Padre Luca Bovio, missionario della Consolata in Polonia, ha compiuto diversi viaggi nel Paese in conflitto dall’inizio dell’invasione russa. Ogni volta per portare tutto l’aiuto che gli è possibile, anche grazie alla generosità di molti amici della Consolata.
A inizio novembre è stato a Fastow, vicino alla capitale Kiev, e a Kherson, sul fronte Sud della guerra.
«Ti auguro la pace dal cielo», è il saluto che spesso ci si scambia in Ucraina salutandosi alla fine di un incontro.
È un augurio con un significato concreto: ti auguro che nessun missile o drone cada dal cielo. In tempo di guerra, è un augurio essenziale.
Ma è anche un’invocazione: il Signore che sta nei cieli ci aiuti ad avere la pace.
Dal marzo 2022, quando compimmo il nostro primo viaggio nell’Ucraina invasa dalla Russia, siamo tornati nel Paese diverse volte. I Missionari della Consolata e la Chiesa polacca non smettono di portare il loro aiuto alle popolazioni colpite dal conflitto.
In questi ultimi mesi siamo tornati in Ucraina diverse volte. L’ultima pochi giorni fa. Un viaggio iniziato nella comunità dei Domenicani a Fastow, non lontano dalla capitale Kiev, proseguito a sud fino alla città di Kherson e conclusosi con il ritorno a Kiev.
A Fastow c’è una vivace comunità di Domenicani impegnati non solo nel guidare la parrocchia locale e alcune chiese limitrofe, ma anche, con l’aiuto di numerosi volontari, in molte opere sociali.
Tra queste, l’accoglienza di bambini che qui possono stare sotto un tetto sicuro e caldo, e ricevere istruzione.
Poco lontano è stato aperto un centro di riabilitazione con una nuova cappella benedetta domenica 3 novembre dal Nunzio apostolico.
Dopo aver partecipato alla giornata di festa, allietata anche da diversi cori, tra cui un coro di giovani non autosufficienti e un gruppo musicale di soldati, ci siamo diretti ancora una volta nella città di Kherson, posta a sud del Paese, sulla riva occidentale del fiume Dniepr.
In questi giorni la città celebra il secondo anniversario della liberazione, avvenuta l’11 novembre del 2022, quando, dopo una breve occupazione russa, è ritornata sotto il controllo ucraino.
Da quel momento non si può dire che la città viva in pace, anzi di fatto è un fronte di prima linea. Il fiume, in questo momento, determina il confine naturale tra i due eserciti: gli ucraini a ovest, i russi a est.
Le condizioni di vita in questo luogo sono difficili a motivo dei continui lanci che da una sponda all’altra si scambiano gli eserciti giorno e notte.
La città che contava quasi 300mila abitanti prima dell’invasione, si è vista ridotta a 30mila. Oggi si assiste a un timido ritorno, e oggi si calcola che in città vivano circa 70mila abitanti. Alcuni, infatti, nonostante il pericolo, hanno deciso di tornare non avendo la possibilità di vivere per un lungo periodo da altre parti.
Don Massimo con il suo vicario, anche lui don Massimo, e un catechista che vive con loro, Sergio, stanno nell’unica parrocchia latino cattolica della città, dedicata al Sacratissimo Cuore di Gesù, posta non lontano dalla riva del fiume.
Sono impegnati a tenere viva la piccola comunità cristiana che ogni giorno si ritrova nella chiesa per celebrare la santa Messa, ma anche nel distribuire aiuti umanitari.
Don Massimo si reca quasi ogni giorno nei villaggi attorno alla città per portare acqua potabile. Qui l’acqua è abbondante nel sottosuolo, tuttavia, a motivo della guerra, le falde sono inquinate. Le esplosioni di magazzini di fertilizzanti usati dai contadini hanno causato un doppio danno: la perdita dei concimi e l’inquinamento delle falde.
La fonte di acqua che si trova sotto la parrocchia è ancora pura, e con essa viene riempita una cisterna di 1000 litri che va settimanalmente nei villaggi.
Al mattino, passando i vari check point dei militari, arriviamo nel piccolo villaggio di Sloneczne dove lasciamo la cisterna.
Da Sloneczne ci dirigiamo verso la città e visitiamo la nuova lavanderia che i Domenicani hanno aperto affidandola ad alcune donne del posto.
Da poche settimane qui sono messe a disposizione 10 lavatrici e 10 asciugatrici dove chiunque, soldati compresi, possono gratuitamente lavare i panni.
Nel pomeriggio ritorniamo a visitare il piccolo ospedale di Bylozerka, per consegnare i medicinali che abbiamo portato.
Ritroviamo la giovane chirurga Natalia, l’unica rimasta a lavorare qui. È molto contenta di ricevere i medicinali che portiamo. Le condizioni di lavoro in questo piccolo ospedale che serve una grande regione, sono molto difficili. Ogni giorno il villaggio, e, a volte, l’ospedale stesso, sono colpiti dai droni o dall’artiglieria russi.
I segni delle esplosioni sono visibili. Tutte le finestre sono coperte con i sacchi di sabbia per attutire i colpi.
Delle quattro ambulanze disponibili prima della guerra, ne è rimasta una sola. Le altre sono state tutte distrutte.
Purtroppo, ha perso la vita anche una equipe medica che era a bordo di una di esse. Ultimamente è stata distrutta anche la caldaia dell’ospedale.
I medicinali che consegniamo erano esauriti. Tra questi, ci racconta Natalia, mancano anche gli antidolorifici. L’incontro con lei è breve. La stessa dottoressa ci incoraggia a tornare in città perché fra poco calerà il sole e potrebbero di nuovo iniziare le esplosioni.
Una volta tornati, riusciamo a fare ancora una breve passeggiata nei dintorni della Parrocchia in una città completamente al buio. I parchi sono tutti chiusi, ed è pericoloso attraversarli. Tra le foglie abbondanti che coprono i giardini e i marciapiedi in questa stagione autunnale, sono mischiate alcune mine a forma di foglia lanciate dai droni, pericolose perché difficili da riconoscere.
Notiamo la presenza di tanti cani randagi che girano per le strade deserte. Soprattutto nelle ore serali. È meglio evitarli. Il loro abbaiare è l’unico suono che si sente nel profondo silenzio di questa citta, alternato solo dai rumori degli spari che rimbombano da lontano.
Finita la visita a Kherson, torniamo a Kiev e da lì di nuovo in Polonia. Pensiamo che, nonostante la lunghezza del conflitto e la stanchezza che tutti sentiamo di avere, in primis coloro che abitano in Ucraina, la situazione richiede ancora molta preghiera e molto aiuto. E affidiamo questo Paese all’intercessione del nostro santo fondatore Giuseppe Allamano.
Luca Bovio, Imc
Finlandia. «La guerra ha cambiato le nostre vite»
La quotidianità è stata stravolta dalla guerra: non solo in Ucraina e in Russia, ma anche in Finlandia.
Qui il conflitto si fa sentire per la sua vicinanza, per le nuove scelte politiche del Paese e per le conseguenze concrete nella vita di tutti i giorni, inimmaginabili solo due anni e mezzo fa.
«Prima della guerra, il rapporto con i russi era buonissimo. I finlandesi vivevano di turismo russo, ora la situazione è cambiata totalmente». Lo dice monsignor Raimo Ramón Goyarrola Beldanato, nato il 20 luglio 1969 a Bilbao, in Spagna, nominato vescovo di Helsinki il 29 settembre 2023. La voce si fa dolente: «Pensiamo sempre che le guerre siano lontane, in altri continenti, questa è in Europa. A casa nostra c’è tensione ma anche la fiducia che questa guerra prima o poi finisca».
Monsignor Goyarrola parla anche del dramma dei profughi ucraini. A gennaio del 2022, dopo otto anni di un conflitto tra Russia e Ukraina definito «a bassa intensità», alla vigilia dell’escalation, i fedeli greco-cattolici di origine ucraina presenti a Helsinki erano circa cinquecento. «Secondo gli ultimi dati, oggi sono sette-ottomila persone. La nostra parrocchia di Sant’Enrico ne ha cinquemila», e comunque un numero importante rispetto ai circa ventimila cattolici di rito latino che ci sono in tutta la Finlandia. «È come una “parrocchia”, ma è senza chiesa e senza pastori. E quindi stiamo facendo di tutto per essere vicini. È questo uno dei miei impegni principali oggi».
Monsignor Raimo ha negli occhi la sofferenza di queste persone che da due anni non possono tornare a casa: «Le famiglie non sono complete: manca il papà, manca il marito, il fratello. È molto triste, ma almeno hanno un posto dove stare, molti stanno cercando un lavoro, anche il governo li sta aiutando».
«C’è un lavoro pastorale da fare – presegue il vescovo -, ma c’è anche l’aspetto più umano: trovare appartamenti, trovare da mangiare. La Chiesa non è solo anima e spirito. Gesù nei primi miracoli ha dato da mangiare, siamo corpo e anima, questo è il lavoro della Chiesa».
Abbiamo incontrato monsignor Goyarrola a Roma, in una pausa del corso in Vaticano per i nuovi vescovi. Nominato da Papa Francesco pastore della diocesi di Helsinki («che poi è l’unica di tutta la Finlandia, i miei vicini sono il vescovo di Stoccolma e il vescovo di Mosca», dice sorridendo), appena un anno fa, è uno dei volti più giovani tra i vescovi della Chiesa cattolica.
Nato a Bilbao nel 1969, è medico, professione che non ha del tutto abbandonato perché sta per prendere il dottorato in «cure palliative». Nell’Opus Dei dal 1987, è sacerdote dal 2002. Chiamato nel 2006 a servire una Chiesa alla «fine del mondo», come lui stesso dice, è una persona positiva e gioiosa. Dice di essersi «innamorato subito della Finlandia». Lui, spagnolo, non si lamenta del freddo, della poca luce, della lingua difficile. «Io sono un ottimista, mi fido di Gesù».
Sta di fatto che la diocesi di Helsinki «è la più povera d’Europa. Lo so che può sembrare strano in un Paese ricco, ma è così. I fedeli sono pochi, molti sono immigrati che vivono già tanti problemi. Dallo Stato abbiamo 6 euro per ogni fedele, io li ringrazio sempre i ministri ma è l’equivalente di un caffè e un biscotto e io invece ho tanti sogni, li chiamerei tanti progetti»: una scuola cattolica, centri per il catechismo, una casa per gli anziani, un seminario, chiese nelle città per celebrare le prime comunioni.
«Oggi, in venticinque città dove non abbiamo le nostre chiese, ce le prestano i fratelli luterani e i fratelli ortodossi – prosegue mons. Goyarrola -, perché da noi l’ecumenismo è bellissimo, siamo davvero amici. Anche per il Vaticano siamo un modello, quando si parla di un cammino ecumenico positivo si parla di “finnish way”».
Lui stesso è stato ordinato vescovo in una chiesa luterana, quella di San Giovanni, perché la cattedrale cattolica di Sant’Enrico era troppo piccola per ospitare un evento così importante e partecipato.
In mezzo a tanti problemi, l’amicizia tra i cristiani di diverse confessioni è dunque la via per condividere le sfide del mondo, ma anche «quelle dottrinali».
Una Chiesa che guarda ai migranti, che da oltre un secolo ha capito l’importanza dell’ecumenismo e che oggi fa da apripista anche sulla sinodalità: «Nell’organismo di governo della diocesi, un terzo sono donne, un terzo uomini e un terzo sacerdoti. Quindi i laici sono la maggioranza, ed è bene così». Perché la Chiesa, in fondo, dice il vescovo Raimo Ramón è come «un peschereccio, ognuno ha il suo compito ma per andare avanti devono remare tutti».
Manuela Tulli
Niger. Sempre peggio sicurezza e diritti
A un anno dal colpo di stato contro il presidente Mohamed Bazoum, il 26 luglio 2023, il bilancio del governo della giunta non è certo positivo. I militari presero il potere con la forza, motivando la loro azione con la necessità di sanare problemi di mal governo e riportare la sicurezza nel Paese.
Il Cnsp (Consiglio nazionale di salvaguardia della patria, la giunta), con alla testa il generale Abdourahamane Tiani, ha il controllo totale del paese. L’attività di partiti politici rimane sospesa, così come tutti gli organi democratici di governo, a livello nazionale e locale.
Il Cnsp ha imposto al contingente militare francese di partire, e recentemente, a quello Usa e tedesco, che devono lasciare il suolo nigerino entro fine agosto. Solo alcune centinaia di militari italiani (anche loro facevano parte della forza anti terrorismo ed erano stati chiamati dai francesi) rimangono nel paese, a spese dell’ignaro contribuente della penisola, e non è chiaro con quale incarico.
Sicurezza e diritti umani
In questo anno di governo militare, la situazione della sicurezza è peggiorata. È aumentato il numero degli attacchi da parte di gruppi armati, e anche quello delle perdite tra i soldati nigerini. I gruppi jihadisti hanno esteso il territorio sotto la loro influenza: sia nella zona di frontiera tra Niger e Benin, nella zona delle tre frontiere (Burkina Faso, Mali, Niger) e addirittura nel Sud Est, dove Boko Haram pareva domato.
La società civile denuncia un forte degrado della situazione dei diritti umani. Sono state ristrette tutte le libertà civili, politiche e la libertà di stampa e di espressione. Molti politici e personalità legate al governo democratico sono ancora imprigionate, senza un preciso capo d’accusa. Diversi giornalisti sono stati arrestati o hanno subito pressioni, altri sono costretti ad applicare l’auto censura.
Il generale Tiani, che inizialmente aveva parlato di una transizione di tre anni, non ha più proposto alcun programma o scadenza per un ritorno alla democrazia. Intanto, dopo la prima fase di sanzioni, la comunità internazionale si è piegata alla realpolitik. La Cedeao (Comunità economica regionale) ha tolto le sanzioni economiche a gennaio, mentre Banca mondiale e Fondo monetario internazionale hanno inviato esperti e ripreso a finanziare il paese a partire da giugno.
L’Unione europea ha invece mantenuto la sospensione della cooperazione, fatta eccezione di Italia e Spagna.
Nuovi e vecchi amici
Intanto, nel settembre scorso, Niger, Mali e Burkina Faso – anche questi ultimi due retti da giunte militari golpiste – hanno creato l’Alleanza degli stati del Sahel (Ass). Alleanza che a inizio luglio (durante un incontro dei tre capi di stato militari proprio a Niamey) è diventata una Confederazione che si contrappone alla Cedeao, vuole intensificare gli scambi commerciali e cambiare la moneta lasciando il franco Cfa. Una tendenza all’isolamento, questa, almeno nei confronti degli stati confinanti.
A livello globale, il Niger si sta rivolgendo ad altri partner. Ha negoziato un prestito di 400 milioni di dollari con la Cina (che sta sfruttando il petrolio nigerino del giacimento di Agadem), necessario per pagare altri prestiti. Mentre per far funzionare l’apparato statale si valuta necessaria una spesa di circa 100 milioni di euro all’anno).
Il primo ministro (de facto), Ali Mahamane Lamine Zeine, inoltre, a inizio anno ha visitato Teheran, Mosca e Ankara, per rafforzare il legami con i paesi che stanno sostituendo quelli occidentali nello scacchiere saheliano.
In particolare la Cina è interessata alla cooperazione sul petrolio, ed è in vista un investimento per una raffineria nella regione di Dosso, e un secondo oleodotto verso il Ciad. Il primo, ultimato e funzionante, è gestito dalla China national petroleum corporation (Cnpc) porta il greggio in Benin, ma è soggetto alle problematiche legate al rapporto non buono tra i due paesi.
La Russia interviene con una cooperazione militare in cambio di risorse, come già in Mali e Burkina Faso. In Niger c’è un particolare interesse per l’uranio, del quale il Paese è uno dei maggiori produttori mondiali.
Marco Bello
Georgia. Dal sogno all’incubo
Si chiama «Sogno georgiano» ed è il principale partito della Georgia, piccolo stato del Caucaso meridionale con una sponda sul Mar Nero. Il nome del partito è sicuramente azzeccato ma, studiando con più attenzione la situazione dell’ex paese dell’Unione Sovietica, si cambia facilmente idea. Sogno georgiano è, infatti, proprietà di Bidzina Ivanishvili, oligarca che ha fatto fortuna in Russia e che la rivista Forbes colloca al posto 644 nella classifica 2024 dei miliardari del mondo.
Nonostante settimane di proteste di piazza, lo scorso 14 maggio il parlamento di Tbilisi ha approvato la legge che, per limitare l’influenza degli «agenti stranieri» sulla società civile georgiana, obbliga qualsiasi organizzazione – in primis, quelle non governative e i media – a registrarsi in un database pubblico e a rendere note le sue fonti di finanziamento. Qualora donazioni e fondi provenienti dall’estero superino il 20% del totale, l’associazione è equiparabile a un agente straniero. Insomma, si spaccia per ricerca della trasparenza una norma che metterà sotto il controllo del potere qualsiasi ente.
La presidente georgiana Salomé Zurabishvili – da sempre contraria alla norma – ha subito posto il veto bloccando la promulgazione della legge. Il partito di governo ha però una maggioranza tale da poter annullare il veto presidenziale. La norma è stata ribattezzata «legge russa» perché formulata sul modello di quella con la quale Mosca ha, di fatto, azzerato il dissenso interno. In generale, lo schema politico pare quello a cui gli osservatori esterni sono ormai abituati: da una parte un paese ex sovietico che vorrebbe avvicinarsi all’Occidente, dall’altra la Russia che si oppone con ogni mezzo.
La Georgia è indipendente dal 1991. Le sue relazioni con il potente vicino sono segnate soprattutto dalla guerra del 2008, quando Mosca decise di aiutare le regioni dell’Abcasia e dell’Ossezia del Sud – dagli anni Novanta in lotta con il governo di Tbilisi – a separarsi dal resto del paese. Quella guerra mostrò alla comunità internazionale l’obiettivo perseguito dal Cremlino: espandere la propria sfera d’influenza a qualsiasi costo. Come, infatti, ha dimostrato la storia successiva: dall’annessione della Crimea (nel 2014) all’aggressione dell’Ucraina (nel 2022).
A dicembre 2023 il Consiglio europeo ha concesso alla Georgia lo status di candidato per entrare nell’Unione europea. Il processo è però molto lungo e tutt’altro che scontato. La Russia, infatti, oltre a mantenere migliaia di soldati nei suoi protettorati dell’Abcasia e dell’Ossezia del Sud, pochi mesi fa ha concordato con il presidente de facto dell’Abcasia, Aslan Bzhania, di aprire una base navale nel porto di Ochamchire, sul Mar Nero.
La Chiesa ortodossa georgiana, seguita dalla maggior parte dei cittadini, è considerata un possibile intermediario nella crisi del Paese. Tuttavia, fino a questo momento il suo apporto è stato negativo. Il patriarca Ilia II, eletto nel 1977, ha scelto la stessa strada del patriarca russo Kirill: a fianco del potere.
Per provare a dare una misura alla cifra, basti pensare che secondo l’Unesco, in un mondo abitato da moltissimi analfabeti, nel 2020 si erano spesi 2.200 miliardi per l’istruzione; secondo l’Oms nel 2019 si erano spesi 8.600 miliardi per la salute; secondo Banca Mondiale nel 2022 il debito estero dei paesi a basso e medio reddito (una delle palle al piede di centinaia di milioni di persone) era stimato in circa 9mila miliardi.
L’aumento del 6,8% in un solo anno della spesa militare globale trova le sue ragioni nello scenario di forte instabilità internazionale.
Sembra che i governi delle grandi e piccole potenze, per affrontare le crisi e i conflitti in atto, non riescano a credere ad altro che all’aumento della propria capacità di minaccia nei confronti degli avversari.
È così che nel 2023 l’Ucraina ha aumentato la sua spesa militare del 51% rispetto all’anno precedente, dedicandole il 37% del suo Prodotto interno lordo, 64,8 miliardi di dollari, e che la Russia ha aumentato la sua spesa militare del 24% consumando 109 miliardi di dollari, il 5,9% del suo Pil.
Tra i paesi europei spicca la Polonia, che ha incrementato la sua spesa militare in un solo anno del 75%; ma anche la Finlandia (54%) e la Danimarca (39%).
Altri aumenti notevoli sono stati quelli dell’Algeria, 76%, della Turchia, 37%, di Israele, 24%.
In dieci anni, dal 2014 al 2023, la spesa militare globale è aumentata di quasi un terzo, il 27%.
Bastano i primi due Paesi nella classifica per mettere insieme la metà dell’intera spesa globale: gli Usa con 916 miliardi e la Cina con 296.
Dopo Usa e Cina, troviamo la Russia (109), l’India (83,6), l’Arabia saudita (75,8).
I successivi cinque paesi sono Regno Unito (74,9), Germania (66,8), Ucraina (64,8), Francia (61,3) e Giappone (50,2). L’Italia, con i suoi 35,5 miliardi, è al dodicesimo posto.
Il Sipri, in una nota, sottolinea che con la formula «spese militari» non s’intende la sola spesa in armamenti, ma «tutta la spesa pubblica per le forze e attività militari, compresi stipendi e benefici, spese operative, acquisto di armi e attrezzature, costruzioni, ricerca e sviluppo, amministrazione centrale, comando e supporto».
I dati raccolti dal centro di ricerca svedese mostrano un mondo diviso da profondi conflitti e pronto a esplodere. L’unico elemento di unità sembra essere la fede cieca nell’idolo della forza, quella che genera il circolo vizioso a cui stiamo assistendo: io mi armo perché tu ti armi, tu ti armi perché io mi armo, e così via.
Se fosse possibile misurare in dollari anche le vite spezzate, le sofferenze, gli sfollamenti, le distruzioni, sia materiali che culturali e spirituali, le libertà negate, la visione fosca del futuro, il conto, già esorbitante, sarebbe completamente fuori dalla capacità di calcolo delle persone comuni.
Luca Lorusso
Nord Corea. Anche Kim tiene famiglia
Il leader nordcoreano rafforza i legami con Russia e Cina. E fa la voce grossa con Corea del Sud e Stati Uniti. Accanto a lui sono cresciuti il ruolo e la visibilità della sorella Kim Yo Jong.
Pyongyang. La tensione tra la Corea del Nord e la Corea del Sud torna a essere elevata dopo che Kim Jong Un (il Grande Leader) ha annunciato di non voler proseguire il dialogo con Seoul dissipando le illusioni di una unificazione della penisola coreana.
La dichiarazione del leader nord-coreano, a cui si è aggiunta la richiesta di eliminare dalla Costituzione l’articolo che impegna Pyongyang a prodigarsi per la riunificazione, è giunta al termine di una lunga serie di provocazioni iniziate subito dopo il fallimento dell’incontro con l’allora presidente statunitense Donald Trump ad Hanoi (Vietnam), nel 2019.
Da allora, mentre Kim Jong Un continuava a mantenere un atteggiamento il più possibile neutrale verso l’esterno, la sorella Kim Yo Jong si è lanciata in crociate oratorie contro il presidente sudcoreano Moon Jae-in culminate con la distruzione dell’ufficio di collegamento intercoreano nel 2020. L’intento della famiglia Kim era chiaro: attendere che l’incertezza della situazione mondiale si chiarisse un po’ così da poter prendere posizioni più nette e vantaggiose per rafforzare un potere interno che si dimostrava essere meno saldo di quanto si pensasse. Nel frattempo, si dovevano percorrere entrambe le strade: quella della fermezza (Kim Yo Jong) e quella della diplomazia (Kim Jong Un).
Le vicende del 2022 e del 2023 – l’invasione della Russia in Ucraina e la conseguente crisi energetica, l’elezione del conservatore Yoon Suk Yeol alla presidenza della Corea del Sud (da maggio 2022), le tensioni su Taiwan, le difficoltà di Biden e il prepotente ritorno di Donald Trump nella scena politica statunitense – hanno indotto Kim Jong Un a rompere gli indugi e adottare una politica frontale nei confronti dell’Occidente.
L’escalation militare tra le due Coree
Pyongyang cerca oggi di inserirsi nell’asse anti Usa schierandosi accanto a Cina e Russia, suoi alleati storici. I Kim hanno estremo bisogno di protettori in un momento in cui il potere della famiglia nel Paese è debole come mai prima: la pandemia ha costretto a sigillare i confini invertendo una rotta che, almeno fino al 2019, aveva visto una loro maggiore permeabilità. L’economia, florida e vivace come non lo era mai stata in tutta la sua storia, tra il 2020 e il 2023 ha subito una flessione che si è ripercossa sulla vita dei cittadini. Il primo decennio di leadership di Kim Jong Un era stato caratterizzato da un progressivo allontanamento dai circoli di potere delle personalità più conservatrici nel Paese, quelle legate alla politica tradizionalista del padre Kim Jong Il e, al tempo stesso, del trasferimento di molti centri decisionali dall’ambito militare a quello civile e tecnocratico.
La crisi ha consentito agli oppositori interni di rialzare la testa e, per evitare il tracollo e vanificare le riforme varate, Kim Jong Un ha dovuto cercare, suo malgrado, sostegno tra i generali intensificando i test missilistici, riattivando il programma nucleare, rimpolpando l’arsenale delle forze armate. Al tempo stesso, il suo omologo sudcoreano ha stretto le relazioni con Tokyo e Washington potenziando la cooperazione militare. Si è così innescato un circolo vizioso che ha alimentato l’escalation: più Pyongyang perfezionava i suoi armamenti, più Seoul si sentiva minacciata aumentando perciò le esercitazioni militari con l’alleato statunitense. Questo forniva ai generali nordcoreani l’opportunità per chiedere ancora maggiori finanziamenti.
Il tutto ha portato alla situazione attuale che molti analisti giudicano simile a quella del 2017, quando i media ritenevano inevitabile e imminente lo scoppio di una guerra nucleare. Allora la guerra non ci fu e, anzi, Kim Jong Un saldò ancora più fortemente il suo controllo sulla nazione, ma oggi la situazione è leggermente diversa. Pur restando ancora lontani da un confronto militare che coinvolga testate nucleari, la contrapposizione tra Nord e Sud si è fatta sicuramente più complicata. Le forze armate di Pyongyang, da sempre tecnologicamente inferiori (tanto da sapere di non poter iniziare una guerra con la speranza di vincerla), oggi hanno diminuito (anche se non colmato) questo divario permettendo ai militari nordcoreani di guardare con più ottimismo un eventuale conflitto.
Questa situazione si innesta in un contesto internazionale nel quale gli scontri e le tensioni, dal fronte ucraino e quelli mediorientali fino a Taiwan, hanno creato un’atmosfera nettamente più favorevole per Pyongyang.
Lontani da Seoul
Kim cerca di ritagliarsi un ruolo tutto suo nello scacchiere asiatico nordorientale per eliminare Seoul da ogni futuro negoziato. Non per nulla il Grande Leader ha definito, non senza compiacimento, l’attuale situazione come una nuova guerra fredda, una condizione che non è difficile ricondurre alla famosa frase di Mao Zedong «Grande è la confusione sotto il cielo; la situazione è eccellente».
Se prima la Corea del Sud rappresentava un intermediario valente, efficace e affidabile, oggi non lo è più. Nei quattro anni di amministrazione Biden, gli Stati Uniti non hanno intrapreso alcun passo per riaprire quei negoziati che Trump aveva inaugurato contribuendo a una distensione delle relazioni nella regione.
A questo punto, Seoul non serve più a Pyongyang che spera in un ritorno di Trump alla Casa Bianca per riaprire i colloqui senza l’intermediazione del Sud. In attesa dei risultati delle urne statunitensi a novembre, Kim Jong Un continua ad alzare il tiro consapevole che, oggi, ha dalla sua un esercito più forte, competente e tecnologicamente più avanzato di quanto fosse sette anni fa.
La politica è comunque sempre la stessa: tendere la corda testando sino a quando questa può resistere senza tuttavia giungere al punto di rottura. E, a quel punto, iniziare le trattative da una posizione di forza.
La famiglia Kim ha bisogno di questa trazione per allontanare il pericolo di un rientro in grande stile degli oppositori, così faticosamente allontanati dal leader e dalla sorella.
L’Ucraina e le armi a Mosca
La guerra ucraina è stata un toccasana in questo senso: la pandemia aveva intossicato l’economia nordcoreana più di quanto avesse infettato la popolazione. La chiusura dei confini, ordinata sin dall’inizio del 2020, aveva messo in enorme difficoltà le riforme implementate: le merci provenienti dalla Cina dovevano restare in quarantena per diverse settimane prima di poter essere messe sul mercato e i prezzi dei prodotti avevano subito impennate verticali. Ciò che ha impedito alla popolazione di non ripiombare nell’incubo dell’«Ardua marcia» (la carestia del periodo 1994-1998) con malnutrizione, malattie, inedia, sono state proprio le riforme economiche volute da Kim Jong Un durante i primi anni della sua salita al potere.
Tuttavia, per mantenere viva la ristrutturazione sociale e politica serviva anche una crescita economica che, negli anni del Covid, è stata invece azzerata. L’invasione dell’Ucraina da parte dell’alleato russo ha, almeno in parte, aiutato l’economia nordcoreana a risollevarsi. Kim ha inviato equipaggiamenti militari a Putin e i campi di battaglia sono serviti anche per testare nuovi prototipi di armamenti prodotti dalle fabbriche militari nordcoreane. In cambio, Mosca ha corrisposto il favore spedendo a Pyongyang considerevoli quantità di petrolio, carbone, gas naturale, pezzi di ricambio per mezzi agricoli e militari.
L’aumento delle disparità
Tutto questo ha aiutato, da una parte, la famiglia Kim a mantenersi alla guida del governo, dall’altra ai nordcoreani di avere una ventata di ossigeno per i loro commerci privati.
Non dobbiamo però pensare che questi aiuti siano indolori: le disparità tra campagna e città, ma soprattutto tra chi ha collegamenti con il Partito dei lavoratori e chi, invece, ne è escluso, in questi tre anni sono aumentate.
La superficie delle terre abbandonate è incrementata, soprattutto nelle zone montuose dove la mancanza di macchinari agricoli rende il lavoro estremamente faticoso, mentre gli appezzamenti di terreno privati hanno registrato un aumento di produttività.
Le cooperative hanno quasi smesso di rifornire i negozi statali della merce più richiesta, visto che questa è ormai reperibile nei mercatini privati senza limiti di quantità, anche se a prezzi ben superiori a quelli stabiliti dallo Stato. Ma il denaro è un problema secondario: la nuova economia, introducendo attività private, ha permesso a molte famiglie di incamerarne una discreta quantità, tanto che oggi si calcola che almeno l’80% delle entrate finanziarie dei nordcoreani arrivi da nuovi mestieri e occupazioni private.
Il contrabbando con la Cina e, recentemente, anche con la Russia, ha immesso sul mercato prodotti che altrimenti sarebbero reperibili solo nei grandi centri commerciali delle principali città. Oltre a elettrodomestici, telefonini, computer, liquori, snack, cosmetici di varie marche (anche sudcoreane, giapponesi, europee, statunitensi), i pannelli solari sono tra gli oggetti più richiesti. L’ormai endemica penuria di elettricità con frequenti blackout, hanno costretto le famiglie a dotarsi di impianti di produzione elettrica autonomi per evitare gli sbalzi di tensione.
Chi soffre meno questa situazione sono gli alti dirigenti del Partito, i manager delle industrie, nonché scienziati e tecnici impegnati nelle attività considerate più vitali e importanti per il Paese.
L’esperienza personale mi offre una conferma di questa situazione.
Chi sono i privilegiati
Approfittando del (raro) invito fattomi da un ricercatore scientifico e professore universitario per assaporare la cucina locale, ho modo di vedere da vicino l’appartamento di una famiglia privilegiata. Ben riscaldato (a differenza delle case di campagna che devono centellinare il carbone per la stufa) e ben tenuto, è fornito di un grande televisore a schermo piatto che trasmette una serie cinese. I mobili sono pieni di suppellettili e souvenir dei numerosi viaggi all’estero fatti con l’intera famiglia: Cina, Russia, Thailandia, Mongolia, India, Europa e persino Stati Uniti (una Statua della Libertà e un pupazzo in pezza di Topolino). La cena che mi viene offerta è abbondante e innaffiata da vino francese e birra nipponica. Sia la figlia che il figlio parlano un buon inglese, ma anche cinese e giapponese. Entrambi studiano materie scientifiche, la prima alla Kim Il Sung University mentre il secondo sta terminando il corso di medicina nell’unica università privata esistente in Corea del Nord (il che indica l’alto livello sociale occupato dalla famiglia).
Sognano di studiare in Europa, Giappone o negli Stati Uniti, «ma per tornare poi in Corea per dare il nostro contributo alla crescita della nazione», si premurano di aggiungere di fronte allo sguardo severo del padre. Sia lui che la moglie sono accaniti sostenitori del Partito e della famiglia Kim e non accetterebbero con facilità che la loro prole abbandonasse il Paese. Del resto, dal governo hanno sempre avuto il meglio che potevano ricevere (istruzione, assistenza sanitaria, benefit, sicurezza economica, carriera).
Come pensare di tradire chi ti ha concesso il miglior tenore di vita che si possa avere nella nazione?
In altre situazioni, meno privilegiate, le critiche a membri del Partito sono invece più comuni. Una delle grandi rivoluzioni introdotte da Kim Jong Un è proprio quella di aver invitato il popolo a biasimare gli amministra- tori più negligenti.
I Kim non sbagliano mai
Il Grande Leader è stato il primo a dare il buon esempio già pochi mesi dopo la sua salita al potere. In una mossa assolutamente nuova nel mondo politico nord-coreano, Kim ha più volte attaccato pubblicamente dirigenti del Partito, fino ad allora ritenuti intoccabili.
Resta comunque sottinteso che nessuno della famiglia Kim può essere soggetto a giudizio.
La mia guida (in Corea del Nord si è sempre accompagnati da una guida) s’infuria quando le faccio notare gli errori compiuti dai diversi membri, Kim Il Sung compreso, durante i loro settantacinque anni di potere ininterrotto. Il mantra di assoluzione è sempre lo stesso: gli sbagli sono stati fatti dai collaboratori, dagli approfittatori, dai controrivoluzionari che hanno ingannato i vari leader i quali, anzi, grazie alla loro lungimiranza, hanno allontanato questi traditori appena hanno avuto modo di accorgersi delle loro azioni ai danni del popolo e della nazione. Questo tabù è uno dei motivi per cui la dirigenza nordcoreana, dopo aver espresso l’intenzione di invitare papa Francesco a Pyongyang, non si sente ancora pronta ad accoglierlo. Un papa che parla di diritti umani e che bastona tutti può essere sicuramente comodo fuori dalla Corea del Nord, ma parlare di questo tema a Pyongyang, di fronte a migliaia di cittadini, rischierebbe di essere una mina vagante.
Piergiorgio Pescali
La condizione religiosa: Un triste primato
Nonostante la Costituzione non lo vieti, in Corea del Nord professare una fede religiosa è complicato e spesso pericoloso.
«Open doors», l’organizzazione olandese fondata nel 1955 da Andrew van der Bijl che stila rapporti annuali sulla libertà religiosa dei cristiani nel mondo, ha affermato che il Paese dove la religione è più perseguitata nel pianeta è la Corea del Nord. Secondo quanto si legge nella relazione, se «scoperti, i cristiani sono deportati assieme alle loro famiglie in campi di lavoro come criminali politici o uccisi sul posto».
Più generico, invece, il rapporto di Human Rights Watch, che cita violazioni di «libertà fondamentali inclusa la libertà di espressione, associazione e di religione».
L’articolo 68 della Costituzione nordcoreana afferma che «i cittadini godono libertà di culto» e che nel Paese viene garantita la «costruzione di edifici religiosi nonché la possibilità di celebrare cerimonie religiose». Aggiunge, altresì, un paragrafo che è determinante nelle analisi che si dovrebbero fare su come le pratiche di culto vengono viste da Pyongyang: si afferma, infatti, che «la religione non deve essere usata come pretesto per favorire la presenza di forze esterne e per mettere in pericolo lo Stato o l’ordine sociale».
Per questo le associazioni religiose presenti nella nazione non possono essere indipendenti dal governo, sono tutte guidate da membri dell’esecutivo e nel loro statuto devono avere chiari riferimenti patriottici. A parte le persone che ne sono a capo, chi fa parte di un culto, sia essa cristiana, buddista o ceondanista (seguaci del ceondoismo, religione coreana che mescola elementi di sciamanesimo, taoismo e buddismo, ndr), non può essere membro del Partito dei lavoratori.
In Corea del Nord esistono chiese protestanti, templi buddisti, almeno una chiesa cattolica, una ortodossa e anche una moschea nell’ambasciata iraniana. Si hanno notizie anche di luoghi di culto (pure cattolici, ma non solo) sparsi in diverse province del Paese in cui si svolgono incontri di studi biblici.
Tra timide aperture e improvvise chiusure
Negli anni Novanta e sino all’inizio dell’attuale secolo, diverse organizzazioni caritative di ispirazione cristiana, come la Caritas, hanno condotto programmi di aiuto medico, alimentare e sociale. Erano attività attentamente sorvegliate dalle autorità del governo che non lasciavano molti spazi decisionali sulla destinazione di questi aiuti. Quando l’emergenza della carestia iniziò a terminare, molte di queste Ong lasciarono il Paese criticando l’ingombrante presenza dei funzionari locali.
La presenza religiosa comunque non scomparì mai del tutto, tanto che, nel 2008, un’associazione che faceva capo alle Chiese evangeliche della Corea del Sud riuscì ad aprire quella che ancora oggi è l’unica università privata esistente nel Nord.
Tra il 2017 e il 2018, con la distensione tra Pyongyang e Washington e l’intermediazione del presidente sudcoreano Moon Jae-in, ci fu anche la concreta possibilità che papa Francesco potesse decidere di accogliere l’invito fatto in almeno due occasioni da Kim Jong Un di visitare la Corea del Nord. Quando le trattative sembravano a buon punto, la pandemia e l’elezione di Biden alla Casa Bianca interruppero ogni ulteriore sforzo per concludere un accordo di un viaggio che sarebbe sicuramente passato alla storia come uno dei più importanti segnali di distensione mondiale.
La chiusura dei confini (che oggi solo in parte si stanno riaprendo), l’interruzione del dialogo con gli Usa e l’elezione del conservatore Yoon Suk Yeol alla presidenza sudcoreana hanno portato Kim Jong Un a rivedere la politica di parziale intesa che aveva fatto sperare in una nuova era per la penisola.
Chiese evangeliche e Chiesa cattolica
A farne le spese sono state anche le Chiese presenti sul territorio, in particolare quelle cristiane evangeliche e protestanti i cui fedeli, a differenza dei cattolici, sono molto più legati ai movimenti politici anti comunisti e anti nordcoreani.
È in questo senso, dunque, che va vista la seconda parte dell’articolo 68 della Costituzione, nella quale si ammonisce ogni credo religioso a non sovvertire l’ordine costituito. In realtà, la persecuzione cristiana da parte del regime di Pyongyang, è idealmente rivolta più verso le comunità protestanti che a quelle cattoliche, anche se i funzionari di partito, poco edotti sui principi dogmatici che differenziano le due fedi, non sempre riescono a distinguere la diversità. La Chiesa cattolica è sempre stata vista dal regime di Pyongyang come un’entità molto meno pericolosa rispetto alle sorelle protestanti. I cattolici, al pari del regime, hanno una struttura verticale molto pronunciata al cui culmine risiede il papa. Questo ordine gerarchico viene visto dai funzionari nordcoreani come qualcosa di rassicurante perché limita l’anarchia ideologica e interpretativa. Inoltre, la Chiesa cattolica, proprio per i rapporti diplomatici (non ufficiali) che intrattiene con Pyongyang, ha sempre dimostrato di voler accettare le regole dello Stato limitando la diffusione di concetti che non siano religiosi.
Le Chiese evangeliche e protestanti sono invece spesso legate a organizzazioni politiche che fanno capo a centrali statunitensi con ramificazioni in Sud Corea e, in forma più o meno clandestina, in Cina. Dai confini di questi due Stati i missionari fanno entrare illegalmente in Corea del Nord oggetti di culto, Bibbie ma anche libri non religiosi, testi che inneggiano alla formazione di una rete di opposizione religiosa con risvolti politici.
Spegnere i possibili «focolai»
Per esempio, dal territorio sudcoreano, a ridosso del 38° parallelo, capita spesso che fedeli di comunità evangeliche si riuniscano per lanciare palloni aerostatici che, con l’aiuto delle correnti atmosferiche, trasportano pacchi di aiuti contenenti anche testi considerati sovversivi al Nord.
Il tentativo da parte delle autorità nordcoreane di smantellare questa rete di potenziali oppositori al regime, si estende quindi anche alle comunità cristiane. Poco importa se cattoliche, evangeliche o protestanti: la presenza di una Bibbia, di un crocifisso o di un’immagine sacra è comunque intesa come indicazione che in quel luogo esiste un «focolaio» destabilizzatore che, come tale, deve essere soffocato.
Pi.Pes.
Europa armata. Negoziati invisibili
Il coinvolgimento dell’Europa nel conflitto ucraino sarà sempre maggiore. Ne sono convinti alcuni autorevoli leader europei come il presidente francese Emmanuel Macron – che di recente ha proposto di prepararci a un intervento diretto di Paesi Ue e Nato per difendere l’Ucraina – e la presidente della commissione europea Ursula Von der Leyen – che invita a entrare in una vera economia di guerra, dove la produzione militare diventi prioritaria -.
Alle loro dichiarazioni, si aggiungono quelle di vari esponenti della Nato sull’inevitabilità di una guerra tra l’alleanza atlantica e la Russia nei prossimi anni.
Perché queste prese di posizione?
È possibile che esse siano dei messaggi diretti a qualcuno? A chi?
Un messaggio a Putin
La prima ipotesi è che i messaggi siano degli avvertimenti a Vladimir Putin e alla Russia: nel momento in cui la situazione militare sul campo sembra volgere a suo favore, il Cremlino potrebbe essere tentato di provare di nuovo a realizzare quell’invasione completa dell’Ucraina che gli è fallita due anni fa.
Il messaggio allora è il seguente: se le forze russe sfondassero e arrivassero a Kiev, l’Occidente non lo potrebbe tollerare. Ci sarebbe un suo intervento diretto con conseguente terza guerra mondiale: un’eventualità che né la Russia, né gli Stati Uniti, né, tanto più, i vari Stati europei vorrebbero. Ma l’avvertimento a Putin è quello di non spingersi troppo oltre, non superare una fantomatica linea rossa che però non si capisce dove si trovi, e dunque rende la situazione particolarmente pericolosa.
Un messaggio all’Europa
La seconda ipotesi è che l’avvertimento sia rivolto agli stessi governi e classe dirigente europei. Questi, al di là dei loro proclami roboanti, vogliono fare la guerra per procura e rimanere fuori da un coinvolgimento diretto. Come, infatti, ha incautamente rivelato la nostra presidente del consiglio, c’è molta stanchezza, ci si vuole impegnare di meno, anche perché il sentimento popolare è tutt’altro che favorevole alla guerra.
Allora il messaggio potrebbe essere proprio questo: attenzione che, se la Russia, approfittando di questa situazione, dovesse sfondare e invadere tutta l’Ucraina, ciò non sarà tollerabile, pena la perdita della faccia, e allora sì che bisognerà intervenire direttamente con tanto di mobilitazione, cadaveri che tornano a casa e i rischi di terza guerra mondiale di cui già abbiamo scritto sopra.
Meglio continuare a sostenere l’Ucraina indirettamente che trovarsi in guerra aperta. Non bisogna fare troppo gli schizzinosi, bisogna invece mettere mano al portafogli e continuare a fornire all’Ucraina tutte le armi di cui ha bisogno adesso. Per far questo, poiché le scorte sono finite, occorre ristrutturare l’apparato industriale in economia di guerra.
Un messaggio all’opinione pubblica
La terza ipotesi è che i messaggi siano rivolti all’opinione pubblica occidentale, allo scopo di rompere un tabù: poiché presto potremmo dover intervenire, è bene cominciare a parlarne. Tanto più che gli Stati Uniti sembrano meno propensi di un tempo a sostenere il carico della difesa e della sicurezza europea, soprattutto se dovesse diventare presidente Donald Trump.
Come sempre la prima reazione è quasi di scandalo, poi, però, l’argomento diventa oggetto di discussione, di dibattito, e infine diventa un’opzione possibile.
Il coraggio della trattativa
Probabilmente tutte e tre le ipotesi illustrate contengono una parte della verità.
Si sta andando verso la terza guerra mondiale senza che nessuno la voglia veramente, semplicemente perché nessuno dei protagonisti vuole essere il primo a cedere. Esattamente come successe nel 1914, quando all’inizio della Prima Guerra mondiale, l’inutile strage, si pensava a una guerra di pochi mesi.
Occorrerebbe un sussulto di saggezza, soprattutto da parte dei governi europei: avere il coraggio di proporre una trattativa, esattamente come suggerisce papa Francesco, il quale non ha consigliato la resa, al contrario ha affermato che il negoziato non significa arrendersi.
E un negoziato può funzionare se si convince l’altra parte che una trattativa capace di fermare la guerra conviene di più che continuare i combattimenti.
Questo è ancora possibile, anche se oggi la situazione è ben peggiore di quella del marzo 2022, quando la Russia aveva sostanzialmente fallito i suoi piani e l’Occidente era in una posizione di maggiore forza. Sarà ancora più difficile, per non dire impossibile, se Putin riterrà di poter chiudere vittoriosamente la partita.
Putin non è desideroso di trattare: è un criminale e un violento che crede solo nella forza, ed è anche un irresponsabile, altrimenti non avrebbe neanche iniziato una guerra che pensava di chiudere in poche settimane. Trattare con lui, quindi, è possibile solo se si convince che la continuazione della guerra sarebbe per il suo regime più pericolosa e costosa della cessazione.
Invece di preparare guerre che poi non si potranno combattere, sarebbe meglio puntare su una trattativa finché è possibile che essa disinneschi la macchina infernale che rischia di travolgerci tutti.
È probabile che se si riuscisse a fermare la guerra con un compromesso provvisorio, anche in Russia, all’interno del regime, si inizierebbero a contare i morti, le perdite, le distruzioni. Allora nel potere di Putin potrebbe crearsi qualche crepa, cosa che a oggi, perdurando i combattimenti, non sembra realistica.
Paolo Candelari
Questo articolo è frutto di una collaborazione tra il Centro studi Sereno Regis e Missioni Consolata.
La Russia in America Latina. Le mosse dello zar
La presenza di Mosca nei paesi latinoamericani è mutata nel corso degli anni: da estemporanea (con i flussi migratori) è diventata politica ed economica. In tempi recenti, ha amplificato la sua influenza tramite i suoi canali informativi (Rt e Sputnik). Dopo l’aggressione all’Ucraina, cos’è cambiato? E come sono le relazioni con la Cina, alleata a livello politico ma concorrente in America Latina?
Le relazioni tra Russia e America Latina hanno radici profonde, non sono cioè limitate ai primi decenni del XXI secolo. Gli immigrati russi comparvero per la prima volta in Sud America e nei Caraibi all’inizio del XIX secolo. Si trattava di ondate migratorie costituite in gran parte da lavoratori provenienti dalla parte europea dell’Impero russo e, in misura minore, dalle file dell’opposizione politica delle province baltiche, dalla Polonia e dall’Ucraina occidentale. Posteriormente, dopo la rivoluzione d’ottobre del 1917, un piccolo numero di russi in fuga dal regime comunista scelse la regione latinoamericana come luogo di esilio volontario.
Tra questi è doveroso ricordare il caso di Lev Davidovich Bronstein, meglio conosciuto come León Trotsky. Quello che fu il promotore della rivoluzione permanente terminò i suoi giorni a Città del Messico (il 21 agosto 1940), ucciso da Ramón Mercader (agente segreto spagnolo naturalizzato sovietico) su ordine di Stalin.
Trotsky visse i suoi ultimi anni in Messico da rifugiato grazie all’asilo politico che gli venne concesso dall’allora presidente messicano Lázaro Cárdenas e fu circondato dall’affetto di figure iconiche della storia della regione quali Frida Kahlo e suo marito Diego Rivera (entrambi pittori di grande fama, ndr).
La seconda ondata di migrazione russa in America Latina si verificò dopo la Seconda Guerra mondiale. Era formata in gran parte da cittadini sovietici che vivevano nel territorio liberato dagli alleati occidentali, persone che non volevano tornare in Unione Sovietica. In questo modo si ampliò la presenza della diaspora nella regione, in particolare in Argentina, Brasile, Cile, Messico, Paraguay, Uruguay e Venezuela, gettando le basi per importanti scambi culturali tra la Russia e i paesi delle Americhe, connessione oggi vitale per le politiche e per l’influenza russa nella regione.
Dalla guerra fredda a Vladimir Putin
Durante la Guerra fredda (12 marzo 1947 – 26 dicembre 1991) anche la regione latinoamericana fu teatro dello scontro multilivello delle due superpotenze, terreno di lotta ideologica e indirettamente anche militare, nel quale l’Urss mantenne stretti legami con Cuba e con il Nicaragua. L’influenza sovietica ebbe un ruolo importante per creare un’alternativa all’egemonia esercitata dagli Stati Uniti d’America in una regione che, per molto tempo, fu considerata il giardino di casa («patio trasero») degli Usa.
Con la dissoluzione dell’Urss (dicembre 1991) e il lungo processo di riassetto politico, economico, sociale e diplomatico che ne seguì, la Russia perse molto peso sulla scena internazionale, anche nei confronti del paesi latinoamericani, Cuba in primis.
Agli inizi degli anni Novanta, il Paese, che oggi occupa più di due terzi del territorio della vecchia Urss e comprende metà della sua popolazione, aveva un volume di scambi commerciali con l’America Latina ridotto all’osso.
Dalla seconda metà degli anni Novanta la situazione iniziò a migliorare con un riavvicinamento e rafforzamento delle partnership strategiche, una ripresa del commercio e il susseguirsi di visite reciproche dei capi di stato. La vera svolta avvenne però nell’anno 2000 con il cambio dello scenario politico all’interno della Russia e l’arrivo ai vertici del potere di Vladimir Putin.
Già nell’agosto del 1998, come capo del governo, l’uomo aveva guidato la seconda guerra cecena diventando uno dei politici più popolari della Federazione russa. Successivamente, quando Boris Eltsin annunciò le sue dimissioni il 31 dicembre 1999, in conformità con la Costituzione, Putin diventò presidente ad interim iniziando una leadership che lo vede ancora oggi come l’uomo più potente e temuto della Russia.
I piani dello zar
L’arrivo dell’ex agente del Kgb al Cremlino ha cambiato completamente il posizionamento della Russia a livello globale e questo ha avuto effetti importanti anche sulla regione latinoamericana.
Già dalla Conferenza sulla sicurezza di Monaco del 2007 (Munich security conference, spazio internazionale che si tiene annualmente dal 1963) Putin ha confutato la narrazione di un mondo «unipolare» sotto il protagonismo e l’egemonia degli Usa e della Ue, aprendo la porta a nuove interpretazioni ed equilibri di potere. L’anno prima, infatti, il 20 novembre 2006, si era tenuta la prima riunione dei Brics, acronimo di un’associazione economico-commerciale tra le cinque economie nazionali emergenti che, nel decennio del 2000, erano le più promettenti del mondo.
Si tratta del gruppo composto da Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica (quest’ultimo unitosi nel 2011) che si pone come contrappeso all’autoreferenzialità occidentale e che esplora misure alternative di commercio inter-
nazionale, ad esempio la possibilità di non utilizzare il dollaro come valuta di riserva mondiale.
Putin si è proposto, dunque, come un portabandiera di un mondo «multipolare» ricollocando la Russia (che è anche membro permanente del Consiglio di sicurezza dell’Onu con potere di veto) come protagonista nello scenario internazionale.
Le parole di Monaco del 2007 sono diventate «reali» con la guerra in Georgia del 2008 e con l’annessione della Crimea da parte della Russia nel 2014 e le conseguentii sanzioni economiche che hanno diviso la comunità internazionale.
Proprio le sanzioni economiche imposte dall’Ue dopo i fatti di Crimea hanno spinto Mosca ad accelerare la ricerca di alleati sia a livello diplomatico che livello commerciale. È in questo contesto che l’America Latina è tornata al centro degli interessi russi e dove paesi come Uruguay, Argentina e Brasile hanno iniziato a sostituire i «vecchi» partner commerciali europei per l’esportazione di frutta, verdura e carne verso la Russia.
La strategia del vaccino
Con l’inizio del nuovo secolo, la Russia guidata da Vladimir Putin ha ripreso a guardare con interesse all’America Latina , espandendo la sua presenza commerciale e tessendo importanti alleanze con governi sia di destra che di sinistra. Armi, gas e petrolio sono stati il principale «grimaldello» con il quale è iniziata questa nuova era delle relazioni russo-latinoamericane, una dimensione che però molto presto ha acquisito un carattere più geopolitico, in opposizione alle azioni sanzionatorie di Washington nei confronti della Russia. La politica estera russa ha così creato un’area di intervento multisettoriale nella regione latinoamericana, promuovendo relazioni commerciali ed econo-
miche, insieme a una cooperazione tecnica, militare e sanitaria.
Nello scenario creato dalla pandemia da Covid-19, la Russia ha infatti giocato un ruolo da protagonista aumentando la sua proiezione regionale grazie alla strategia di approvvigionamento del suo vaccino Sputnik a diversi paesi dell’area come Argentina, Bolivia, Guatemala, Guyana, Honduras, Messico, Nicaragua, Paraguay, Panama e Venezuela.
I megafoni di Rt e Sputnik
A questo si aggiunge la diffusione massiccia di narrazioni favorevoli a Mosca attraverso la forte presenza nella regione di mass media russi come Russia today (Rt) e l’agenzia di stampa Sputnik. Questi sono megafoni potenti che permettono al Cremlino e a Putin di mettere in discussione, nei paesi latinoamericani, il modello democratico targato Stati Uniti d’America e Unione europea.
Nel corso degli anni, sono proprio quei paesi che hanno intrapreso cammini fuori dagli argini dello stato di diritto – Cuba, Nicaragua e Venezuela – ad avere instaurato legami molto stretti con Mosca. Rappresentano i primi alleati di Putin, paesi nei quali le narrazioni utilizzate dagli organi di stampa russi sono sostenute e ripetute acriticamente, compresa quella sull’invasione dell’Ucraina. Questi tre stati rappresentano oggi terreno di scontro politico e ideologico per le stesse sinistre della regione (come, ad esempio, il Venezuela, appoggiato dal brasiliano Lula ma criticato dal cileno Boric).
A questi stati la Russia ha offerto aiuti politici, economici e finanziari in cambio del loro sostegno a livello internazionale per rafforzarel’opposizione all’influenza degli Usa in America Latina.
In Nicaragua si assiste a continue esercitazioni militari, marittime e aeree, allo sviluppo di centri di addestramento militare o di sistemi di monitoraggio satellitare come «La Gaviota», tutto sotto il controllo operativo-amministrativo della missione diplomatica russa.
Con il Venezuela esistono più di venti accordi bilaterali di cooperazione militare, scambio di personale e di addestramento, mentre con Cuba la collaborazione à ancora più estesa e comprende anche varie aree di influenza nel commercio, negli investimenti e negli aiuti umanitari. Sempre a Cuba, da marzo 2023 è possibile usare carte di credito russe negli sportelli dell’isola e a maggio tre banche russe hanno presentato le richieste necessarie per aprire succursali nel paese caraibico: in relazione a ciò si specula che presto L’Avana accetterà pagamenti anche in rubli.
Rt e Sputnik sono oggi, dunque, un importante volano degli interessi russi in America Latina, trovando il plauso delle sinistre più radicali e più in generale delle forze illiberali dello spettro politico latinoamericano.
Chi commercia con Mosca
La generazione di consenso che ne deriva rende gli accordi economici e militari tra i paesi latinoamericani e la Russia politicamente molto più agevoli e accettabili da parte delle opinioni pubbliche nazionali. Tra questi spicca la cooperazione militare, dove l’industria bellica russa gioca un ruolo di primo piano.
Oltre a Cuba, Nicaragua e Venezuela si sono rafforzati negli ultimi anni i legami con i governi di Nayib Bukele nel Salvador, Alberto Fernandez in Argentina, Jair Bolsonaro in Brasile (che, a gennaio 2023, ha lasciato il posto a Lula) e Andrés Manuel Lopez Obrador in Messico. Questi ultimi tre paesi rappresentano i mercati più importanti per la Russia in America Latina e nel caso particolare di Brasile (membro dei Brics) e del Messico (membro del G20) parliamo di esportazioni vitali per l’economia di Mosca, come zucchero di canna, semi di soia, caffè, carne, birra, apparecchi meccanici, autovetture, e telefoni. Un commercio bilaterale che ha visto un notevole aumento nel XXI secolo e con l’era Putin, dove tra tutti spicca il Brasile, paese che mantiene con la Russa il più grande flusso di importazioni e di esportazioni di merci di tutta l’America Latina. In totale, nel 2020 il Brasile ha importato beni per un valore di 2,9 miliardi di dollari dalla sua controparte russa e ha esportato un valore di 1,5 miliardi di dollari, essendo i fertilizzanti i prodotti con il più alto valore di importazione. Il fiorente commercio con l’economia più grande dell’America Latina (il Brasile ha fatto registrare nel 2022 un Pil di 1.900 miliardi di dollari ed è l’undicesima economia mondiale, proprio dietro all’Italia) è dunque uno dei pilastri della proiezione russa nel continente. Considerando inoltre che, proprio ad aprile 2023, l’ex presidentessa brasiliana Dilma Rousseff ha assunto la guida della Nuova banca di sviluppo (New development bank, Ndb) dei Brics.
La crescita esponenziale della Cina
L’America Latina però è una regione estremamente eterogenea nella quale l’appeal russo non si espande in modo uniforme in ogni contesto nazionale.
I forti legami commerciali con Brasile e Messico e i legami politico finanziari con Cuba, Nicaragua e Venezuela (che hanno potuto godere di ingenti prestiti, donazioni e lucrosi affari con le aziende russe) hanno creato un gruppo di paesi «di appoggio» che hanno sostenuto Putin durante l’ultimo anno, astenendosi dal votare all’Onu contro la Russia per la guerra in Ucraina.
Basti ricordare, infatti, la posizione ambigua, quando non dichiaratamente opportunista, assunta nella votazione sull’espulsione del paese dal Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite, durante la quale Messico, Brasile ed El Salvador si sono astenuti, mentre Nicaragua, Cuba e Bolivia hanno votato contro (7 aprile 2022).
Il fatto che la Russia non sia riuscita a generare una completa area di influenza diplomatica ed economica in America Latina è però dovuto anche alla Cina, le cui relazioni commerciali con la regione sono cresciute in modo esponenziale.
Basti pensare che Pechino ha assegnato ad Argentina, Brasile, Cile, Ecuador, Messico, Perù e Venezuela il massimo livello di cooperazione strategica e che la Banca cinese di sviluppo è uno dei principali investitori in progetti di costruzione di infrastrutture nella regione.
La Russia mantiene, però, un potere geopolitico importante in America Latina, dove la sua industria bellica fornisce armi a diversi governi (Venezuela su tutti) e dove continua a mantenere un grado di impegno mediatico e diplomatico ad alta intensità. A livello geostrategico però il suo peso economico è molto inferiore a quello della Cina, suo partner politico ma, appunto, rivale in America Latina.
Visioni del mondo
Russia e Cina condividono una visione «multipolare» del mondo, una visione cioè che vuole contrastare la leadership e l’egemonia statunitense. Tralasciando la spinosa questione della guerra russa contro l’Ucraina, questa visione è anche quella di buona parte dei governi progressisti della sinistra latinoamericana: in questo senso l’America Latina risulta una regione strategica per il conseguimento di questo obiettivo.
La convivenza nella regione degli interessi di due giganti come Russia e Cina rappresenta una grande sfida, considerando anche e soprattutto la necessità dei nuovi governi e delle nuove leadership dei paesi latinoamericani, più o meno allineati con la narrazione di Washington e della Ue, di trovare un proprio spazio di manovra politica ed economica.
Diego Battistessa
Prossimamente su MC: la Cina in America Latina.
La Russia e i Brics: il multilateralismo delle dittature
Con sulla testa un mandato di cattura da parte della Corte penale internazionale (Icc), Vladimir Putin ha preferito non recarsi alla tre giorni del XV Brics Summit, tenutosi a Johannesburg, in Sudafrica dal 22 al 24 agosto scorso. Si è, pertanto, limitato a inviare un discorso preregistrato di 17 minuti. In esso il leader del Cremlino si è concentrato soprattutto sull’«operazione speciale» in Ucraina e sulle cattiverie dell’Occidente verso l’incolpevole Russia, non cambiando di una virgola il suo ormai consueto canovaggio di bugie e ossessioni.
Al vertice sudafricano erano presenti gli altri quattro leader dei Brics (acronimo dei cinque paesi aderenti all’alleanza): il cinese Xi Jinping, l’indiano Narendra Modi, il brasiliano Luiz Inacio Lula e Cyril Ramaphosa, presidente del paese ospitante.
Attualmente, i paesi Brics rappresentano oltre il 42% della popolazione globale, il 30% del territorio mondiale, il 23% del Pil e il 18% del commercio internazionale. Numeri già importanti che aumenteranno con il prossimo allargamento del gruppo.
Al Summit sudafricano è stata, infatti, annunciata la lista dei nuovi membri: dal primo gennaio 2024, dovrebbero entrare Iran, Egitto, Etiopia, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e Argentina. Insomma, come si può capire, tanti paesi con un pedigree dittatoriale, Iran e Arabia Saudita in testa.
Perché – allora – tanti aspirano a entrare in questa alleanza? La risposta principale è talmente ovvia da apparire semplicistica: per le opportunità di sviluppo economico che, aderendo, si potrebbero aprire. Si pensi, ad esempio, ai vantaggi per il Brasile di Lula o per un’Argentina sull’orlo del suo ennesimo fallimento economico.
Con la Russia impegnata nella guerra, oggi i Brics sono una creatura dominata dalla Cina, seconda potenza economica mondiale in competizione con gli Usa. Anche a Johannesburg il vero vincitore è stato Xi Jinping, che ha blandito molti paesi, soprattutto africani (dove Pechino ha da tempo piantato le proprie bandiere). Il leader cinese ha anche incontrato Ebrahim Raisi, presidente della Repubblica islamica dell’Iran, paese che, pur non avendo mai smesso la persecuzione nei confronti dei dissidenti, è stato accolto nei Brics. Come per l’aggressione russa all’Ucraina, anche davanti alla repressione di Tehran, Pechino chiude gli occhi. D’altra parte, i cinesi sono i primi a non voler parlare di democrazia e diritti umani avendo i loro problemi in Tibet, Xinjiang, Hong Kong e Taiwan.
Che il capitalismo occidentale abbia prodotto e produca troppe ingiustizie (economiche, sociali e ora anche ambientali) è fatto indubitabile e non più tollerabile. Che l’alternativa sia un modello multilaterale guidato da una o più dittature è però una toppa peggiore del buco.
Paolo Moiola
Sahel: golpisti contro tutti, ma amici dei russi
Firmato un accordo di alleanza militare tra Mali, Burkina Faso e Niger. Ad alcuni incontri, presenti anche funzionari del ministero della Difesa della Russia.
Il 16 settembre scorso i militari golpisti a capo delle giunte in Burkina Faso, Mali e Niger, hanno firmato a Bamako (Mali) un documento chiamato «Carta del Liptako-Gourma per una nuova alleanza degli stati del Sahel» (dal nome geografico della regione). Il burkinabè Ibrahim Traoré, il maliano Assimi Goita e il nigerino Abdourahmane Tiani hanno così creato una nuova alleanza regionale (Aes, sigla in francese), con «l’obbiettivo di stabilire un’architettura di difesa collettiva e di mutua assistenza a beneficio delle nostre popolazioni», ha scritto in un tweet il presidente di transizione del Mali, ospite dell’evento.
Il giorno precedente, secondo la Radio televisione del Niger (Rtn), a Bamako, si eratenuta una riunione tra i ministri della Difesa di Mali e Niger, alla quale avrebbero partecipatofunzionari del ministro della Difesa della Russia, forse come consulenti. Le delegazioni avrebbero poi incontrato il presidente di transizione Assimi Goita. L’Rtn ha mostrato le immagini della riunione, a cui hanno partecipato anche uomini europei in civile e in divisa militare, e non erano certo francesi.
L’accordo Liptako-Gourma tra i tre paesi saheliani era nell’aria ed era stato anticipato dalla firma, a Niamey, Niger, di un documento tripartito, il 24 agosto scorso.
Sulla carta si parla di mutuo aiuto militare nella lotta ai terroristi, ma anche in caso di ribellioni interne (ad esempioin Mali sta rinascendo la ribellione dei popoli dell’Azawad, nel Nord) e di qualsiasi minaccia all’integrità territoriale di uno dei tre paesi. Si pensi, in questo caso, all’ultimatum della Cedeao, la Comunità economica degli stati dell’Africa dell’Ovest, nei confronti del Niger, con minaccia di intervento militare se non viene ristabilito l’ordine costituzionale dopo il golpe del 26 luglio.
Di fatto, i golpisti di Mali, Burkina Faso e Niger si uniscono in un’alleanza militare con un patto di ferro.
In Mali è già presente il gruppo Wagner da alcuni anni: ha sostituito i francesi dell’operazione Barkhane, e compiuto massacri di civili. In Burkina Faso sta entrando. In Niger, invece, sono presenti basi militari di Francia (circa 1.500 uomini), Stati Uniti (1.500), Germania e Italia (circa 300 effettivi), ma a questo punto, pare chiaro che anche l’idea della giunta Tiani sia di andare verso la Russia.
Il 19 settembre l’Assemblea legislativa di transizione (71 membri) del Burkina Faso ha ratificato l’invio di un contingente militare in Niger, in appoggio delle forze militari di quel Paese. C’è da chiedersi cosa faranno, visto che in patria non riescono a garantire la sicurezza della popolazione dagli attacchi terroristici.
Si tratta, tuttavia, di un via libera politico, nell’eventualità di un’improbabile attacco di truppe dei paesi vicini sotto l’egida della Cedeao.
Intanto, il 24 settembre, il presidente Emmanuel Macron ha annunciatoil ritiro del contingente francese dal Niger da qui a dicembre, viste le pressioni della giunta. Cosa faranno statunitensi, tedeschi e italiani? I primi hanno ripreso le loro attività da giorni, come nulla fosse.
India. A Delhi, promesse e gaffe
Da Narendra Modi a Lula da Silva. Nel 2024, il vertice delle venti maggiori economie del mondo (G20) si terrà nel paese latinoamericano.
Modi è stato abile, abilissimo. Non tanto per aver fatto conoscere al mondo il nome originale del suo paese, Bhārat (al posto del coloniale India), quanto per il suo fantastico equilibrismo. Al pari del turco Erdogan (con il quale condivide anche un’interpretazione piuttosto discutibile della democrazia), il primo ministro indiano è stato capace di barcamenarsi tra Joe Biden e Xi Jinping, quest’ultimo strategicamente assente dal vertice dopo aver partecipato di persona a quello dei Brics, a fine agosto.
«Siamo una sola terra, una sola famiglia e condividiamo un futuro» con queste (belle) parole inizia il preambolo della dichiarazione finale della due giorni (9-10 settembre) di Nuova Delhi. E subito dopo, ai punti 3 e 4, s’introduce la questione ambientale: «Le emissioni globali di gas serra (Ghg) continuano ad aumentare, di pari passo con il cambiamento climatico, la perdita di biodiversità, l’inquinamento, la siccità, il degrado del territorio e la desertificazione, minacciando vite e mezzi di sussistenza. […] Noi affermiamo che nessun paese dovrebbe scegliere tra la lotta alla povertà e la lotta per il nostro pianeta». Insomma, nel documento finale del G20 le buone intenzioni non mancano, ma – si sa – quelle non costano nulla.
Poco sotto, nel paragrafo titolato «Per il pianeta, la gente, la pace e la prosperità», al punto 8 si legge della guerra in Ucraina, ma la Russia di Vladimir Putin non viene neppure citata. Come se quel conflitto si fosse autogenerato al pari di una combustione spontanea o, meglio, di una partenogenesi. Sergej Lavrov, l’ineffabile ministro degli esteri russo, ha gradito molto. Una scelta grave quella del G20 perché alla legalità internazionale si è preferito il compromesso ipocrita.
Per il resto, nella lunga dichiarazione (sono 38 pagine) non manca quasi nulla: economia e sviluppo, ambiente e clima, tecnologia, finanza, lotta al terrorismo, alla xenofobia e alla strumentalizzazione delle fedi religiose, migrazioni. Difficile trovare un passaggio su cui non concordare: le parole sono scelte con estrema cura, come consuetudine nei documenti finali. È il successivo passaggio, dalle parole ai fatti, che risulta sempre problematico.
Non manca, tuttavia, qualche elemento positivo. Per esempio, verso la fine del documento (al punto 76), si legge una novità potenzialmente interessante: l’entrata dell’Unione africana – organizzazione similare all’Unione europea – come membro permanente del G20.
Il punto precede le righe che riguardano le migrazioni, la questione mondiale più rilevante di questi anni, al pari dei cambiamenti climatici. Vale la pena di riportarne alcune righe: «Riaffermiamo il nostro impegno – scrivono i leader – a sostenere i migranti, compresi i lavoratori migranti e i rifugiati, nell’ambito dei nostri sforzi verso un mondo più inclusivo, in linea con le politiche nazionali, legislazioni e circostanze, garantendo il pieno rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali, indipendentemente dal loro status migratorio. Riconosciamo anche l’importanza di prevenire i flussi migratori irregolari e il traffico di migranti, come parte di un approccio globale per una migrazione sicura, ordinata e regolare rispondendo, nel contempo, ai bisogni umanitari e alle cause profonde degli sfollamenti. Sosteniamo il rafforzamento della cooperazione tra paesi di origine, transito e destinazione».
Come volevasi dimostrare, non c’è una parola fuori posto. Ma di soluzioni concrete e immediatamente attuabili non c’è traccia alcuna.
Interessante anche il punto 78, nel quale si difende la libertà religiosa. «Deploriamo fortemente – scrivono i leader – tutti gli atti di odio religioso contro le persone, nonché quelli di natura simbolica, […], anche contro i simboli religiosi e i libri sacri». Il passaggio è importante, ma dovrebbe stonare un po’ per l’anfitrione indiano. Narendra Modi, infatti, è primo ministro del paese asiatico, ma anche leader del Bharatiya janata party (Bjp), partito induista poco rispettoso delle minoranze religiose. In particolare, sono i musulmani (14,2% pari a quasi 173 milioni di indiani) e i cattolici (1,5%, circa 20 milioni) a essere fatti oggetto di discriminazione e violenza.
A conclusione del vertice, Modi ha passato le consegne a Lula, presidente del Brasile, prossimo paese a ospitare il G20. Come primo gesto, il leader brasiliano ha offerto a Vladimir Putin, ricercato dalla Corte penale internazionale (alla quale anche il paese latinoamericano aderisce), la possibilità di presenziare di persona al summit del 2024 senza correre il rischio di essere arrestato. Il giorno dopo Lula ha ritrattato: «Su Putin deciderà la magistratura», ha precisato. Aggiungendo però un’altra affermazione infelice: «Non sapevo nemmeno che esistesse questo tribunale».