Il carcere uccide


Il 2024 potrebbe essere l’anno che segna un nuovo record di suicidi nelle carceri italiane. Aumentano le leggi repressive che portano a reati ma mancano gli spazi e le risorse per percorsi dignitosi. Facciamo un approfondimento delle condizioni della detenzione insieme a Patrizio Gonnella, presidente di Antigone.

Matteo, Stefano, Alam, Fabrizio, Andrea, Mohmoud. Questi sono alcuni dei nomi delle dodici persone che si sono tolte la vita nelle carceri italiane nel primo mese di questo 2024. Dodici persone che hanno scelto, se di scelta si può parlare, di stringersi un nodo intorno alla gola piuttosto che affrontare la detenzione.

A febbraio sono stati nove i suicidi, a marzo sette, ad aprile cinque. Una lista di nomi che ogni mese diventa più lunga e straziante. Una lista di nomi che, se trasformata in una fredda serie di numeri, ci mostra una statistica che non accenna a migliorare. Il record, negativo, è stato raggiunto nel 2022, con un totale di 85 suicidi; nel 2023 sono stati 70 e i dati del 2024 sembrano tendere a un nuovo primato, tanto che anche il presidente della Repubblica Sergio Mattarella si è sentito in dovere di intervenire per chiedere cambiamenti urgenti sul tema.

L’articolo 27 della nostra Costituzione recita: «Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato».

Se il sistema che dovrebbe rieducare le persone incarcerate per reintrodurle nella società migliori di prima le porta, invece, a togliersi la vita con questa frequenza, diventa necessario interrogarci su quanto funzioni e rispetti i diritti sanciti dalla nostra carta fondamentale.

Celle ad Alcatraz, San Francisco, USA. (© Lisa Blue)

La situazione nelle carceri

A portare avanti la discussione su questo tema c’è in prima linea, dalla fine degli anni Ottanta, l’associazione Antigone.

Fin dalla sua nascita, l’associazione si impegna per i diritti e le garanzie nel sistema penale compiendo ricerche, indagini e promuovendo dibattiti. Il 22 aprile è uscito il suo nuovo rapporto annuale, intitolato «Nodo alla gola», che per questo 2024 mette a fuoco proprio il tema dei suicidi nelle carceri.

Abbiamo intervistato Patrizio Gonnella, giurista e docente universitario che dal 2005 è anche presidente di Antigone, per provare a comprendere più a fondo i problemi che affliggono il carcere e i suoi abitanti.
Gonnella spiega che, prima di tutto, le condizioni di vita nelle carceri sono fortemente condizionate dal numero di persone detenute. Il giorno del nostro incontro di aprile erano 61mila le persone in carcere, a fronte di una capienza regolamentare di 51mila posti, senza contare ulteriori 3.500 chiusi temporaneamente per diverse ragioni.

«Ciò significa che le persone presenti devono dividersi gli spazi residui che rimangono e questo, come si può immaginare, incide sulla qualità delle condizioni di vita», dice Gonnella, spiegando che gli spazi sono innanzitutto quelli fisici delle celle. Queste sono spesso troppo piccole e inospitali e, in alcuni casi, comprendono, senza separazione, anche i servizi igienici, come hanno potuto constatare gli operatori di Antigone durante le loro visite.

Gonnella aggiunge poi che si parla anche di mancanza di spazi dedicati alle attività scolastiche, educative, di cura e socializzazione. Attività fondamentali per costruire un percorso dignitoso che punti davvero al reinserimento nella società.

Persone fragili

«Questa è una condizione generale che, ovviamente, viene aggravata dalla tipologia delle persone presenti, – continua Gonnella -. Molti di loro oggi presentano condizioni pregresse di vulnerabilità sociale, sanitaria o sociosanitaria, problemi di dipendenze, di doppie diagnosi, sia psichiatrica che tossicologica, stranieri che sono già a loro volta esclusi e che finiscono in carcere completando questo percorso di esclusione».

Aggiunge poi che «soprattutto nelle grandi carceri delle metropoli è possibile osservare una vera e propria reclusione di massa di persone che sono i reietti sociali e quindi l’ultimo gradino nella gerarchia delle classi sociali». Sono persone che spesso non hanno gli strumenti per gestire il forte stress della detenzione e che, se non seguite adeguatamente, vanno ad aggravare la situazione di un ambiente già segnato da alta tensione.

Tutto questo si ripercuote sulla psiche delle persone detenute che si ritrovano catapultate in uno stato di isolamento, abbandonate a loro stesse, con pochissime possibilità di essere seguite in una qualche forma di percorso socializzante ed educativo, e a cui sono spesso limitate fortemente le possibilità di contatti verso l’esterno.
Quando sollecitato su come tutto questo influisca sulla loro salute mentale, Patrizio Gonnella fa notare come nella stessa etimologia della parola «pena» sia intrinseca la componente della sofferenza. Spiega poi come il carcere rappresenti di per sé una condizione di disagio e induca patologie. Inoltre le persone che vi entrano, spesso presentano già da prima stati ansiosi e depressivi. Questi possono innescare episodi di tensione, violenza, autolesionismo, o addirittura portare al suicidio.

Filo spinato ai confini con la Russia (© Evgeny Kuklev)

Isolamento letale

Il suicidio è un gesto che va analizzato caso per caso, ogni episodio ha la sua storia e le sue motivazioni. Quando però i casi sono così numerosi è chiaro che ci sono delle condizioni di sistema che influiscono sul fenomeno. Diventa quindi fondamentale studiare la situazione per poter intervenire in maniera puntuale.

Gonnella elenca alcuni ambiti su cui agire. Spiega come sia necessario «far sì che la prima accoglienza sia una delle fasi nelle quali si investano più energie umane ed economiche. La persona quando entra in carcere deve essere presa in carico, in cura, e non messa nei luoghi peggiori dell’istituto, dove le idee suicidarie possono rafforzarsi». Dalle storie delle persone che si sono tolte la vita in carcere si nota, infatti, come spesso l’atto estremo sia avvenuto nel primo periodo di detenzione.

L’isolamento è sicuramente uno dei fattori centrali nel determinare il deterioramento psicofisico che l’esperienza carceraria induce. «Bisogna aumentare i rapporti con l’esterno – continua Gonnella -, aumentare il numero delle telefonate e la durata delle stesse, aumentare i colloqui e le videochiamate. Bisogna far sentire la persona il meno sola possibile e far sì che ci sia vita all’interno del carcere. Vita significa che girando per le sezioni i detenuti possano sentire di non essere completamente abbandonati, che ci sono opportunità, possibilità di svago, di pensare ad altro e non solo alla propria condizione di recluso. Questo è l’impegno che deve avere l’amministrazione: modernizzare, innovare e umanizzare la pena».

I tassi di recidiva

Non è solo una questione di sacrosanto rispetto della dignità umana dei detenuti. Il sistema penale, infatti, oltre a non garantire un trattamento adeguato alle persone che ha in carico non riesce nemmeno a dare una vera sicurezza al resto della società.

La maggior parte della popolazione detenuta non si trova in carcere per la prima volta, ma per la seconda, terza, quarta o quinta. I tassi di recidiva sono altissimi, secondo alcuni recenti dati diffusi dal Cnel (Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro) circa il 70% degli ex detenuti torna a commettere reati. Emerge in maniera chiara, quindi, che la funzione rieducativa del carcere richiesta dalla nostra Costituzione non è solo un dovere nei confronti della persona che si è macchiata di un reato, ma anche nei confronti della società che si aspetta di poter reintegrare gli ex detenuti.

I dati ci dimostrano che uno degli strumenti più potenti in questa direzione è il lavoro. Gli ex detenuti reintrodotti nel mondo del lavoro tornano a commettere reati solo nel 2% dei casi (sempre secondo i dati diffusi dal Cnel). A riprova che percorsi virtuosi ed efficaci possono esistere e che il carcere, ricevendo persone spesso ai margini della società, deve lavorare per ridare loro dignità e non per alimentarne l’esclusione.

Il presidente di Antigone sottolinea un’altra criticità: i dati in materia di recidiva sono pochissimi. Non ci sono indagini ufficiali per capire quali tipi di percorsi culturali, scolastici, lavorativi o psicologici, possano impattare su questi numeri. Una buona politica criminale dovrebbe, invece, cercare di capire quali percorsi ed elementi possano influire per potenziare determinate aree di intervento.

Populismo penale

Queste storie tragiche e questi numeri dovrebbero indurre a utilizzare la strada della detenzione esclusivamente come ultima spiaggia, quando proprio non c’è alternativa. C’è però una tendenza della politica a utilizzare il carcere come risposta ai problemi di sicurezza del nostro paese, per rassicurare le persone promettendo la via più rapida e scenica, quella di togliere dalle nostre città le persone che potrebbero procurare qualche tipo di disagio.

Anche Carlo Nordio, attuale ministro della Giustizia, ha spesso criticato questo approccio durante la sua carriera. Pochi minuti dopo il suo giuramento al Quirinale, avvenuto il 22 ottobre 2022, aveva affermato alla stampa: «La velocizzazione della giustizia passa attraverso una forte depenalizzazione, quindi una riduzione dei reati. Quindi anche eliminando questo pregiudizio che la sicurezza o la buona amministrazione siano tutelati dalle leggi penali. Questo non è vero».

Il governo di cui fa parte non sembra però seguire la stessa linea. La squadra guidata da Giorgia Meloni ha, in questi mesi, aumentato e introdotto ulteriori reati per rispondere a diversi fenomeni, più o meno gravi.

«È quello che possiamo chiamare populismo penale -, spiega Gonnella – una tendenza a rassicurare l’opinione pubblica attraverso l’opzione carceraria. È una rassicurazione simbolica, perché in realtà non c’è un legame tra aumento delle pene e aumento della sicurezza collettiva. È una risposta rassicurante che viene data prescindendo dai dati statistici e di realtà e che parla alla pancia delle persone».

Alternative

Discutendo con il nostro interlocutore, infine, su come bisognerebbe agire emerge la necessità di intervenire su due assi: ridurre il numero di reati punibili con il carcere e il numero dei detenuti, e migliorare le condizioni della detenzione.

Patrizio Gonnella sostiene che andrebbero fortemente limitate le fattispecie dei reati che portano alla carcerazione, escludendo da questo ragionamento il crimine organizzato, i delitti contro la persona e alcuni contro il patrimonio. Per tutto il resto invece bisognerebbe sanzionare in modo diverso e più efficace, ad esempio con attività a favore della collettività, sempre con l’attenzione a non limitare le attività lavorative e di istruzione. Il presidente di Antigone afferma con decisione la necessità di «sganciare dal penale tutto ciò che ha a che fare con il disagio, perché il disagio va affrontato con le politiche di welfare». Bisogna infatti evitare di costruire una spirale che escluda sempre di più gli emarginati e favorire azioni che aiutino le persone a superare le difficoltà che le spingono nella criminalità.

L’altro versante è quello del carcere, ambiente che andrebbe fortemente modernizzato e umanizzato. Stare in carcere non deve significare stare in cella, ma piuttosto, ricorda ancora Gonnella, «trascorrere le ore notturne in cella e le ore diurne in attività che possono essere di scuola, lavoro, sport, cultura, intrattenimento e così via. In modo tale che si possano avere a disposizione quelle opportunità che nella vita non si sono ancora avute o che non si sono volute prendere».

Mattia Gisola




Salute mentale, servono dati e risorse


Circa un miliardo di persone nel mondo soffre di disturbi di salute mentale o derivanti dall’uso di alcol e droghe. Eppure, solo una persona su quattro ha la possibilità di accedere a trattamenti adeguati. Il risultato è una perdita significativa di anni di vita in salute e un costo molto elevato per l’economia mondiale. MConlus affronta anche questo problema tramite le sue missioni in Costa d’Avorio, Messico e Kenya.

Secondo i dati elaborati Our world in data, il portale di divulgazione scientifica sviluppato dall’università di Oxford, nel 2019 erano 792 milioni le persone che convivevano con un disturbo di salute mentale. Il più comune era l’ansia, che toccava 284 milioni di persone, seguito dalla depressione per 264 milioni; 46 milioni di individui presentavano disturbi dello spettro bipolare, 20 milioni erano affetti da schizofrenia o altre psicosi e 16 milioni avevano disordini alimentari. A questi si aggiungevano poi 107 milioni di persone con disturbi derivanti dall’uso di alcol e 71 milioni dall’uso di droghe, per un totale di poco meno di un miliardo di persone@.

I dati, chiarisce il portale, vengono dall’Institute for health metrics and evaluation (Ihme) dell’Università di Washington, a Seattle (Usa), il cui studio Global burden of disease (Gbd) ha indagato gli effetti di 290 malattie e 67 fattori di rischio nel mondo. Il Gbd@ è uno dei principali punti di riferimento per gli studi sulla salute mentale, ampiamente citato e utilizzato dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms). Tuttavia, gli stessi ricercatori che lo hanno realizzato segnalano che su questo tema i dati sono spesso lacunosi e raccolti in modo disomogeneo, specialmente quando riguardano i paesi a medio e basso reddito. Di conseguenza, in particolar modo in quei paesi, l’ampiezza del fenomeno è probabilmente sottostimata.

La pandemia da Covid-19, calcola inoltre l’Ihme, ha indotto un aumento dei casi di ansia (+76,2 milioni) e depressione grave (+53,2 milioni), colpendo in modo particolare le donne e i più giovani@.

Malato mentale chiuso in gabbia nelle Filippine.

Anni di vita persi e risorse insufficienti

Le persone con problemi di salute mentale gravi, sottolinea l’Oms sulla sua pagina dedicata alla salute mentale, muoiono prematuramente – anche con vent’anni di anticipo – a causa di malattie prevenibili e la depressione è una delle principali cause di disabilità.

L’aspetto della disabilità e degli anni vissuti in meno, precisa Our world in data, è molto importante, perché permette di cogliere l’impatto che questi disturbi hanno sulla salute in modo più dettagliato di quanto non sia possibile fare limitandosi solo ai decessi. In particolare, permette di cogliere il cosiddetto «carico di malattia» (disease burden) misurato in anni di vita corretta per disabilità (Daly, o Disability-adjusted life year), cioè la somma del numero di anni persi a causa di malattia o disabilità più quelli persi per morte prematura.

Utilizzando questo indicatore, i disturbi legati alla salute mentale rappresentano il 5% del carico globale di malattia e sono responsabili del 14% degli anni vissuti con malattia o disabilità@.

I problemi di salute mentale non risparmiano gli adolescenti: uno su cinque soffre di questi disturbi e il suicidio è la seconda causa di morte fra le persone fra i 15 e i 29 anni. Anche nelle situazioni post-conflitto la proporzione di persone con un problema di salute mentale è di una ogni cinque. Il costo per l’economia mondiale dei due disturbi più diffusi, l’ansia e la depressione, è quantificato in circa mille miliardi di dollari l’anno@.

Nonostante questi dati, la spesa media per la salute mentale è di circa il 2% al livello globale e anche nell’aiuto pubblico allo sviluppo la quota destinata ad affrontare questo tema non va oltre l’1% dell’aiuto destinato al settore sanitario (che a sua volta è una frazione di quello totale). Tre quarti delle persone affette da uno di questi disturbi non ricevono alcun trattamento e, anzi, si trovano spesso a vivere in contesti in cui pregiudizio, violazioni dei diritti umani, stigmatizzazione e leggi del tutto inadeguate rendono ancora più difficile la loro situazione.

Incontro di formazione a Guadalajara, Messico

La salute mentale e lo stigma

Diversi reportage negli ultimi anni hanno descritto le condizioni in cui sono spesso costrette a vivere le persone affette da questi disturbi nei paesi a basso reddito@: la pratica di incatenare i malati e di confinarli in luoghi come i prayer camps, i campi di preghiera, è una violazione dei diritti umani e peggiora la loro condizione. Anche questa rivista ha raccontato nel 2018 uno degli sforzi di fornire un’assistenza adeguata alle persone con disagio mentale e diffondere la conoscenza del problema in alcuni paesi dell’Africa Occidentale (vedi MC 8-9/2018, Disagio mentale, incontro con Grégoire Ahongbonon).

Priorità: salute mentale

Oggi, nel centro di salute Joseph Allamano di Dianra, in Costa d’Avorio, i missionari della Consolata hanno avviato un servizio di assistenza per le persone con disturbi di salute mentale che il responsabile, padre Matteo Pettinari, progetta di far diventare un giorno un vero e proprio centro diurno.

Uno dei vantaggi di un servizio come questo è poter distinguere fra disturbi di salute mentale, malattie neurologiche e patologie che non hanno nulla a che fare con le due condizioni precedenti. Operare questa distinzione è particolarmente importante nel caso di un disturbo cronico del cervello come l’epilessia@, la cui comprensione in paesi come quelli africani è tuttora inficiata da superstizioni e stigmatizzazione.

Padre Matteo riporta il caso di un giovane preso in carico dal centro di salute di Dianra: «Étienne ha l’epilessia, ma purtroppo qui non è stata subito riconosciuta come tale e, anzi, è stata interpretata come un problema di interferenza con il mondo degli spiriti e altre letture di questo genere, che affondano le proprie radici nella tradizione culturale e nella cosmovisione del popolo senoufo. Per questo la famiglia lo ha progressivamente ritirato dalla scuola e portato da diversi guaritori, che sono intervenuti sulla dieta togliendo la carne o i legumi, senza ovviamente ottenere miglioramenti. Il nostro centro di salute è riuscito a intercettare il suo bisogno di assistenza e inserirlo in un programma che prevede il trattamento farmacologico. Ora Étienne riesce a gestire il piccolo punto ristoro del centro sanitario e ad avere una vita comparabile con quella di persone non affette da questa malattia, ricavando anche un reddito che lo rende economicamente indipendente. Inoltre, adesso ha un contesto di relazioni che lo sostengono, liberandolo dall’isolamento al quale sono spesso condannate le persone nella sua situazione».

Il dispensario di Dianrà, in Costa D’Avorio

La salute mentale e il conflitto

Lo scorso 29 marzo padre Ramón Lázaro Esnaola condivideva via Telegram dal Messico una notizia apparsa in un articolo sul sito di una radio di Guadalajara: nei primi tre mesi del 2022, nello stato di Jalisco c’è stato un solo giorno senza omicidi, il 23 marzo. Le statistiche del governo federale, continuava l’articolo, rivelano che dal 1° gennaio al 27 marzo c’erano stati 364 omicidi dolosi, 4,23 al giorno in media@. In Italia, nello stesso periodo gli omicidi sono stati 67@.

Secondo un’indagine dell’Istituto nazionale di statistica del Messico (Inegi) effettuata su un campione di 27mila abitazioni, il 39,6% degli intervistati di 18 o più anni dichiara di aver sentito spari frequenti di arma da fuoco nei pressi della propria abitazione nell’ultimo trimestre del 2021@.

Servizio ai malati mentali nel dispensario di Dianrà, Costa D’Avorio

Alla tensione e violenza generalizzata si aggiunge poi la violenza domestica: sempre l’istituto nazionale di statistica riporta in uno studio del 2016 realizzato su oltre 142mila case che una donna su quattro di età superiore ai 15 anni aveva subito una forma di violenza – fisica, emotiva, sessuale – da parte del partner negli ultimi 12 mesi (il dato saliva al 43% considerando tutta la vita); oltre una su cinque riportava che le violenze avevano avuto luogo nell’ambiente di lavoro, il 17,4% in  ambito scolastico e il 10% in ambito familiare escludendo il compagno, quindi da parte di fratelli, sorelle, padri, madri, patrigni, matrigne e altri parenti@.

In un contesto come questo, gli interventi che i missionari della Consolata stanno mettendo in atto cercano di fornire alle persone alcuni strumenti che permettano loro di affrontare le situazioni di violenza e i lutti. In particolare, riporta padre Ramón nella relazione sul progetto finanziato dagli Amici di Missioni Consolata con la raccolta fondi del 2020@, nei laboratori proposti nel corso del progetto si è lavorato sull’identificare «situazioni che generano squilibri emotivi, modelli, convinzioni che hanno causato la perdita di autostima», incoraggiando la conoscenza di sé e lo sforzo di basare il proprio processo decisionale su motivazioni razionali e non impulsive, mentre i laboratori più specifici sulla perdita e sul lutto sono previsti entro la fine di quest’anno.

Quanto alla risposta delle autorità sanitarie pubbliche, riferisce sempre dal Messico padre Alex Conti, il Sistema nazionale per lo sviluppo integrale delle famiglie «è presente in ogni comune e fornisce assistenza psicologica a costi accettabili, anche se non pubblicizza molto il servizio. Un servizio di assistenza psicologica è presente anche in molte parrocchie».

Dal 2018 vi è poi una legge, la Nom 035, per la «prevenzione dei fattori di rischio psicosociale, ovvero quegli elementi in un ambiente di lavoro che possono rappresentare un rischio per la salute mentale delle persone, come orari lunghi, sovraccarico di lavoro, leadership negativa e mancanza di controllo sul lavoro, tra gli altri. Questo regolamento è obbligatorio per tutti i luoghi di lavoro», ma secondo il quotidiano El Economista solo un terzo delle imprese ha applicato la legge in tutti i suoi aspetti@.

«Gli psicologi professionisti privati forniscono assistenza a costi variabili che vanno dai 300 pesos (circa 13,54 euro) in periferia e dagli 800 ai 1.200 (36-54 euro) in città per le persone dei ceti più ricchi. Uno dei problemi è che gli assistiti spesso non hanno costanza e, nel caso di quelli meno abbienti, danno priorità ad altre spese».

Formazione di operatori per il nuovo servizio ai malati mentali nel dispensario di Dianrà, Costa D’Avorio

la cittadella psichiatrica a Nairobi

Lo scorso novembre il quotidiano Avvenire riportava la notizia della firma di un memorandum d’intesa fra il governo keniano del presidente Uhuru Kenyatta e Gksd, «una partecipata del Gruppo San Donato che gestisce in Italia 17 ospedali privati in convenzione col Servizio sanitario nazionale, tra cui eccellenze come il San Raffaele di Milano». L’intesa dovrebbe portare alla costruzione, su una superficie di 80 ettari, di un complesso per la salute mentale, il Mathari Mental Hub, in grado di ospitare fino 600 pazienti assistiti da 1.100 membri dello staff fra medici e tecnici. Si tratterebbe di un «polo d’eccellenza di salute mentale – pubblica e gratuita – non solo per il Kenya, ma per tutta l’Africa Centrale»@.

Anche solo dalla città di Nairobi non mancherebbero gli utenti: una ricerca sulle sex workers di Nairobi, disponibile sul sito della Cambridge University Press, ha riportato che su 1.039 persone, di età media pari a 33,7 anni, che hanno preso parte allo studio, circa una su quattro soffriva di depressione moderata/grave, una su dieci d’ansia moderata o grave, il 14% di disturbo da stress post traumatico e il 10,2% segnalava un comportamento suicidario recente: un tentativo di suicidio nel 2,6% dei casi e ideazione suicidaria nel 10%. Tra le donne con disturbi di salute mentale, circa due su tre hanno avuto anche un problema da abuso di alcol o droghe@.

Chiara Giovetti




L’ad gentes della cooperazione

testo di Chiara Giovetti |


Salute mentale in Costa d’Avorio, biogas per le scuole del Kenya, rifugiati venezuelani in Brasile. Sono tre degli ambiti nei quali i missionari della Consolata si impegneranno in questo 2020,  cercando di coniugare la più che centenaria esperienza di lotta alla povertà con gli attuali temi dell’inclusione e dell’ambiente.

(© AfMC/Ariel Tosoni)

1. Costa D’Avorio

La malattia mentale, terra di nessuno della sanità

«Si può dire che i malati mentali siano l’ad gentes del mondo della salute: quelli che nessuno ha ancora avvicinato, di cui nessuno vuole occuparsi». Padre Matteo Pettinari, missionario italiano che lavora a Dianra, Costa d’Avorio, usa questa immagine per sottolineare come la salute mentale sia ancora un ambito inesplorato e ai margini, così come ad gentes indica appunto la missione che si rivolge a chi ancora non è stato raggiunto dall’annuncio del Vangelo.

Insieme ai confratelli padre Ariel Tosoni, argentino, e padre Raphael Ndirangu, kenyano, padre Matteo ha avviato un dialogo con la sanità pubblica ivoriana, in particolare con il professor Asséman Médard Koua, direttore dell’ospedale psichiatrico di Bouaké – struttura sanitaria che si occupa della salute mentale di tutta la regione settentrionale del paese – e con la sua équipe. «L’ospedale in cui il professor Koua lavora», spiega padre Ariel, «dovrebbe gestire i pazienti psichiatrici di un bacino d’utenza pari a undici milioni di persone».

Numeri in linea con quelli riportati sul sito di Samenta-com@, il progetto di salute mentale comunitaria lanciato dal ministero della Salute e igiene pubblica ivoriano e dalla tedesca Mindful-Change-Foundation.

In Costa d’Avorio, si legge sul sito, a partire dal 2002 la popolazione è stata colpita psicologicamente e socialmente dalle varie crisi, cioè dai disordini e conflitti che hanno scosso il paese nel primo ventennio del XXI secolo. L’offerta e l’accesso alle cure per la salute mentale sono limitati: due ospedali psichiatrici pubblici e circa trenta psichiatri per oltre 26 milioni di abitanti.

Secondo i dati dell’Organizzazione mondiale della sanità, le persone colpite da disturbi mentali e neurologici sono presenti in tutte le regioni del mondo, in tutti i contesti sociali e in ogni fascia d’età, indipendentemente dal livello di reddito dei loro paesi. A livello mondiale, il peso di questi disturbi sul carico complessivo delle malattie è del 14%; nei paesi a basso reddito tre su quattro pazienti affetti da tali disturbi non hanno accesso alle cure di cui hanno bisogno.

(© AfMC/Ariel Tosoni)

«Chi li aiuterà se non voi?»

In Costa d’Avorio esiste un coordinamento chiamato Urss-Ci, acronimo di Unione dei religiosi e delle religiose nella salute e nel sociale in Costa d’Avorio, del quale i missionari della Consolata sono parte. «Il professor Koua ci ha avvicinato in quanto membri Urss-Ci», spiegano ancora i padri Matteo, Ariel e Raphael. «La sanità pubblica fatica a seguire questi malati, ci ha detto il medico: se anche voi religiosi impegnati nell’ambito sanitario restate prigionieri di timori e remore e li rifiutate, allora chi li aiuterà?».

A questo primo dialogo è succeduta poi una sessione di formazione che lo psichiatra ha tenuto al centro sanitario Beato Joseph Allamano (Csja) di Dianra, gestito dai missionari della Consolata, e l’avvio di una collaborazione che ha coinvolto anche il neonato Distretto sanitario di Dianra per mezzo del suo direttore.

Sono già attivi alcuni servizi che permettono di seguire pazienti affetti da epilessia e da malattie psichiatriche: tutte persone che la comunità emargina perché le considera possedute.

«Fin dalla prima visita del professor Koua al centro sanitario», racconta padre Matteo, «abbiamo toccato con mano l’urgenza di fornire servizi in questo ambito. Noi missionari non avevamo fatto preventivamente una grande pubblicità alla cosa. Avevamo giusto segnalato, durante la messa e nelle comunità di base, che sarebbe venuto un medico specializzato in salute mentale e che, se qualcuno conosceva persone con disturbi di questo tipo, poteva farle venire per una consultazione: si sono presentate 72 persone solo il primo giorno».

Oggi il centro di Dianra lavora applicando un protocollo e utilizzando schede fornite da Samenta-com; offre consultazioni ai pazienti per identificarne con precisione, sulla base di una serie di domande contenute nelle schede, il tipo di disturbo e definire poi la terapia.

(© AfMC/Ariel Tosoni)

Formare operatori

ll 2020 sarà dunque l’anno in cui si penserà a come dare maggior forma, struttura ed efficacia a questa collaborazione appena partita e già così significativa. «Certo», riconoscono i missionari di Dianra, «non possiamo fare un centro psichiatrico. Ma se già con la formazione del nostro personale sanitario siamo in grado di accompagnare diverse di queste persone che prima erano lasciate ai margini, perché non pensare a uno spazio piccolo e semplice da costruire – ad esempio un appatam, la versione locale della paillote – che diventi una sorta di centro dove i pazienti possano svolgere attività diurne?».

Lo spazio, per come lo stanno concependo i missionari, potrebbe ospitare corsi di teatro, danza e varie forme di arte-terapia che vanno dalla pittura alla musica e alla scrittura, e diventerebbe un luogo dove, anche grazie all’aiuto di volontari, si ferma la dinamica di emarginazione e ci si sforza, viceversa, di invertirla, riavvicinando di nuovo i pazienti psichiatrici al resto della comunità attraverso l’arte come strumento di socializzazione.

Immagini della costruzione dell’impianto di biogas finanziato dalla Caritas italiana nel 2019 (© AfMC/Denis Mwenda)

2. Kenya, il biogas

Energia pulita per le scuole

La ricerca di fonti energetiche rinnovabili resa urgente negli ultimi anni dalla necessità di limitare le emissioni di anidride carbonica ha portato maggior attenzione sulle cosiddette biomasse, di cui fanno parte i rifiuti biodegradabili derivanti dall’agricoltura e dall’allevamento. Il biogas può essere prodotto a partire da questi rifiuti e utilizzando i cosiddetti digestori.

I digestori, spiega la Fao, sono grandi serbatoi in cui il biogas viene prodotto attraverso la decomposizione di materia organica mediante un processo chiamato digestione anaerobica. Sono chiamati digestori perché il materiale organico viene «mangiato» e digerito dai batteri per produrre biogas@.

Nel 2019, una delle strutture educative gestite dai missionari della Consolata in Kenya, la scuola materna e primaria Familia Takatifu (Santa Famiglia) di Rumuruti, in Kenya, ha utilizzato questo metodo per dotarsi del gas necessario a soddisfare il fabbisogno di energia della cucina che serve gli oltre 700 allievi della scuola.

Il progetto, finanziato da Caritas Italiana nell’ambito del suo programma che sostiene ogni anno centinaia di microprogetti nel mondo, si è concluso lo scorso gennaio e ha visto diverse fasi: lo scavo dello spazio dove collocare il digestore, la costruzione di quest’ultimo in cemento, l’introduzione della biomassa nel digestore, la sua messa in funzione per la produzione di biogas e l’installazione nelle strutture della scuola di un impianto in grado di portare il gas dal punto dove viene prodotto alla cucina.

Immagini della costruzione dell’impianto di biogas finanziato dalla Caritas italiana nel 2019 (© AfMC/Denis Mwenda)

I vantaggi del biogas

«La scuola ora usa il sistema a biogas per la cottura dei cibi, la bollitura dell’acqua e anche, in parte, per l’illuminazione», riporta il responsabile di progetto padre Denis Mwenda Gitari. «Il residuo prodotto, inoltre, si può usare come fertilizzante per l’orto della scuola e», conclude il missionario, «il biogas ci permette ora di risparmiare sui costi necessari a garantire la qualità e la continuità delle attività scolastiche».

Già nel 2013 a Familia ya Ufariji, la casa per i ragazzi di strada che i missionari della Consolata gestiscono nella capitale Nairobi, si era installato un biodigestore che usava scarti e rifiuti della struttura integrati con quelli derivanti dall’allevamento di sei mucche e tre vitelli@. Nel corso del 2020 si tenterà poi di portare il biogas anche nella scuola primaria di Mukululu.

Le tecnologie per la produzione di questo tipo di energia si sviluppano continuamente e cercano di adattarsi alle esigenze e al potere d’acquisto delle comunità rurali dove vengono utilizzate. Il Fondo internazionale per lo sviluppo agricolo delle Nazioni Unite (Ifad) promuove, nel suo portale dedicato alle soluzioni per lo sviluppo rurale individuate dalle comunità locali@ , un sistema per la produzione di biogas che è più flessibile@ perché utilizza plastica e non cemento per costruire digestori trasportabili, facili da installare e rapidamente produttivi.

Costruzione dell’impianto di biogas per la scuola Familia Takatifu a Rumuruti (© AfMC/Denis Mwenda)

 


3. Boa vista

La migrazione venezuelana

La situazione politica ed economica del Venezuela non ha ancora smesso di spingere migliaia di persone a emigrare. L’Alto Commissariato Onu per i rifugiati parla di 4 milioni e mezzo di migranti e rifugiati Venezuelani nel mondo@.

Alimentação crianças – alimentazione dei bambini (© AfMC/Jaime Patias)

Il reportage di Marco Bello e Paolo Moiola, di cui nel numero scorso di MC è uscita la prima puntata@ – vedi questo MC pag. 10 -, ha raccontato la vita dei migranti venezuelani arrivati nello stato brasiliano di Roraima e, in particolare, delle oltre 630 persone che vivono in uno spazio occupato e autogestito a Boa Vista. Ka Ubanoko, questo il nome dello spazio, ospita 150 famiglie indigene in prevalenza di etnia warao, ma ci sono anche gruppi E’ñepa, Cariña, Pemon e 76 famiglie non indigene.

Un’équipe itinerante di missionari della Consolata assiste questi rifugiati e migranti: da fine luglio 2019, cento bambini e venti adulti hanno cominciato a ricevere ogni martedì e venerdì un pasto preparato sul posto da volontari. I fondi per l’intervento sono venuti da donatori privati che sostengono direttamente l’Istituto missioni Consolata (Imc), da benefattori della città di Boa Vista e da alcune parrocchie del Sud del Brasile più sensibili alla situazione dei migranti e dei rifugiati.

Dallo scorso dicembre, grazie al sostegno di un donatore statunitense, è stato possibile intensificare e stabilizzare il programma di lotta alla malnutrizione, estendendolo a 12 mesi (cioè per tutto il 2020) e aumentando fino a 150 i bambini e a trenta gli adulti assistiti.

(© AfMC/Jaime Patias)

Bambini sradicati

«Una delle conseguenze più preoccupanti di questa situazione», riportava lo scorso autunno il consigliere generale Imc, padre Jaime Patias, al rientro dalla sua visita a Ka Ubanoko, «è che questi bambini, completamente sradicati, non riceveranno per mesi, forse per anni, alcuna forma di istruzione». Uno dei rischi connessi alla crisi venezuelana, in altre parole, è quello di far crescere una generazione di giovani privi di formazione e di competenze, limitando molto le loro possibilità di contribuire in modo attivo alla ricostruzione del loro paese.

Alimentação crianças – alimentazione dei bambini – volontari al lavoro per preparare il cibo (© AfMC/Jaime Patias)

Per questo, prima del pasto, i bambini seguiti dall’équipe missionaria ricevono almeno una formazione civico-sociale. Nel corso del 2020 si valuterà la fattibilità di un intervento il cui obiettivo sia quello di fornire a questi bambini una formazione più continua e strutturata.

Chiara Giovetti