello non Rem (NRem, in sigla), avrebbe una funzione di recupero e di ristoro dell’organismo, effettuando una riprogrammazione genetica dei comportamenti innati. Durante questa fase, inoltre, si modificano le funzioni di organi e di apparati diversi dal sistema nervoso centrale e tali modificazioni servono a mantenere l’omeostasi dei singoli sistemi.

Fasi e stadi del sonno

Si possono distinguere due «porte» del sonno: una porta principale, cioè un picco di minima vigilanza nelle ore notturne, in cui si tende ad addormentarsi con maggiore facilità, e una porta del sonno secondaria, presente nel primo pomeriggio, tra le 14 e le 16. Un ruolo importante nel bilanciamento sonno-veglia è dato da alcuni neurotrasmettitori secreti dai nuclei sopracitati, in particolare l’orexina attiva durante la veglia e l’adenosina durante il sonno.

Grazie all’uso dell’Eeg è stato osservato che il sonno è costituito da diversi stadi, che compaiono in una caratteristica sequenza. L’Eeg permette di registrare l’attività elettrica del cervello durante gli stati di veglia e di sonno, distinguendo tra onde beta (tipiche della veglia), theta, alfa e delta (tipiche dei diversi stadi del sonno), che si differenziano tra loro per l’ampiezza e la frequenza.

Dobbiamo distinguere tra il son-no NRem a onde lente e quello Rem (a onde veloci e rapidi movimenti oculari).

Come durante la veglia, nel son-no Rem prevalgono le onde beta a bassa ampiezza e frequenza elevata (15-30 Hz), mentre durante il sonno NRem prevalgono le onde alfa di media ampiezza e media frequenza (8-12 Hz). Il primo episodio di sonno Rem dura 20-30 minuti ed è seguito da circa un’ora di sonno NRem a onde lente. Nel corso della notte, gli episodi di sonno Rem tendono ad allungarsi, ma un ciclo di sonno Rem e di sonno NRem è sempre di 90 minuti. Un tipico sonno notturno di durata regolare, cioè di circa 7-8 ore, consta di 4 o 5 cicli di 90 minuti. Va detto che la durata del sonno varia solitamente con l’età, passando dalle 20 ore al giorno del neonato per arrivare a circa 6 ore dopo i 50 anni. Inoltre, la lunghezza del sonno Rem diminuisce gradualmente con l’età. Per quanto sia stato provato che la mancanza di sonno sporadica non comporta danni a lungo termine, tuttavia bisogna considerare che essa può alterare il nostro umore rendendoci nervosi, rallentare i nostri tempi di reazione e diminuire sia le nostre capacità mentali che fisiche. In particolare, poiché nel sonno si consolidano i ricordi delle esperienze fatte durante il giorno, la sua mancanza porta a una riduzione delle funzioni mnemoniche e cognitive.

Se dormire è un problema

Nel mondo occidentale, circa il 40% della popolazione presenta prima o poi qualche tipo di disturbo del sonno.

Le anomalie del sonno si fanno più frequenti con l’avanzare dell’età e colpiscono più le donne degli uomini. Le persone con disturbi del sonno presentano l’Eds (Episodi di sonnolenza diurna), che può essere la conseguenza della frammentazione del sonno notturno, dello sfasamento del ritmo circadiano (ovvero del cosiddetto «orologio biologico») o di problematiche a carico del sistema nervoso centrale come alcune patologie cerebrali o l’assunzione di farmaci, che ne influenzano l’attività. Poiché esiste un bilancio omeostatico nella funzione sonno-veglia, cioè un’influenza della qualità del sonno sulla qualità della veglia, e viceversa. Inoltre, sicuramente una riduzione o un’alterazione del sonno (per qualsiasi motivo) inducono sonnolenza durante la veglia, che si traduce in disattenzione, difficoltà mnestiche (cioè di formare, immagazzinare e rievocare informazioni) ed errori di prestazione. Tutto questo avviene per l’insorgenza, durante la veglia, di brevissimi episodi di sonno, detti microsonni, che durano da pochi secondi a qualche minuto, si presentano soprattutto di notte o nel primo pomeriggio e hanno una frequenza sempre maggiore in uno stato di pregressa privazione di sonno.

Si stima che la prevalenza della sonnolenza diurna (Eds) colpisca il 4-20% della popolazione generale e che sia in continuo aumento, a causa di stili di vita inappropriati per doveri familiari o questioni lavorative (prolungamento orario, cambi turno, stress correlato).

I primi sintomi della deprivazione di sonno sono il tremolio alle mani, l’abbassamento delle palpebre, la mancanza di attenzione, l’irritabilità, lo sguardo fisso o deviato, l’aumentata sensibilità al dolore e uno stato di malessere generale. Nei casi gravi si può arrivare a una psicosi con perdita di contatto con la realtà, confusione, disorientamento, delirio e allucinazioni (questi ultimi compaiono dopo una deprivazione ininterrotta di circa 60 ore).

I ritmi del sonno possono essere ridotti o allungati, ma questo non dipende totalmente dai desideri dell’individuo, bensì dal ritmo circadiano regolato dal nostro orologio biologico interno sincronizzato sull’alternanza luce-buio grazie a recettori sensibili alle variazioni di luce posizionati sullo strato esterno della retina, i quali inviano le informazioni all’ipotalamo che, in condizioni di riduzione della luce, stimola l’epifisi a produrre melatonina, l’ormone del sonno.

Colpi di sonno e incidenti

La comparsa di sonnolenza diurna o nel turno di lavoro notturno è una causa rilevante sia degli incidenti sul lavoro che di quelli stradali. Diversi studi hanno dimostrato che gli errori umani in operazioni tecniche e industriali o alla guida di veicoli sono prevalenti tra le ore 2 e le 7 e, in misura minore tra le 14 e le 17. Una ricerca ha dimostrato che la maggior parte dei disastri causati da errori umani si sono verificati in tarda notte.

Per quanto riguarda gli incidenti stradali, secondo un recente studio, il 7% di quelli che si verificano annualmente in Italia (pari a circa 175mila sinistri) sono causati da colpi di sonno e comportano circa 250 decessi e più di 12mila feriti, con conseguenti ricadute economiche sul Servizio sanitario nazionale.

Negli Stati Uniti, la National transportation safety board ha rilevato che il 58% degli incidenti nei quali è coinvolto un camion sono correlati ad affaticamento e stanchezza, e che il 17% dei camionisti sopravvissuti all’incidente ha ammesso di essersi addormentato al volante. Inoltre, il 47-60% dei camionisti ha riferito sonnolenza alla guida in almeno il 20% dei viaggi e il 50% di loro riduce il tempo di sonno nelle 24 ore precedenti il viaggio, rispetto al solito. Si è osservato che due ore di sonno in meno raddoppiano il rischio di incidenti e che i soggetti affetti da apnee del sonno hanno un rischio di incidenti stradali aumentato del 2-7% rispetto alla popolazione normale. Basta pensare che in un microsonno del guidatore di 3 secondi, un veicolo che viaggia a 100 km/h percorre circa 90-100 metri senza alcuna guida.

È evidente che sarebbe necessario mettere in atto adeguate strategie, tanto da parte dei singoli soggetti (come riposo adeguato, visite mediche, soste ristoratrici con un sonnellino di circa 20 minuti e l’assunzione di 150-200 ml di caffè, in caso di sentore di sonno alla guida), quanto da parte di coloro che gestiscono autostrade e strade (con la predisposizione di bande rumorose marginali) e da parte delle aziende costruttrici di veicoli (con sistemi di rilevamento del sonno anche sui veicoli di fascia inferiore e non solo su quelli di lusso). Inoltre, dovrebbero essere previste per legge delle pause durante l’orario di lavoro e sarebbe opportuno che la sede di lavoro sia il più possibile vicina al luogo di abitazione, per evitare viaggi in auto in condizione di stanchezza.

Inquinamento ambientale

È altresì necessario migliorare la qualità dell’ambiente, perché varie forme d’inquinamento possono ridurre la qualità e la durata del sonno. Tra queste sono responsabili di un suo peggioramento, l’inquinamento luminoso, quello da rumore e quello atmosferico. Quest’ultimo, in particolare, può causare l’irritazione respiratoria, l’infiammazione e lo stress ossidativo. Le polveri sottili, soprat-

tutto le PM2,5 e il biossido d’azoto (NO2), sono capaci di scatenare reazioni allergiche e fare peggiorare situazioni come l’asma e la broncopneumopatia cronica ostruttiva (Bpco), causando tosse e difficoltà di respirazione durante il sonno. Inoltre, l’inquinamento atmosferico può portare ad alterazioni nelle fasi del sonno, soprattutto diminuzione della fase Rem.

Rosanna Novara Topino

 

 




Africa, come va la lotta all’Hiv/Aids


Venticinque anni fa una storica conferenza sull’Aids di Durban, in Sudafrica, fece emergere le proporzioni dell’epidemia da Hiv in Africa. Oggi preoccupa la scelta dell’amministrazione Trump di congelare i fondi Usa destinati agli aiuti, inclusa la lotta all’Hiv/Aids.

Secondo il più recente rapporto di Unaids, l’agenzia Onu per la lotta all’Hiv/Aids, il 2023 è stato il primo anno in cui ci sono state più nuove infezioni fuori dall’Africa che al suo interno. Su 1,3 milioni di contagi, infatti, 640mila sono avvenuti in Africa e 660mila nel resto del mondo. La riduzione dei contagi nel continente è un traguardo notevole per l’area del mondo che è stata di gran lunga la più colpita dalla diffusione del virus: in Africa subsahariana sono avvenuti, infatti, circa il 70% degli oltre 42 milioni di decessi dall’inizio della pandemia da Hiv, cioè dagli anni Ottanta del secolo scorso a oggi.

L’anno con il numero più alto di morti è stato il 2004: due milioni di vittime nel mondo, di cui un milione e mezzo nella sola Africa. «Arrivai a Ikonda nel 2002, in piena crisi dell’Hiv/Aids», ricorda padre Sandro Nava, missionario della Consolata responsabile fino al 2019 del Consolata Ikonda Hospital e oggi dell’Allamano Makiungu Hospital, entrambi in Tanzania. «Trovai interi villaggi decimati: mi ricordo benissimo di un villaggio tra Ikonda e Makete dove tutti i giorni c’erano dei funerali. La tradizione prevede che si faccia il kiliyo, cioè la cerimonia funebre con i pianti rituali, e si condivida poi il cibo fra tutti i convenuti. La comunità fu costretta sospendere tutto: la gente che moriva era talmente tanta che era impossibile mantenere il rito».

 

La conferenza di Durban

Nel 2000 c’era stata a Durban, sulla costa orientale del Sudafrica, la XIII conferenza internazionale sull’Aids (spesso abbreviata in Aids 2000): si trattò di un evento storico, racconta@ in un Ted Talk del 2016 Stefano Vella, ex direttore del Dipartimento del farmaco e poi del Centro per la salute globale dell’Istituto superiore di Sanità e, all’epoca, presidente della International Aids society@, l’associazione con sede a Ginevra che organizza le conferenze. Fino a quell’anno, l’evento si era sempre svolto nei paesi del Nord globale, ma l’area del mondo in cui l’Aids stava facendo più vittime era di gran lunga l’Africa.

Anni Duemila, l’Africa travolta

Centre de Santé Notre Dame de la Consolata

Alla conferenza, ricorda Vella, si incontrarono migliaia di scienziati, medici, ricercatori, ma anche attivisti, pazienti, politici e un migliaio di giornalisti: il merito dell’evento fu quello di rompere il silenzio – come suggeriva il suo titolo, Breaking the silence – sulle enormi diseguaglian- ze fra il Nord e il Sud globale nell’accesso alla prevenzione, alla diagnosi e alle terapie.

La scelta del Sudafrica come nazione ospitante fu significativa: si trattava, infatti, del Paese più colpito al mondo con 3,6 milioni che avevano l’Hiv su 44 milioni di abitanti. Ci fu un accorato discorso conclusivo di Nelson Mandela, ex presidente del Sudafrica e figura chiave della lotta all’apartheid, che esortò tutti ad agire subito. I politici si mossero, spiega ancora Vella: un anno e mezzo dopo, nacque il Fondo globale per la lotta all’Aids, alla tubercolosi e alla malaria, che ad oggi ha speso 68 miliardi di dollari nella lotta alle tre malattie, 35 miliardi solo per l’Hiv@.

Inoltre, Aids 2000 diede un impulso fondamentale alla salute globale, grazie a un approccio che si fondava non solo del miglioramento della salute ma anche sulla riduzione delle diseguaglianze nell’accesso all’assistenza sanitaria.

Il Pepfar, acronimo per Piano d’emergenza del Presidente degli Stati Uniti per la lotta all’Aids (President’s emergency plan for Aids relief), fu lanciato dal presidente George Bush e dalla moglie Laura nel 2003. Sotto il suo coordinamento, diversi dipartimenti e agenzie governative Usa hanno investito finora oltre 110 miliardi di dollari grazie ai quali – si legge in una scheda@ dello scorso dicembre – 26 milioni di vite sono state salvate e 7,8 milioni di bambini hanno potuto nascere senza contrarre l’Hiv dalla madre. A settembre 2024, i pazienti che, grazie al Pepfar, ricevevano farmaci antiretrovirali – capaci di bloccare l’ingresso nella cellula e la replicazione del virus@ – erano 20,6 milioni, mentre i medici, infermieri e altro personale sanitario, i cui salari erano coperti dal programma presidenziale, erano 342mila.

I primi, difficili passi

«A Ikonda», dice ancora padre Nava, «grazie all’aiuto di alcuni donatori, nel 2004, aprimmo la clinica Hiv che, all’inizio, era tutta sulle nostre spalle. Ricordo che nel 2006 andai Monaco, in Germania, a visitare un’azienda che produceva le prime macchine per la conta dei Cd4», una proteina presente nel tipo di linfociti (globuli bianchi) che innescano la reazione del sistema immunitario alle sostanze estranee, come virus e batteri, e che vengono distrutti dall’Hiv. Contare i Cd4, dunque, dà una misura di quanto il sistema immunitario di un paziente sia «in difficoltà». «Il tecnico venne dalla Germania a Ikonda a installare la macchina e cominciammo così le prime conte dei Cd4.

Solo molto tempo dopo, il Governo sostenne l’installazione di attrezzature diagnostiche, come le macchine per misurare la carica virale, e iniziò anche a fornire farmaci. Nel frattempo, la clinica era giunta da avere quasi seimila persone registrate: ci aiutò molto il dottor Gerold Jäger, un dermatologo esperto di lebbra che aveva per questo una vasta conoscenza della sanità in Africa e che, una volta in pensione, venne con la moglie Elizabeth a lavorare per tre anni a Ikonda. Infine, arrivarono organizzazioni come Usaid», l’agenzia del Governo statunitense per lo sviluppo internazionale, uno degli enti che realizza il Pepfar, «a coprire i costi di una parte del personale della clinica Hiv che, per la quantità di pazienti, era di fatto un ospedale a sé».

«Quando alla prevenzione – racconta ancora padre Sandro -, cominciammo subito con la clinica mobile: andavamo nei villaggi con un generatore che alimentava un televisore, e mostravamo filmati per informare le persone su come evitare di contagiarsi». La provincia dove si trovava Ikonda, montana e senza attività produttive, era la più colpita del Paese: molti uomini migravano in altre regioni per cercare lavoro stagionale nelle piantagioni di tè, caffè o agave, e lì si infettavano; poi rientravano dalle loro mogli e le contagiavano. Le mogli, a loro volta, passavano l’infezione ad altri partner occasionali».

La situazione oggi e i tagli di Trump

Oggi, si legge nel rapporto 2024 di Unaids, dal titolo The urgency of now (L’urgenza di adesso), e nella scheda che mostra le statistiche globali@, le persone affette dall’Hiv sono 39,9 milioni. di cui 30,7 milioni hanno accesso alle terapie, mentre 9 milioni ne restano escluse. I decessi continuano a diminuire: da 2,1 milioni all’anno del 2004 sono scesi stabilmente sotto il milione nel 2014 e oggi sono circa 630mila, mentre le nuove infezioni – che negli anni peggiori, il 1995 e il 1996, erano state 3,3 milioni – sono ora due milioni in meno, una cifra che è comunque ancora tre volte sopra l’obiettivo di 370mila previsto per il 2025 dalla Stategia globale 2021 – 2026@ che mira a porre fine all’Aids entro il 2030.

Dal punto di vista dei farmaci, poi, ci sono stati diversi progressi: ad esempio, a settembre 2024 l’Organizzazione mondiale della sanità definiva «promettenti»@ i risultati nella prevenzione dell’Hiv di un farmaco antiretrovirale, il lenacapavir, che con due iniezioni l’anno impedirebbe al virus di replicarsi. Promettenti erano anche i risultati del lavoro dell’Unità di ricerca sulla terapia genica antivirale dell’Università del Witwatersrand, in Sudafrica, che applicava le tecnologie a mRna – su cui si basano alcuni dei vaccini contro il Covid – alla ricerca di un vaccino per l’Hiv. Lo studio, finanziato da Usaid con 45 milioni di dollari (più o meno il costo di 15 missili Patriot, ndr), è ora bloccato a causa della decisione@ del presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, di sospendere il lavoro dell’agenzia per valutare un suo eventuale smantellamento e l’attribuzione delle sue funzioni al dipartimento di Stato, l’omologo del nostro ministero degli Affari esteri@.

La ricerca non è il solo ambito che sta risentendo delle scelte di Trump: sul sito di Unaids, lo scorso febbraio, una scheda@ aiutava a farsi un’idea delle conseguenze che il blocco dei fondi produrrebbe in 39 Paesi che rappresentano il 71% di quelli finanziati dal Pepfar: in 35 di essi l’attuazione dei programmi di lotta all’Hiv si è interrotta, altri 14 Paesi riferiscono discontinuità nelle terapie salvavita, in dieci sono sospesi i test Hiv ai neonati esposti al virus e la profilassi preventiva per le giovani donne e le adolescenti. Inoltre, in nove Paesi la prevenzione della trasmissione da madre a figlio (Pmtct, nell’acronimo inglese) non funziona regolarmente, in quattro non è possibile fare i test Hiv a tutte le donne incinte e le neo madri e ci sono difficoltà a procurare e distribuire farmaci per l’Hiv; in due Paesi le scorte di medicinali sono descritte come «pericolosamente scarse».

Centre de Santé Notre Dame de la Consolata

Tagli al personale negli ospedali in Tanzania

«Da quando è arrivata la notizia dei tagli», scrivono gli attuali responsabili del Consolata Ikonda Hospital, i missionari della Consolata Marco Turra e Willam Mkalula, «i pazienti sono preoccupati. A nove persone dello staff è stato interrotto il contratto, e chi è rimasto cerca di rassicurare i pazienti. Con i farmaci e i test possiamo andare avanti qualche mese, ma per ora non ci è stato comunicato nulla sul futuro».

Gli iscritti al servizio della clinica Hiv dell’ospedale di Ikonda a febbraio erano 2.365. «Usaid assicura(va) farmaci, i test rapidi e quelli per misurare la carica virale», spiega padre Marco, «mentre i controlli su fegato e reni li fornisce l’ospedale, così come il cibo supplementare per alcuni pazienti». Lo screening si fa proponendo il test ai pazienti ritenuti più esposti o che hanno patologie compatibili con la sindrome da Hiv. C’è un servizio di counselling prima del test e, in caso di positività, una seconda sessione di counselling precede l’apertura della cartella clinica, cioè la presa in carico del paziente. «A quel punto interviene il medico, che prescrive altri esami e stabilisce la terapia. L’aderenza da parte dei pazienti oggi è molto alta: c’è chi tiene segreta la propria condizione, ma questo non porta all’abbandono».

La situazione non è molto diversa a Makiungu, quasi 800 chilometri più a nord di Ikonda, dove padre Sandro Nava, insieme alla dottoressa Manuela Buzzi, gestisce dal 2020 l’Allamano Makiungu hospital. «Alla clinica Hiv, lavoravano otto persone pagate da due fondazioni – la Elizabeth Glaser pediatric Aids foundation e la Benjamin William Mkapa foundation – finanziate da Usaid. Per tre mesi (da febbraio ad aprile 2025, ndr) le fondazioni non riceveranno soldi dagli Usa, perciò hanno licenziato o messo in aspettativa queste otto persone. Noi ne abbiamo assunte alcune, ma non possiamo farlo con tutte».

Quando padre Sandro arrivò a Makiungu, la clinica Hiv era già in funzione «ma aveva pochi pazienti. Potenziandola, i pazienti sono aumentati». Nel 2024, i test sono stati più di 8.000, 169 i risultati positivi. A ricevere cure e farmaci sono state 763 persone, di cui 33 bambini, mentre il programma di prevenzione della trasmissione da madre a figlio ha seguito 96 bambini.

«Il grosso dei pazienti frequenta la clinica ogni mese», dice ancora padre Sandro, «ma c’è anche chi viene ogni tre mesi o addirittura sei, magari perché vive lontano e il costo di un passaggio in moto per raggiungere l’ospedale è troppo elevato». Secondo i dati riportati dalla scheda Unaids, in Tanzania il 90% dei fondi per la lotta all’Aids viene dal Pepfar.

Kenya, ritirata anche l’ambulanza

«Qui c’è grande confusione», commenta preoccupato fratel Severino Mbae, missionario della Consolata incaricato del Wamba Catholic hospital della Diocesi di Maralal, nel nord del Kenya. «Ci aspettiamo di non poter più assistere oltre la metà dei pazienti che abbiamo in cura, che sono 146». Fratel Severino riferisce che, a causa della sospensione voluta dal governo Usa, si è interrotto il progetto di lotta all’Hiv Tujenge Jamii (dallo swahili: Costruiamo comunità) finanziato da Usaid, che garantiva – oltre ad assistenza tecnica, formazione del personale, sensibilizzazione dei pazienti e parte del materiale informatico – anche il salario di quattro persone: un medico, un responsabile del counselling per il test Hiv, un expert patient, cioè un sieropositivo che offre orientamento ad altri, e un incaricato per i giovani e gli adolescenti. «Wamba era una delle strutture sostenute dal progetto, grazie al quale avevamo anche un’ambulanza con cui fare le campagna contro l’Hiv e la tubercolosi, ma ora è stata ritirata».

Maraldallah e Neisu, farmaci scarsi

Il Centro di salute Notre Dame de la Consolata (Csndc) di Marandallah, nel nord della Costa d’Avorio, lavora da diversi anni con i fondi del Pepfar attraverso il ministero della Sanità e in collaborazione con l’Ong Santé espoir vie – Côte d’Ivoire (Sev-Ci). I pazienti sieropositivi in cura sono 294; nel 2024 sono stati fatti 4.800 test e i positivi sono risultati essere 18: un tasso di prevalenza dello 0,4%. I costi dei farmaci antiretrovirali, forniti dal sistema sanitario nazionale, sono stati finora coperti dal Pepfar, che – come in Tanzania – sostiene il 90% della spesa annuale in questo ambito.

«Lavorare con questi fondi ha diversi vantaggi», spiega padre Wema Duwange, che nel 2022 è succeduto a padre Alexander Likono nella gestione del centro. «Uno è quello di ricevere medicinali e sostegno sociale e psicologico per i pazienti. Inoltre, i fondi Usa garantiscono un salario a migliaia di persone in Africa e la formazione continua per tutti». La decisione di Trump ha avuto un effetto immediato, dice padre Wema: «Le medicine hanno iniziato a scarseggiare: tutto si è fermato in sole due settimane».

Interruzione nell’approvvigionamento dei farmaci si sono verificate anche a Neisu, in Repubblica democratica del Congo. «Ma non possiamo attribuirle con certezza ai tagli decisi dal governo Usa», dice Séraphine Nobikana, dottoressa direttrice dell’ospedale di Neisu. «Le difficoltà a trovare i farmaci sono frequenti nel nostro Paese», che da gennaio scorso ha visto aggravarsi la crisi nella zona orientale, dove i ribelli del M23 e le truppe regolari del Rwanda hanno occupato la città di Goma. Nel 2024 l’ospedale di Neisu ha seguito e curato 173 pazienti sieropositivi. I farmaci, riporta ancora Nobikana, li fornisce il sistema sanitario nazionale. La collaborazione con il governo statunitense viene gestita dal ministero della Sanità e per il biennio 2024/ 2025 avrebbe dovuto poter contare su 229 milioni di dollari@ per il Congo (il costo di due caccia F35, ndr).

Chiara Giovetti




Scienziate visionarie


Sono poco conosciute, ma molto importanti: le donne che nell’ultimo secolo hanno contribuito con i loro studi a rinnovare la scienza e, insieme, la società. Un libro ne presenta dieci, con le loro impostazioni «visionarie» e innovative.

L’interesse del pubblico verso le storie di donne scienziate cresce nel tempo, stimolato anche da diversi libri.

Per esempio, nel 2018 è uscito Scienziate nel tempo. Più di 100 biografie, volume curato da Sara Sesti e Liliana Moro.

Come sottolinea Adriana Giannini nella sua recensione del libro, «ci si rende subito conto che le scienziate selezionate […] oltre alle doti intellettuali fuori dall’ordinario, dovevano possedere una grande tenacia e sete di sapere per riuscire a evadere dal ruolo che la società prevedeva inesorabilmente per le donne che non volevano essere emarginate: occuparsi della famiglia o chiudersi in convento».

Molte di quelle donne hanno incontrato grossi ostacoli per realizzare i loro progetti, per farsi riconoscere e trovare spazio in un mondo dominato dal potere e dai pregiudizi maschili.

Tra il 2023 e il 2024 sono usciti altri tre titoli su donne scienziate, ciascuno dei quali presenta alcune figure femminili, scelte sulla base di specifiche caratteristiche: si sono occupate di scienze naturali, ambientali, mediche. Tutte con un approccio trans disciplinare, attento ai contesti sociali e alle relazioni interpersonali.

Tra «ribelli», «prime» e «visionarie», queste donne hanno introdotto nuovi modi di vedere, pensare e agire nel loro lavoro.

Visionarie

Ci soffermiamo qui sul libro di Cristina Mangia e Sabrina Presto, Scienziate visionarie, del 2024.

Le due autrici sono ricercatrici del Cnr (Consiglio nazionale delle ricerche) che da anni studiano questioni ambientali e di salute pubblica.

La scelta delle dieci figure è in sintonia con il vissuto professionale delle autrici, e con la loro riflessione sulla scienza come impresa collettiva, immersa in un tessuto sociale che condiziona le domande di ricerca, le metodologie di lavoro, gli obiettivi.

Il filo ideale che connette tra loro le studiose presentate nel volume è proprio la convinzione che la scienza debba smettere di essere percepita (e praticata) come lo studio neutrale e oggettivo di una realtà esterna. Deve essere invece riconosciuta come una pratica collettiva e intersoggettiva di esplorazione delle relazioni tra umanità e natura, dipendente dal contesto storico in cui è fatta, dai mezzi tecnici e, soprattutto, dagli obiettivi dell’indagine. Gli obiettivi, infatti, orientano le domande di ricerca, le quali, a loro volta, condizionano la raccolta e interpretazione dei dati che contribuiscono a costruire una visione del mondo per l’intera società.

Un aspetto comune delle studiose presentate è la loro «visionarietà»: la capacità di proporre delle trasformazioni sociali tali da proteggere la sicurezza ambientale, la giustizia e la pace.

Un altro elemento è l’impegno politico. Tutte sono state protagoniste di varie forme di contestazione del maschilismo (spesso razzista) che caratterizzava le leggi, le abitudini, le regole, i vincoli del loro tempo dominato dalla tecno-scienza. Tutte hanno fatto ricorso a metodologie empatiche e nonviolente per sovvertire quella forma insidiosa di patriarcato che impediva alle donne di esprimere le loro potenzialità, e ostacolava la loro attitudine a indagare il mondo naturale con l’obiettivo d’imparare, anziché di usarlo e dominarlo.

L’esigenza di trasformare il modo di pensare e praticare la scienza si è manifestata gradualmente, a partire da quando una minoranza della comunità scientifica (soprattutto femminile) ha fatto emergere la coscienza che la complessità del mondo non può essere esplorata dalle singole discipline separate tra loro, e che occorre far collaborare visioni diverse, non solo scientifiche ma trans disciplinari.

Relazione umanità natura

Le due autrici presentano per prima la figura di Donella Meadows (Usa, 1941-2001), che negli anni 70 del Novecento, insieme ai suoi colleghi, propose l’idea che la Terra sia un sistema complesso, interconnesso e, soprattutto, «finito», ossia con risorse limitate, e limitate capacità di ripristinare gli ecosistemi alterati dalle azioni umane.

Il libro I limiti alla crescita, di cui Meadows fu prima autrice, segnò uno spartiacque nella percezione della relazione tra umanità e natura, anche se alla nuova comprensione delle cose non seguì una sufficiente consapevolezza, né furono prese adeguate misure per ridimensionare l’impatto umano sul pianeta.

Seguono le presentazioni di altre scienziate: Alice Hamilton (Usa, 1869-1970) a partire dall’inizio del Novecento, esplorò per prima le conseguenze dei processi industriali e della produzione di sostanze tossiche sui lavoratori. Aprì la strada alla moderna medicina occupazionale.

Nello stesso periodo Sara Josephine Baker (Usa, 1873-1945) avviò una rivoluzione nella sanità pubblica, introducendo e applicando norme di igiene e prevenzione soprattutto con i bambini e le fasce di popolazione più disagiate.

Un altro esempio significativo della diversa prospettiva delle donne di fronte ai problemi è quello di Alice Stewart (Regno Unito, 1906-2002): mentre ingenti finanziamenti erano destinati a sviluppare prodotti industriali sempre nuovi, pochi fondi venivano assegnati alla medicina sociale, cioè all’indagine degli effetti dei nuovi prodotti sulla salute delle persone.

Fu Alice Stewart a scoprire gli effetti della tecnologia nucleare (dalle radiografie ai fallout delle esplosioni) e a denunciare i rischi dell’esposizione alle sostanze radioattive.

Anche la giapponese Katsuko Saruhashi (1920-2007) fu coinvolta nelle indagini sugli effetti delle radiazioni e ne denunciò le gravi patologie. Non esitò a mettere le sue competenze scientifiche al servizio di una intensa attività pubblica antinucleare, e a incoraggiare le giovani ad approfondire le conoscenze scientifiche a difesa di scelte politiche consapevoli.

La statunitense Rachel Carson (1907-1964), diventata famosa a livello mondiale non solo per i suoi studi, ma anche per le sue doti di scrittrice, ha avuto il merito di opporsi coraggiosamente alla potente industria chimica che, senza scrupoli e senza controlli, stava spargendo pesticidi nelle campagne e nei campi coltivati, con effetti devastanti su ambiente e salute.

Meno famosa, ma altrettanto combattiva, fu Beverly Paigen (1938-2020), anch’essa statunitense, ricercatrice impegnata nello studio di varie forme di cancro. Raccogliendo le segnalazioni di mamme residenti nella città di Niagara Falls a riguardo di malattie e malformazioni nei loro figli, rilevò la presenza di sostanze tossiche nell’area. Dopo anni ottenne di far riconoscere una grave contaminazione nei terreni della zona.

Le ricerche di Carson e Paigen furono ostacolate da scienziati, politici e industriali che screditarono il lavoro scientifico delle due studiose e le attaccarono personalmente in quanto donne.

Solo dopo molti anni, e grazie alla loro competenza e tenacia, furono approvate importanti leggi e create istituzioni nazionali a difesa dell’ambiente e della salute.

Delle altre studiose presentate nel libro, due in particolare, Wangari Maathai (1940-2011), keniana, prima donna africana a ricevere il Nobel per la pace, e Suzanne Simard, canadese, nata nel 1960, sono ricordate soprattutto per l’attenzione che hanno dedicato alle foreste.

Wangari, con il movimento di donne da lei fondato (il Green belt movement), promosse e realizzò la riforestazione di ampie aree del Kenya, recuperando alberi autoctoni e il ripristino di eco-agro-sistemi in grado di sviluppare una agricoltura di sussistenza per le comunità locali.

Suzanne, contrariata dall’abitudine dell’industria del legno di piantare monocolture di alberi e di utilizzare diserbanti chimici per tenere «pulite» le radure, incominciò a indagare se ci fossero delle relazioni, degli scambi di informazioni tra i singoli alberi. Grazie ai suoi studi scoprì che le foreste sono ecosistemi interconnessi, le cui radici, associate a reti di funghi, costituiscono una fittissima rete sotterranea, che sarebbe stata poi chiamata «wood wide web».

L’interpretazione che Simard fornì delle relazioni scoperte dentro l’ecosistema foresta era che tra le diverse forme di vita ci sia cooperazione e mutuo sostegno: una spiegazione che fu accolta con diffidenza e scetticismo dalla comunità accademica.

È lo stesso tipo di reazione che incontrò Lynn Margulis (1938-2011), biologa statunitense, quando propose che, all’interno di singole cellule, siano attive complesse forme di cooperazione tra i corpuscoli intracellulari.

Lo sguardo femminile delle due studiose avrebbe portato a una radicale reinterpretazione di molti scambi tra gli organismi, a tutti i livelli.

Foreste e cellule, e, in generale, tutti i viventi, non sono solo in competizione tra loro, ma elaborano anche raffinati dialoghi e strumenti di cooperazione, che in certi casi portano all’evoluzione di nuove forme di vita.

Al termine della carrellata di presentazioni viene ricordata l’unica scienziata italiana del gruppo, Laura Conti (1921-1993). Come ricordano le due autrici, fu «partigiana, medica, studiosa instancabile, politica, scrittrice, divulgatrice».

Laura Conti riuscì a intrecciare competenze scientifiche e impegni sociali, e a porre alla comunità scientifica domande cruciali sugli intrecci tra scienza, etica, democrazia e condizioni sociali. Domande che – come fanno notare le due autrici – sono ancora oggi di grande attualità.

Trasformare la scienza

La mancanza di fiducia nella capacità delle donne di contribuire allo sviluppo della scienza ha accompagnato tutto il Novecento, e ancora oggi molte studiose fanno fatica a entrare in gruppi di ricerca e farsi ascoltare. Sono portatrici di modi diversi di guardare il mondo, di affrontare i problemi, di svolgere le ricerche: le loro prospettive, quando riescono a farsi sentire, possono aprire la strada a nuove piste, offrire soluzioni innovative a problemi irrisolti.

Questo approccio all’idea di scienza, ormai presente da alcuni decenni a livello internazionale, viene individuato con il termine «scienza post normale» (Pns): propone una metodologia di indagine per affrontare problemi complessi e controversi, tipici dell’interfaccia tra scienza, politica e società, ed è parte di un interessante movimento di democratizzazione della scienza. Tuttavia, è condivisa finora da una componente minoritaria della comunità scientifica, ed è contrastata dalla crescente influenza dei poteri forti (economici, politici, finanziari) e dell’apparato industriale militare in favore della competitività e della guerra.

Elena Camino

Suggerimenti di lettura

  • Donella H. Meadows, Dennis L. Meadows, Jørgen Randers, I limiti alla crescita, Editoriale scientifica, Napoli 2023, pp. 252, 16 €.
  •  Laura Conti, Una lepre con la faccia di bambina, Fandango libri, Roma 2021, pp. 144, 13 €.
  •  Laura Conti, La condizione sperimentale, Fandango libri, Roma 2024, pp. 256, 17 €.
  •  Laura Conti, Discorso sulla caccia. Dove si parla anche di evoluzione, antropogenesi, anatomia femminile, agricoltura. Di coccolamenti durati milioni di anni. Di primati, gatte e lupi. Della dubbia compatibilità tra uomo e pianeta Terra. Di possibili catastrofi. E dei rischi di facili rimedi, Altreconomia, Milano 2023, pp. 144, 13 €.
  •  Laura Conti, Il tormento e lo scudo. Un compromesso contro le donne, Fandango libri, Roma 2023, pp. 272, 18 €.
  •  Laura Conti, Cecilia e le streghe, Fandango libri, Roma 2021, pp. 176, 16 €.
  •  Wangari Maathai, Solo il vento mi piegherà. La mia vita, la mia lotta, Sperling & Kupfer, Milano 2012, pp. 393, 17,50 €.

 




Disabilità e sviluppo, progressi insufficienti


Nel mondo, una persona ogni sei ha una disabilità significativa e i numeri sono in aumento a causa dell’invecchiamento della popolazione, delle pandemie, delle catastrofi naturali e delle guerre, mentre i progressi verso l’inclusione sono ancora insufficienti.

N el 2021, la principale causa di disabilità nel mondo sono stati i disturbi neurologici. Lo riportava lo scorso marzo l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) riferendo i risultati di uno studio@ pubblicato su The Lancet Neurology, autorevole rivista scientifica britannica, secondo il quale dal 1990 la quantità complessiva di disabilità, malattia e morte prematura causati da problemi neurologiche è aumentata del 18%.

Le prime dieci patologie neurologiche che hanno causato perdita di salute sono ictus, encefalopatia neonatale, emicrania, demenze, neuropatia diabetica, meningite, epilessia, complicazioni neurologiche dovute a parto prematuro, disturbi dello spettro autistico e tumori del sistema nervoso. Oltre otto su dieci dei decessi e della perdita di anni di salute per cause neurologiche si verificano nei Paesi a basso e medio reddito reddito dove il numero di professionisti di neurologia è 70 volte più basso che in quelli ad alto reddito.

Nel complesso, considerando anche patologie diverse da quelle neurologiche, la disabilità è diffusa nel 16% della popolazione mondiale. Una persona ogni sei, per un totale di 1,3 miliardi.

Concetto in evoluzione

La disabilità, si legge sul sito dell’Oms@, è un aspetto della condizione umana, una sua parte integrante. È anche un «concetto in evoluzione», chiarisce la Convenzione Onu del 2006 per i diritti delle persone con disabilità, ed è il risultato dell’interazione fra problemi di salute e fattori personali e ambientali, fra i quali atteggiamenti negativi, trasporti ed edifici pubblici inaccessibili e sostegno sociale limitato. Per questo l’equità sanitaria per le persone con disabilità – cioè il diritto di raggiungere il miglior stato di salute possibile per loro – è una priorità per lo sviluppo. La giornata internazionale delle persone con disabilità, che ricorre il 3 dicembre di ogni anno dal 1981, è nata per promuovere i diritti e il benessere di questo 16% dell’umanità e quest’anno ha come tema «Rafforzare la leadership delle persone con disabilità per un futuro inclusivo e sostenibile»@.

Gli obiettivi per lo sviluppo sostenibile (Sdg) rilevanti per la disabilità sono almeno cinque e riguardano l’istruzione, il lavoro, la riduzione delle diseguaglianze, gli insediamenti umani e il rafforzamento del partenariato mondiale per raggiungere gli obiettivi.

Tuttavia, Ulrika Modéer dell’agenzia Onu per lo sviluppo, Undp, e José Viera, della International disability alliance, constatavano nel 2023 sul blog di Undp@ che i progressi sono deboli sulla metà degli obiettivi, mentre su un altro 30% degli obiettivi si registrano regressi. Ad esempio, riferisce il rapporto 2024 sui progressi verso il raggiungimento degli Sdg, solo la metà delle scuole primarie e il 62% delle scuole secondarie hanno infrastrutture di base per studenti con disabilità; inoltre, se i dati mostrano maggiori tassi di violenza da parte del partner nei confronti di donne disabili, la mancanza di dati statistici precisi impedisce di definire le reali dimensioni del problema@.

Disabilità e ferite di guerra

Anche i conflitti armati hanno un ruolo significativo nel generare nuove disabilità. Solo per fare alcuni esempi limitati alle guerre in Ucraina e a Gaza: lo scorso maggio il sito Politico.eu riportava@ che, secondo il ministero per le politiche sociali ucraino, dopo l’invasione russa del febbraio 2022 le persone con disabilità nel paese erano aumentate di 300mila e oltre 20mila avevano subito amputazioni. Il ministero che si occupa dei veterani, inoltre, calcolava che il numero di questi e i membri delle loro famiglie che potrebbero avere bisogno di assistenza a causa dei traumi fisici o psicologici arriverebbe a 5 milioni.

Anche a Gaza la guerra ha causato moltissime lesioni traumatiche: usando i dati raccolti e condivisi dai medici di emergenza dal 10 gennaio al 16 maggio 2024, l’Oms ha stimato@ il numero di lesioni gravi e calcolato che circa un quarto dei 95.500 feriti trattati – ovvero circa 22.500 persone – ha probabilmente bisogno di riabilitazione intensa e continua. Le lesioni agli arti sono quelle più numerose (15mila casi) e si stimano anche fra le 3mila e le 4mila amputazioni, oltre 2mila gravi lesioni alla testa e al midollo spinale e altrettante ustioni gravi.

Il conflitto armato non solo genera nuove disabilità, ma colpisce in modo più grave chi ne ha già una. Un rapporto@ sulla situazione a Gaza pubblicato a settembre di quest’anno da Human rights watch, Ong internazionale per la difesa dei diritti umani, riporta che 98mila bambini di Gaza vivevano con una disabilità già prima dell’inizio della guerra e racconta le storie di alcuni di loro. Ad esempio, quella di Ghazal, una quattordicenne con paralisi cerebrale, che ha dovuto fuggire con la sua famiglia dal Nord al Sud di Gaza senza i suoi dispositivi di assistenza, distrutti in un attacco che aveva colpito la sua casa. A inizio maggio, Ghazal era sfollata in una tenda a Rafah, senza accesso adeguato all’acqua, al cibo e ai servizi igienici e senza la possibilità di andare a scuola e alle sedute di fisioterapia.

Disabilità e clima

Anche il cambiamento climatico ha il doppio effetto di causare incidenti e ferite che possono provocare una disabilità e di peggiorare la vita di chi già ci convive. L’ufficio Onu per la riduzione del rischio di disastri (Undrr, nell’acronimo inglese) ha realizzato l’anno scorso un sondaggio@ che ha prodotto un totale di 6.342 risposte da 132 Paesi. Dal rapporto che commenta i risultati del sondaggio emerge che oltre otto persone con disabilità su dieci non hanno un piano di preparazione personale per i disastri e una su dieci non ha nessuno che la aiuti a evacuare. Solo un quarto degli intervistati ha detto che sarebbe in grado di evacuare immediatamente in caso di un disastro improvviso e solo il 15% ha partecipato alla definizione dei piani e delle strategie con cui la propria comunità organizza la risposta alle emergenze.

Nel sesto rapporto di valutazione dell’Ipcc, il Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico dell’Onu, poi, si prevede che il cambiamento climatico causerà una diminuzione del contenuto di micro e macro nutrienti negli alimenti. Questo farà aumentare malattie infettive, diarrea e anemia, portando entro il 2050 un incremento stimato del 10% degli anni di vita condizionati da disabilità (Disability-adjusted life years, o Daly, vedi box) associati a denutrizione e carenze di micronutrienti.

Il lavoro nelle missioni

Nella Repubblica democratica del Congo, la perdita di anni in salute ha come prime quattro cause le infezioni respiratorie e la tubercolosi, la malaria e altre malattie tropicali trascurate, le patologie che riguardano la salute materna e neonatale e le malattie dell’apparato cardiovascolare@.

«Qui in ospedale noi rileviamo innanzitutto le malformazioni congenite», spiega la dottoressa Séraphine Nobikana, medica direttrice dell’ospedale Notre Dame de la Consolata di Neisu, gestito dai missionari della Consolata nel Nord della Repubblica democratica del Congo. «Altre cause di disabilità sono poi poliomielite, benché l’Oms l’abbia dichiarata eradicata, la meningite e le conseguenze di incidenti stradali o sul lavoro, ad esempio le cadute da 10-15 metri di altezza dei lavoratori che raccolgono i frutti delle palme da olio». Alle persone con disabilità vengono forniti sostegno nutrizionale e farmaci, completa il responsabile dell’ospedale Ivo Lazzaroni, ma non ci sono attività specifiche rivolte a loro, diversamente da quanto accade al centro Gajen di Isiro, capoluogo della regione distante circa 30 chilometri da Neisu. «Qui le attività con le persone con disabilità sono iniziate circa vent’anni fa», conferma fratel Rombaut Ngaba Ndala, che dal 2023 ha affiancato fratel Domenico Bugatti, presente a Isiro dalla fine degli anni Novanta (cfr MC gennaio 2022). Una delle attività è la costruzione di sedie a rotelle, che avviene nel laboratorio del centro. Vi sono poi attività sanitarie e di lotta alla malnutrizione che permettono ad esempio a persone con epilessia – tredici nel primo semestre di quest’anno – di ricevere farmaci e assistenza nutrizionale.

Assistenza alle anziane

Anche in Kenya e Tanzania ci sono attività rivolte in modo specifico alle persone disabili.

A Sagana, in Kenya, i missionari della Consolata gestiscono il villaggio Saint Mary’s, una casa protetta per donne anziane. Il lavoro, spiega la responsabile dell’ufficio progetti in Kenya, Naomi Mwingi, è iniziato nel 1974 con quattrodici donne, e oggi le persone ospitate sono trentotto, di cui tre non vedenti e sedici con difficoltà motorie per le quali sono necessarie sedie a rotelle e deambulatori, mentre diciannove camminano se assistite dal personale. La più anziana ha 94 anni e la maggioranza ha problemi di salute mentale.

Produzione di protesi

L’ospedale di Ikonda, in Tanzania, dal 2016 ha un laboratorio che produce protesi per pazienti che hanno subito amputazioni: fra il 2021 e il 2023 ha prodotto un totale di 149 protesi per le gambe, di cui 116 per pazienti che hanno subito amputazioni sotto il ginocchio e 33 sopra il ginocchio.

Produce, inoltre, altre protesi, ad esempio per piedi, ortesi (tutori), stecche, stampelle e altri ausili, per adulti e bambini. «Nel nostro ospedale», scrive da Ikonda il responsabile padre Marco Turra, «il servizio di assistenza protesica interviene ad aiutare soprattutto le persone che hanno acquisito una disabilità a causa di traumi o malattie croniche come il diabete. Sono in media una cinquantina le persone che si rivolgono a noi ogni anno con questo tipo di richiesta».

Chiara Giovetti

COME SI MISURA LA PERDITA DI SALUTE

Lo studio Global burden of diseases, injuries, and risk factors (Gbd) è il più grande e dettagliato sforzo scientifico mai condotto per quantificare i livelli e le tendenze della salute. Guidato dall’Institute for health metrics and evaluation (Ihme) dell’Università di Washington, negli Stati Uniti, conta adesso oltre 12mila ricercatori provenienti da più di 160 paesi e territori. È nato nel 1990 come studio commissionato dalla Banca mondiale e la sua più recente edizione (2021) analizza dati e fornisce stime su 371 patologie e ferite e 88 fattori di rischio.I Disability-adjusted life years (Daly) sono gli anni di vita condizionati dalla disabilità: sono stati introdotti proprio dallo studio Gbd del 1990 per definire meglio il peso della malattia, perché la comunità scientifica riteneva che la mortalità da sola non fosse sufficiente per fornire un quadro completo. Un Daly rappresenta la perdita dell’equivalente di un anno di salute piena e si ottiene sommando gli anni di vita persi (Years of life lost, Yll) per morte prematura e gli anni di vita in salute persi per disabilità o per condizioni di salute non ottimali (Years of healthy life lost due to disability, Yld). Secondo il più recente studio Gbd la prima causa di perdita di salute a livello globale sono le malattie cardiovascolari: gli anni di vita corretti per disabilità di cui sono responsabili queste patologie sono 5.428 ogni 100mila abitanti.

Chi.Gio.

Fonti:
Ihme / Gbd: www.healthdata.org/research-analysis/about-gbd/history
Oms: www.who.int/data/gho/indicator-metadata-registry/imr-details/158




Noi e voi, dialogo lettori e missionari


Una nuova Tac per Ikonda

Caspita, 316mila euro non sono noccioline. Anche se, per chi sfreccia con i bolidi di «Formula uno», o chi batte e ribatte le palline gialle da tennis, o chi rincorre il variopinto pallone da calcio, 316mila euro sono quasi quisquilie. Ma quisquilie non sono né noccioline per il Consolata hospital Ikonda in Tanzania.

L’ospedale conta 404 posti letto, sei sale operatorie e cura le principali patologie con la presenza di 349 persone: medici, farmacisti, infermieri, tecnici di laboratorio, addetti alle pulizie, ecc. Gli ammalati provengono soprattutto da Morogoro, Iringa, Njombe, Songea, Mbeya, Rukwa, Katavi, ma qualcuno viene anche da più lontano, persino dall’isola di Zanzibar. I bambini del distretto di Makete fino ai 10 anni vengono curati gratuitamente, mentre i pazienti Hiv ricevono alcune prestazioni gratuite, così come le partorienti del distretto.

Il centro sanitario è dei Missionari della Consolata. Fu costruito nel 1962, e successivamente ampliato. Venne inaugurato ufficialmente un anno dopo l’indipendenza del Tanzania con Julius Nyerere presidente, il quale affermava: «I nemici del nostro paese sono la povertà, l’ignoranza e la malattia».

Il Consolata hospital Ikonda affrontò subito «il nemico» malattia.

L’ospedale sorge fra le montagne dell’Ukinga a 2.050 metri di altitudine. Dista circa 800 chilometri da Dar Es Salaam, la capitale del Tanzania. Fino a tre anni fa, gli ultimi 90 chilometri da Njombe a Ikonda erano in terra battuta, una salita scivolosa durante le piogge, rasente precipizi. Oggi da Mbeya giunge ogni giorno un autobus stracolmo di ammalati: affronta nebbie fitte, pantani traditori, pietre massacranti, buche da sprofondare. Il tutto per 7-8 ore, se non capitano guasti meccanici.

Quante volte i missionari della Consolata si sono detti: «Ah, se avessimo costruito l’ospedale altrove, i pazienti l’avrebbero raggiunto più facilmente, e la gestione sarebbe stata più economica». Già. Ma non sarebbe stato l’ospedale dei poveri di Ikonda e dintorni, sferzati dal vento e dal freddo, tagliati fuori dal mondo. È vero, tuttavia, che la lontananza da insediamenti urbani rende più costosa la conduzione della struttura. Alcuni medici e tecnici di laboratorio, dopo aver acquisito una buona esperienza, abbadonano Ikonda; sono attratti da una vita più agiata altrove. L’ospedale cerca di fronteggiare l’esodo con stipendi migliori, mentre investe sulla specializzazione di medici locali in radiologia, medicina interna e medicina d’urgenza. Così è nata pure l’Unità di emergenza.

Un aiuto significativo è la presenza di medici stranieri: italiani, soprattutto, ma anche spagnoli e di altre nazionalità. Sono volontari che si pagano persino il viaggio. Frequentano Ikonda nonostante due «tristezze». La prima tristezza è la povertà di molte persone che non hanno denari per una degenza in ospedale. Seconda tristezza: non raramente i pazienti arrivano «fuori tempo massimo», quando non c’è più nulla da fare.

Ma proprio per tali tristezze i medici volontari ritornano, perché hanno il Tanzania nel cuore. «Tanzania nel Cuore» è anche un’associazione di medici italiani, animati da solidarietà e generosità.

La strumentazione del Consolata hospital Ikonda è apprezzabile. Da anni opera la Risonanza magnetica, mentre dal 2014 è in funzione la Tac, benemerita ma oggi obsoleta. Non si trovano più i pezzi di ricambio. Di qui l’urgenza di un nuovo impianto.

Ed eccola la nuova Tac, fiammante e moderna. L’inaugurazione è avvenuta il 20 settembre 2024 con la presenza dei missionari della Consolata, del direttivo dell’ospedale, del dottor Gian Paolo Zara (di «Tanzania nel Cuore») e del Nunzio apostolico, l’arcivescovo Angelo Accattino (foto qui sotto).

La presenza del Nunzio non è stata una formalità, bensì la testimonianza che i 316mila euro, per acquistare la Tac sono un dono della Conferenza episcopale italiana: euro raccolti attraverso l’8 per mille degli italiani. Ebbene, manciate e manciate di «noccioline» di tante persone, divenute «un ricco raccolto». Perché l’unione fa la forza.

Dante Alighieri direbbe: «Poca favilla gran fiamma seconda». E Gesù: «Il minuscolo granello di senapa diventa un albero imponente».

Grazie, vescovi e amici italiani, della vostra straordinaria generosità.

padre Francesco Bernardi,
Torino 27/09/2024


A proposito di IA

Ho letto con interesse l’articolo di Chiara Giovetti sull’intelligenza artificiale (IA) pubblicato nel numero di ottobre 2024.

Vi sono molte considerazioni importanti, tra le quali in particolare ho colto la domanda se l’intelligenza artificiale ci aiuterà a trovare soluzioni o se sarà parte dei problemi che si vogliono affrontare.

Resta per me, comunque, un argomento di fondo, non affrontato nell’articolo, il fatto che la cosiddetta «intelligenza» artificiale non è in effetti «intelligenza», ma una serie di algoritmi e istruzioni date alle macchine per conferire loro capacità di analizzare enormi quantità di dati per elaborare documenti (testi, tabelle, progetti, immagini e altro) in tempi brevissimi, a partire da questi dati e da domande poste dagli utenti in modo discorsivo. E fin qui mi è chiaro e l’ho provato anche personalmente.

Ma per far sì che le macchine facciano queste elaborazioni è necessario che abbiano a disposizione i dati necessari.

Mi sono soffermato quindi sulla lista ricavata dall’Unione internazionale delle telecomunicazioni, che include servizi di telemedicina, ottimizzazione dell’uso dell’acqua in agricoltura, riduzione della corruzione negli appalti pubblici, miglioramento della salute e del benessere degli animali in allevamenti, prevenzione di incendi e altro.

Per nessuno di questi esempi nell’articolo si spiega «come» possano essere ottenuti questi risultati.

Riesco da una parte ad immaginare come l’intelligenza artificiale possa essere d’aiuto ad esempio nel caso specifico della telemedicina, dove l’analisi di enormi quantità di cartelle cliniche e/o immagini radiologiche raccolte per tanti anni in tanti archivi medici del mondo certamente può dare informazioni importanti e in tempo immediato e, laddove una ricerca senza intelligenza artificiale richiederebbe tempi lunghi incompatibili con le esigenze di intervento sanitario.

Ma in nessuno degli altri casi portati ad esempio mi pare che si possa fare a meno di dati rilevati in tempo reale, con strumenti anche tecnologicamente avanzati e anche collegati direttamente alle macchine di «intelligenza» artificiale che li possano elaborare, e non a partire da dati storici, per quanto ampi e dettaglianti possano essere.

Tantomeno in casi che riguardano comportamenti umani, come l’esempio della corruzione in appalti pubblici.

Non sono un addetto ai lavori, quindi queste mie osservazioni possono forse essere inadeguate o addirittura fuori luogo.

Ma avendo letto questo articolo in una rivista come Missioni Consolata, che si rivolge a un pubblico come me non preparato su questi argomenti, mi sarei aspettato qualche spiegazione su «come» possa funzionare l’intelligenza artificiale, per non lasciare l’impressione che sia soltanto un business nelle mani di pochi soggetti che sostengono di migliorare il mondo, ma senza far capire come e con quale attendibilità intendano farlo.

Sarei quindi molto grato se fosse possibile avere qualche spiegazione in merito.

Resto in attesa e ringrazio.

Filippo Pongiglione
03/10/2024

 

Le domande del lettore sono molto interessanti, ma se non ho approfondito i punti che lui fa presenti è solo per mancanza di spazio.

In realtà, non ho fornito più informazioni su che cos’è l’intelligenza artificiale perché sul numero precedente della rivista c’era a pagina 11 un box di Paolo Moiola dal titolo: «IA, di che cosa parliamo». Includere un rimando a quello sarebbe stato in effetti una buona idea.

Quanto ai casi d’uso dell’Unione internazionale delle telecomunicazioni@, fornisco la traduzione e sintesi di alcuni passaggi del rapporto che possono aiutare a capire meglio.

Sul benessere degli animali negli allevamenti in Rwanda.
Posizionando strategicamente negli allevamenti dei sensori per monitorare parametri ambientali chiave come temperatura, umidità e livelli di gas di ammoniaca, oltre a catturare i suoni dei polli, gli allevatori possono adottare misure basate sulle previsioni ricavate dai dati per proteggere la salute e il benessere degli animali, facilitando inoltre il rilevamento precoce di potenziali problemi.

Sulla lotta alla corruzione in Tanzania. Le soluzioni attuali, basate principalmente sui tradizionali meccanismi legali e di audit, faticano a far fronte alla portata e alla complessità delle pratiche corrotte. Il sistema di IA proposto […] dovrebbe elaborare i dati sugli appalti, inclusi documenti di gara, valutazioni e casi di corruzione, per rilevare irregolarità e assegnare una percentuale di probabilità di corruzione […]. Offrire uno strumento anticipatorio consente al Prevention and combating of corruption bureau (Pccb) di adottare misure preventive contro le attività corrotte, migliorando così la trasparenza e garantendo la conformità durante tutto il ciclo di vita degli appalti. […] I vantaggi di questo approccio riguardano il potenziale per il rilevamento della corruzione in tempo reale, l’analisi automatizzata dei documenti e una migliore allocazione delle risorse investigative. Gli svantaggi riguardano invece la difficoltà nella raccolta dati iniziale, possibili pregiudizi nei modelli di intelligenza artificiale e la necessità di competenze tecniche continue e aggiornate.

Sulla prevenzione degli incendi in Malaysia. Il Fire weather index (Fwi), o Indice meteorologico di pericolo d’incendio, è utilizzato in tutto il mondo per stimare il pericolo di incendi@. Nel caso d’uso della Malaysia, invece di usare i dati su temperatura e piogge, come fa il modello esistente, si stima il Fwi – in particolare uno dei sotto indici che lo compongono, il drought code (Dc, indice di siccità) – usando i dati raccolti da strumenti dell’«Internet delle cose» (come sensori, stazioni meteo) su un altro parametro, il livello delle acque sotterranee (Ground water level, Gwl), per poi elaborare i dati attraverso l’apprendimento automatico (machine learning, cioè quella branca dell’intelligenza artificiale in cui – con tutte le virgolette che abbiamo a disposizione – le macchine imparano dalla loro stessa esperienza). Il risultato mostra una correlazione molto alta con i dati osservati dal sistema meteorologico nazionale, rivelandosi quindi piuttosto accurato.

Lieta, comunque, di ricevere domande così circostanziate e stimolanti, che danno anche a me una bella occasione per approfondire ancora.

Chiara Giovetti
07/10/2024


Pdre Fernando Paladini a Pawa, Isiro, allora Zaire, gennaio 1983 (Gigi Anataloni)

Ad-dio, padre Fernando Paladini

Non dimenticate mai
di salutare bene le persone.
Non fatevi travolgere dal tempo che inghiotte ogni relazione.
Ho lasciato che succedesse a me,
e non dovrà capitare più.

Io e padre Fernando Paladini ci conoscevamo da 34 anni: avevo 14 anni ed è stato il primo dei tanti missionari che ho incontrato nella mia vita. Quello che ha acceso il fuoco della missione nel cuore di una ragazza che cercava un senso per la sua vita.

Ci siamo scritti a lungo quando era in Congo, quando ancora non c’erano i cellulari o whatsapp e si usavano la carta e la penna. Ogni sua lettera era una festa per me: odorava di Africa, aveva l’ennesimo francobollo per la collezione del mio caro papà. Poi, è rientrato in Italia. E io intanto crescevo e mi alimentavo di sogni e di amore per l’umanità. Persone speciali come lui hanno contribuito a farmi diventare quella che sono, mi hanno dato le ali per volare al di sopra di tutto ciò che, di fronte alla povertà e alla passione, diventava sempre più piccolo. Grazie a lui e a chi credeva fortemente in Dio e nei grandi ideali, ho trovato sempre più la mia strada, dove non sono mai stata sola.

Padre Fernando mi chiamava ogni anno il 10 dicembre, per farmi gli auguri per l’onomastico. Non si ricordava quasi nessuno della Madonna di Loreto, ma la sua telefonata arrivava puntuale e fedele come un regalo, con benedizione finale e il classico saluto («Arrivederci ad ogni Eucarestia»).

Quest’anno non mi chiamerà neanche lui. Se ne è andato senza che io lo sapessi. Avrei dovuto essere più presente anch’io.

E invece ho lasciato che gli impegni, le corse, gli affanni quotidiani decidessero per me e per il nostro non saluto.

Ad-Dio, padre Fernando. Ricorderò sempre la tua risata, il tuo entusiasmo, il tuo legame profondo con l’Africa e con il tuo Istituto.

Eri fiero e felice di essere un missionario della Consolata, e sono sicura che domenica 20 ottobre, dal Cielo, ci hai sorriso quando Giuseppe Allamano, il tuo fondatore, è stato proclamato santo.

Grazie infinite per tutto.

Spero che le mie figlie, così come tutti i ragazzi di oggi possano fare incontri come il mio. Di quelli che ti cambiano l’esistenza e le visioni. Di quelli che ti aprono le braccia, gli occhi, la mente.

La maggior parte degli YouTuber e degli influencer non ha niente da dirci. Tu, semplicemente, mi hai toccato il cuore.

Loredana Brigante
19/10/2024

Padre Fernando Paladini, nato a Leverano (Lc) il 25/01/1944, ordinato sacerdote missionario della Consolata il 14/08/1974, nel 1978 parte per il Nord dello Zaire (nella foto è a Pawa nel 1983) dove rimane con breve intervallo, fino al 2016. Rientrato in Italia, ha concluso il suo viaggio missionario il 22/09/2024.




«Non intendiamo fermarci»


Tra le centinaia di migliaia di migranti che attraversano il Centroamerica, molti hanno patologie. Altri si sono ammalati durante il viaggio. Tutti vogliono proseguire e arrivare a destinazione. Lungo la strada, alcune Ong cercano di dare loro un po’ di sollievo.

«Appena siamo usciti dalla selva del Darién, tra Panama e Colombia, la polizia panamense mi ha perquisita e ha gettato le mie medicine nella spazzatura. Io li ho pregati di non farlo, ma mi hanno impedito di attraversare il confine con dei farmaci nella borsa». Rosa, 39 anni, è venezuelana e da qualche tempo assume regolarmente l’Olanzapina per curare il disturbo bipolare che le è stato diagnosticato anni fa. A giugno di quest’anno ha deciso di vendere la casa, l’auto e tutti i suoi averi, per un totale di 4.500 dollari e, insieme a suo marito e ai figli, è partita a piedi verso gli Stati Uniti, nella speranza di trovare un lavoro retribuito dignitosamente e potersi finalmente permettere le cure che non può più ricevere nel suo Paese di origine. «Una scatola di Olanzapina di tipo generico costa circa 12 dollari, mentre l’originale si aggira intorno ai 38 dollari. Il problema però è che in Venezuela guadagniamo pochi dollari al mese, che non bastano a coprire i costi dell’assistenza sanitaria, perché è già tanto se riusciamo a mangiare e in molti casi, onestamente, facciamo pure la fame». Rosa è seduta in un piccolo studio medico sul retro del «Centro de descanso temporaneo Alivio del Sufrimiento» (centro di riposo temporaneo, ndr), un ricovero per migranti gestito da una piccola fondazione di El Paraíso, città honduregna a 11 chilometri dal confine di Las Manos tra Honduras e Nicaragua. È appena stata visitata dalle dottoresse presenti nel centro e ha ricevuto un buono per recarsi alla prima farmacia e comprarsi due scatole di medicine. Sorride, perché finalmente si sente sollevata, dopo oltre 15 giorni in cui l’ansia la stava attanagliando. «Senza i miei farmaci mi sento persa, soprattutto in questi mesi di viaggio che è davvero difficile da gestire psicologicamente, perché siamo sempre a rischio di violenza da parte di bande criminali e polizia, che in tutti gli stati provano a rubarci i soldi o le quattro cose che abbiamo con noi, per non parlare delle violenze fisiche che rischiamo soprattutto noi donne. In queste condizioni sfido chiunque a rimanere sano di mente».

Honduras, migranti attraversano il Centroamerica dal Darién al Messico, per arrivare negli Usa.

Disidratazione

Seduta su una panca poco distante c’è Kimberly. Ha 28 anni e anche lei è venezuelana. Tra le sue braccia dorme la figlia Karlys, che ha già due anni ma pesa come una bambina di poco più di un anno. Hanno appena lasciato l’ospedale della città di Danlí, a qualche chilometro di strada dal centro per migranti dove si trovano. La piccola Karlys è stata ricoverata nella struttura sanitaria per due giorni interi a causa di una forte disidratazione dovuta all’influenza intestinale che la tormentava da qualche settimana, dopo aver bevuto l’acqua malsana dei fiumi della selva del Darién, forse uno dei punti più impervi da attraversare per tutte le persone che migrano dall’America del Sud verso il centro e il Nord. La selva del Darién è letteralmente una giungla, piena di paludi e montagne scoscese dove, se non è la stessa natura a decimare la gente che osa entrarvi, sono le bande criminali della zona a fare vittime anche solo per rubare qualche dollaro in una zona geograficamente fuori da qualsiasi controllo.

Honduras, migranti attraversano il Centroamerica dal Darién al Messico, per arrivare negli Usa.

Camminare è obbligatorio

Kimberly sta parlando con sua madre Criselda, seduta su una sedia a rotelle. Le sue gambe rivelano una storia di interventi chirurgici passati e di un’artrite degenerativa che le ha reso la vita difficile lungo tutto il viaggio che ha dovuto fare a piedi con il solo aiuto di un bastone. Criselda ha in mano un borsello dentro il quale ci sono i suoi ultimi risparmi che sta contando con l’attenzione di chi ha troppe necessità e un budget troppo ristretto. «Qua bisogna scegliere: o mangiamo, o viaggiamo, o mi compro una scatola di paracetamolo per sopportare il dolore alle gambe che mi distrugge da giorni», dice Criselda con la tristezza di chi sa di dover rinunciare a cibo e medicine se vuole continuare il suo viaggio.

Secondo Life Honduras, un consorzio di organizzazioni umanitarie coordinato dalla Ong internazionale Azione contro la fame, che fornisce assistenza medica e psicologica lungo la rotta migratoria che attraversa l’Honduras, ogni giorno decine di migranti in transito verso gli Stati Uniti si rivolgono al loro ambulatorio per una visita o richiedere medicine. La maggior parte si sono feriti durante il viaggio e riportano contusioni, fratture e distorsioni. Di fatto, un numero incalcolabile di persone cade nei fiumi o scivola sulle cime scoscese del Darién, oppure soffre di problemi gastrointestinali per aver bevuto l’acqua di fiume. Tuttavia, c’è anche chi decide di partire dalle proprie case già in gravi condizioni di salute. Si tratta di un dato spesso sottovalutato, ma, secondo i medici del consorzio, almeno il 5% delle persone visitate nell’anno erano affette da malattie preesistenti come cancro, diabete, problemi cardiovascolari, ernie, disabilità motorie, asma, leucemia, autismo nei bambini e problemi psichiatrici come depressione e disturbo bipolare. Si tratta di un numero considerevole, tenuto conto che solamente in Honduras transitano una media di 500mila persone all’anno, secondo i dati dell’Istituto nazionale di migrazione. Queste persone partono nonostante il dolore, per mancanza di assistenza medica gratuita nei propri Paesi di origine o perché gli stipendi sono troppo bassi per potersi permettere cure private. E chi, per esempio, ha un cancro, ma ancora la forza nelle gambe, decide di migrare nella speranza di essere accolto da parenti negli Stati Uniti che possano aiutarlo a pagare una terapia adeguata.

Honduras, migranti attraversano il Centroamerica dal Darién al Messico, per arrivare negli Usa.

Bambini migranti

Tra i bambini la situazione è ancora più grave, perché durante il viaggio difficilmente riescono a fare un buon pasto e, secondo gli ultimi dati del consorzio, l’8,5% dei minori sotto i 10 anni visitati nell’ambulatorio sono a rischio di malnutrizione severa.

«Datemi un cucchiaio per favore, mia figlia non ce la fa a mangiare con la forchetta», dice una donna seduta nella grande sala del centro per migranti di El Paraíso, dove viene servita la cena. È la voce di Norel, venezuelana di 36 anni, che sta imboccando sua figlia Narcibeth, 19 anni per 32 kg di peso, nata con una paralisi cerebrale. Insieme ad altri tre figli e al suo compagno, Norel si è fatta forza e ha portato a spalle Narcibeth tra frontiere, strade, cammini terrosi e, ovviamente, attraverso la selva del Darién, dove nessuna sedia a rotelle può farsi spazio tra il fango, lagune e sentieri montagnosi. «Io sono sicura che negli Stati Uniti ci aiuteranno con la bambina. In Venezuela ci sono centri specializzati per persone disabili, ma mancano i letti, i pannolini, il cibo e spesso anche il personale e noi genitori non possiamo pagare di nostra tasca tutto questo».

Nel centro per migranti di El Paraíso, invece, Narcibeth e la sua famiglia trovano gratuitamente un po’ di tutto, dai prodotti per l’igiene, il cibo, i letti e persino una sedia a rotelle dove può essere agevolmente trasportata per qualche ora, almeno fino a quando non si rimetteranno in viaggio.

Per non perdere tempo

«Abbiamo visto migranti con il cancro che camminano trascinandosi dietro la bombola di ossigeno, ma anche in questi casi cercano di fermarsi qui il meno possibile – spiega Indira Auxiliadora Mejía Sarantes, medico di Azione contro la fame -. Se hanno le forze non passano neppure una notte nel centro per migranti. Quando li vediamo arrivare, è perché stanno davvero male e hanno bisogno urgente di medicine che spesso perdono nella selva del Darièn. In casi gravi, indirizziamo le persone all’ospedale di Danlí, ma molti migranti decidono di non farsi curare per non perdere tempo e proseguire il viaggio».

Dal 2022, l’Istituto di migrazione dell’Honduras permette ai migranti considerati irregolari di richiedere un salvacondotto gratuito di cinque giorni, tempo considerato sufficiente per attraversare il Paese e procedere verso il Guatemala. Non si tratta di una vera e propria regolarizzazione. Di fatto il salvacondotto è un pezzo di carta con il nome della persona e la data di ingresso che viene riconsegnato alla polizia quando si esce dal Paese.

Il procedimento serve ai migranti per essere visibili ed evitare di essere vittime di deportazione ed estorsione da parte della polizia, ma in fondo il vero interesse del governo della presidentessa Xiomara Castro è che le persone transitino il prima possibile e se ne vadano dal Paese senza generare disturbo alla popolazione locale. Tuttavia questa forma di «legalizzazione» parziale e temporanea non preserva le persone da violenze ed estorsioni che puntualmente avvengono su tutto il territorio honduregno.

Lo sa bene Jonathan, 45 anni, che, insieme a suo nipote e sua sorella, ha lasciato la Colombia dove viveva da circa sei anni, da quando, cioè, la crisi economica in Venezuela e un salario troppo basso lo avevano spinto a migrare in prima battuta nel Paese più vicino culturalmente e geograficamente al suo.

Soprusi ed estorsioni

«Qua tutti approfittano di noi – racconta Jonathan -. Abbiamo ottenuto il salvacondotto all’Istituto di migrazione appena entrati in Honduras dalla frontiera con il Nicaragua, ma da quel momento hanno cominciato tutti a estorcerci soldi, anche la polizia. Onestamente, non so a cosa serva questo pezzo di carta».

Jonathan e la sua famiglia sono rimasti una notte nel centro per migranti de El Paraíso per cenare e dormire in un buon letto e il giorno dopo si sono rimessi in viaggio. Hanno pagato circa 50 euro a testa per un biglietto del bus per arrivare a Ocotepeque, l’ultima città honduregna prima della frontiera con il Guatemala. Un prezzo esorbitante che un locale non accetterebbe mai di pagare. «Lo sappiamo che ci stanno facendo pagare il doppio – continua Jonathan -, ma lo fanno perché sanno che non abbiamo scelta. Ovviamente nessuno di noi vuole rimanere in Honduras, quindi o così o niente».

Il viaggio in bus di lunga percorrenza verso la frontiera del Guatemala dura circa 18 ore. Ogni giorno partono decine di bus pieni di migranti che tirano dritto senza mai fermarsi, a meno di una grave emergenza. Oppure di un probabile, quanto indesiderato, controllo da parte della polizia che, a intervalli regolari, ferma quasi tutti i bus che percorrono l’unica strada ben asfaltata che collega la frontiera del Nicaragua con il Guatemala.

Sorte che è capitata anche a Jonathan e alle altre 80 persone che viaggiavano con lui.

Di notte il bus è stato fermato da una pattuglia della polizia che ha comunicato ai passeggeri la necessità di pagare un prezzo accessorio per poter transitare lungo la strada. «Ognuno ha dato qualcosa e per fortuna si sono accontentati e ci hanno lasciati andare», spiega Jonathan.

Arrivati a Ocotepeque le cose non sono migliorate perché per fare gli ultimi circa otto chilometri necessari ad attraversare la frontiera, Jonathan e la sua famiglia hanno pagato circa 30 dollari di taxi, un prezzo che include anche la tangente che il taxista paga alla polizia di frontiera guatemalteca, per il trasporto di migranti fino terminal di Esquipulas, la prima città guatemalteca oltre il confine con l’Honduras.

«Sono senza forze – dice sconsolato Jonathan, seduto in attesa che un bus di linea guatemalteco li porti fino alla frontiera con il Messico -. Forse ho la febbre e mia sorella sta addirittura peggio di me. Però ormai siamo qui e non intendiamo fermarci. Non importa se arriverò con l’influenza o senza una gamba. Io voglio solamente arrivare il prima possibile e con l’aiuto di Dio ce la faremo, così come abbiamo fatto fino a oggi».

Simona Carnino

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Progetti idrici, una panoramica


Il mondo non ha fatto sufficienti progressi verso il raggiungimento dell’obiettivo 6 dell’Agenda 2030 dell’Onu, quello relativo all’accesso all’acqua e ai servizi igienici. Nelle missioni della Consolata si continua  a lavorare per garantire acqua pulita a famiglie, scuole e strutture sanitarie.

Nel 2023 i casi di colera nel mondo sono stati oltre 535mila, in aumento rispetto ai quasi 473mila dell’anno precedente, e le morti a causa della malattia sono passate da 2.349 del 2022 a 4.007 dell’anno scorso. Lo riportava a settembre un rapporto@ dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), secondo cui quella in corso è la settima pandemia di colera dal XIX secolo a oggi. Nel complesso, riportava una scheda informativa dell’Oms a marzo@, le malattie diarroiche, tra le quali il colera, continuano a essere la terza causa di morte di bambini sotto i 5 anni: ogni anno a causa della diarrea muoiono circa 444mila bambini fra 0 e 5 anni e  altri 51mila fra i 5 e 9 anni.

Si tratta di malattie per le quali i trattamenti esistono e sono anche economici. A questo proposito, sul New York Times dello scorso settembre, Philippe Barboza, a capo del team che si occupa di colera nel programma delle emergenze sanitarie dell’Organizzazione mondiale della sanità, definiva inaccettabile che nel 2024 le persone muoiano perché non possono permettersi una bustina di sali per la reidratazione orale che costa 50 centesimi.

Prevenire le malattie diarroiche sarebbe poi ancora più semplice: basterebbe avere a disposizione acqua pulita per bere, cucinare e lavarsi le mani, eliminando batteri come il vibrio cholerae, l’escherichia coli e altri responsabili di queste patologie.

Ma, a oggi, il raggiungimento dell’obiettivo 6 dell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite, quello che riguarda appunto l’acqua e i servizi igienico sanitari, non sembra vicino. Secondo il rapporto 2023 sugli obiettivi di sviluppo sostenibile@, nonostante alcuni miglioramenti, più di 2 miliardi di persone non hanno accesso ad acqua potabile gestita in modo sicuro e oltre 700 milioni sono privi di servizi idrici di base; 3,5 miliardi di persone non dispongono di servizi igienico sanitari adeguati e 2 miliardi non hanno le strutture per lavarsi le mani a casa con acqua e sapone.

Aggiunta di un serbatoio per l’acqua per l’asilo di shambo in Etiopia

C’è pozzo e pozzo

Le proposte di progetto in ambito idrico che i Missionari della Consolata hanno elaborato negli ultimi quattro anni, confermano che garantire acqua pulita continua a essere una priorità. Questo sforzo, infatti, ha assorbito in media almeno 100mila euro l’anno. Gli interventi, realizzati soprattutto in Africa, ma anche in America Latina, hanno riguardato perforazioni di pozzi per portare acqua a ospedali e dispensari, scuole e studentati, comunità e villaggi.

Ci sono diversi tipi di pozzi che possono essere realizzati: uno di questi è il pozzo artesiano, la cui caratteristica è quella di attingere da una falda artesiana, cioè da un accumulo di acqua fra le rocce del sottosuolo che nella parte superiore sono impermeabili e tengono l’acqua sotto pressione. A causa di questa pressione, una volta realizzata la perforazione, l’acqua risale in superficie in modo spontaneo e può essere attinta anche senza usare una pompa. I pozzi freatici attingono invece da falde freatiche, che hanno nella parte superiore rocce permeabili: l’acqua non è in pressione e per estrarla serve una pompa.

I pozzi non sono i soli interventi che i missionari si trovano a realizzare per garantire l’accesso all’acqua: a volte la perforazione esiste già, ma la parete di roccia del foro è crollata o danneggiata, oppure l’estrazione dell’acqua dipende da una pompa azionata da un generatore a gasolio, costoso e inquinante. O, ancora, non c’è un adeguato sistema di raccolta e distribuzione dell’acqua, per cui servono cisterne sollevate da terra dove pompare l’acqua, e tubature collegate per distribuirla sfruttando la forza di gravità.

Inoltre, alcuni interventi idrici riguardano il collegamento di una sorgente – cioè il punto da cui l’acqua sotterranea sgorga spontaneamente in superficie – con le strutture e gli edifici dove verrà utilizzata.

Momento dell’uscita dell’acqua durante lo scavo del pozzo a Neisu, Congo Rd

Congo, tanta acqua ma non per tutti

La Repubblica democratica del Congo è uno dei paesi con maggiori risorse idriche del pianeta: circa due terzi del bacino del fiume Congo si trova infatti all’interno del suo territorio e la sua foresta pluviale è la seconda al mondo per estensione dopo quella amazzonica. Eppure, si legge@ sul sito dell’agenzia Onu per l’acqua Unwater, solo il 12% della popolazione – poco più di un congolese su dieci – dispone di acqua potabile sicura e solo uno su cinque ha la possibilità di lavarsi le mani con acqua e sapone a casa. L’acqua ha un ruolo fondamentale in servizi come quelli sanitari: per questo, negli anni, una delle priorità dell’ospedale di Neisu, che i Missionari della Consolata gestiscono nel Nordest del Congo, è stata quella di dotare non solo l’ospedale ma anche i 12 centri e posti di salute della sua rete sanitaria di almeno un pozzo. «Qui da noi in genere i pozzi sono profondi 13-15 metri», spiega Ivo Lazzaroni, laico missionario della Consolata responsabile dell’ospedale. «La gente comincia a scavare con zappe e picconi e poi continua con il badile, scendendo fino a che non si trova l’acqua».

Una volta scavato, per rinforzare il muro di terra e roccia del foro – che ha un diametro di un metro o un metro e mezzo – i lavoratori preparano quattro o cinque cilindri di cemento (buse) e li calano uno dopo l’altro nello scavo, aiutandosi con un cerchione della ruota di un’auto e delle corde, in modo che si formi un condotto di cemento appoggiato al fondo. Si costruisce poi un muretto circolare di mattoni in superficie e si deposita sul fondo del pozzo uno strato di ghiaia, accompagnato a volte da un sacco di carbone spezzettato, per filtrare l’acqua.

Questi pozzi (freatici), tuttavia, rimangono asciutti quando la stagione secca è molto intensa e per questo Ivo, grazie al generoso sostegno di un donatore, ha deciso di realizzare un pozzo per l’ospedale a 40 metri di profondità (artesiano): «Per realizzare il pozzo, però, abbiamo chiamato il camion con la perforatrice meccanica: hanno fatto un forage (un buco) di 20 centimetri di diametro e inserito dei tubi di plastica a protezione del foro».

Ora la disponibilità d’acqua dell’ospedale dovrebbe essere garantita anche durante la stagione secca.

Scavare pozzi in Congo, si capisce dai racconti di Ivo, significa spesso anche venire a contatto con credenze e usanze locali: c’è ad esempio la convinzione che, una volta trovata l’acqua, occorra togliere il fango dal fondo del pozzo almeno cinque volte per far sì che questo non si asciughi più. Inoltre, c’è la credenza che la ricerca dell’acqua non può avere successo se i leader tradizionali non svolgono prima determinati riti per placare gli spiriti degli antenati. C’è poi chi fa ricorso alla rabdomanzia, una pratica che non ha però alcun riscontro scientifico: i rabdomanti sostengono di essere in grado di individuare il punto del sottosuolo nel quale si trova l’acqua «interpretando» le vibrazioni di un bastone di legno tenuto nelle loro mani.

Siccità nel Nord del Kenya.

Stress idrico in Kenya

Nelle nostre missioni in Kenya, scrive da Nairobi Naomi Nyaki, la responsabile dell’ufficio progetti dei missionari della Consolata, ci sono principalmente tre tipi di pozzi, qui definiti per il modo in cui vengono realizzati: i dug wells, scavati nel terreno con un badile a una profondità fra i 10 e i 30 metri, permettono di prelevare l’acqua con un secchio; i drilled wells, perforati con macchinari appositi, possono raggiungere i 300 metri di profondità e richiedono una pompa per portare l’acqua in superficie; e i driven wells, che sono pozzi in genere poco profondi realizzati inserendo un tubo nel terreno fino alla falda acquifera e collegando poi una pompa per portare l’acqua in superficie.

A volte, continua Naomi, il pozzo è sul terreno della missione o della parrocchia gestita dai missionari della Consolata, ma a beneficiarne sono comunque centinaia di persone: nella parrocchia di San Giovanni XXIII a Rabour, Kenya occidentale, il pozzo è a disposizione dei parrocchiani servendo così i due missionari che lavorano lì e i 1.700 abitanti dell’area.

E ancora: a Makima, città del Kenya centrale a circa 130 chilometri da Nairobi, il pozzo garantisce acqua a 14mila persone: «Profondo 280 metri, questo pozzo fornisce una grande quantità di acqua pulita, sufficiente per essere incanalata e raggiungere la township (insediamento informale) di Kitololoni, due scuole elementari, una scuola secondaria, un dispensario e la fattoria della missione cattolica di St. Paul».

Secondo i dati Unwater, in Kenya@ il 72% della popolazione dispone di una fonte di acqua potabile sicura: più del doppio della media regionale dell’Africa subsahariana, che è al 31%. Ma su altri indicatori il Kenya ha maggiori difficoltà, ad esempio quello dello stress idrico: quando un territorio preleva il 25% o più delle sue risorse rinnovabili di acqua dolce, si dice che è in «stress idrico» e il Kenya ne preleva il 33%.

Tanzania, acqua dalla montagna

Trivellatrice nel momento in cui raggiunge la falda acquifera a Irole, Tanzania

La Tanzania ha un prelievo idrico più contenuto del Kenya: estrae infatti solo il 13% delle sue risorse idriche rinnovabili e non è, quindi, in stress idrico. Ma la quota di popolazione che ha accesso all’acqua pulita, pari all’11%, è molto sotto la media regionale. Per garantire l’acqua alle comunità con cui lavorano, scrive da Iringa la responsabile dall’ufficio progetti Imc, Modesta Kagali, i missionari della Consolata hanno costruito diversi tipi di pozzi che vengono scavati a mano o con una perforatrice, a seconda delle situazioni, e hanno profondità comprese fra i 10 e i 150 metri. A volte, però, ricorrono anche alla raccolta di acqua piovana o alla canalizzazione da fiumi o da sorgenti montane.

Nella missione di Ikonda, ad esempio, i missionari hanno realizzato un acquedotto, convogliando l’acqua dalla montagna attraverso un sistema di tubature e canali per raggiungere l’ospedale, le case del personale e il villaggio circostante di Ikonda. L’ospedale può così servire migliaia di pazienti – nel 2023, i ricoveri sono stati quasi 18mila – e anche la popolazione del villaggio. Come in Kenya, anche in Tanzania i missionari usano l’acqua per irrigare i campi delle fattorie che gestiscono, ma anche gli orti di seminari e scuole per abbattere i costi di gestione, coltivando frutta e verdura per le mense scolastiche.

Fasi di lavoro per la costruzione del pozzo per il vaccaro del progetto bestiame

Pozzi artesiani in Amazzonia

L’acqua che proviene dai rilievi circostanti è stata a lungo la principale risorsa idrica anche per molte comunità che vivono nella Terra indigena Raposa Serra do Sol (Tirss), nello stato di Roraima, Amazzonia brasiliana. Negli ultimi anni, però, difficoltà nella manutenzione e stagioni più secche hanno reso meno costante la disponibilità di acqua.

Spiegava nel 2022 padre Jean-Claude Bafutanga, allora in missione nella Tirss a Baixo Cotingo: «Ci sono spesso interruzioni nel sistema idrico che porta l’acqua a valle. In inverno l’acqua c’è, ma se piove troppo i canali si intasano per l’accumularsi di foglie; d’estate, invece, abbiamo avuto siccità così intense che l’acqua non c’era più».

Nella Tirss, completa padre Joseph Mampia, che lavora alla missione di Raposa, non esiste un sistema di raccolta e distribuzione dell’acqua come nelle città. Molti utilizzano l’acqua piovana accumulata negli igarapé, (ruscelli), che però si seccano d’estate e spesso portano acqua non potabile. Il garimpo, cioè l’estrazione mineraria illegale, infatti, ha peggiorato la situazione, inquinando l’acqua@. Per questo, concordano i due missionari, il pozzo artesiano è la soluzione migliore in questa zona: è abbastanza profondo da evitare le contaminazioni causate dal garimpo e l’acqua sgorga in modo spontaneo.

Chiara Giovetti

Contemplando l’acqua nel pozzo




Virgilio Pante, vescovo emerito. Guardiano della pace


È diventato vescovo della nuova diocesi di Maralal, nel Nord del Kenya, nel 2001. Ha lasciato il suo posto di servizio per raggiunti limiti di età nel 2022. Considerazioni, esperienze, gioie e dolori, condivisi in libertà.

Il mio primo contatto con il futuro monsignore, avviene a Torino, nel 1970. Ricordo che, entrando nel cortile della Casa Madre e dell’annesso seminario teologico, noto una vecchia moto con sidecar (del 1937, di fabbricazione inglese) parcheggiata in un angolo, una di quelle che si vedono nei classici film di guerra. Mi dicono che la usano alcuni degli studenti dell’ultimo anno di teologia per andare a scuola a oltre due chilometri di distanza nei locali del seminario del Cottolengo. Chi la guida è un certo chierico Virgilio Pante, matto per le moto. Una simpatica «pazzia» che non lo abbandonerà mai.

Quando dopo la Pasqua del 1989, arrivo nel Nord del Kenya, destinato alla cittadina di Maralal, la missione è ormai ben piantata. La prima cappellina è stata rimpiazzata da una chiesa spaziosa, c’è l’asilo, il dispensario, la casa delle suore, la scuola primaria con il boarding per quasi duecento bambine, il centro catechistico, il seminario della diocesi di Marsabit, il centro pastorale, il cimitero: un mondo nel quale si muovono oltre seicento persone, una vera e propria cittadella.

Mi guardo intorno incuriosito, faccio domande, cerco di capire. Ho già sentito tante storie sulla missione e i suoi missionari. Tra questi uno di cui si parla con ammirata simpatia è padre Virgilio Pante, che nel 1979 ha fondato il primo seminario della diocesi. Quando arrivo, lui è già stato trasferito tra i Luo, nella nuova missione di Chiga, vicino al Lago Vittoria, ma il suo ricordo persiste perché è impossibile dimenticare quel grande cacciatore che, grazie al suo fucile, aveva assicurato il cibo ai suoi primi seminaristi. E non solo. Quando qualche leone o altro animale diventava pericoloso per gli uomini, attaccando i pastori o avvicinandosi troppo ai villaggi o alle manyatte dei Samburu, gli stessi guardiacaccia lo chiamavano perché andasse con loro nella foresta ad aiutarli a risolvere il problema.

La sua era un’abilità innata, ereditata dai suoi nonni, come lui stesso mi ha confermato sorridendo, solo poco tempo fa. «Da noi, fin da piccoli si andava a caccia. I miei nonni, lassù sulle montagne del bellunese, sono sempre stati bracconieri per necessità. Mio papà ricorda che durante la guerra mangiavano “polenta e osei” e topi, perché c’era tanta fame». Dopo soli tre anni a Maralal, abbastanza per innamorarsi per sempre di quella terra, vengo mandato a Nairobi a lavorare nella rivista The Seed (Il seme) e lì, finalmente, comincio a vivere con padre Virgilio, perché nel 1996 viene nominato vice superiore regionale con residenza nella capitale keniana, nella mia stessa comunità.

Nuovi, diocesi e vescovo

Arriva il 2001, l’anno del centenario della fondazione dell’Istituto. È il 30 giugno, stiamo finendo il pranzo. Il superiore regionale, padre Francesco Viotto, si alza e dice: «Scusate se vi interrompo, ma ho una notizia importante da darvi. Il Santo Padre oggi ha costituito la nuova diocesi di Maralal, dividendola da Marsabit. Ha anche scelto il nuovo vescovo, il quale è un missionario della Consolata ed è qui presente tra noi». Ci guardiamo gli uni gli altri incuriositi e il superiore prosegue: «È padre Virgilio Pante». Siamo tutti contenti, ci scappa qualche battuta, siamo sorpresi sì, ma non troppo visti gli anni che il nostro confratello aveva speso con passione nel Nord del Kenya. Stappiamo una bottiglia e scatto un po’ di foto.

Così il 6 ottobre dello stesso anno mi trovo nel grande campo sportivo dell’oratorio della missione di Maralal, diventata sede della diocesi omonima. È il giorno della consacrazione del nuovo vescovo. La gioia è effervescente. Sono arrivati in tanti da tutte le missioni. Il grande prato dell’oratorio è strapieno e coloratissimo. Ci sono tutti: Samburu, Turkana e Pokot, i popoli pastori indigeni, e Kikuyu, Meru, Akamba, Luo e quanti altri vivono nella città o lavorano per il governo. Scatto foto a gogò, mentre con il cuore pieno di gioia accompagno il tutto con un’intensa preghiera. L’avventura che aspetta il nuovo vescovo, infatti è tutt’altro che facile.

La nuova diocesi

Virgilio Pante il giorno della sua consacrazione episcopale a Maralal

La nuova diocesi nata dalla divisione di quella di Marsabit (creata nel 1964), è una realtà con tante bellezze ma anche un sacco di problemi. Estesa 21mila km2 e con circa 144mila abitanti (contro i 70 mila km2 e i 200mila abitanti di Marsabit, dati del 1999), la diocesi coincide con il distretto (oggi contea) Samburu ed è caratterizzata da montagne stupende e pianure aride e semidesertiche, da valli profonde e caldissime e rari fiumi, da mancanza di strade e infrastrutture e da poche terre adatte all’agricoltura, con villaggi sparsi a grandi distanze e gruppi etnici molto diversi tra loro che si contendono l’acqua e i pascoli.

In più, alcune delle terre più rigogliose e ricche di animali sono diventate parchi nazionali o riserve turistiche, e altre sono state date in uso esclusivo ad agricoltori industriali che fanno coltivazioni intensive (disboscando impattano sull’habitat e lasciano poi terreni aridi). Ci sono dodici missioni o parrocchie, attorno alle quali c’è una fitta rete di oltre cento piccole cappelle nei vari villaggi, le quali, durante la settimana, diventano asili per i bambini. In ogni missione ci sono scuole primarie e centri di salute e tante altre attività per aiutare la gente. A Maralal, nella periferia Sud Est della cittadina, c’è il centro di formazione dei catechisti, che sono la spina dorsale della vita di ogni comunità, il seminario (fondato a suo tempo dal nuovo vescovo), una scuola tecnica per ragazzi e una per ragazze. A Wamba, invece, la diocesi ha un fiorente ospedale, una scuola per infermieri, una casa per bimbi disabili e una scuola secondaria per ragazze.

Il lavoro certo non manca e le forze presenti, missionari e missionarie della Consolata, sacerdoti fidei donum di Torino, missionari Yarumal e diverse comunità di suore, tra cui quelle di Madre Teresa, sono ben impegnate sul territorio. Ma le sfide sono tante.

Cercando la pace

Monsignor Virgilio è da sempre innamorato di quelle terre dove si può ancora vivere la missione vera, dove la Chiesa può davvero realizzare i sogni del Concilio Vaticano II. Il suo primo viaggio in quelle zone è stato nel 1972, una scappata in moto fino a Loyangallani sulle rive del Lago Turkana che gli ha meritato il «castigo» più bello della sua vita: essere mandato proprio in quella che allora era la diocesi di Marsabit, fondata nel 1964, con monsignor Carlo Cavallera (Imc) che ne era stato il primo vescovo.

Appena saputo della sua nomina, padre Virgilio riprende la sua amata moto e va a visitare a tappeto la sua futura «sposa», per farsi conoscere e soprattutto per prendere coscienza della realtà che lo aspetta.

Nel suo peregrinare arriva a Kawop, un villaggio di Tuum, ai piedi del Monte Nyro, giù nella Suguta Valley ai confini con la contea Turkana. E lì gli si spezza il cuore: vede morte e distruzione ovunque, il villaggio è stato depredato, la chiesetta distrutta, la gente fuggita. È la scintilla che accende in lui una decisione: sarà il vescovo della pace, cosciente che il titolo che porterà, «vescovo», nel suo significato etimologico vuol dire «colui che vigila», come un guardiano, una sentinella. Lui sarà il «guardiano della pace».

Tornato a Nairobi, viene da me. Sa che ho già fatto degli stemmi per altri vescovi. E allora insieme creiamo il suo stemma episcopale dal motto «With the ministry of reconciliation», con il servizio della riconciliazione, sotto l’immagine di un leone che giace con l’agnello (vedi Isaia 11,6-9 e 65,25). Sullo sfondo il monte Kenya, il tutto sotto l’influenza dello Spirito Santo, colomba della pace.

Una leonessa adotta una gazzellina di orice. gennaio 2002.

Una sfida infinita

Davvero nella nuova diocesi la sfida più grande è la pace. Da sempre le varie tribù (scusate, ma allora si diceva così, oggi ci preferisce dire gruppi etnici o popoli indigeni, nda) sono in lotta tra loro per il controllo delle magre risorse (acqua e pascoli), per garantirsi la sopravvivenza. Tre i gruppi principali in competizione, tutti pastori: i Samburu (probabilmente una sezione dei Masai stabilitisi in queste zone montuose); poi i Turkana, di origine nilotica e non circoncisi, molto presenti e attivi nell’Ovest della contea; e i Pokot, nilotici anche loro, stanziati a Sud Ovest.

Quello che padre Virgilio capisce subito, però, è che gli scontri tra le tribù non avvengono più nel modo tradizionale, con lance, razzie e scaramucce che coinvolgevano piccole realtà locali. Oggi i conflitti sono aggravati dalla diffusione capillare delle armi da fuoco che arrivano molto facilmente dalla Somalia; dalle manipolazioni messe in opera da politicanti senza scrupoli, soprattutto in tempi di elezioni; da interessi economici legati al traffico di bestiame; dalle appropriazioni di terre da parte di chi le sfrutta per l’agricoltura intensiva o per la creazione di aree riservate a resort turistici.

Quando padre Virgilio diventa vescovo di quelle terre, però succede un avvenimento eccezionale che diventa quasi un segno divino a conferma del suo impegno e della sua missione davanti a tutta la comunità.

Poco tempo dopo la sua consacrazione episcopale, infatti, nel Parco Samburu, situato nella zona Est della diocesi, una leonessa adotta un cucciolo di orice, un’antilope, permette alla mamma vera di allattarla, la cura e la difende dagli altri predatori (questo purtroppo dura solo due settimane, perché poi un leone si mangia il cucciolo, nda). La notizia è sulla bocca di tutti. La meraviglia è grande. L’avvenimento è considerato un segno del cielo che conferma il motto e lo stemma del nuovo vescovo.

Visita alla chiesa di Kawap distrutta per lotte tribali. Chiesa costruita da padre Cornelio Dalzocchio

Le armi della pace

L’impegno per la pace è capillare, intenso e mai finito. Tre le aree di intervento: l’educazione, il commercio e la religione.

Il vescovo Pante, che dall’ottobre 2022 è ormai emerito per raggiunti limiti di età, si spiega. «I bambini non sono tribalisti. Per questo è importante offrire loro occasioni di convivenza e formazione insieme. Da qui la costruzione dei dormitori e delle scuole per la pace, dove bambini Samburu, Turkana e Pokot possono vivere, giocare e studiare insieme, diventando amici e superando gli stereotipi e i pregiudizi».

Poi i mercati. «Può sembrare una stranezza, ma come dice un proverbio swahili biashara haigombani, “il mercato non crea nemici”, anzi diventa luogo di incontro e scambio dove ciascuno può contribuire con il meglio che ha e trovare quello di cui ha bisogno. Con il mercato la gente si incontra, fa affari, si conosce, crea relazioni alla pari, scoprendo che è bello aver bisogno gli uni degli altri».

E la religione. «Riunire i diversi gruppi a pregare insieme aiuta, fa crescere, aumenta la conoscenza reciproca, fa vincere i pregiudizi.

Ricordo una volta che abbiamo invitato i tre gruppi a un incontro di preghiera vicino a Barsaloi. I Samburu e i Turkana, che venivano a piedi da villaggi relativamente vicini, erano già presenti. Poi da lontano è arrivato un camion carico di Pokot. Prima sono scesi i giovanotti nelle loro tenute da guerrieri e poi donne e bambini. È stato un momento di panico. C’è voluto tutto il mio sangue freddo e il mio prestigio per evitare un fuggi fuggi. Poi hanno iniziato a pregare insieme e a cantare, e il canto è diventato danza. Bellissimo. Allora sì, è stata davvero una bella festa, senza più paure e tutti uniti come figli dello stesso Padre».

Villaggio abbandonato per guerre tribali

Risultati

«I risultati del lavoro fatto dalla diocesi sono tanti e belli, anche se non si è mai finito, perché c’è sempre qualcuno che ha interesse a fomentare le divisioni per il proprio vantaggio, sia per il traffico di armi che per quello del bestiame rubato, che spesso e volentieri finisce poi venduto a Nairobi o addirittura spedito a Mombasa per il mercato dei paesi arabi».

Il vescovo ricorda quando un giorno è stato chiamato a Nairobi per una riunione di una commissione governativa impegnata a capire come implementare la pace nel territorio. Dopo averli ascoltati, ha detto loro parole chiare. «Voi mandate l’esercito per farvi consegnare le armi, spaventate la gente con atteggiamenti minacciosi, e vi ritenete soddisfatti quando riuscite a farvi consegnare un centinaio di fucili, dimenticando che ne rimangono almeno altri 20mila in giro. E che poi, chi ve li consegna, ne acquista degli altri più moderni. Signori non serve disarmare le mani, occorre disarmare la testa e il cuore. Per questo dovete costruire strade, potenziare le scuole, offrire servizi sanitari, migliorare il livello della vita della gente. Questa è la via della pace, quella che costruisce davvero una nuova società».

Una Chiesa sempre più incarnata

L’impegno di monsignor Pante in questi 21 anni di episcopato, dal 2001 al 2022, non è stato solo per la pace. Una delle sue priorità è stata quella di far crescere la Chiesa locale nella sua completezza.

All’inizio del suo mandato, la maggioranza delle parrocchie era nelle mani dei missionari, di cui tanti ancora europei. Oggi sono quasi tutte gestite dai sacerdoti locali. I Missionari della Consolata hanno ancora tre missioni, ma solo una guidata da un europeo, padre Aldo Giuliani, un trentino sempre arzillo e appassionato nonostante gli anni. I sacerdoti locali sono ora 26, anzi 25 perché purtroppo uno è morto all’inizio di maggio per malattia. Di questi, monsignore ne ha ordinati ben 21. Un bel risultato, anche se il cammino per avere una Chiesa davvero inculturata, partecipativa (o sinodale, come si ama dire oggi) e corresponsabile, che non dipenda troppo dagli aiuti esterni e con la mentalità di «la Chiesa siamo noi», è ancora tutto aperto.

Il cammino è impervio, anche perché ci sono delle situazioni oggettive da affrontare. Una di queste è la povertà aggravata anche dal cambiamento climatico. Negli ultimi tre anni c’è stata una grande siccità, che ha causato la morte di persone e di quasi l’80% delle vacche. Finita la siccità, quest’anno sono arrivate le piogge torrenziali che stanno creando disastri e causando oltre 200 morti soprattutto a Nairobi e sulla costa. Ma anche nel Samburu hanno distrutto ponti, allagato villaggi, travolto viaggiatori. La rete stradale, già malridotta, non ci ha certo guadagnato e i poveri si sono ulteriormente impoveriti.

Benedizione del Dormitorio della Pace per le ragazze. 19/5/2012

Scuola e salute

Ci sono poi altre due aree di impegno della Chiesa che le hanno permesso di entrare in un territorio che un tempo, fino ai primi anni Cinquanta, era totalmente off limits per i missionari e trascurato dal governo (coloniale e non): la scuola e la sanità.

Arrivando in un villaggio, i missionari per prima cosa hanno costruito una capanna polivalente: asilo o scuola per i bambini durante la settimana, cappella la domenica attorno al catechista, e periodicamente centro di salute e spesso anche scuola di maendeleo (che include sviluppo, cucito, igiene) per le donne.

Con il tempo hanno costruito vere e proprie scuole con relativi dormitori per i ragazzi che non potevano tornare ogni sera alle loro capanne spesso distanti decine di chilometri.

I centri di salute sono diventati capillari, mentre a Wamba fioriva la «Rosa del deserto», il favoloso ospedale con annessa scuola per infermieri e casa per bimbi disabili, che tanto bene ha fatto al territorio.

Le due aree di impegno rimangono importanti tutt’oggi, perché la scuola, conferma il vescovo, è essenziale per la formazione delle persone e per renderle protagoniste della loro storia di lotta alla povertà e a certe tradizioni, come la mutilazione genitale femminile (Fgm, female genital mutilation), che non aiutano a costruire un mondo libero e pacifico.

Una delle soddisfazioni più grandi di monsignor Pante è vedere i ragazzi e ragazze che hanno studiato nelle scuole della missione diventare insegnanti, infermieri, medici, operai, tecnici, anche politici e pure missionari, come l’attuale superiore generale dei Missionari della Consolata, un samburu nato sull’auto mentre la mamma veniva portata all’ospedale di Wamba.

Uno dei risultati più belli è stato raggiunto con le donne. Quante ragazze, uscite dalla scuola secondaria di Santa Teresa a Wamba, sono diventate insegnanti, infermiere, suore, catechiste, attiviste contro la Fgm e anche donne impegnate nella politica, chief locali e attiviste per la pace.

Gigi Anataloni
(1 – continua)

Mercato Pokot e Samburu, luogo di incontro, dialogo e collaborazione




Congo Rd. Il missionario medico

Nella missione di Neisu a una trentina di chilometri da Isiro nel Nord Est della Repubblica democratica del Congo, il 18 maggio scorso, si è celebrato il venticinquesimo anniversario della morte di padre Oscar José Goapper Pascual, giovane missionario della Consolata e medico. Un missionario che «ha lasciato il segno».

Padre Oscar era figlio di José Elgasto e di Nelly Terma ed era nato il 25 settembre 1951 a Venado Tuerto, nella provincia di Santa Fé in Argentina.
Dopo le scuole secondarie, Oscar sente la chiamata a essere missionario e domanda di entrare dai missionari della Consolata presenti nella sua città. Viene accolto e inviato in Italia per continuare il cammino formativo. Terminato il cammino di formazione è ordinato sacerdote a Torino il 19 giugno 1976. Viene subito inviato in Argentina per essere animatore missionario e poi anche formatore. Nel 1981 scrive al superiore generale per chiedergli di poter finalmente andare in missione, anche se aggiunge: «Seguire il Signore fedelmente e senza mettere condizioni è vitale per me», manifestando la disponibilità che lo avrà sempre caratterizzato. Pensando che gli sarebbe stato utile in missione aveva seguito il corso per infermieri professionali. Diceva: «Aspetto con impazienza il giorno della partenza, ma sono cosciente che non si può improvvisare la missione».

Il 27 Aprile 1982 arriva finalmente nella missione di Neisu nel Nord Est dello Zaire. Padre Oscar si accorge subito della necessità di avere un luogo adatto per curare tanta gente ammalata. In un primo tempo trova aiuto occasionale da parte del dottor Leta direttore della clinica del Est a Isiro. Con l’accordo dei suoi confratelli, i padri Antonello Rossi e Richard Larose e con l’aiuto di fratel Domenico Bugatti decide di seguire la costruzione di un ospedale, ma ci vorrà un medico che sempre presente. Allora dice al suo superiore: «Se non ci sono dei medici laici che vogliano venire a Neisu, diventerò io stesso medico». Con il permesso del superiore generale si iscrive alla facoltà di medicina dell’Università di Milano. Cominciano lunghi anni e padre Oscar divide il suo tempo, le sue energie e le fatiche tra Europa e Zaire. Finalmente dottore, resta definitivamente a Neisu tra i suoi ammalati.
A quei tempi mi trovavo a Kisangani, piuttosto distante da Neisu ma ho avuto modo di incontrarlo alcune volte in occasione di qualche viaggio a Isiro e ancora meglio quando venne a Kisangani assieme a suor Cristina per partecipare a giornate di formazione per dottori. Come tante persone, anch’io fui colpito dalla sua giovialità, apertura e capacità di instaurare subito bella amicizia.

Duilio Plazzotta

tratto da consolata.org . Continua a leggere qui.




Fentanyl, la droga letale in rapidissima diffusione


È un oppioide sintetico nato come farmaco antidolorifico e anestetico. Potentissimo, sta facendo migliaia di vittime nel Nord America. Ma è arrivato anche sulle piazze dello spaccio italiane ed europee. L’allarme è grande e giustificato.

Ascoltando la splendida Purple rain, il pensiero corre subito a Prince, il genio di Minneapolis, che venne ucciso il 21 aprile 2016 da un’overdose di fentanyl. Questo è un oppioide sintetico che il cantante statunitense aveva assunto in seguito all’intervento a un’anca. Lo stesso fentanyl sarebbe la causa della morte nel 2018 di Dolores O’Riordan, la cantante dei Cranberries e di Tom Petty (morto nel 2017), un cantautore e chitarrista statunitense che lavorò anche con Bob Dylan. Questi sono alcuni dei casi più famosi di morti legate all’abuso di fentanyl, sostanza che sta uccidendo centinaia di migliaia di persone ogni anno negli Usa e in Canada e che, da qualche tempo, ha fatto il suo ingresso anche in Europa, dove si teme possa verificarsi un’analoga situazione, benché, per il momento, il numero dei decessi sia ancora basso.

La potenza del fentanyl spiega le sempre più frequenti morti per overdose di coloro che se lo procurano per strada o via dark web oppure lo consumano inconsapevolmente, perché, da qualche anno, viene utilizzato come sostanza da taglio per eroina, cocaina, allucinogeni ed ecstasy. In totale, nel 2023 i decessi per overdose negli Usa hanno superato le 112mila unità e per oltre l’80% di loro il responsabile è stato il fentanyl.

Le cause della diffusione

La quantità di fentanyl sufficiente per provocare conseguenze letali. Foto DEA – United States.

Per capire come questo farmaco sia diventato una delle droghe più diffuse e sia aumentato enormemente il numero di coloro che ne sono diventati dipendenti è necessario risalire ai primi anni Novanta.

All’epoca i medici negli Usa iniziarono a prescrivere il fentanyl come antidolorifico, con una certa disinvoltura legata ad una vera e propria campagna di disinformazione mirata a farne aumentare le prescrizioni, campagna messa in atto da diverse case farmaceutiche. Contro di esse, nel corso degli anni, si sono accumulate oltre duemila azioni legali che hanno portato, tra l’altro, al fallimento della Purdue Pharma. Nella sua campagna promozionale veniva infatti asserito che il fentanyl non crea dipendenza, mentre invece è provato che il suo abuso porta a una gravissima forma di dipendenza e al rischio di overdose.

Un’altra causa della diffusione del fentanyl illegale negli Usa è insita nella mancanza in questo Paese di un sistema di assistenza sanitaria universale, sostituita dal sistema assicurativo. Questo ha portato i meno abbienti a rivolgersi al mercato clandestino dei narcotrafficanti che su queste droghe hanno creato un impero, soprattutto quando il legislatore ha tentato di arginare la situazione rendendo più controllate la prescrizione e la distribuzione del fentanyl.

Protagonisti sono i cartelli messicani che, da anni, immettono negli Usa e in Canada grosse partite di fentanyl. Si sospetta che stiano tentando di orientare tutto il consumo di droghe verso questa sostanza che, come detto, viene utilizzata anche come adulterante di altre droghe. Questa situazione è fonte di enormi guadagni per i cartelli della droga per più di un motivo: il fentanyl crea forte dipendenza, è facile da produrre e costa poco perché, come tutti gli oppioidi sintetici, non necessita di piantagioni (che infatti in Messico stanno diminuendo), non è soggetto all’aggressione dei parassiti o alle variazioni climatiche.

Inoltre, dato che il fentanyl è molto potente, circa 50 volte l’eroina, è molto più facile da trafficare: basta pensare che 100 grammi di fentanyl equivalgono a 5 kg di eroina.

La geopolitica del fentanyl: Cina, Messico, Usa

I narcotrafficanti messicani hanno organizzato nel loro territorio dei laboratori clandestini, nei quali specialisti di chimica assoldati allo scopo sintetizzano questa e altre sostanze a partire dai loro precursori provenienti dall’Asia. Tuttavia, essi acquistano anche grandi quantitativi di fentanyl a basso prezzo direttamente dalla Cina, che da anni ne è il più grande produttore mondiale. E ciò nonostante il governo di Pechino abbia dichiarato l’illegalità della sua produzione e si sia impegnato a perseguire chi lo sintetizza. E ciò su pressione degli Stati Uniti, con cui la Cina ha ratificato un accordo in occasione di un incontro – tenutosi a San Francisco lo scorso novembre – tra il presidente americano Joe Biden e il presidente cinese Xi Jinping.

Per capire la portata di questo giro d’affari, basta considerare quanto afferma un rapporto della Dea (Drug enforcement administration), l’agenzia federale antidroga degli Usa, secondo cui un chilo di fentanyl a elevato grado di purezza acquistato in Cina costa tra i 3.300 e i 5.000 dollari.

Una volta mescolato ad altre sostanze, si possono ottenere da 16 a 24 kg di prodotto e il profitto può arrivare fino a 1,9 milioni di dollari.

Se invece il fentanyl viene smerciato tal quale, essendo molto potente, con soli 10 grammi si arriva a produrne più di 300 dosi, che hanno di solito un prezzo compreso tra i 10 e i 60 dollari, a seconda della zona di spaccio. Dato il prezzo abbordabile, anch’esso causa dell’aumento delle overdosi da fentanyl, questa sostanza è consuma-

ta soprattutto tra le fasce più deboli della popolazione americana, in primis gli afroamericani seguiti dai latinoamericani.

Sperimentazioni

Le principali conseguenze del fentanyl sul corpo umano.. Immagine American Addiction Centers.

Mentre negli Usa si tiene il conto delle morti da overdose, in Messico nessuno se ne cura, per cui i narcotrafficanti possono sperimentare liberamente le nuove combinazioni del fentanyl con altre droghe.

Il problema è quello di riuscire a rendere i clienti dipendenti, senza ucciderli con dosi letali, ma per questo occorre sperimentare su esseri umani.

Le cavie vengono reclutate solitamente nei quartieri marginali di alcune città, tra cui Tijuana, Mexicali e Ciudad Juárez con distribuzioni gratuite o a bassissimo prezzo.

A seguito di queste sperimentazioni, molti giovani sono morti e moltissimi sono diventati dipendenti. Si stima che nel 2018 solo a Tijuana e Mexicali vi fossero almeno mezzo milione di dipendenti da sostanze. I centri di disintossicazione presenti solo in queste due città sono 76.

Negli Stati Uniti si sono susseguite tre ondate di crescente consumo di oppiacei (morfina e sostanze similari) e di oppiodi (sostanze con attività morfino-simile), con conseguente aumento delle morti per overdose. Secondo i dati del Cdc (Center for disease control and prevention), agenzia federale del Dipartimento della salute statunitense, la prima ondata si è verificata come conseguenza dell’aumento delle prescrizioni di oppioidi negli anni Novanta, a cui ha fatto seguito un aumento dei decessi da overdose a partire dal 1999.

Si sospetta che, in qualche caso, possano avere fatto uso degli oppioidi anche i familiari dei pazienti, avendo spesso a disposizione le rimanenze del farmaco, per eccesso di prescrizione.

La seconda ondata ha avuto inizio nel 2010, quando è aumentato notevolmente il numero dei decessi per overdose da eroina, cercata da chi non necessitava più di controllare il dolore, ma era ormai diventato dipendente da oppiacei ed era quindi portato a cercarli nel mercato illegale.

La terza ondata è cominciata nel 2013 con un significativo aumento dei decessi da overdose dovuta agli oppioidi sintetici, soprattutto il fentanyl prodotto illegalmente e spesso mescolato ad altre sostanze.

Attualmente gli oppioidi sintetici sono la prima causa di morte sotto i cinquant’anni negli Usa, dove si registrano circa 200 morti al giorno. Nella sola New York ci sono stati tremila decessi per overdose nel 2023. Tuttavia il primato delle morti per overdose spetta a Filadelfia (dove sta emergendo anche il problema del fentanyl tagliato con xilazina, un potente sedativo, analgesico e miorilassante per uso animale, altrimenti conosciuta come tranq), seguita da San Francisco.

Tra il 2013 e il 2021 negli Usa è stato rilevato un aumento di 30 volte dei decessi correlati al fentanyl in età pediatrica e tra gli adolescenti. Mentre per questi ultimi è ipotizzabile il consumo di stupefacenti a scopo ricreativo, per i bambini non si può fare a meno di pensare alla carenza delle cure parentali e soprattutto di attenzione da parte dei familiari consumatori di oppioidi, che molto probabilmente lasciano le sostanze incustodite e a portata di mano dei piccoli.

Le droghe su misura

Come fanno i narcotrafficanti a eludere i controlli e a immettere sul mercato grandi quantitativi di sostanze stupefacenti? La risposta sta nelle designer drug o «droghe su misura», cioè molecole sintetizzate da chimici clandestini che cambiano qualche parte della molecola originale in modo che la nuova sostanza imiti l’effetto del model-

lo di partenza senza essere riconosciuta dai sistemi di controllo. La categoria di designer drug in più rapida espansione è proprio quella degli oppioidi sintetici. Basta pensare che nel 2009 l’Unodc (United nations office on drugs and crime) registrava un solo oppioide costruito «su misura», mentre nel 2023 erano già 132. Le designer drugs riescono a circolare liberamente e legalmente finché non vengono riconosciute, cosa che necessita di test sempre nuovi e più sofisticati. Gran parte delle droghe su misura attualmente in circolo appartengono a quattro categorie: i cannabinoidi sintetici, i catinoni, le fenetilammine e gli oppioidi sintetici. Ciascuna di queste categorie comprende centinaia di molecole molto diverse per natura chimica ed effetti. Queste sostanze sono prodotte principalmente in Cina e India, ma dal 2015 sono stati scoperti almeno 52 laboratori di sintesi clandestina anche in Europa.

Tossicodipendenti sotto un ponte. Foto Rizvi Rahman – Unsplash.

Il ruolo del web

Il mercato di queste sostanze è spesso su internet, sia nel deep web che su normali siti dediti alla vendita di prodotti apparentemente «innocenti»: i cannabinoidi sintetici spruzzati su mix di piante secche da fumare sono venduti come incensi; i catinoni, che si presentano come polveri cristalline e si confondono facilmente con sali da bagno o fertilizzanti, e come tali vengono smerciati. Qualche volta vengono venduti come composti chimici per laboratori di ricerca.

Nei primi anni Novanta, grazie all’avvento di internet, non solo è stato creato un mercato di sostanze stupefacenti sul web, ma per molti chimici clandestini è stato possibile scambiarsi informazioni e, soprattutto, accedere liberamente alla letteratura scientifica, quindi alle procedure di sintesi. In pratica, le ricette sono sul web e i chimici-cuochi producono e vendono dai laboratori clandestini.

Ad esempio, uno studio risalente al 1974 della Janssen Pharmaceutica ha permesso ai chimici clandestini di sintetizzare i derivati del fentanyl, altrimenti detti fentenili. È chiaro quindi che molte designer drugs derivano da molecole di ricerca biomedica e potrebbero pertanto tornare utili nella pratica medica per il loro potenziale terapeutico. Per non parlare del possibile utilizzo in questo campo dell’Intelligenza artificiale (Ia).

Nel 2021 un gruppo di ricerca diretto da David Wishart dell’Università dell’Alberta in Canada ha messo a punto una Ia chiamata DarkNps (New psychoactive substances), la quale ha assimilato le strutture di 1.753 sostanze psicoattive note e ha generato circa 9 milioni di varianti con una capacità di prevedere circa il 90% delle nuove droghe prodotte dai chimici clandestini, rivelandosi utilissima nella lotta al narcotraffico. Tuttavia, le Ia di questo tipo potrebbero presto diventare delle ottime assistenti anche per i chimici clandestini. Nel contempo potrebbero ideare e realizzare la sintesi di nuove molecole utili a scopo terapeutico. Come sempre la scienza è neutra e sta a noi usarla bene o male.

Rosanna Novara Topino