Islam: Finché il jihadismo rimane «halal»
Eravamo stati a Manchester, prima dell’attentato jihadista dello scorso maggio (che ha fatto 22 morti). Qui avevamo incontrato molti giovani libici dalle esistenze complicate e dalla testa confusa. Oggi tanti quartieri delle città inglesi sono degli stati nello stato, delle realtà parallele, aliene dal mondo circostante. Rappresentano visivamente il fallimento dell’integrazione. E un futuro di incertezze e paure. Come anche Barcellona (con 16 morti) dimostra.
Manchester, settembre 2015. Arrivo in città in autobus, da Londra. Ho appuntamento per interviste con alcuni simpatizzanti e ex combattenti libico-britannici e libico-irlandesi, contigui a movimenti dell’islamismo politico, in un quartiere ad alta densità di immigrati musulmani. Mentre mi dirigo verso il luogo dell’incontro, d’improvviso mi sembra di essere catapultata a Islamabad, a Kabul o chissà dov’altro, ma non certo in Gran Bretagna. È una sensazione strana, di proiezione spazio-temporale in realtà lontane migliaia di chilometri. Donne, uomini, bambini di varie provenienze geografiche, indossano abiti delle loro tradizioni islamiche locali, e veli di ogni tipo, dallo hijab fino al niqab1. Sono rare le apparizioni di giovani non in abiti lunghi o foulard. I ragazzini, anche loro in vestiti tradizionali, si recano nelle scuole coraniche. Noto uomini, tra cui molti africani subsahariani, con lunghe barbe, tipiche di chi si riconosce nelle dottrine neo salafite, cioè di un’interpretazione radicale dell’islam, spesso politicizzata. I negozi, i ristoranti, i supermercati sono tutti «halal», cioè «islamicamente leciti»: sono pachistani, mediorientali, turchi, indiani, ecc. La varietà delle lingue che si sentono va dall’urdu, all’arabo, al turco, in quanto l’inglese è semisconosciuto, come mi dimostra il cameriere del bar dove mi siedo ad aspettare i miei interlocutori.
A Manchester sono numerose le moschee, le scuole coraniche e i centri islamici dove viene diffusa la dottrina neo salafita. Interi quartieri della città, ma anche di Londra e di altre aree della Gran Bretagna, sono state trasformate in ghetti di cittadini musulmani provenienti da paesi, culture e tradizioni totalmente diverse e spesso «nemiche» tra loro, che vanno ad aumentare la tensione sociale.
Manchester, il «melting pot» e il suo fallimento
Se è vero che barba e abito non fanno il monaco, è anche vero che la concentrazione di persone con stili e visioni della vita, dei rapporti umani e sociali totalmente e intenzionalmente alieni rispetto a quelli della società ospite, può essere un vero azzardo. È permettere uno stato nello stato. Una realtà parallela. E in questa città, perlomeno in certe zone, è ciò che si percepisce in modo molto forte: il fallimento del melting pot (da non confondersi con l’assimilazione, retaggio coloniale francese) e della cittadinanza paritetica, dove il cittadino immigrato o di seconda-terza generazione viene integrato nel tessuto sociale, relazionale e lavorativo del luogo di residenza, pur mantenendo radici religiose e culturali proprie.
Girando per queste aree di Manchester ho la sensazione che ci sia una bomba ad orologeria pronta a esplodere alla prima occasione, innescata da un forte detonatore sociale e politico fatto di rabbie represse (per le politiche coloniali passate e neo coloniali presenti della Gran Bretagna in molti dei paesi di provenienza dei cittadini immigrati), di fallimenti esistenziali e sociali, di debolezze umane, a cui si aggiunge il fenomeno socio-politico dei cosiddetti «jihadisti» che ritornano da fronti bellici, ad esempio di Libia e Siria. Si tratta di cittadini britannici, britannico-arabi o arabi che in Libia hanno collaborato anche con le forze Nato e occidental-arabe, o che sono passati dai campi di addestramento di al-Qa’ida e del Daesh, dove hanno appreso tecniche della guerriglia urbana, della dissimulazione tra la folla di inermi cittadini, della costruzione di ordigni e altro ancora, pronti all’azione in Europa, in Nordafrica o Medioriente.
A Manchester, come in altre città britanniche, è facile, infatti, incontrare giovani e adulti di varie origini geografiche uniti da quella dottrina politica radicale che è stata sostenuta, armata, finanziata dall’Occidente e da certi paesi del Golfo, Arabia Saudita in primis. Spesso si tratta di giovani esaltati, depressi, borderline, mal integrati oppure cittadini e studenti di classe media, ma con problemi di inserimento sociale. Ne parla diffusamente una ricerca di un gruppo di psichiatri, sociologi, antropologi e giuristi francesi2. Ciò che accomuna tutti, spesso, è la rabbia per l’ingiustizia, il fallimento sociale, cui si aggiungono il vuoto esistenziale, la fragilità o instabilità psicologica. Su questi individui fanno particolare presa i predicatori radicali, che li indottrinano in centri islamici o, sempre più spesso, via web. Le prediche infuocate (non molto diverse nei modi da quelle di certi evangelici in America Latina) canalizzano la loro collera e delusione, dirigendola verso obiettivi politici e concreti, dando un senso di missione e dunque di scopo nella vita3.
Le testimonianze che raccolgo durante il mio soggiorno a Manchester vanno in questa direzione, anche se i miei intervistati non sono giovani che hanno commesso atti di terrorismo in Europa.
Riscoperta della fede islamica e «rinascita»
Yusuf è un ragazzo simpatico, sembra più giovane dei suoi 23 anni. È figlio di madre irlandese e padre libico, e vive a Manchester da qualche anno. Il marito di sua sorella è un famoso combattente libico che partecipò, nel 2011, alla rivolta contro Muammar Gheddafi, e appartenente al Lifg – Libyan Islamic Fighting Group – un gruppo di al-Qa’ida. Yusuf e suo fratello maggiore, Sami, hanno avuto un’infanzia difficile, a causa di problemi familiari e sociali, che li hanno resi, in certi momenti, dei borderline. Entrambi hanno preso parte alla guerra contro il regime libico, a fianco della Nato, nel 2011, e insieme a gruppi dell’islamismo politico. Durante l’addestramento nei campi militari in Libia, hanno riscoperto la fede e sono «rinati», come raccontano i due giovani. Yusuf è tornato a vivere in Inghilterra, e ogni tanto va in Libia a trovare la famiglia, mentre Sami vive a Tripoli, dove ha trovato lavoro come reporter.
Casi come quello dei due fratelli di Manchester sono numerosi, ormai, nel panorama europeo. Tuttavia, il loro esito esistenziale e lavorativo è differente da altri che, lasciando i campi di addestramento e la guerriglia, si sono trasformati in «jihadisti di ritorno», come la cronaca degli ultimi sei anni purtroppo ci mostra.
Manchester-Libia: andata e ritorno
Manchester, 23 maggio 2017. Alle 22:30 esplode una bomba all’arena cittadina affollata di adolescenti che assistono al concerto di una famosa star dei teenager. È una strage degli innocenti. I video mostrano in tutto il mondo gente presa dal panico: bambini e genitori che cercano le uscite di sicurezza, urlando terrorizzati. Un kamikaze s’è fatto esplodere in mezzo ai ragazzini. È Salman Abedi, 23 anni, cittadino britannico, figlio di genitori libici oppositori del regime di Gheddafi. Ultimo di quattro fratelli tornati in Libia con padre e madre, Abedi era iscritto all’università Salford di Manchester, ed era noto alle forze dell’ordine e dell’intelligence, secondo quanto ha affermato la polizia.
Nei giorni successivi all’attacco, The Independent e The Guardian spiegano, riferendo testimonianze e dichiarazioni di compagni di università e testimoni, che Abedi era appena ritornato dalla Libia, paese dove qualunque potenziale jihadista terrorista può trovare campi di addestramento. Il giovane faceva la spola con la Libia. Come consueto, il Daesh rivendica anche quest’ultimo orrore.
Il legame tra Manchester e la Libia è molto forte, in quanto la città britannica ospita migliaia di libici e relative famiglie che hanno svolto un ruolo importante nella rivolta contro Gheddafi, nel 2011. Diversi di questi erano collegati al Lifg4.
Le guerre in Libia e in Siria hanno scatenato un Vaso di Pandora: la promiscuità con dottrine radicali violente e un «humus» umano potenzialmente esplosivo fatto di tanti soggetti, gruppi, «società» parallele e poco o per nulla comunicanti e integrate.
Esiste ormai una fitta e dettagliata documentazione, anche di dispacci di intelligence desecretati, che evidenzia la collaborazione tra combattenti radicali, la Nato e alcuni stati europei come Francia e Gran Bretagna, e il ruolo di movimenti dell’islamismo politico nelle cosiddette primavere arabe5. Uno degli effetti di tali partnership, oltre alle evidenti destabilizzazioni regionali e locali, è il fenomeno del «jihadismo di ritorno», cioè di giovani combattenti indottrinati e addestrati nei campi militari in Libia o in altri Stati arabi, finanziati dalla Cia e da altre agenzie e dai paesi del Golfo, e tornati nel proprio paese o in quello di residenza, e poi coinvolti in attacchi terroristici.
Cui prodest?
Come detto, Salman era britannico: nato nel 1994 a Manchester da genitori libici.
«Suo padre, Ramadan Abedi, era un ufficiale dei servizi segreti libici, prima di essere reclutato dagli inglesi – scrive il sito Vietatoparlare.info6 -. La sua copertura fu bruciata accidentalmente da un parente della moglie, Samia Tabal, poco dopo il fallimento di una vasta cospirazione dell’esercito libico per uccidere Muammar Gheddafi. Quest’ennesima congiura contro Gheddafi innescò non solo una delle più grandi purghe nei servizi di sicurezza, ma la dissoluzione delle Forze Armate libiche, sostituite da ciò che Gheddafi chiamò “popolo in armi”, concetto vagamente ispirato ai sistemi svizzeri e svedesi di difesa logistica e che si rivelerà fatale nel 2011, quando la Libia fu attaccata dalla Nato. Fu il servizio segreto inglese che si occupò dell’esfiltrazione o fuga della famiglia Abedi dalla Libia. Ufficialmente, Abedi fuggì dalla dittatura di Gheddafi rifugiandosi nel Regno Unito. Gli Abedi risiedettero prima a Londra, per poi trasferirsi nel sobborgo di Manchester dove risiedettero per oltre un decennio. Come molti giovani delle periferie delle città europee, Salman crebbe senza riferimenti e mostrò particolare entusiasmo verso la cosiddetta “primavera araba” al punto di voler unirsi ai ribelli libici. Ciò naturalmente attirò subito l’attenzione dei servizi segreti inglesi responsabili della perlustrazione della periferia cercando candidati disposti a sacrificarsi in battaglia contro i nemici di Sua Maestà, in nome di Allah. (…) La polizia inglese rivelava rapidamente l’identità del presunto terrorista, suggerendo che non fosse solo conosciuto, ma supervisionato dagli agenti che seguivano l’ambiente da cui proveniva».
La lunga citazione solleva vari interrogativi. Questi giovani esaltati sono «asset», strumenti umani da utilizzare all’occorrenza? Si tratta, come abbiamo visto, di persone note, che hanno partecipato a rivolte arabe, che entrano e escono dai paesi dove risiedono e da quelli dove vanno a fare il «jihad» per anni appoggiato dall’Occidente.
Ora, l’aver pensato che questi giovani – con la loro visione radicale e estrema di una politica religiosizzata o di una fede politicizzata, condita con problemi sociali e personali – non costituissero un «problema» anche in loco, è davvero poco credibile.
L’esito, come sempre, è la morte di innocenti. Nel caso di Manchester, adolescenti e bambini.
Al di là dell’orrore e della rabbia che tali azioni suscitano, dovremmo continuare a porci la sana domanda: cui prodest?
Angela Lano
(quarta puntata – continua)
Note
(1) Lo hijab è il foulard che copre il capo incorniciando il viso; il niqab è il velo nero integrale, che copre anche il volto lasciando scoperti solo gli occhi.
(2) Fonte: Dounia Bouzar. Link: http://www.bouzar-expertises.fr/metamorphose
(3) Dossier MC, Sventola bandiera nera 2, marzo 2016.
(4) Fonte: Jon Sharman, Kim Sengupta, Salman Abedi: Police probe Libyan links of Manchester bomber who killed 22, 23 maggio 2017, www.independent.co.uk/
(5) Nelle prossime puntate parleremo dei casi della Tunisia e della Libia.
(6) Fonte: L’attentatore di Manchester era vicino ai servizi segreti inglesi, 24 maggio 2017, www.vietatoparlare.it (traduzione di un testo apparso su strategika51.wordpress.com).