Roraima. Il vescovo: continueremo a lottare per i diritti di tutti
Testo e foto di Paolo Moiola |
Secondo vicepresidente della Conferenza dei vescovi brasiliani (Cnbb), dom Mário Antônio Da Silva è vescovo di Roraima. Ha assunto la guida di questa diocesi di frontiera nel settembre 2016, trovandosi ad affrontare i problemi di sempre (la questione indigena), ma anche problemi inediti. Come l’arrivo di migliaia di venezuelani bisognosi di tutto. Dom Mário si è rimboccato le maniche, senza perdersi d’animo.
Boa Vista. Una targa ricorda che l’edificio – una struttura bassa e lunga non priva di eleganza – è stato costruito nel 1924 dai missionari benedettini per fungere da ospedale. Successivamente è diventato sede vescovile e tale è rimasto oggi. Ad attenderci sulla veranda che guarda sul giardino e sulla nuova struttura costruita a lato per ospitare il centro pastorale diocesano, c’è dom Mário Antônio da Silva, vescovo di Roraima dal settembre 2016. Sostituisce dom Roque Paloschi, che a sua volta aveva preso il posto di dom Apparecido José Dias, il successore di dom Aldo Mongiano, missionario della Consolata.
Nato nel 1966 a Itararé (San Paolo), vescovo dal 2010, dal 6 maggio secondo vicepresidente della Conferência Nacional dos Bispos do Brasil (Cnbb), dom Mario è consapevole ma non spaventato dalle sfide che deve affrontare in uno stato amazzonico che il governo Bolsonaro tiene sotto stretta osservazione. In primo luogo, per la presenza di numerosi popoli indigeni e di due importanti riserve: quella degli Yanomami e la Raposa Serra do Sol. Oltre a ciò, da circa un anno, si è aperta anche la questione della frontiera Nord con il Venezuela da cui transitano moltissimi venezuelani in fuga dal loro paese.
Da Manaus a Boa Vista
Monsignor Mário Antônio, lei è stato vescovo ausiliario in una metropoli come Manaus. Che situazione ha trovato qui a Boa Vista?
«Ho trovato una situazione sociale complessa, ma anche una Chiesa unita. Con molte potenzialità. Con un laicato diffuso, soprattutto all’interno dello stato. E soprattutto con la presenza di missionari e missionarie di numerose congregazioni del Brasile e di varie parti del mondo. Ho trovato una Chiesa profetica e attenta alle questioni sociali e politiche».
La popolazione di Roraima è inferiore alle 600mila unità (quasi due terzi residenti a Boa Vista), ma ha una composizione sociale particolare rispetto ad altri stati brasiliani.
«Sì, nel senso che essa è composta per la maggior parte da migranti. Però, allo stesso tempo c’è una presenza di popolazione indigena – intendo i popoli originari di qui – abbastanza grande essendo calcolata in circa l’11 per cento del totale. Sono i veri, primi abitanti. In Roraima hanno ottenuto conquiste importanti. In primis, l’omologazione delle loro terre. Ci sono comunità consolidate, altre che hanno bisogno di aiuti per una vita più autonoma».
Però, le conquiste indigene di cui lei parla oggi sembrano messe in discussione.
«Ci sono varie minacce provenienti sia dal governo nazionale che da quello statale. È una situazione che ci preoccupa. Oggi più che mai le popolazioni indigene debbono unirsi per far valere i loro diritti al territorio e alla cultura. Allo stesso tempo, hanno necessità di un accompagnamento pubblico su questioni come la salute e l’istruzione».
L’emergenza migratoria
Fuori dalle stazioni dei bus e lungo le strade di Boa Vista si vedono gruppi di venezuelani. Com’è la situazione della migrazione dal vicino Venezuela?
«La migrazione è in atto da tempo. Negli ultimi due anni – 2017 e 2018 – c’è però stato un flusso migratorio senza eguali. Soprattutto di venezuelani che entrano in Brasile attraverso il nostro stato di Roraima e precisamente da Pacaraima, la città sul confine con il Venezuela. Si stimano oltre 55mila arrivi dei quali 30mila stanno in capitale, il 10 per cento della sua popolazione. Vengono per fame, per trattamenti medici, per lavoro. Necessitano di alloggi: un 10 per cento sta negli abrigos (rifugi) dei militari, l’altro 90 per cento in altri luoghi, in parte anche nelle strade e nelle piazze. La maggior parte vive nell’informalità e spesso è sfruttata come manodopera a buon mercato. E poi ci sono i migranti che entrano nei circuiti dell’illegalità per l’opportunismo dei gruppi criminali, brasiliani e non. Soprattutto nell’ambito della distribuzione della droga».
Oltre all’immigrazione dei venezuelani, c’è quella degli indigeni di etnia Warao che vivono in quel paese.
«I Warao sono stati i primi ad arrivare. Oggi sono in un rifugio qui in capitale e in un altro a Pacaraima, al confine. La prima sfida è tenere unite le famiglie. La seconda è la comunicazione perché molti di loro parlano soltanto la lingua indigena».
Qual è stata la reazione della popolazione locale a questa ondata migratoria?
«La popolazione ha reagito in maniera molto differente. Alcuni accolgono, danno lavoro, sono tolleranti. Altri invece non hanno rispetto per la dignità dell’essere umano e mostrano attitudini xenofobe sia a parole che con atti di violenza. Per questo come Chiesa, assieme ad altre organizzazioni nazionali e internazionali, siamo impegnati a lottare per superare queste situazioni d’ostilità e xenofobia».
Le Chiese neopentecostali
Come Chiesa cattolica che rapporti avete con le altre chiese?
«L’ecumenismo ci spinge a una relazione di prossimità con le altre confessioni. Con momenti celebrativi, di studio ed anche opere sociali. Mi riferisco alle Chiese bibliche tradizionali».
Però in tutto il Brasile crescono i seguaci delle Chiese neopentecostali. Che tipo di rapporti avete con loro?
«La relazione con le Chiese evangeliche neopentecostali è molto complicata. Sembra che esse abbiano un progetto religioso-politico. Anzi, più politico che religioso. Dove arrivano, facendo uso della fede e della parola di Dio, facendo leva sulla tematica profetica, approfittando della questione del dizimo (il tributo in denaro versato dai fedeli alla propria chiesa, ndr), ma anche dell’ingenuità della gente, purtroppo portano divisioni. Inoltre, disorganizzano le comunità nella lotta sociale per i diritti e per le necessità (di salute, istruzione, abitazione, eccetera). Insomma, queste chiese non lavorano per l’armonia».
E voi, come lavorate?
«Noi sentiamo la necessità di lavorare per rinforzare la popolazione, soprattutto quella più fragile».
Su Bolsonaro e il suo governo
Il 12 ottobre 2018, tra il primo e il secondo turno delle elezioni, lei scrisse una lettera pastorale che parlava di democrazia e dittatura e che le attirò addosso molte critiche.
«Era una lettera pastorale di riflessione e orientamento per votare in maniera etica, cosciente e libera, optando per un candidato che favorisse la vita e la democrazia. Abbiamo ricevuto molte reazioni, anche offensive».
Alla fine ha vinto Jair Bolsonaro. Monsignore, che dice?
«Che il risultato è preoccupante. Ma è certo che noi continueremo nelle nostre battaglie a difesa dei popoli indigeni e dei piccoli contadini. Della salute e della casa. Della popolazione che vive nelle periferie come di quella che sta nell’interiore dello stato. E lavoreremo per la difesa dell’ambiente perché veramente ci sia sostenibilità nella produzione e rispetto del creato».
Più Amazzonia nella Cnbb
Lo scorso maggio la 57.ma assemblea generale della Conferenza dei vescovi del Brasile (Cnbb) ha rinnovato i proprio vertici. Il nuovo presidente è dom Walmor Oliveira de Azevedo, arcivescovo di Belo Horizonte (Minas Gerais). Come secondo vicepresidente è stato nominato proprio dom Mário Antônio da Silva.
La sua nomina è una scelta significativa perché dimostra l’attenzione della Chiesa brasiliana per l’Amazzonia e per quel Sinodo panamazzonico, al quale il governo di Brasilia guarda con malcelato sospetto.
Anche per questo, a fine maggio, Bolsonaro e dom Walmor si sono incontrati a porte chiuse a Palácio do Planalto, sede della presidenza della Repubblica. Difficile però che meno di un’ora di colloquio sia riuscita a cancellare mesi di accuse e incomprensioni.
Paolo Moiola
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Migranti dal Venezuela: Più solidarietà che xenofobia
Secondo Acnur, l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, i migranti venezuelani (inclusi rifugiati e richiedenti asilo) sono 3.706.624 (dato aggiornato all’11 aprile 2019). La cifra effettiva potrebbe però essere più alta in quanto molti stati non conteggiano i migranti irregolari. La gran parte di queste persone ha scelto di migrare in un paese latinomericano, con preferenza per Colombia, Perù, Ecuador, Cile e Argentina. Per il Brasile si calcola un numero d’arrivi inferiore rispetto ai paesi di lingua spagnola: 240mila venezuelani, ma la metà di essi lo avrebbe già lasciato. La principale porta d’ingresso nel paese è la città di Pacaraima, nello stato di Roraima (mappa a lato).
Come sempre capita quando ci sono migrazioni consistenti, in ogni paese ci sono stati episodi d’intolleranza e xenofobia, ma in generale la solidarietà ha prevalso. In Brasile, l’esercito ha attivato dal marzo 2018 l’«Operazione accoglienza» (Operação Acolhida). Gli interventi più consistenti sono però in mano alla Chiesa cattolica con la Caritas, la diocesi di Roraima e le congregazioni missionarie. Oltre all’accoglienza immediata, è stato attivato il programma «Cammini di solidarietà» (Caminhos de Solidariedade) che invia i migranti in diverse diocesi di vari stati brasiliani.
Paolo Moiola
Consiglio indigeno di Roraima: «Per la terra e per il rispetto»
Il Consiglio indigeno di Roraima (Cir) riunisce nove etnie. In Brasile, è considerato una delle organizzazioni indigene più attive. Come testimonia anche la vittoria ottenuta per il riconoscimento e la difesa della terra indigena Raposa Serra do Sol. Abbiamo incontrato il coordinatore generale del Cir, Enock Batista Tenente, un Taurepang di 29 anni.
Testo e foto di Paolo Moiola
Boa Vista. Sul murale, al centro del disegno con le piume colorate, è posta la sigla Cir. Sta per «Conselho indígena de Roraima» (Consiglio indigeno di Roraima), la principale organizzazione indigena dello stato amazzonico brasiliano. Formalmente essa esiste dal 1990, ma in realtà è operativa dagli anni Settanta.
Il Cir ha come obiettivo la lotta per garantire i diritti e l’autonomia dei popoli indigeni di Roraima, uno stato che conta (almeno) nove etnie: Macuxi, Wapichana, Ingarikó, Patamona, Sapará, Taurepang, Wai-Wai, Yanomami e Yekuana.
Questa varietà di soggetti fa sì che la struttura organizzativa del Cir sia improntata alla massima partecipazione. Ogni anno si tiene una grande assemblea generale che costituisce il maggiore organo deliberativo. L’ultima – la 48ª – si è svolta al lago Caracaranã, nella terra indigena Raposa Serra do Sol, dall’11 al 15 marzo.
Per parlare del consiglio indigeno e dell’attuale situazione politica brasiliana, nella sede del Cir, a Boa Vista, capitale di Roraima, incontriamo Enock Batista Tenente, che da due anni riveste il ruolo di coordinatore generale, in questo aiutato dal vice Edinho Batista de Sousa e da Maria Betania Mota de Jesus, in rappresentanza del movimento delle donne indigene.
Enock, 29 anni e 3 figli piccoli, ci accoglie nel suo ufficio «da bianco» indossando però un copricapo di piume colorate.
«Senza terra non esistiamo»
Enock, a chi è venuta l’idea del Conselho Indígena de Roraima?
«Il Cir è stato creato dai nostri leader con una partecipazione importantissima della Chiesa cattolica. Oggi esso coordina 237 comunità in 11 regioni dello stato di Roraima».
Quali etnie sono rappresentate nell’attuale coordinamento generale del Cir?
«La giunta è composta dal sottoscritto Taurepang e da due Macuxi, Edinho e Maria Betania».
Taurepang e Macuxi, dunque. L’organizzazione però abbraccia altri gruppi indigeni.
«Certo. Il Cir raggruppa nove diverse etnie sotto una sola bandiera e con tre obiettivi: terra, educazione e salute. È una lotta dura visto che l’attuale congiuntura politica non è favorevole per i popoli indigeni. Anche se, per la prima volta, abbiamo eletto una deputata federale, Joênia Wapichana».
La terra rimane sempre la vostra priorità?
«Il nostro territorio è per noi il bene più prezioso. Senza territorio non possiamo avere né salute, né educazione. In una parola non esistiamo. Per questo siamo sempre pronti a dare la vita per la terra».
In che modo? Percorrendo quale strada?
«Non tirando le frecce, perché occorre sempre rispettare la vita del prossimo, sia esso un indigeno o un non indigeno.
Noi chiediamo che ci vengano assicurati i diritti garantiti nella Costituzione federale del 1988. Abbiamo persone preparate in legge per aiutarci in questo.
Noi non abbiamo invaso la terra di nessuno: chiediamo soltanto rispetto. Di essere rispettati nel diritto a vivere nel nostro territorio. Di essere rispettati come società, come esseri umani e come indigeni. E qui intendo dire Macuxi, Wapichana, Ingarikó, Patamona, Sapará, Taurepang, Wai-Wai, Yanomami, Yekuana».
È corretto dire che la diversità indigena è anche una diversità tra indigeni?
«Il Cir non ha una sola identità. Per questo è stato capace di unire le identità di nove popoli differenti. Perché non va dimenticato che noi siamo differenti: un Taurepang è differente da un Macuxi, un Macuxi è differente da Wapichana e così via. Eppure questa organizzazione è capace di unirci tutti in un luogo, in una sala per discutere della nostra vita. Il Cir è un’università e un tribunale: è tutto per noi».
Da fuori, cioè dal mondo non indigeno, vengono i garimpeiros e le grandi opere. Che ne pensa il Cir?
«Che non vogliamo i grandi progetti che distruggono la natura. Non vogliamo estrazioni minerarie nei nostri territori. Se il grande Creatore ha messo il petrolio sotto la terra è per lasciarlo lì».
Vi accusano di non volere il progresso, la civiltà, il futuro.
«I governanti ci dicono che siamo arretrati. Ma costoro non si sono mai seduti con noi per chiederci cosa vogliamo come società, popoli e individui. Noi non chiediamo cose che vengano da fuori: non ci occorrono quelle per essere felici. Vogliamo valorizzare ciò che esiste nelle nostre comunità: la nostra cucina, le nostra medicina, i nostri canti, le nostre danze. Soltanto questo e nulla di più».
Ci dica di Joênia.
«Nella elezione della dottoressa Joênia si è riflessa la nostra forza e unità. È un risultato ottenuto con molta lotta, ma soprattutto senza comprare voti e senza corruzione. Lei è la nostra deputata. La sua elezione è una cosa molto buona per noi».
Come la quasi totalità dei leader indigeni, anche lei pare avere una pessima opinione dei politici brasiliani. Adesso anche Joênia è un rappresentante politico.
«La tratteremo non come una politica, ma come una donna indigena. Lei non ha il profilo, la parola o i sorrisi di un politico. I politici hanno ingannato non soltanto la società indigena ma anche quella bianca. Per questo chiediamo a Joênia di comportarsi come un leader indigeno e non come un leader politico. Lei è nata nel movimento indigeno. È stata la prima donna indigena a difenderci nel Supremo tribunale federale nel giudizio sulla Raposa Serra do Sol. Ha appena vinto lo stesso premio che ricevette Martin Luther King» (Enock si riferisce allo United Nations prize in the field of human rights assegnatole il 25 ottobre 2018, ndr).
Enock, con un presidente come Bolsonaro e un Congresso così anti indigeno Joênia non avrà vita facile.
«Joênia è figlia del movimento indigeno di Roraima. E proprio per questo la gente crede nel suo lavoro. Lei non sarà mai sola. Perché noi siamo Joênia».
Paolo Moiola
Joênia Batista de Carvalho Wapichana
Donna, indigena, deputata
Molti anni dopo Mario Juruna Xavante, un altro indigeno entra nel congresso brasilano. E, per la prima volta, è una donna.
Nata nel 1973, l’avvocata Joênia Batista de Carvalho detiene una serie di primati. Appartenente al popolo Wapichana, nel 1997 è la prima indigena del paese a ottenere la laurea in diritto (prima all’Università federale di Roraima e, anni dopo, anche all’Università dell’Arizona, negli Stati Uniti). Nel 2008 è la prima a difendere un caso davanti al Supremo tribunale federale, il massimo organo giudiziale del Brasile.
Nel 2018 si presenta alle elezioni per il congresso federale con la «Rede sustentabilidade», il partito fondato dalla candidata presidenziale ed ex ministra dell’ambiente Marina Silva. Nonostante lo scarso successo del suo partito, Joênia Wapichana ottiene 8.267 voti, un numero sufficiente per diventare la prima deputata indigena nella storia del Brasile. In precedenza, a Brasilia era arrivato solamente un indigeno: Mario Juruna del popolo Xavante, in carica dal 1982 al 1986.
Per la neodeputata il 2018 si conclude in bellezza: il 25 di ottobre le viene infatti assegnato dalle Nazioni Unite il prestigioso premio per i diritti umani (United Nations prize in the field of human rights), per la sua attività in difesa delle comunità indigene.
Joênia proviene dalla Terra indigena Raposa Serra do Sol, omologata dal presidente Lula nel 2005. Per oltre dieci anni il suo lavoro di responsabile legale del Conselho indígena de Roraima (Cir) ha riguardato la difesa della demarcazione e l’uscita da quei territori dei fazendeiros (arrozeiros, produttori di riso, per la precisione). Oggi si ritrova a difendere quella conquista dalla volontà del nuovo presidente Bolsonaro e del nuovo Congresso di rimettere tutto in discussione.
Paolo Moiola
Governo Bolsonaro, popoli indigeni e Cimi
«Il maggior latifondista del paese è l’indigeno»
In tutte le sedi le posizioni circa i diritti indigeni appaiono inconciliabili.
All’apertura della 40a sessione del Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite (Ginevra, 25 febbraio 2019) Damares Alves, ministra brasiliana della donna, della famiglia e dei diritti umani, ha affermato che i popoli indigeni avranno «uno sguardo speciale» («um olhar especial») dal governo Bolsonaro. Volendo apparire credibile la ministra ha precisato di essere «madre socioaffettiva di una giovane indigena dell’etnia kamayurá».
Le affermazioni della ministra sono state molto criticate dalla delegazione del Consiglio indigenista missionario (Cimi) durante il suo incontro con Michelle Bachelet, alta commissaria dell’Onu per i diritti umani. «Sottolineiamo che le popolazioni indigene non vogliono una relazione socioaffettiva con lo stato brasiliano. I popoli indigeni non vogliono essere portati a casa alla fine della giornata. Vogliono una relazione (con lo stato) che riguardi i loro diritti», ha detto il responsabile degli affari internazionali del Cimi, Flávio Vicente Machado.
Il clima che si respira con il governo di Jair Bolsonaro è ben esemplificato da quanto detto da un funzionario della ministra dell’agricoltura Tereza Cristina, proprietaria terriera ed ex presidente del gruppo parlamentare degli agricoltori e allevatori (Frente parlamentar agropecuária). Il suo segretario speciale per le questioni fondiarie, Luiz Antonio Nabhan Garcia, latifondista e presidente dell’Unione democratica ruralista (l’associazione dei grandi proprietari terrieri del Brasile), ha affermato che «il più grande latifondista del paese è l’indigeno» («o maior latifundiário do país é o índio», 22 febbraio 2019).
Potrebbe essere una semplice opinione se non fosse che il ministero dell’agricoltura ha ricevuto dal presidente Bolsonaro (con Medida provisória n. 870 del 1 gennaio 2019) l’incarico per «l’identificazione, la delimitazione, la demarcazione e le registrazioni di terre tradizionalmente occupate da popolazioni indigene». Pertanto, quella di Nabhan Garcia è da considerarsi non tanto un’affermazione personale quanto piuttosto una vera e propria minaccia ai diritti costituzionali dei popoli indigeni del Brasile.
Paolo Moiola
Attorno al fuoco, nella casa comune
Dal Kenya alla foresta amazzonica brasiliana. È questo il percorso di Mary Agnes Nieri Mwangi, missionaria della Consolata che dal 2000 vive nella Missione Catrimani in Terra indigena yanomami (Tiy). Sorretta da un incredibile entusiasmo e ponendosi sempre dalla parte delle donne. Anche quando si tratta di affrontare tematiche complesse come la poligamia o delicate come l’infanticidio.
Boa Vista. Nella capitale di Roraima suor Mary Agnes Nieri Mwangi, missionaria della Consolata, è di passaggio. Ha (temporaneamente) lasciato la Missione Catrimani, in terra yanomami, per partecipare a una serie di riunioni. Il momento storico è delicato perché il nuovo presidente del Brasile, Jair Bolsonaro, sta mettendo in discussione molte conquiste indigene. Come ha denunciato il Consiglio indigenista missionario (Cimi), poche ore dopo la sua entrata in carica (1 gennaio 2019), Bolsonaro ha varato misure impattanti. La Funai, l’organizzazione federale per la protezione e la promozione dei diritti indigeni, è passata dal ministero della Giustizia a quello della Donna, famiglia e diritti umani, diretto da Damares Alves, pastora evangelica. Allo stesso tempo, la Funai è stata privata delle sue competenze in fatto di terre indigene, che sono state trasferite al ministero dell’Agricoltura, diretto da Tereza Cristina, imprenditrice agricola. Il risultato di queste misure è che le due uniche donne del governo Bolsonaro incarnano palesi e giganteschi conflitti d’interesse sotto i quali rischiano di rimanere schiacciati i diritti dei popoli indigeni. In tutto questo, l’Amazzonia, da tempo in grave sofferenza, rischia ora di subire un attacco letale con l’apertura indiscriminata alle imprese minerarie e ai latifondisti.
Cacciatori e contemplatori
Suor Mary, com’è stato passare dal suo Kenya alla terra degli Yanomami?
«Arrivare in Amazzonia, nelle terre indigene, per me è stata una novità molto grande. Ma ancora più grande è stata la gioia di conoscere popoli diversi dalla mia realtà. Quando arrivai a Catrimani, mi sembrava di essere in quelle missioni del mio paese nei primi anni del Novecento. Oggi è un gioiello».
Molto spesso il primo salto culturale che ci si trova ad affrontare è quello linguistico. Lei ha avuto problemi?
«No, perché il mio paese è plurilingue. Si parla inglese, kiswahili e poi il kikuyu, la mia lingua. In Kenya e in Italia ho imparato un po’ d’italiano. Quando entrai a Catrimani non parlavo né la lingua portoghese né quella indigena. Nei primi cinque mesi, in attesa di partecipare a un corso di portoghese, cominciai a studiare la lingua locale, lo yanomae. Dato che spesso è l’unica che viene parlata dagli Yanomami, conoscerla è essenziale. Si tratta di una lingua orale. Anche se, nel corso degli anni, noi missionari abbiamo svolto vari progetti di alfabetizzazione».
Suor Mary, volendo dare una sintetica definizione dei popoli indigeni, cosa direbbe?
«Che sono popoli amici. Che sanno accogliere. Che c’è tanto da imparare dal modo in cui loro ti ricevono».
E degli Yanomami?
«Anche se non sembra perché sono cacciatori, cioè uomini d’azione, gli Yanomami sono persone a cui piace raccontare, ascoltare e contemplare. Noi abbiamo l’abitudine di chiedere: “Come stai?”. Loro no, perché come stai lo vedono. Si tratta di una domanda inutile. Invece, è molto importante chiedere: «Cosa pensi?». È quasi un modo di salutare l’altro. E mettersi nella disposizione di ascoltarlo».
Maloca, comunità, famiglia
Maloca è il termine generico per indicare un’abitazione che ospita più famiglie indigene. Lei come descriverebbe la maloca degli Yanomami?
«C’è una ricerca dell’armonia che è difficile da spiegare. Per prima cosa, quando costruiscono la loro casa comune, gli Yanomami hanno sempre un pensiero: dov’è il centro del mondo? L’armonia si cerca anche nelle attività esterne alla maloca che vanno condivise attraverso una proposta. Non si dice: “Oggi andiamo a cacciare lì”. No, questa non è la comunicazione yanomami, che invece dice: “Ho pensato, mi sembra che sia bene andare lì. Cosa ne pensate?”. Questi sono momenti comuni, ma ci sono anche quelli dedicati al nucleo familiare».
E, all’interno della casa comunitaria, cosa distingue una famiglia?
«Ogni nucleo familiare ha il suo fuoco. Non essendoci divisioni, se si vuole sapere quante famiglie ci sono nella maloca basta contare i fuochi. Ogni fuoco, una famiglia».
E all’interno della maloca e della famiglia come crescono i bambini?
«Imparando direttamente. I bambini più grandicelli prendono in braccio quelli più piccoli. Quelli di 2 o 3 anni sanno già fare il fuoco e già prendono in mano il coltello. Un tempo io mi preoccupavo, ma la mamma subito interveniva per dirmi che non capitava nulla. Alla fine anch’io ho trovato un equilibrio tra la cura esagerata dei bambini occidentali e la libertà d’imparare dei piccoli yanomami. Quanti di loro vanno al fiume a pescare e poi preparano quello che hanno trovato. Anche il cibo viene condiviso con gli adulti. Non esiste la distinzione cibo per adulti e cibo per bambini, come invece io ero abituata».
Banane per tutti, dunque?
«Sì, l’alimento preferito dagli Yanomami è la banana. Poi ci sono la manioca con la quale fanno una specie di pane, patate dolci e frutti della foresta, pesce e carne di selvaggina o di maiale. Per gli Yanomami esistono due tipi di fame, tanto che hanno una parola specifica – naiki – per parlare di fame da mancanza di carne e un’altra – ohi – per tutto il resto. La caccia è in pratica un’attività quotidiana: ogni giorno c’è qualcuno che la pratica. Se non va il papà, va il figlio o il cugino. Chi va un giorno, non va il giorno successivo perché deve preparare gli strumenti da caccia, in primo luogo le frecce».
I misteri dello sciamano
Chi è e che ruolo riveste lo sciamano – detto xapuri o xapiri – nella società yanomami?
«Prima di tutto, lo sciamano è una persona molto disponibile. Se arriva qualcuno a chiedere i suoi servizi, lui si alza dall’amaca e va. Non ho mai sentito qualcuno rifiutarsi. In generale, sciamano è una persona che, per tutta la sua vita, coltiva “il sentire con”, il condividere le preoccupazioni altrui».
Per «sentire» come dice lei, occorre però sempre assumere la yakoana, che è una sostanza allucinogena.
«È vero, gli sciamani usano la yakoana, perché aiuta nella intermediazione tra loro e gli spiriti. Anch’io – da infermiera – ho pensato alla condizione sciamanica come a un effetto allucinogeno indotto da questa droga (detto tra virgolette). Tuttavia, io ho visto che ci sono sciamani che riescono a fare i loro riti curativi senza necessariamente assumerla. In uno stato di sobrietà.
Io vedo in questo la forza dell’amore, anche se loro non parlano in questi termini ma soltanto di cura. Lo sciamano – inoltre – porta nel presente la memoria della comunità. Essendo loro dei popoli senza memoria scritta, questa funzione è essenziale».
Suor Mary, ci aiuti un po’ a fare chiarezza sui termini: si dice sciamano, xapuri o xapiri?
«Il termine che gli indigeni usano non è sciamano. Il termine è xapuri o xapiri a seconda del territorio yanomami considerato. Perché? Xapuri (xapiri) è anche il nome degli spiriti che lavorano con queste persone. Nel momento in cui lo sciamano è in contatto con lo spirito non è lui che parla, non è lui che cura: lui incarna lo spirito. In quel momento lui è xapuri. Accade, per esempio, nel momento finale della vita quando lo sciamano sentenzia: “Non c’è più nulla da fare per evitare la morte”. Parole dure da ascoltare, ma tutti i presenti le considerano parole dello spirito e non della persona fisica che hanno davanti agli occhi. Detto questo, per me lo sciamanesimo rimane un mistero».
Antropofagia e infanticidio: Yanomami primitivi?
Le ossa del defunto – trattate in una certa maniera – vengono mangiate dai parenti. Ciò ha fatto parlare di cannibalismo. «Il loro modo di trattare i morti è qualcosa che noi dobbiamo imparare. Oggi i nostri cimiteri sono pieni. Se noi pensiamo che, dopo morta, una persona diventi cenere, gli Yanomami agiscono cremando i cadaveri e mescolando nel cibo le ossa polverizzate. Di qui si è arrivati a sentenziare: gli Yanomami mangiano i morti. Chi parla così non conosce bene la loro cultura, il perché delle cose che si fanno. È un peccato. Non sempre quello che io vedo e penso è giusto. Questa è una cosa che mi dà molto fastidio».
Altra questione molto delicata è quella dell’infanticidio. Un altro elemento spesso usato per attaccare gli Yanomami come primitivi o peggio. Cosa ci può dire sull’argomento?
«Per prima cosa, voglio dire che infanticidio è una parola abusata. In tutti questi anni tra loro, io ho visto quanto le donne yanomami curino i loro bambini. Si provi a immaginare la vita nella foresta: tu devi andare a cacciare, cercare frutta, eccetera. Se hai bambini piccoli, devi pensare a come portarli con te. È molto comune vedere una Yanomami con un bimbo sulla schiena o sul davanti.
Ricordo che un giorno venne una donna a chiedermi di accompagnarla al posto di salute per mostrare che il suo bambino era morto: non voleva essere accusata di averlo ucciso. Io l’accompagnai. Se una donna ha già un bimbo piccolo e rimane incinta, chiede a un’altra di tenerlo. Tra loro le donne si aiutano. Insomma, prima di parlare di infanticidio, occorre pensare, perché il tema è molto delicato».
La poligamia: responsabilità e sorellanza
Rimaniamo in tema di bambini. Quanti sono in media per famiglia?
«In media sono cinque per famiglia. Ma un uomo può arrivare anche a dieci, perché può avere più mogli. Dipende dalla sua forza e capacità di lavorare. Chi ha più di una moglie, in genere ne ha due. L’uomo yanomami è responsabile, cioè si prende cura delle mogli e dei figli. Le mogli vivono assieme nella stessa maloca. Alla fine sono come sorelle».
Lei parla di capacità di lavorare. Oggi ci sono Yanomami che lavorano per il governo guadagnando uno stipendio.
«Quando io arrivai le comunità yanomami non conoscevano i soldi. Per loro non avevano significato. Poi, quando alcuni indigeni divennero agenti di salute o microscopisti, cominciarono a ricevere una busta con il denaro. Nessuno pensava a depositarlo dato che si era in foresta. Dunque, lo riponevano in un posto qualsiasi e lì rimaneva.
Poco a poco le cose sono cambiate e i giovani yanomami hanno imparato a maneggiare il denaro. Ricordo che, quando andavamo in città, io li accompagnavo nei negozi. Se compravano – ad esempio – una camicia, davano i soldi e non aspettavano neppure il resto. Questa era una conseguenza del sistema della casa comune: quando hai quello di cui necessiti, il resto lo puoi condividere. Oggi i popoli indigeni conoscono i soldi. Sanno che, se ne hanno, possono ottenere qualcosa. E ciò può essere un pericolo».
La terra degli Yanomami e l’invasione dei garimpeiros
A parte la corruzione portata dai soldi dei bianchi, da fuori arriva un altro grande pericolo.
«È così. Gli Yanomami vivono su un territorio molto buono: le piante crescono senza bisogno di troppe cure, c’è acqua, il clima è buono. Purtroppo, ci sono anche i minerali che attraggono molti garimpeiros. Le garimpeiras sono un’eccezione».
Si tratta di persone singole o di vere imprese?
«Ci sono i garimpos che dietro hanno un padrone e ci sono altri che hanno un singolo minatore. Il fenomeno è molto complesso».
Tra i tanti danni prodotti dai garimpeiros, c’è l’inquinamento delle acque con il mercurio. Questo problema si è manifestato anche alla Missione Catrimani?
«Già negli anni Novanta i missionari hanno scavato un pozzo per non bere l’acqua del fiume contaminata da mercurio. In questi anni da noi c’è meno inquinamento, mentre è aumentato in altre zone. Certamente non possiamo dare per scontato che nel Catrimani non ci sia mercurio perché nella sua parte alta ci sono garimpos. Neppure siamo sicuri che l’acqua del nostro pozzo, che sta vicino al fiume, sia pulita».
Senza strade è meglio
Suor Mary, per tenere gli indigeni lontani dai bianchi la soluzione migliore è che non ci siano strade. Si tratta di un’affermazione esagerata?
«Io credo che la strada non sia per gli indigeni. Sono persone che non hanno bisogno di strade perché sono popoli della foresta. Loro hanno… il Gps nella testa (lo ripete due volte ridendo e indicando con le dita la sua testa, ndr).
Quando cammino con loro, io a volte non riesco ad orientarmi, a capire dove sono. A volte non sono capace neppure di trovare il sole perché non riesco a vederlo. Allora mi chiedono: “Ma cosa cerchi?” “Il sole”, rispondo io. “Ma come? È qui! Non lo vedi?”. E si mettono a ridere. La stessa cosa mi accade con i sentieri che io non vedo mentre loro sì. Voglio dire che ciò che io non vedo loro invece lo vedono. Dunque, la strada non è per i popoli indigeni, ma è per quelli come noi che non hanno il Gps nella testa».
Nessuna strada la raggiunge però la Missione Catrimani è un luogo d’incontri.
«È così. Pur nella loro grande semplicità, alla missione ci sono strutture che non si trovano altrove. Per questo è il luogo dove la Sesai, l’Isa, Hutukara e anche alcune facoltà universitarie federali organizzano incontri. Siamo arrivati a ospitare anche 200 persone che dormivano ovunque».
Donne indigene, donne yanomami
Suor Mary Agnes, lei lavora con le donne indigene. Come sono state accolte le sue iniziative nella comunità yanomami?
«All’inizio ci fu molta sorpresa. Gli uomini yanomami si chiedevano (suor Mary Agnes ride di gusto mentre racconta, ndr): “Cosa vogliono fare con le donne? Che razza di incontro è?, Cosa hanno da imparare le donne?, Tutto quello che c’è da imparare s’impara nella comunità”. Per me invece erano esperienze molto interessanti, un sogno che si avverava: lavorare con le donne. Dal 2002 accompagno le donne agli incontri. Il gruppo era composto da alcune donne, un uomo e una suora».
Dalla partecipazione agli incontri tra donne indigene siete passati all’organizzazione. Com’è avvenuto questo cambiamento?
«Era il 2006. Eravamo in sei: quattro donne, un uomo ed io. Andammo dalla Missione Catrimani alla Terra Raposa Serra do Sol. In quell’occasione le donne yanomami mi dissero: perché non lo facciamo anche da noi? Rimasi molto sorpresa da quella proposta, ma segnò l’inizio del nostro percorso».
Quando ci fu il primo incontro di donne indigene ospitato presso la Missione Catrimani?
«Organizzammo il primo incontro nel 2008, un’assemblea aperta anche a donne non-yanomami, progetto reso possibile dall’appoggio della Cei. Alla fine riuscimmo ad avere soltanto un aereo per quattro indigene da fuori, ma le donne yanomami arrivarono numerose da vari luoghi con bambini e mariti.
Fu più interessante la preparazione che la stessa assemblea. Gli uomini mi chiedevano: “Chi cucina se le donne sono sedute ad ascoltare?”. Io mi divertivo. Comunque, riuscimmo ad organizzarci. Le donne erano sedute in cerchio al centro della casa comune e attorno, sulle amache, c’erano uomini e bambini. Non c’era un vero tema dell’incontro. Il tema era lo stare insieme e parlare sulla vita della donna, yanomami e non yanomami.
Negli anni successivi abbiamo dovuto limitarci a invitare le Yanomami. Nel 2010 c’è stato un incontro dedicato alla salute. Nel 2018, per la prima volta, l’incontro – il decimo della serie – si è svolto fuori dalla Missione Catrimani, nella regione di Demini, quella di Davi Kopenawa».
La malaria a Catrimani
Suor Mary, per concludere, in foresta la malaria è ancora molto diffusa?
«Il problema è serio, anche se da tempo noi non contiamo morti. Alla missione siamo attrezzati con un microscopista. L’esame per scoprire la malaria è semplice: lo può fare anche un qualsiasi Yanomami che sappia leggere e scrivere. Questa circostanza ha aiutato molto a non avere eventi mortali. Il fatto che ci siano tanti casi, si pensa che dipenda dagli spostamenti dei garimpeiros e degli stessi indigeni».
Dunque, la malaria c’è, ma oggi è affrontabile. Perlomeno alla Missione Catrimani.
«Sì, perché la Missione Catrimani è un’oasi nella foresta. Un piccolo gioiello».
Paolo Moiola
Terminologia:
maloca – la casa comune degli indigeni;
sciamano / xapiri-xapuri – intermediario con il mondo degli spiriti;
yakoana – sostanza allucinogena utilizzata dagli sciamani (xapiri-xapuri);
infanticidio – l’uccisione volontaria del neonato;
endo-cannibalismo / antropofagia – forma di cannibalismo rivolta alle persone del proprio gruppo;
poligamia – matrimonio nel quale un uomo o una donna possono avere più consorti contemporaneamente;
ohi / naiki – fame generica e fame di carne nella lingua yanomae;
manioca – arbusto tropicale che fornisce tuberi radicali ricchi di amido;
garimpos / garimpeiros – miniere e minatori illegali;
mercurio – metallo pesante usato nella purificazione dell’oro e dell’argento;
Funai, Sesai – organizzazioni del governo brasiliano per i diritti indigeni (Funai) e per la salute indigena (Sesai);
Isa – Instituto Socioambiental, organizzazione civile brasiliana a difesa dei diritti socioambientali;
Hutukara – la più importante tra le associazioni degli Yanomami; è guidata da Davi Kopenawa.
(pa.mo.)
Brasile, Roraima: accogliere, proteggere, promuovere e integrare i migranti dal Venezuela
“Vogliamo aiuto per darci
ragione di andare avanti perché sappiamo che un giorno le cose
cambieranno”
L’aggravarsi della crisi in
Venezuela costringe la popolazione a lasciare il paese in cerca di
sopravvivenza. Sono oltre 3 milioni i venezuelani che sono fuggite all’estero.
Nel Stato di Roraima, nord di Brasile, nelle città di Pacaraima e Boa Vista,
migliaia di migranti si trovano in condizioni estremamente precarie. La
mancanza di infrastrutture per i fuggitivi in cerca di una sistemazione crea
una preoccupante tensione sociale.
Juan Carlo Olivero è arrivato con
tre cugini e due amici. Hanno camminato per 215 chilometri tra Pacaraima e Boa
Vista, ma non sono riusciti a trovare un rifugio. Di notte dormono lungo il
viale vicino alla stazione degli autobus dove si contendono un pezzo di pane e
uno spazio sul marciapiede con centinaia di connazionali, nelle stesse
condizioni. “Spezza il cuore chiamare i nostri figli che sono rimasti con
la mamma in Venezuela e sentire che oggi non hanno mangiato nulla”, dice
Juan Carlo. “Vogliamo aiuto per darci una ragione per andare avanti perché
sappiamo che un giorno le cose cambieranno”, dice speranzoso.
William Hernandez ha lasciato
moglie e cinque figli, come migliaia di altri venezuelani, nella speranza di
trovare lavoro e cibo. Sono passati 15 giorni dal suo arrivo, ma senza successo.
“Volevo che qualcuno mi aiutasse perché siamo in difficoltà”.
Tra gli immigrati si trovano
muratori, meccanici, poliziotti, panettieri ma anche insegnanti, avvocati, e molti
professionisti qualificati, come la dottoressa Fiorella Blanco.
L’Istituto Brasiliano di
Geografia e Statistica (IBGE) stima che più di 30.000 venezuelani sono in
Roraima, ma solo circa 6.000 hanno trovato posto nelle 13 strutture di
accoglienza sostenute con i fondi del governo federale e costruite
dall’Esercito con l’appoggio dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i
Rifugiati (UNHCR). Un buon numero si trova in case o stanze affittate che sono
destinate al sovraffollamento. Senza aiuto, è difficile pagare l’affitto che
costa tra R$ 300 e 500 Reais (moneta brasiliana: 1 Euro = 4.20 Reais). Ma ciò
che colpisce è la quantità di persone che dormono nelle viali e piazze. Durante
il giorno agli incroci e ai semafori si posizionano molti venditori ambulanti
che cercano di vendere qualche cosa o semplicemente guadagnare una moneta.
Il governo brasiliano concede
asilo, ma l’accoglienza dovrebbe anche garantire un minimo di protezione sociale,
di accesso al sistema sanitario, all’istruzione al cibo e sicurezza per tutti.
Una delle azioni per sollevare Boa Vista dalla catastrofe umanitaria è la
distribuzione dei profughi venezuelani in altri stati del Brasile. Come è
successo il 2 febbraio scorso quando un gruppo di 99 sono stati trasferiti a Dourados,
una città nel Stato di Mato Grosso del Sud, in un volo pagato dalla Organizzazione
Internazionale per le Migrazioni (OIM). Lì lavoreranno in un’industria
alimentare.
Progetto Percorsi di Solidarietà
La Diocesi di Roraima attraverso
la Caritas Diocesana e con l’appoggio della Conferenza Nazionale dei Vescovi
del Brasile (CNBB), la Caritas brasiliana, Servizio Pastorale per i Migranti
(SPM), Istituto di Migrazione e Diritti e Umani (IMDH), Servizio dei Gesuiti
per i Migranti e Rifugiati (SJMR) e altre entità partner, guidano il Progetto “Percorsi
di Solidarietà: Brasile e Venezuela”.
Le Diocesi disponibili ad
accogliere gli immigrati attraverso questo Progetto possono registrarsi su il
Sito www.caminhosdesolidariedade.org.br
Il sito contiene informazioni dettagliate
ed è stato creato per aiutare l’accoglienza degli immigrati nelle diocesi di
tutto il Brasile. Il vescovo di Roraima, Dom Mario Antonio, sottolinea
l’importanza dell’integrazione degli immigrati. “Molti arrivano affamati e
hanno bisogno di cure mediche”. “Sono nuovi fratelli che vivono in
mezzo a noi”.
Lanciato nell’ottobre 2018, il
progetto “Percorsi di solidarietà: Brasile e Venezuela” ha già coinvolto oltre
60 persone. Il 31 gennaio un gruppo di 17 venezuelani ha lasciato Boa Vista per
Paraíba. Nella città di João Pessoa, sono stati accolti dell’Arcidiocesi di
Paraíba e il Servizio Pastorale dei Migranti e saranno eventualmente inseriti
al lavoro.
La coordinatrice di Progetti nella
Caritas Diocesana, Gilmara Fernandes, vede la necessità di dare visibilità
all’azione.
La mancanza di occupazione, la
fame, l’insicurezza e la malattia sono per i migranti un test di sopravvivenza.
E in una città di 500.000 abitanti, con poche opportunità nel mercato di lavoro
e accesso ai servizi sanitari pubblici, trasporti e educazione, i migranti sono
molto facilmente considerati un problema. Sfortunatamente, di fronte a questa crisi
umanitaria, risorgono preoccupanti atteggiamenti di xenofobia. Questo scenario
non permette di vedere le potenzialità che questo fenomeno porta. E quanta
ricchezza portano i migranti quando arrivano nei nostri paesi. Quante abilità,
novità e conoscenze!
D’altra parte, ci sono molte
persone che aiutano e sono solidali. Famiglie che gli lasciano vivere a favore,
altri che abbandonano uno spazio nel cortile, danno lavoro e cibo. Le pastorale
della Diocesi, le parrocchie e comunità, congregazioni religiose e movimenti
con centinaia di volontari, aprono le loro porte e il loro cuore.
Davante la Casa delle Suoere
della Consolata ogni mattina si forma una fila che può raggiungere piu di 500
persone per ricevere un pane con il caffè.
Equipe Missionaria Itinerante
L’Equipe Missionaria Itinerante
del’Istituto Missioni Consolata (IMC) composta da P. Luiz Carlos Emer (RB), P.
Jaime Carlos Patias (DG) e Manolo Loro (RAM) sta dando priorità alle persone
più vulnerabili nella situazione di strada e agli indigeno Warao che sono fuori
dal rifugio. Dopo molte pressioni, il 01
febbraio, un gruppo dell’UNHCR si è recato in Piazza Augusto Germano Sampaio e
ha registrato più di 60 Warao di tutte le età che sono sensa rifugio. Ma finora
non hanno ancora avuto una risposta positiva.
La situazione di vulnerabilità
aumenta i rischi di sfruttamento, uso di droghe, illeciti, fame e malattie in
una popolazione già minacciata dal fatto di migrare.
Ecco perché, come Papa Francesco
ci invita, è urgente: “Accogliere, proteggere, promuovere e
integrare”.
P. Jaime C. Patias, IMC, Consigliere Generale per America.
Roraima, Brasile: le sfide dell’accoglienza e dell’integrazione dei venezuelani
Testo e foto di padre Jaime C. Patias
Warao, accampati in una piazza di Boa Vista
«Abbiamo bisogno di aiuto. Stiamo dormendo in piazza. Non
possiamo entrare nel rifugio». Questa richiesta di aiuto viene dal giovane
indigeno warao Jean Luís Jimenez, ed è inviata da Boa Vista, Roraima, a padre Vilson
Jochem, missionario del Consolata a Caracas. Jean Luís è uno dei 3 milioni di immigrati
che hanno lasciato il Venezuela per i paesi limitrofi.
A seguito di questa richiesta, andiamo al quartiere
Pintolândia, a Ovest della città, dove si trova il rifugio destinato agli
indigeni, e vi troviamo fuori 17 Warao, nove adulti e otto bambini accampati in
Plaza Augusto Germano Sampaio. Due giorni dopo, gli indigeni sono già 30, con
17 bambini sotto i 12 anni. Il rifugio può ospitare fino a 665 indigeni e non
riceve nessun altro.
La nostra attenzione è richiamata da Mardelia Rattia, 25
anni, arrivata qui con cinque bambini, compreso un piccolo di due mesi: «La
nostra situazione è difficile. Penso ai bambini», ci dice Mardelia preoccupata.
Vuole continuare il viaggio e raggiungere Manaus (nello stato brasiliano di
Amazonas), dove si trova già sua suocera con altri parenti.
Malato e indebolito, Jean Luís è stato ammesso all’ospedale
generale di Roraima, che è anch’esso pieno di gente. «Qui almeno sto meglio che
in piazza», osserva sdraiato su una barella nei corridoi accanto a diversi
pazienti, molti dei quali venezuelani. Quando lo dimetteranno sarà lui a essere
nuovamente in strada.
L’insicurezza della piazza
Il 18 gennaio, di notte, alcuni soldati dell’esercito che
sono i responsabili della struttura e della sicurezza nei rifugi, passano nella
piazza e abbordano alcuni Waraos dicendo che non possono più dormire lì. La
minaccia spaventa tutti. La sera del 19 andiamo sul posto per evitare una
possibile ritirata. Dopo aver dialogato con i rappresentanti dell’Alto
Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr), responsabili della
protezione dei profughi, i Warao hanno ricevuto la garanzia di poter continuare
a restare nella piazza. Durante la notte i soldati arrivano in due auto, ma non
si avvicinano al gruppo. In ogni caso la situazione è insicura per i Warao, ed
è per questo che è urgente trovare una soluzione.
Tra gli immigrati ci sono diversi professionisti
qualificati, come da dottoressa Fiorella Lisenni R. Blanco, Warao arrivata qui
con un bambino, una sorella insegnate e un fratello formato in diritti umani.
Lei improvvisa consulenze con coloro che hanno bisogno e organizza un registro
del gruppo. «Perché il Brasile offre un’accoglienza di questo tipo? Senza un
dignitoso benvenuto? Stanno minacciando di buttarci fuori dalla piazza», dice
Fiorella. Le popolazioni indigene godono dei diritti garantiti dalla
costituzione e dalle leggi internazionali. Inoltre, gli antropologi ricordano
che i Warao dovrebbero poter esercitare la libertà transfrontaliera di andare e
venire grazie a una base culturale che storicamente precede la nascita delle due
nazioni Brasile e Venezuela.
Pablo Mattos, del coordinamento dell’Unhcr a Boa Vista,
spiega che «la decisione di creare nuovi rifugi è una responsabilità del
governo brasiliano». L’Unhcr monitora i flussi migratori, sostiene l’accoglienza
nei rifugi e l’integrazione. Per quanto riguarda i Warao, Mattos s’impegna a
proseguire la ricerca di soluzioni in dialogo con le istituzioni coinvolte nel
lavoro.
Il problema non è di oggi. Un rapporto pubblicato nel giugno
2018 dalle Nazioni Unite ha fatto 35 raccomandazioni per garantire i diritti
degli indigeni venezuelani su tre assi: i diritti universali, i diritti dei
migranti, e i diritti specifici dei popoli indigeni. Essi devono essere
trattati come immigrati, ma soprattutto come indigeni. Secondo i dati della Ong Fraternidad
Humanitaria Internacional, almeno 957 Warao e E’ñepá sono accampati
nelle città di Pacaraima e Boa Vista. Hanno viaggiato più di 900 chilometri su
una strada rischiosa.
Il posto di registrazione offre diversi servizi di
documentazione e indirizza verso i rifugi e il programma di integrazione. Gli
immigrati ricevono sostegno dalle istituzioni in altri sei luoghi diversi per
fare i documenti. È evidente la carenza di posti nei rifugi. Tutti i lunedì
sono disponibili solo 40 posti a fronte di una richiesta di oltre 200. Il 14
gennaio, dopo aver camminato per almeno 8 km fino al primo posto di identificazione,
un gruppo di Warao è dovuto tornare in piazza senza aver ottenuto niente.
La squadra di emergenza dei missionari itineranti
Dopo una pausa, il team missionario itinerante dei
Missionari della Consolata ha ripreso le sue attività il 12 gennaio 2019. I padri
Luiz Carlos Emer (missionario impegnato in brasile), Jaime Carlos Patias (della
direzione Generale dell’IMC) e Manolo Loro (impegnato in Amazzonia) fanno parte
del secondo gruppo. La priorità del gruppo è quella di accompagnare le persone
più vulnerabili e gli indigeni warao originari della regione del Delta Amacuro
in Venezuela, dove ci sono i missionari del Consolata. «Il poco che possiamo
fare ora è già molto per alleviare la sofferenza di coloro che hanno lasciato
tutto per sopravvivere», dice p. Luiz Emer tornando da una visita al gruppo
indigeno.
Il team sostiene e indirizza le varie situazioni agli
organismi competenti, sapendo che non è possibile risolverle tutte. Ciò che
conta sono gli atteggiamenti evidenziati da Papa Francesco: «Accoglienza,
protezione, promozione e integrazione».
La diocesi di Roraima con i suoi pastori, parrocchie e
congregazioni come le suore Scalabriniane, San Giuseppe di Chambéry, la Madonna
Addolorata, le figlie della carità, le missionarie dei Consolata, i gesuiti, i
Maristi, tra gli altri, prestano diversi Servizi.
Per il vescovo di Roraima, Monsignor Mário Antônio, oltre
alla logistica, «vediamo la necessità di accoglienza da parte delle Comunità
attraverso l’integrazione tra la popolazione locale e i venezuelani, nuovi
residenti che vengono con la prospettiva di una nuova vita. Hanno il diritto di
arrivare e noi abbiamo il dovere di accogliere, promuovere, proteggere e
integrare», ricorda il vescovo. «Vogliamo che le nostre comunità cerchino di
integrare gli immigrati nelle celebrazioni in Portoghese, spagnolo o in lingua
indigena. Vedo la migrazione come un’opportunità per vivere il Vangelo: amatevi
l’un l’altro, come li ho amati», ribadisce Monsignor Mário.
José Miguel Pinto e sette altri amici e familiari, due donne
e due bambini, è venuto a piedi da Pacaraima, 215 km da Boa Vista. Quando sono
arrivati al posto di servizio della parrocchia Nostra Signora Consolata
mostrano le ferite sulle piante dei piedi e le scarpe rotte. Come tanti altri,
di notte il gruppo dorme sul marciapiede in una delle strade vicine al terminal
degli autobus. Il numero dei migranti nelle vie e nelle piazze impressiona. José
Miguel dice che una notte la polizia è passata e ha cacciato tutti. Questo è il
clima di insicurezza che molti di loro vivono.
Il secondo mandato di Maduro aggrava la crisi
Con l’inizio del secondo mandato del presidente Nicolas
Maduro, la cui elezione è contestata, e che non è riconosciuta dal Parlamento
venezuelano e da vari paesi e organizzazioni internazionali, la crisi in
Venezuela sta peggiorando. La previsione è che il flusso migratorio aumenterà.
Nel frattempo, cresce anche la pressione su Maduro. In Boa Vista, uno
striscione appeso su un viale chiede la fine del regime e il sostegno per il
leader dell’opposizione, il Presidente dell’Assemblea nazionale, Juan Guaidó perché
diventi il presidente del paese.
La situazione di vulnerabilità aumenta il rischio di
sfruttamento, consumo di stupefacenti, furto, insicurezza, fame e malattie in
una popolazione già minacciata dalla migrazione. Con così tante persone senza
occupazione e luogo per vivere, aumenta la tensione sociale. La recente visita
di cinque ministri governativi alla città di Boa Vista ha ratificato la prosecuzione
dell’operazione di accoglienza e internalizzazione.
I dati della Polizia federale mostrano che 85.000
venezuelani hanno cercato rifugio in Brasile dal 2015. Le stime del IBGE
sottolineano che più di 30.000 sono attualmente in Roraima.
Jaime C. Patias, IMC, consigliere generale per l’America.
Cari Missionari
Lettere dai Lettori
In memoria di padre Luigi Palumbo
Una gloria del clero dell’arcidiocesi di Otranto (Le)
Padre Luigi Palumbo nasce il 2 gennaio 1935 a Castrì, Lecce, e va in cielo il 14 aprile 2018, a Boa Vista, Roraima, Brasile. Ordinato sacerdote nel 1963, parte subito per il Brasile e nel 1965 arriva a Roraima. 55 anni di sacerdozio, 55 di Brasile.
Ho avuto la fortuna di conoscere questo coraggioso missionario della Consolata e di trascorrere le più belle giornate della mia vita durante la mia permanenza a Roraima nei mesi di collaborazione vissuti lì dal 1996 al 2001.
La sua gamba era stata accorciata di 10 cm dopo essere stato investito da un fuoristrada su una via di Boa Vista nel 1968, ma il suo spirito emanava un profumo di virtù, che ti afferrava, e di fraternità vissuta in comunione con i suoi confratelli missionari e con il popolo, a incominciare dai poveri, sperduti nelle misere capanne della inospitale savana, lavoratori della terra assegnata dal governo nelle fattorie e masserie dell’immensa Amajarì.
Padre Luigi non lavorava per essere remunerato con denaro o con premi di riconoscenze e onorificenze. Una volta, il proprietario di una fattoria gli chiese: «Padre, ma chi ti paga per il lavoro che stai facendo in questa regione? Il Governo, il Papa, il Vescovo?». Padre Luigi rispondeva sempre con un secco: «No. Io lavoro per la diffusione del Regno di Dio sulla terra».
In un suo viaggio missionario in Venezuela, il vescovo di Bolivar gli offrì ospitalità in una stanza di lusso dell’episcopio, nella speranza di trattenerlo nella sua diocesi bisognosa di clero.
Quella stanza addobbata sfarzosamente con tutte le comodità non era di suo gradimento, per cui padre Luigi ringraziò il monsignore e gli disse: «Me ne vado, perché non mi piace vivere nel lusso».
Padre Luigi era abituato a viaggiare con la bicicletta, con il cavallo, con la moto e con la canoa per stare vicino alle persone, istruirle, celebrare battesimi, matrimoni e, soprattutto, la santa messa per formare comunità cristiane.
Dovunque è passato ha lasciato i segni delle sue opere, ha progettato e costruito chiese fatte di legname e paglia, di mattoni ed eternit, dove non solo si celebravano i sacramenti, ma si insegnava il catechismo e, talvolta, anche discipline scolastiche governative per ragazzi analfabeti.
Il ministero dell’Educazione di Roraima stimava tanto questo giovane missionario, da nominarlo ispettore delle scuole governative, dove i professori risultavano quasi sempre ammalati e invece di svolgere il loro lavoro scolastico, si assentavano per andare alla capitale Boa Vista per i loro affari.
Guarito dopo la frattura della gamba, di ritorno a Boa Vista da São Paolo dove era stato curato, il vescovo don Servilio Conti lo ha nominato primo parroco di Mucajaì, dove ha costruito la nuova chiesa parrocchiale, due saloni, aule catechistiche e due campi sportivi, uno per i ragazzi e uno per le ragazze.
Risale al tempo di padre Luigi l’ampia piazza della Passione, ai piedi di un alto colle, dove il Venerdì Santo, nel pomeriggio, si svolgono alcune scene della Via Crucis con attori del posto, sino alla Crocifissione e alla conclusione con il canto dell’Ave Maria.
Questa celebrazione annuale è diventata una delle manifestazioni folcloristiche nazionali dello stato di Roraima.
A Mucajaì c’erano soltanto le prime classi delle scuole elementari e gli studenti non avevano la possibilità di frequentare il ginnasio nella capitale Boa Vista, distante 60 km e con impervie strade di collegamento.
Padre Luigi non solo ha ottenuto l’istituzione del ginnasio di Mucajaì, ma in mancanza di docenti, ha insegnato religione, morale e storia, dopo aver ottenuto la indispensabile cittadinanza brasiliana.
I miei accenni sulla vita di padre Luigi sono poca cosa rispetto a quello che ha saputo realizzare con le persone da lui avvicinate, formate, istruite e riappacificate.
Padre Luigi è stato un costruttore di chiese materiali e vive. Ha costruito numerose chiese e opere parrocchiali non solo nei villaggi, ma anche nelle città dove è vissuto.
Ha formato, visitando gli abitanti dell’immensa regione Amajarì, e avvicinando tra di loro le comunità cristiane praticanti e operanti nella chiesa.
Non sarei completo se non accennassi alla vena poetica e musicale di padre Luigi.
Io gli ho regalato una chitarra e un mandolino, portandoli dall’Italia, perché era un abile suonatore di questi strumenti musicali.
Durante le celebrazioni liturgiche in qualsiasi parte del Brasile il popolo canta e sa cantare. I cori parrocchiali e gli strumenti musicali, chitarre, tamburi e tamburelli, accompagnano il canto dell’assemblea, non lo escludono, come avviene spesso nelle nostre parrocchie.
Padre Luigi è stato un bravo compositore di canti, soprattutto per la liturgia, autore del testo e della relativa musica.
Ha composto anche un inno ai santi Martiri di Otranto, che io ho tradotto in italiano e pubblicato.
Padre Luigi è stato un uomo di Dio, libero; una voce limpida, un missionario doc, una realizzazione di progetti, un pellegrino fermato solo dalla morte corporale.
Il tuo spirito vibra nelle terre della sua missione, nella sua città natale di Castrì e nell’intera arcidiocesi degli Eroi e dei martiri del 1480 e di ogni tempo.
Mons. Paolo Ricciardi Otranto, ottobre 2018
Il sole splende negli occhi dei bambini di Bangkok
Il sole splende sulla calda e caotica Bangkok, una megalopoli di 12 milioni di abitanti. Ma, insieme al sole, splende sulla capitale thailandese un’altra luce: il dottor Amporn con suoi 50mila bambini orfani.
Il dottor Amporn viene incontro a mia moglie Paola, a me e ai nostri quattro figli con un sorriso. Uomo semplice e umile, ci fa sentire subito a casa. Piccoli gesti, delicati, poche parole, una conoscenza iniziata con una mail. Grazie all’associazione «Insieme si può», di cui facciamo parte, abbiamo avuto l’onore e fortuna di conoscerlo. […]
Rimasto orfano a cinque anni in un remoto villaggio della Thailandia rurale, Lek (questo è il suo nome da bambino) deve lottare tutta la vita per trovare il suo posto nel mondo. Solo e impoverito, sopravvive chiedendo cibo nei mercati di Surin finché non è reclutato per combattere come bambino soldato nella giungla della Cambogia.
La disperazione e la povertà lo portano a tentare il suicidio finché non incontra padre Alfred Bonningue, prete cattolico francese che lavora nella chiesa di san Francesco Saverio a Bangkok. Il prete si prende cura di lui, le suore gli insegnano l’inglese e i padri gesuiti gli parlano di Gesù e Maria. «Avevo perso mia madre a cinque anni», racconta, «e conoscere Maria, che è gentile e vuole bene a tutti, me l’ha fatta subito amare». Amporn dice di «voler passare l’amore ricevuto da padre Bonningue (morto in Francia nel 2001) ai bambini in difficoltà del paese».
Inizia così il viaggio di Lek per diventare il dottor Amporn, uomo noto come padre adottivo di bambini malati, poveri e indigenti della Thailandia.
Il dottor Amporn Wathanavongs, «il padre adottivo di 50mila bambini», grazie alla sua Ong, la Fondazione per la riabilitazione e lo sviluppo di bambini e famiglie (Fordec), guida oltre 80 attività che mirano al miglioramento delle loro condizioni.
Dopo un lungo periodo Amporn si converte al cattolicesimo e trova la sua strada. Diventa rappresentante per la Thailandia del Fondo cristiano per i bambini, una Ong americana nella quale opera per 25 anni, e, una volta concluso il suo impegno, non va in pensione ma prende i suoi risparmi e fonda nel1998 la Fordec.
Il dottor Amporn Wathanavongs è ora un esperto di pediatria che spesso tiene seminari internazionali. Il «dottore» che precede il suo nome, deriva da una laurea ad honorem conferitagli da un ateneo americano per il suo impegno sociale. Ha pranzato con la famiglia reale thailandese, con i banchieri che reggono il paese e con l’ex presidente Usa Jimmy Carter. Ha conosciuto il defunto papa Giovanni Paolo II, il papa emerito Benedetto XVI ed è fiero dei 19 pellegrinaggi compiuti al santuario di Lourdes, in Francia.
Al momento, la sua Ong supporta circa 15mila fra bambini, poveri, disabili, drogati e persone affette da Hiv.
Accompagnati dal dottor Amporn arriviamo alla scuola materna gestita da Fordec. Duecento bambini, tutti ordinatamente seduti, ci aspettano per accoglierci. Un canto gioioso ci avvolge come avvolgente è l’amore e il senso di famiglia che si respira qui. Bambini, maestre, volontari, cuoche, Amporn: una famiglia che ci fa sentire accolti, indipendentemente dal colore della nostra pelle, dal nostro linguaggio e dalla nostra cultura.
Emanuele, Tommaso, Filippo, e anche il piccolo Francesco, i nostri figli, sono subito impiegati per servire il pranzo ai bimbi della scuola materna. Paola, con le cuoche, distribuisce il cibo nei piatti, io asciugo le mani di tanti bimbi, prima del pasto.
Tante sensazioni e pensieri si affollano nei nostri cuori, l’emozione sale fino agli occhi, e qualche lacrima compare. Un’esperienza, fatta di piccoli gesti quotidiani, che ha un valore inestimabile, che ci fa porre domande, che ci dice: «La vita è bella se è donata, se è condivisa» e, come recitava lo slogan di un nostro weekend missionario della associazione Colibrì di cui facciamo parte: «Non muri ma ponti!».
Luigi Montanari 08/07/2018
Cambogia e Vietnam
Gent. padre Gigi,
ho letto con tantissimo interesse gli articoli relativi a Cambogia e Vietnam.
Sono due stati che mi hanno profondamente colpito per gli orrori che dominazioni, guerre e dittature hanno inflitto alle popolazioni. Nel 2009 ho passato quasi due mesi in quelle zone partendo dal Nord Vietnam, arrivando fino a Ho Chi Min (ex Saigon) e entrando poi in Cambogia dal Delta del Me Kong per risalire fino al sito archeologico di Angkor ai confini con la Thailandia. Buona parte del viaggio l’ho fatto sui fiumi per avere contatti, il meno possibile contaminati dal turismo, con gli abitanti dei piccoli villaggi a ridosso dei fiumi (vedi foto di apertura e qui sotto).
Dagli anziani, soprattutto, ho raccolto testimonianze terribili, difficili a volte anche solo da ascoltare per la crudezza, per l’orrore dei contenuti. Una fra tutte, che non potrò mai dimenticare anche per la partecipazione con cui è stata raccontata, quasi stesse ancora vivendo quella tragedia, è di un pescatore cambogiano. Nel quadriennio terribile dei Khmer Rossi con a capo Pol Pot, paesi e città vennero svuotate con la forza. La capitale Phnom Penh, che contava oltre un milione di abitanti, alla fine del quadriennio ne aveva a mala pena cinquantamila e in buona parte militari. Milioni di persone, compresi vecchi e bambini, vennero ammassati in località decentrate e costretti a lavori massacranti in un clima di terrore. Bastava che qualcuno venisse accusato di tradimento, anche in mancanza di prove, perché venisse torturato e ucciso davanti a tutti. Ma il racconto del pescatore, con le lacrime agli occhi, mi ha sconvolto. La sorellina di 10 anni, affamata come può essere un bambino senza cibo, aveva visto delle mele e ne aveva presa una. È stata picchiata, denudata, legata a un palo dopo che le era stato spalmato sul corpo qualcosa di appiccicoso per attirare formiche e altri insetti. È rimasta così una notte intera per essere poi ammazzata, ormai in fin di vita, con un colpo di pistola la mattina seguente. Questa è la più terribile storia descritta, ma tante altre, soprattutto da parte di mutilati da mine, come è ampiamente raccontato negli articoli, non erano facili da ascoltare. In particolare quando si trattava di bambini. Gli americani, che si vantano di essere i depositari della democrazia (da dove poi abbiano maturato questa convinzione ricordando la segregazione razziale fino agli anni ‘60), hanno lasciato in Vietnam e Cambogia conseguenze disastrose inimmaginabili. Città e paesi rasi al suolo, villaggi dati alle fiamme, vecchi, donne e bambini uccisi come bersagli da tiro a segno, per non parlare poi delle tonnellate di prodotti chimici sganciati dagli aerei (anche questo ben descritto negli articoli) che hanno reso praticamente incoltivabili i campi, comprese le risaie, importantissimo settore di quelle zone, provocando povertà insanabile e morti di fame. Si calcola che in quel periodo, solo in Cambogia, vi furono non meno di due milioni di morti, senza contare i mutilati, gli intossicati dalle esalazioni chimiche, i nati con gravi handicap. Un vecchio mi diceva che ogni famiglia aveva avuto almeno un morto e lui era riuscito a scamparla per una serie di circostanze incredibili.
Purtroppo, sembra che tutto questo non abbia insegnato nulla poiché vediamo ancor oggi gli stessi orrori perpetrati in Medio Oriente.
Mario Beltrami 05/10/2018
Ricordando padre Giovanni Calleri, vulcano d’amore
Testi in memoria di don/padre Giovanni Calleri di: Ernesto Billò, Margherita Allena, Ugo Pozzoli, Corrado Dalmonego e scritti vari dagli archivi Imc
A cura di: Gigi Anataloni
Foto: da Archivio fotografico MC e famiglia Calleri
Sommario
«Se dovessi morire, è per una grande causa» (G. Calleri)
Un giovane prete, missionario esemplare per generosità e coraggio. Un turbine di attivismo e di apostolato che sa coinvolgere, sorprendere, trascinare i giovani e i meno giovani. Padre Giovanni Calleri, carrucese (di Carrù Cn), perde la vita a soli 34 anni, tutti fervidamente vissuti. La perde in Brasile, nella foresta amazzonica, il 1° novembre 1968, durante una spedizione da lui guidata fra gli indios Waimiri-Atroarí del rio Alalaú (o rio sant’Antonio). Partita da Manaus il 13 ottobre con intenti umanitari e pacificatori, padre Calleri sa che l’impresa è molto rischiosa, anche per lui che in precedenza ha già saputo vincere la diffidenza degli Yanomami.
Proprio per i suoi precedenti contatti con gli indios, padre Calleri era parso l’uomo giusto per tentare la mediazione nel conflitto tra indigeni e governo: sia ai suoi superiori della prelazia di Roraima, che alle istituzioni brasiliane, preoccupate di superare le tenaci ostilità di indios ancora non contattati alla realizzazione di una strada nella foresta lunga 800 chilometri, da Manaus (Brasile) a Caracas (Venezuela): la Br-174, un’arteria che poteva cambiare aspetto all’Amazzonia «aprendola alla civiltà», ma anche a colossali interessi economici e minerari, all’invasione delle terre da parte di coloni e alla diffusione di malattie e «vizi» dei «bianchi» sconosciuti agli indigeni.
Sentendosi invasi nei loro territori millenari, gli indios, con attacchi a sorpresa, avevano costretto l’impresa a interrompere i lavori a duecento chilometri da Manaus; e proprio lì doveva intervenire la spedizione guidata da padre Calleri (in tutto, compreso lui, otto uomini e due donne) per convincere i diversi gruppi di indigeni a spostarsi dall’area interessata dalla costruzione della strada. Certo erano in gioco interessi estranei allo spirito evangelico di un missionario; ma egli sapeva che il governo era determinato a fare la strada a ogni costo e che sui duemila indios Waimiri-Atroarí pesava la minaccia di sterminio sia con bombardamenti dal cielo che con rappresaglie da parte dell’esercito. Padre Giovanni era ben consapevole dei pericoli che avrebbero corso lui e i suoi compagni, sia per l’istintiva diffidenza degli indios, sia per le ambiguità del governo e gli enormi interessi in gioco; ma non gli mancavano coraggio e fiducia in Dio. «Se dovessi morire, si sappia che è stato per una grande causa», scrisse, partendo, alla famiglia a Carrù.
La spedizione partì a metà ottobre da Manaus, il 22 cominciò a entrare nel territorio conteso. Aveva tempo un paio di mesi per pacificare gli indios, poi l’esercito avrebbe avuto mano libera. Durante la spedizione sette messaggi radio raggiunsero Manaus in un’alternanza di speranze e di allarmi. Poi, dal 31 ottobre, la radio tacque: un silenzio carico di brutti presagi. Le ricerche partirono con grande ritardo il 7 novembre con ricognizioni aeree, e solo dal 24 novembre con pattuglie nella foresta, fino all’atroce scoperta del 30 novembre: nove cadaveri ridotti a scheletri spolpati dagli animali e dagli avvoltorni. Un massacro per il quale furono incolpati e puniti gli indios. Più avanti presero forza ipotesi inquietanti, come quella di un doppio gioco messo in atto da un membro della spedizione, unico sopravvissuto, in combutta con alcuni indigeni traditori e il governo, per favorire la soluzione drastica voluta da quest’ultimo contro gli indigeni.
Grande sconcerto si diffuse tra confratelli e amici in Brasile, commozione in Italia, nella sua famiglia e dovunque padre Giovanni era passato lasciando segni e semi di una presenza umana ed ecclesiale di singolare incisività. Fu vasta l’eco alla tivù, sui giornali nazionali e locali.
Ernesto Billò
Da Carrù al rio Alalaú:
quando l’amore non ha confini
«Non si accontentava delle mezze misure»
Cinquant’anni fa, padre Giovanni Calleri e otto dei suoi nove compagni di spedizione (sei uomini e due donne) furono massacrati dagli indios Waimiri-Atroarí nei pressi del rio Alalaú, nello stato di Roraima in Brasile. Volevano pacificare le comunità indigene e convincerle a spostarsi dal percorso della strada Manaus – Caracas, la Br-174, che il governo era deciso a costruire ad ogni costo invadendo i loro territori ancestrali e facendo piazza pulita di ogni resistenza. La spedizione aveva poche settimane di tempo per raggiungere lo scopo, ma troppi interessi erano in gioco. Un’impresa che si capisce solo nella logica dell’amore.
Nato nel 1934, ultimo di quattro figli (Maria, Margherita, Lucia le sorelle), a otto anni – nel 1942 – rimane orfano del padre Giuseppe, che, dopo alcuni anni vissuti da migrante in California, era tornato e aveva acquistato la cascina Pralungo a Morozzo (Cn). La mamma Lucia Massimino, rimasta vedova, deve far ricorso al proprio carattere forte, pratico, risoluto. Trasferisce i suoi in via Monasteroli a Carrù, e lì Giovanni – legato alle sorelle, specie a Margherita (poi suor Teresina), alla madrina e ai cugini – frequenta le prime classi elementari e la parrocchia retta allora da don Giorgio Oderda che consiglia per lui nell’ottobre ‘44 il passaggio alla quinta elementare nel piccolo seminario della diocesi di Mondovì a Vicoforte. E lo presenta così: «È un bravo giovinetto inclinato a pietà, assiduo nel servizio in chiesa e tra gli aspiranti di Azione Cattolica Può diventare domani un buon sacerdote». Giovanni ha solo dieci anni, e condivide quel distacco da casa con l’amico Antonio Servetti e con un ragazzo di qualche anno maggiore, Matteo Rino Filippi.
Da Carrù al seminario
Per Carrù e la Langa è un periodo drammatico sotto l’occupazione nazifascista. Il seminario tiene quei ragazzi al riparo dai rigori della lotta, ma non dai rigori di un’alimentazione di pura sussistenza. Giovani stomaci vuoti, bilanciati dalla spensieratezza dell’età e dall’impegno nello studio e nella preghiera. Nonostante quelle ristrettezze Giovanni comincia a manifestare vitalità, intraprendenza e ingegnosità non comuni. «Non si accontentava delle mezze misure», ricorda la sorella Margherita che di lì a poco sarebbe entrata, ventenne, nella clausura del Carmelo a Torino col nome di suor Teresina. La mamma fa fatica ad accettare come una benedizione quella duplice vocazione nata in famiglia, ma come non capirla? Sì, perché alla conclusione della quinta ginnasio, Giovanni – a differenza dei suoi due amici – sceglie di vestire la talare e di proseguire gli studi (filosofia dal 1950 al 1953 e teologia dal 1953 al 1957) nell’antico seminario maggiore di Mondovì Piazza. Lo fa con convinzione, anche se la mamma lo vorrebbe ingegnere.
A ogni fine d’anno ottiene risultati e giudizi più che buoni, e più che buone sono le relazioni stese da don Oderda sulla sua condotta nelle settimane estive in cui torna a casa per le vacanze: «Pietà profonda, volontà tenace, studioso con vocazione sicura». Col rettore del seminario don Giorgio Gasco, invece, qualche attrito e incomprensione non mancano per la vivacità e impulsività del giovane, tipica di una personalità in formazione desiderosa di agire sulle cose e sugli altri, con slancio e una certa autonomia, come dimostrano le sgroppate estive in bicicletta anche assai lontano e le avventurose uscite con i seminaristi più piccoli affidati alla sua assistenza negli anni ‘54-‘56. Nel dicembre del ‘56, quando è suddiacono, esprime al direttore del seminario il suo desiderio di diventare missionario. Un proposito al quale ha contribuito, dalla clausura, anche suor Teresina. I diretti superiori però rinviano a tempo imprecisato ogni decisione. Intanto le inattese difficoltà, gli inspiegabili ostacoli incontrati via via lo radicano ancor più nel suo sogno.
Vicecurato «dirompente»
Il 29 giugno 1957 Giovanni è ordinato prete (con Angelo Maritano, Efisio Caredda, Giovanni Crosetti, Armando Peano) da monsignor Sebastiano Briacca, vescovo di Mondovì. E subito va vicecurato festivo a Niella Tanaro, dove – giovane coi giovani – anima un ventaglio di proposte e di attività: dalle gite in bici in gruppo, al lancio – fallito – di una mongolfiera alta come il campanile, e tanto altro. Non tardano a venire espresse su di lui alcune riserve, specie dal parroco. Così nel maggio ‘58 il vicecurato scavezzacollo è trasferito nella remota Val Bormida. C’è sconcerto e dispiacere in paese, specie tra i giovani. Ma a Calizzano con don Suffia il rapporto è più fiducioso e costruttivo. «Ci impressionava per la grande devozione», ricorda un ragazzo d’allora, «anteponeva Dio a tutto e cercava di portare noi scalpitanti a fare lo stesso». Quindi, la partita di calcio si fa solo dopo vespri e benedizione. Le partite più memorabili da lui ideate sono quelle tra i «rossi» dello stato e i «neri» della chiesa (3-2; 3-3) seguite da accese tifoserie.
Intanto cresce in lui l’aspirazione a una vita diversa, in terra di missione. E cresce pure l’impazienza per l’assenso del vescovo che ancora non arriva. Tramite la sorella, don Giovanni contatta il Pime, Pontificio istituto missioni estere di Milano, e si reca da loro per un corso di esercizi spirituali. Ma da Mondovì arrivano ancora freni, sicché Giovanni sollecita suor Teresina: «Mettiti un po’ a pregare per me». Difficile però smuovere quei dubbi. La scusa è: scarsezza del clero. Scarsezza? Col seminario pieno? La sorella gli suggerisce di pregare e riflettere molto per conoscere bene la volontà di Dio. Pazienza ancora per un anno almeno. A fine 1959 è mandato come vicecurato a Farigliano, a due passi dalla sua Carrù e alle porte della Langa. Quel parroco lo accoglie bene e dà spazio alla sua estrosa intraprendenza. Don Giovanni si butta dunque più che mai ad animare il paese e i dintorni. Suscita adesioni e simpatie nei giovani che lo seguono in iniziative di vario richiamo. Così nasce nel gennaio ‘61 «A.gi.r.e.» (Associazione giovanile ricreare educando) che organizza spettacoli teatrali con la filodrammatica «Cit Farian Show», partite di calcio, concorsi ippici (con l’olimpionico Piero D’Inzeo), gare di moto, incontri di pugilato. Successi esaltanti e qualche inatteso e costoso flop. Mentre don Giovanni si appresta a inaugurare il nuovo stadio «Indemini» da lui tenacemente voluto e sostenuto, un incidente con la sua auto – nel quale muore un uomo – gli crea turbamenti. Dalla clausura intanto la sorella si preoccupa per lui, sollecita più volte in alto loco quell’assenso che tarda troppo. «Se ha veramente la vocazione missionaria, perché non lasciargliela assecondare presto?».
Il sogno della Missione
Finalmente nell’autunno 1962 giunge il via libera per un anno di preparazione presso il Pime. A Farigliano è amarezza generale quando lui stesso ne dà l’annuncio. «Ma quando Dio chiama…», dice. E il parroco, in appoggio: «Il suo ardente cuore non conosce limiti nel darsi agli altri. Troverà la forza di una totale offerta di sé per la salvezza di tanti». Parole profetiche. Il 28 settembre una folla lo accompagna fino a Villa Grugana, a Calco presso Lecco. Ma il postulandato (periodo di prova prima del noviziato) al Pime dura pochi mesi. Il direttore sospetta infatti che don Giovanni abbia ancora pendenze a Farigliano con la gestione di A.gi.r.e di cui è presidente, nonostante la regola precisi di tagliare con ogni impegno precedente. Con dispiacere gli consiglia di ritirarsi e il 14 dicembre lo dimette.
Che fa don Giovanni? Su consiglio della sorella va a bussare alle Missioni della Consolata, da lui ben conosciute anche perché radicate da tempo nella Certosa di Pesio, nella stessa diocesi di Mondovì. Mons. Briacca, il suo vescovo, al quale vengono richieste informazioni canoniche sul suo conto, lascia, in una lettera del 12 gennaio 1963, la seguente autorevole testimonianza: «Attestiamo che don Calleri, di questa diocesi, ha sempre tenuto una condotta sacerdotale buona sotto ogni riguardo, dimostrando doti particolari di zelo, di volontà generosa, e carattere sereno e disinteressato. Lo crediamo bene intenzionato verso la vita missionaria, sulla quale ha insistito con frequenza. Crediamo possibile con la guida di provetti missionari, ottenere da lui una maggior fermezza di volontà nelle singole iniziative, ed un più equilibrato giudizio della giusta misura nelle attività esteriori, la qual cosa dovrà prefiggersi nel periodo di postulandato e di noviziato. Saremo lieti della sua buona riuscita».
A padre Delio Lucca, superiore regionale dei missionari della Consolata che chiede informazioni confidenziali, il direttore del Pime di Milano risponde illustrando le difficoltà avute con lui concernenti l’associazione A.gi.r.e, e così conclude: «Voglio sperare che quanto è successo possa servire a don Calleri per il futuro. Mi è sembrato un buon giovane, molto dinamico, ma bisognoso di incanalare le sue energie nell’obbedienza. Se sotto la loro guida diventerà un buon missionario, gioirò e ringrazierò il Signore».
Don Giovanni giunge così all’Istituto Missioni Consolata con la sua grande carica di vitalità e si sottomette volenterosamente alle sue regole. I superiori, apprezzando le eccezionali qualità organizzative del postulante, il suo grande spirito di dedizione e la non comune capacità comunicativa, lo aiutano a moderare gli ardori del suo carattere tanto fattivo ed esuberante.
Missionario della Consolata
Non risulta facile neppure il nuovo inserimento come postulante tra Rovereto e Rosignano; il percorso è ancora accidentato (e ci si mette di mezzo pure un’assurda lettera diffamatoria e l’eccessivo «scandalo» per la riproposizione a Merano – come già a Calizzano – di un incontro di calcio «Chiesa-Stato», col clero in campo coi calzoncini corti). Comunque, Giovanni trovò maggior comprensione e incoraggiamento: da Farigliano, da Mondovì e dalla maggior parte dei maestri della Consolata.
Giovanni comincia col mettere in ordine l’archivio a Rovereto, poi prende a organizzare mostre e giornate missionarie a Cortina, Merano, coinvolgendo anche villeggianti. Proprio non riesce a star fermo; le regole gli vanno strette, e fa corrugare qualche fronte. Qualche padre si lamenta, anche se – senza ammetterlo – ammira e invidia tanta vitalità, e quelle spiccate doti di persuasione.
L’ammissione al noviziato non è però «pacifica». Una relazione di padre Andrea Salvini riassume bene le qualità e i limiti di don Giovanni e determina la sua accettazione: «Lati negativi: don Calleri è portato all’indipendenza nell’assolvere gli incarichi ricevuti: non per ambizione ma per una certa frenesia nell’azione che lo spinge facilmente a strafare. Ha una salute di ferro e perciò non bada al riposo; passa i limiti soliti della resistenza propria e altrui. Chi lavora con lui presto si sfianca. Lati positivi: ha una pietà solida e costante, ha un vero entusiasmo per le missioni e lo comunica agli altri suscitando collaboratori e offerte nelle giornate missionarie. Ha un dono quasi eccezionale di persuasione con poche parole dette nelle prediche. Si accaparra l’aiuto disinteressato di volenterosi. Concepisce l’obbedienza in modo un po’ … spartano. Non rifiuta nessun comando e ubbidisce senza discussioni; però per agire fa notare che vorrebbe una certa libertà. Se lo si tiene imbrigliato con le redini tese in giusta misura si potrà avere da lui un rendimento ottimo; se non lo si controlla potrà avere sbandamenti per troppo zelo. Io spero che avremo in lui un bravo padre della Consolata».
Don Calleri passa alla casa del noviziato a Bedizzole, dove trascorre ancora due mesi di postulandato prima di iniziare il noviziato. Padre Giovanni Morando, maestro dei novizi, lo accompagna nell’anno del noviziato e al termine dell’anno scrive: «È di pietà sincera, di costumi irreprensibili, socievole nella convivenza, di obbedienza a volte un po’ ragionata. Ha dato segni decisamente buoni della sua vocazione ecclesiastico-missionaria e di grandi possibilità nel lavoro apostolico. La sua estrosa genialità organizzativa e la sua salute forte lo spingono a gettarsi senza limite. Ma occorre che chi lo dirigerà comprenda le sue capacità e doti, e sia deciso nell’esigere da lui il rispetto dei limiti stabiliti. Per altro, sotto quest’ultimo aspetto, l’impegno non gli è mancato». Padre Giovanni Calleri viene ammesso alla professione religiosa, pronuncia i voti il 12 gennaio 1965 e viene destinato alla prelazia di Roraima, Brasile.
La partenza
Il 4 febbraio 1965 tutta Carrù gli è attorno per la consegna del crocifisso; poi padre Giovanni si reca al Carmelo di Torino per congedarsi dalla sorella. Che di là dalla grata gli dice: «Ti auguro di poter lavorare tanti anni per il Signore; poi, come premio, il martirio». E lui: «Sarebbe la grazia più grande». La sera del 15 febbraio, accompagnato fino a Linate da un nugolo di parenti e amici, parte per il Brasile, destinazione Roraima, Amazzonia. Mamma Lucia lo segue, soffocando le lacrime, fino alla scaletta dell’aereo, fino a che quella veste bianca e quella barba nera scompaiono dentro. Non lo vedrà più. Solo qualche lettera affettuosa, qualche foto, una voce di lontano.
All’arrivo a Boa Vista il 22 marzo 1965, scrive al superiore generale: «Oggi termina il nostro viaggio. Tutto felicemente bene. Le devo esprimere viva e filiale riconoscenza per avermi data la possibilità di lavorare per le missioni, tanto più in un campo come questo. Molti miei amici sacerdoti mi invidierebbero sapendomi a lavorare in queste situazioni così bisognose. Cercherò senz’altro di fare del mio meglio per essere un po’ meno indegno di questa chiamata di predilezione. Per questo la ringrazio della sua paterna benedizione che già benevolmente mi diede alla partenza e ancora mi vorrà dare».
In Roraima si prepara al lavoro missionario applicandosi innanzitutto allo studio della lingua portoghese, e poi partecipa ai viaggi per contattare gli indios Yanomami che vivono lungo il fiume Catrimani, accompagnando padre Bindo Meldolesi che della zona della foresta è un buon conoscitore. Quando padre Bindo si ritira, padre Calleri continua da solo e, pur in mezzo a qualche dubbio e perplessità da parte dei superiori, cerca di stabilire in maniera permanente la missione al Catrimani. La missione viene piantata lungo il fiume, perché considerato dagli indigeni luogo neutro di scambi e di incontro con altri gruppi.
Dopo quei primi contatti con il mondo indigeno, padre Giovanni così scrive nel luglio del 1965 ai suoi familiari: «Qui ho avuto impressione improvvisa di trovarmi in un paradiso terrestre. Tutto diverso, quasi completamente, dalla nostra Europa. Uomini e cose. Tutto a base di natura: come uscita dalle mani di Dio. C’è da imparare molto prima di insegnare. Pensavo che solo noi, civilizzati, fossimo capaci a vivere. Credo ora che sia diverso, soprattutto moralmente».
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Catrimani
In quel periodo padre Giovanni ha la fortuna d’incontrare padre Silvano Sabatini, amministratore di tutto il gruppo dei missionari in Brasile e appassionato del mondo indigeno, che lo comprende e lo accompagna nel suo intento di iniziare una forma nuova di evangelizzazione tra le popolazioni delle foreste che non sia la tradizionale «desobriga» (visite periodiche alle comunità per adempiere agli obblighi fondamentali di messa, confessione e comunione), utilizzata dai missionari in passato. Sono gli anni in cui gli effetti del Concilio Vaticano II si fanno sentire impellenti ed esigono una rivisitazione della prassi tradizionale della missione. Padre Giovanni è pronto alle nuove sfide e a continuare con impegno il suo lavoro nella missione del Catrimani.
La missione del Catrimani diventa il suo mondo per due anni. Vi si stabilisce evitando, per quanto possibile, il viaggio di 600 km lungo il fiume per ritornare a Boa Vista, la sede della Prelazia. Le sue giornate sono scandite da due ore di preghiera il mattino con la celebrazione dell’eucaristia in privato, e dieci ore di lavoro con gli indigeni. Nel suo bagaglio missionario c’era la concezione di una missione tradizionale ben strutturata, che ben presto accantona per ridurre all’indispensabile le costruzioni. Mette in piedi una capanna che gli possa servire da casa e alcuni magazzini. Avvicina la gente e da loro cerca di imparare la lingua: per lui è una priorità. Cura le persone con le poche medicine che ha a disposizione. Non regala niente, anche perché la gente già conosce il baratto. Offre oggetti indispensabili in cambio di ore di lavoro («mamo» sono dei cartoncini che usa come «moneta di scambio» in base alle ore di lavoro fatte). Disbosca, costruisce una pista per piccoli aerei per facilitare i contatti con la sede centrale senza dover sobbarcarsi i viaggi in fiume, dissoda terreno per piccole coltivazioni.
La gente impara a conoscerlo e collabora volentieri con questo straniero gentile, rispettoso e tanto laborioso. L’inizio di questa missione è incoraggiante. Padre Calleri non è ancora del tutto consapevole di quanti interessi esistano dietro a questa foresta lussureggiante e impenetrabile. Sa che il governo centrale del Brasile vorrebbe costruire una strada che va verso il Nord del paese e che dovrebbe passare proprio in mezzo ai luoghi dove abitano gli indigeni. Ma non sa che tutto questo è però solo la punta di un iceberg.
Il missionario si converte
Padre Sabatini intanto gli consiglia di seguire un corso di antropologia a Belém, dove insegna un missionario, buon conoscitore della realtà indigena. Padre Giovanni abbandona così il Catrimani e gli indios fra i quali, come confessa lui stesso, aveva cominciato a costruire il suo «nido» e si reca a Porto Alegre, nel Sud del Brasile, per seguire un corso di studi antropologici e allo stesso tempo offrire il suo aiuto di ministero in una parrocchia della città. È proprio questa interruzione del lavoro a Catrimani che gli permette di rivedere quanto finora realizzato e tracciare un piano per il futuro.
Ecco alcune linee-guida da lui maturate:
Le popolazioni indigene non devono essere «colonizzate o civilizzate» per poterle evangelizzare. Il missionario deve innanzitutto avvicinarsi a loro con grande stima e attenzione. Deve andare a scuola da loro per apprenderne la lingua, la cultura e le credenze.
L’approccio missionario ha bisogno di una radicale conversione. Gli indios non devono abbandonare la lingua e cultura per diventare «cristiani». Il missionario deve rispettarli, solidarizzare con loro, e non «imporre» i valori cristiani per farli giungere presto al battesimo. Questa fase di pre-evangelizzazione può avere una durata molto estesa. Il missionario non deve accelerare questo cammino di conoscenza, ma sottomettersi al loro ritmo di apprendimento e di crescita.
È possibile una promozione umana dell’indio? La risposta è affermativa ma sempre nel rispetto del suo cammino. Il criterio deve essere quello del «completamento» e non quello della «sostituzione», come è stato fatto troppo spesso in passato.
Bisogna fare sì che gli indios vengano a contatto con altre culture e realtà di vita perché anche per essi ci possa essere crescita e sviluppo. Il totale isolamento a cui la foresta li ha finora relegati ha impedito loro un naturale sviluppo (idea non più condivisa dai missionari oggi, ndr).
Una promozione umana e cristiana potrà avvenire attraverso l’utilizzo di quattro mezzi: la salute, il lavoro, la giustizia, l’elevazione intellettuale.
Il missionario, pertanto, deve innanzitutto credere che l’indio è un uomo libero, ha personalità, ha cultura, ha dignità, ha diritti, ha una patria che è la foresta.
Oltre a studiare, padre Calleri offre il suo aiuto pastorale in una parrocchia di Porto Alegre. Anche qui, la sua creatività, il suo slancio giovanile e impegno vulcanico, fanno sì che al termine degli studi, la gente e i sacerdoti desiderino che la sua presenza continui. Lo ricorda lui stesso in una lettera ai familiari del luglio ‘68: «Sono stato nel Sud del Brasile per fare un due tre corsi… E laggiù dove ero ospite feci una mezza rivoluzione, tanto che manco più riuscivo a venirne via: da Roraima mandavano una serie di telegrammi, della necessità del mio ritorno per un lavoro urgente tra gli indios; e di là, da Porto Alegre, rispondevano con sottoscrizioni a valanga per chiedere la mia permanenza là. Alla fine, ne venni fuori, ma con un sacco di nostalgia».
Salvare i Waimiri-Atroarí
Intanto nuove difficoltà si affacciano. Il governo brasiliano, costretto a sospendere i lavori per la costruzione della strada Manaus-Venezuela a causa di tribù ostili, richiede ufficialmente l’intervento della Prelazia di Roraima per un’opera di pacificazione. La strada che deve attraversare l’area indigena rischia di compromettere l’esistenza stessa di vari gruppi di indios a causa della distruzione del territorio, del contagio di malattie sconosciute agli indigeni e delle violenze perpetrate da lavoratori e minatori abusivi che inquinano il territorio alla ricerca di oro. La prelazia costituisce una commissione per studiare il problema in maniera da permettere da un lato di salvare gli indios e dall’altra di offrire al governo statale la possibilità di continuare la costruzione della strada Br-174. Di tale commissione padre Calleri è il segretario. La soluzione diocesana contempla un processo lento di avvicinamento, di conoscenza della popolazione e poi uno spostamento dei vari gruppi di indios in aree più sicure.
Padre Giovanni viene inviato dalla Diocesi di Roraima a Manaus per convincere le autorità governative della bontà del progetto dei missionari. E qui avviene invece un cambio di programma. Lo stesso padre Calleri, che tanto successo ha ottenuto con gli Yanomami, pare l’uomo giusto per l’impresa di capitanare una spedizione pacificatrice governativa. La missione è difficile e rischiosa. Egli aderisce alla proposta e accetta, pur sapendo che nessuna delle decine di persone partite negli ultimi anni per avvicinare quelle tribù aveva fatto ritorno.
Mentre da Manaus già si accinge alla partenza, ne dà notizia alla famiglia esponendo i motivi della sua decisione:
«Cara mamma e care sorelle,
[…] Vi dò una notizia: mi trovo in questo momento a Manaus, capitale dell’Amazzonia, per preparare una missione straordinaria: stavolta è molto difficile e dura. Il governo nazionale, che sta costruendo una grande strada intercontinentale tra il Brasile e il Venezuela, e detta strada è costretta a passare in una zona occupata completamente da Indios ferocissimi, di dove nessuno è mai riuscito a venir fuori vivo, ha chiesto ufficialmente l’intervento del nostro Istituto, il quale scelse me per eseguire l’impresa. Centoventi persone, in questi ultimi anni, hanno perso la vita sotto le frecce degli Indios, nel tentativo di pacificarli. La cosa è parecchio grossa: ne parlano giornali e radio.
L’Istituto, attraverso il Superiore Generale, che venne appositamente in Roraima, non mi obbligò, è logico. Ma io accettai. Il coraggio non mi è mai mancato. Se il nostro Istituto non accettava di intervenire erano duemila indios che venivano massacrati con bombardieri. Inoltre, trattandosi di un’impresa altamente umanitaria, sono certo che Iddio penserà a dare una mano anche Lui. Non è nemmeno il caso di dirvi di pregare. Già lo farete e lo farete fare.
Sinceramente, non sono sicuro di farcela. Ci metterò, però, tutta la prudenza e lo studio per evitare momenti brutti. Ma una cosa è certa: che questi gruppi di Indios sono espertissimi nel cogliere l’individuo quando meno se lo aspetta. Che lo Spirito Santo mi mandi la sua luce quando sarà tempo! In Catrimani, ora, le nove tribù con cui sono venuto in contatto, sono miei amici, molto … È costato parecchio duro lavoro, ma tutto andò bene: questa volta, invece, non lo so…
Sono con Dio e la sua buona collaborazione.
[…] Arrivederci presto!
Giovanni».
Con queste ultime parole padre Calleri presagisce la fine che toccherà a lui e ai suoi compagni di spedizione, poche settimane dopo.
Ernesto Billò e Margherita Allena (con inserzioni da pubblicazioni dei missionari della Consolata)
Padre Calleri nel ricordo degli Yanomami
Da napë a xori
Da «straniero / nemico» a «parente / amico». Tradotte e trascritte quasi letteralmente, tre interviste a Yanomami che raccontano i primissimi incontri tra gli indios e padre Calleri, testimonianze del passaggio dalla diffidenza all’accettazione. L’originale è registrato in video.
Lavorare insieme
Intervista a Pedro Yanomami (di circa 80 anni) realizzata presso la comunità dei Maamapi theri, il 20 gennaio 2015.
«Inizialmente, [padre] Bindo [Meldolesi] abitò qui da solo e fece la pista di atterraggio. All’inizio abitò da solo e ci chiese di aiutarlo nel lavoro. Lui fece in questo modo: ci nutrì e si fece nostro amico. Lui disse così: “Io sono padre Bindo, sono veramente un padre”.
In seguito, aumentò il numero delle persone, [alla missione Catrimani]. È arrivato padre Calleri, scendendo con l’aereo. Con lui noi lavorammo. Padre Calleri ci chiese di lavorare».
[Interviene Teresa, moglie di Pedro] «Io, per prima, cinsi il mio collo con collane di perline. Quando altre donne videro che io avevo molte perline, rimasero felici e lavorarono con intensità alla pista di atterraggio. Noi donne lavoravamo e ricevevamo [in compenso] perline di vetro».
[Pedro continua] «Solamente i padri [i missionari e i loro aiutanti] arrivavano [a poco a poco] e aumentavano. Loro dicevano così: «Noi siamo padri; noi ci prenderemo cura di voi», e ancora: “Non ci sono altri napëpë [pl. non Yanomami o stranieri] che siano vostri amici”. I padri non mi alloggiarono in una casa di paglia, ma in una casa di assi. I padri costruirono la mia casa di assi, ben protetta. Loro mi chiamarono per abitare vicino. In quella direzione, dall’altro lato del fiume, avevamo una casa, ma loro mi chiamarono per abitare su questa sponda, vicino. Loro [i padri] iniziarono la scuola. Padre Giovanni, per primo iniziò ad insegnare. Lui consegnava [per il lavoro] biglietti [una forma di moneta che si chiamava mamo (occhio)], [in cambio] di questi biglietti distribuiva utensili. Così faceva padre Calleri. Disegnava molti biglietti [con simboli diversi corrispondenti alle ore di lavoro]. Con questi ricevevamo oggetti e utensili. Così faceva padre Calleri.
Con molto impegno, padre Giovanni scriveva nel quaderno la mia lingua. Io gli insegnai la mia lingua. Padre Giovanni diceva: “Insegnami la lingua yanomae”, perciò io gli insegnai. Gli insegnai il nome degli animali: “Questo è un tapiro, questo è un pécari, questa è una scimmia ragno, questa è una scimmia urlatrice, questo è una scimmia cebo, questa è una tartaruga di terra”, così gli dicevo. Così lui imparò a parlare molto bene».
I primi contatti
Interviste a Alexandre (nascita: 1961) e Xirixana (nascita: 1956) realizzate presso la comunità degli Hawarihixapopëu theri, il 18 gennaio 2015.
«L’indio [di etnia Ticuna, chiamato] Peruano, accompagnava padre Calleri che distribuì alcuni oggetti [ami, forbici, ecc.] agli Yanomami che con lui visitarono le loro comunità [si riferisce ai primi viaggi esplorativi per contattare i vari gruppi risalendo il fiume Catrimani; era normale lasciare allora dei piccoli regali come riconoscenza per l’accoglienza ricevuta e per dimostrare la volontà di un incontro pacifico, ndr].
Due Yanomami, lo zio di Juruna – questo [giovane] seduto lì – e il marito dell’anziana madre [Andina], trasportarono alcuni utensili e gli alimenti dei due: di padre Calleri e di Peruano.
Inizialmente solo padre Calleri arrivò fino alla comunità di Hawarihi [quella di Alexandre, localizzata lungo il fiume Lobo d’Almada, affluente di destra del fiume Catrimani] e raggiunse le altre comunità degli anziani [lett. «antenati», perché molti di loro sono già morti, ndr]. In seguito, giunsero altri [insieme al padre].
In seguito, chiamò altri [abitanti] di questa regione. In questo modo, vide le necessità degli anziani e conobbe la loro cultura: l’amaca di cotone [coltivato nella piantagione], la mandibola di pecari per lisciare l’arco.
Padre Calleri osservò e provò [gli utensili degli Yanomami]: “Si fa così con questo?”. Vedendo l’utensile di denti di aguti [un roditore, ndr] legato al braccio, domandò: “Come lo fate?”. Gli anziani Yanomami insegnarono a padre Calleri: “In questo modo fabbrichiamo la punta [di freccia chiamata] atarihi; invece così, dopo avere ritorto [le fibre vegetali], prepariamo la corda per l’arco”.
In questo modo, Calleri vide con i suoi occhi le difficoltà degli anziani [che confezionavano i loro utensili]: le donne cuocevano la focaccia di manioca sulle pietre, grattugiavano i tuberi di manioca [sfregandoli] sulla corteccia dell’albero operema. Vide le donne che facevano fatica: spremevano la polpa di manioca nei piccoli cesti ikatoma. Vedendo tali necessità, padre Calleri li aiutò, li aiutò veramente. Dopo averli aiutati, li chiamò: “Venite qui”. Gli anziani Yanomami andarono ad aprire la pista di atterraggio.
Padre Calleri orientò gli anziani Yanomami: il gruppo degli Opikitheri [di língua yaröame], quelli della comunità di Tooropi, quelli del fiume Hwayau, quelli della comunità Kaxipii, altri Yanomami del fiume Catrimani, quelli [provenienti dalla] comunità di Korihana. Tutti questi anziani Yanomami, insieme aprirono la pista di atterraggio.
In seguito, per il servizio prestato, padre Calleri distribuì i machete che aveva portato da Manaus.
Calleri aiutò gli anziani che, per questo, rimasero molto contenti. I nostri antenati fecero grande amicizia con padre Calleri. Tutti gli abitanti delle comunità di Tooropi, di Hwaia u, di Kaxipi u, gli Yawari. Tutti strinsero amicizia con lui, ma lui fu ucciso».
La paura delle donne
Dall’intervista a Fátima (nascita: 1956) realizzata presso la comunità degli Hawarihixapopëu theri, il 17 gennaio 2015.
«Anticamente, padre Calleri arrivò fra di noi, nella regione chiamata Kaxipi [sulla riva del fiume Jundiá, affluente del medio fiume Catrimani]. Solo gli adulti [non ebbero paura e] continuarono a cantare mentre lui [Calleri] ascoltava. Lui [Calleri] chiese loro di continuare a cantare e, dopo aver deposto al suolo le sue cose [forse un registratore], li fece danzare. Mentre gli anziani cantavano, noi ragazze ci chiedevamo: “Perché stanno cantando?”.
Dentro [alla casa comunitaria], al fondo, io rimanevo nascosta [fra le foglie] perché avevo paura. [Io pensavo che] I padri potessero rubare le donne, per questo ebbi paura e, in silenzio, rimasi nascosta. All’inizio avevamo molta paura. Ebbi paura perché era arrivata la notizia che alcuni napëpë [plurale di napë] che avevano risalito il fiume, durante una visita al popolo Yawari, avevano portato [via] con sé alcune donne».
[Anni dopo, Fatima divenne l’aiutante della suora infermiera nel dispensario della missione del Catrimani].
I ricordi della sorella, monaca di clausura
Il coraggio di fare il bene bene
Il Carmelo dello Spirito Santo è una piccola oasi di tranquillità e silenzio nella già tranquilla prima collina torinese. Da anni i missionari della Consolata che vivono in Casa madre a Torino offrono il servizio come cappellani di questa piccola comunità di suore di clausura che, con fede e tanta simpatia, accompagnano al ritmo della preghiera anche la nostra missione nel mondo. Da tanti anni, però, c’è un altro motivo di contatto e comunione fra le nostre due comunità.
Nel 1946, con un viaggio reso complicato dai postumi della guerra, una giovane ragazza di Carrù, entrò in monastero per donare interamente la sua vita al Signore, lo sposo amato. Oggi, è un’arzilla vecchietta che sta per compiere 92 anni alla quale chiedo di ripercorrere per l’ennesima volta la storia di suo fratello, di raccontarmi com’era questo padre Giovanni Calleri, missionario della Consolata ucciso in Amazzonia cinquant’anni fa, il 1° novembre 1968.
«Padre Giovanni lo conoscevo bene, eccome, l’ho tirato su io da bambino – inizia a ricordare suor Teresina. Era un bambino vivace, molto vivace… un po’ furbetto. È stato con la cresima che, secondo me, Giovanni ha ricevuto una grazia speciale. È diventato più aperto, ma anche più disposto alla preghiera».
Le chiedo che cosa avevano pensato in famiglia a proposito della sua decisione di entrare in seminario e poi, in seguito di diventare missionario.
Suor Teresina risponde di getto. Sorvola sulla famiglia – del resto in quei tempi, soprattutto nelle nostre campagne – era cosa comune mandare i figli a «studiare dai preti». Ricorda invece che il parroco, guardando forse il carattere vivace del ragazzo, era contrario al suo ingresso in seminario. Pensava che non fosse la sua strada, che avrebbe avuto delle delusioni. Giovanni venne aiutato nel suo proposito da una catechista che lo conosceva bene e, soprattutto, ne vedeva alcuni aspetti di bontà. Si capiva che dietro a tanta vivacità si nascondevano una creatività e una attitudine verso la pietà davvero speciali. Così quando sua sorella entrò nel Carmelo, lui entrò nel seminario di Mondovì.
«Quando invece decise di andare in missione ci preoccupammo tutti un po’ – continua suor Teresina -, in diocesi aveva mille impegni, tantissime attività iniziate e ci chiedevamo tutti come avrebbe potuto lasciare tutte queste cose per iniziare un nuovo cammino. Del resto, la sua prima esperienza di formazione missionaria con il Pime di Milano finì anche per questo motivo. I suoi nuovi superiori si accorsero che continuava ad essere attaccato alla sua precedente realtà pastorale e gli consigliarono di tornare ad essa e di dedicarsi anima e corpo alla parrocchia e alle attività ad essa legate».
Fu una delusione, il dover tornare indietro?
«Certamente lo fu. Quell’anno, si era all’inizio della novena di Natale, venne a trovarmi e a confidarsi con me. Giovanni aveva nel cuore la missione, voleva andarci. Mi disse che aveva chiesto ai Salesiani che, però, pur avendo istituti scolastici e missioni all’estero, non gli avevano assicurato di poterlo mandare. Lui aveva bisogno di trovare un Istituto missionario. Solo gli bastò guardare ancora più vicino».
«In quegli anni, qui al Carmelo, avevamo già un cappellano missionario della Consolata, padre Creola. Misi Giovanni in contatto con lui e così iniziò il percorso di formazione con il vostro Istituto. Ne fu contento, si trovò immediatamente bene, in mezzo a tanti piemontesi come lui, si è subito sentito il benvenuto».
Suor Teresina conosceva però bene suo fratello e dovette intervenire con la preghiera e un paio di lettere ai superiori di padre Giovanni per far sì che riuscisse a coronare il suo sogno.
«È vero, lo hanno fatto tribolare non poco prima di dargli il via. Giovanni era un tipo vulcanico, difficile da inquadrare in uno schema. Io ogni tanto scrivevo ai suoi superiori dicendo che avessero comprensione, che Giovanni era buono, di tenerlo perché sicuramente avrebbe fatto del bene. Chi ne ha visto la stoffa e lo ha capito è padre Giovanni Morando, che fu suo maestro di noviziato. Lo prese davvero a cuore».
Chissà che gioia quando padre Morando scoprì che il suo novizio aveva una sorella monaca di clausura di nome «Suor Teresina». Aveva un’autentica devozione per Suor Teresina di Lisieux.
«Quando lo seppe mi scrisse subito. Del resto Santa Teresina è patrona delle missioni, il mese missionario inizia con la sua festa, e io stessa mi sento missionaria in prima linea, qui dal Carmelo, accompagnando con la preghiera tutti i missionari. Santa Teresina mi ha ispirato. Devo a lei anche la mia vocazione visto che è maturata dopo aver letto il suo “Storia di un’anima”».
Chiedo a suor Teresina qual è l’ultimo ricordo che ha di suo fratello.
«Prima di partire per il Brasile venne a salutarmi e a celebrare qui l’Eucaristia. Ricordo le ultime parole che gli dissi: “Ti auguro di lavorare, di fare tanto bene e alla fine, se Dio vorrà… il martirio”. Mi rispose: “Sarebbe la grazia più bella”. È un martirio per il quale si è preparato, nonostante il poco tempo in cui è rimasto in Brasile. Si era reso conto che qualcosa non andava con quella spedizione in cui poi perse la vita, che qualcuno gli remava contro. È andato avanti lo stesso, con tenacia, ispirato dall’ideale della salvezza dell’uomo, di questi indios a cui si era donato. Ha resistito anche di fronte a chi gli consigliava di lasciar perdere, che era troppo pericoloso. Questa sua fortezza basterebbe a considerarlo un martire della carità».
Vedo che suor Teresina è stanca. Continuerebbe a parlare di suo fratello, lo si legge negli occhi, ma forse è meglio fermarci. Le faccio un’ultima domanda e le chiedo quale caratteristica di suo fratello potrebbe essere di ispirazione per un giovane di oggi.
Mi guarda come se fosse in procinto di darmi una risposta scontata… e forse lo è. «Il coraggio – mi dice – il coraggio nel fare il bene a qualsiasi costo».
Ugo Pozzoli
Giovanni Billò – Margherita Allena
Padre Giovanni Calleri, la forza dell’esempio
Nella prima parte io ho cercato di seguire Giovanni nel suo cammino di educazione umana e spirituale: dagli inizi in famiglia e in parrocchia agli anni di scuola e di seminario, cogliendo – attraverso lettere, testimonianze, documenti – il maturare delle sue doti di sensibilità, intelligenza, creatività, autonomia, e il precoce affiorare di una vocazione ecclesiale e missionaria determinata e generosa messa però presto alla prova da certe incomprensioni e diffidenze dovute soprattutto alla sua vivacità e intraprendenza e a certi atteggiamenti che apparivano troppo anticonformistici in ambienti educativi ancora rigidi e chiusi. […]
Qui si innesta la seconda parte del libro, in cui Margherita Allena riferisce di un viaggio compiuto nel 2009 in Brasile con la cugina Zelda Guglielmotto, pronipoti di padre Giovanni,
visitando i luoghi dove aveva operato e cercando contatti con chi l’aveva conosciuto e con vecchi indios che egli aveva contribuito a beneficare e tra i quali aveva perso la vita. (Gio. Bil.)
Edito da: Associazione «Amici di Padre Calleri»
Piazza Dante 12, 12061 Carrù (Cn)
info@amicipadrecalleri.it
Bibliografia essenziale
Damioli e G. Saffirio, Yanomami, Indios dell’Amazzonia, Ed. Capitello 1996.
Silvano Sabatini, Sangue nella foresta amazzonica, Emi, Bologna 2001.
Silvano Sabatini e Silvia Zaccaria, Il prete e l’antropologo, Ediesse 2012.
Gabriele Soldati, Testimonianza di sangue, MC 1/1969 p. 14-35.
Sabatini Silvano, Sono morti così, MC 1/1970 p. 28-35.
Gigi Anataloni, La causa degli Indios è la nostra causa, dossier MC 2/1985 p. 27-38.
Sono oltre 20mila gli indigeni che vivono a Raposa Serra do Sol, terra indigena riconosciuta nel 2005 dopo decenni di lotta. I problemi non mancano: salute, istruzione, viabilità. L’ostilità anti indigena rimane elevata e produce insicurezza e invasioni. Tuttavia, i popoli indigeni hanno imparato a difendersi. Dal 1971 i missionari della Consolata vivono al loro fianco.
A Roraima, nella regione Nord del Brasile, ad aprile le piogge iniziano a irrigare la terra riempiendo fiumi e torrenti. Nella terra indigena Raposa Serra do Sol (Ti Rss), la vegetazione rigogliosa, rallegra gli oltre 20mila indigeni Macuxi, Wapichana, Taurepang, Ingaricó e Patamona. Nel 2005, l’area di 1,7 milioni di ettari (pari alla regione Lazio, ndr) è stata dichiarata «protetta», cioè ad uso esclusivo degli indigeni, dall’allora presidente Lula da Silva, dopo 34 anni di lotte che sono costate la vita ad almeno 21 indigeni. È così che Raposa è divenuta un esempio di resistenza contro l’invasione bianca.
Nella Costituzione federale del 1988, lo stato brasiliano riconosce che «le terre tradizionalmente occupate dagli indigeni sono destinate al loro possesso permanente e avranno l’uso esclusivo delle ricchezze del suolo, fiumi e laghi in esso esistenti» (art.231, 2). La popolazione è cresciuta sempre organizzata intorno ai propri leader, i tuxaua (figura corrispondente ai cacique, ndr), in più di 200 villaggi nelle regioni di Surumú, Sierras, Baixo Cotingo e Raposa. Nelle comunità e nelle scuole di vario grado, dove oramai quasi tutti gli insegnanti sono indigeni, la presenza di bambini e giovani colpisce l’occhio del visitatore. Circa il 60% della popolazione ha meno di 15 anni, una garanzia per il futuro che, nel contempo, comporta delle sfide.
Dalla repressione al riscatto
Nel 1977, un centinaio di tuxaua e altri rappresentanti indigeni alleati organizzarono una delle prime assemblee nella missione di Surumú, interrotta dall’irruzione dei militari. I leader indigeni non furono intimiditi da tale repressione. Si dispersero per continuare altrove l’assemblea. Questo fatto è ricordato come primo atto pubblico di resistenza e della ricerca di autonomia del nascente movimento indigeno. Molto probabilmente è per questo che nel 2005, nella stessa missione, furono bruciate la chiesa, la scuola e il centro di salute in uno dei numerosi attacchi orchestrati dagli invasori bianchi. La svolta fondamentale nella lotta è stato l’impegno «Ou vai ou racha» (o tutto o niente) quando gli indigeni, il 26 aprile 1977, riuniti a Maturuca, un villaggio a 320 km da Boa Vista, decisero di dire «no alla bevanda alcolica, sì alla comunità» avviando il processo di organizzazione che culminò nella creazione del Consiglio indigenista di Roraima (Cir). Un impegno che comprendeva la lotta all’invasione dei garimpeiros e degli agricoltori non indigeni.
Un grande impulso alla causa indigena è stato dato dal successo del progetto «Una mucca per l’indio», lanciato nel 1980, che prevedeva l’affidamento ad ogni comunità indigena di 52 bovini e che, a sua volta, si impegnava, dopo cinque anni, a consegnare a un’altra comunità altrettanti capi di bestiame. Questa iniziativa sostenuta dalla Chiesa cattolica e da tanti altri benefattori ha contribuito a creare degli allevamenti comunitari di oltre 30.000 bovini.
L’opzione per gli indigeni
Presenti in Roraima dal 1948, solo nel 1971 i missionari della Consolata hanno scelto una chiara opzione per i popoli indigeni. E nel 1972 hanno iniziato a vivere nei villaggi, in mezzo alla gente. Un cambiamento radicale nello stile di evangelizzazione. Da una prospettiva meramente sacramentale, succube dei poteri forti del latifondo, a una pastorale profetica e liberatrice fatta dai villaggi e a fianco delle popolazioni indigene. Questa opzione assunta anche dalla diocesi di Roraima, ha causato persecuzioni, diffamazioni e minacce di morte per i missionari e per l’allora vescovo, mons. Aldo Mongiano (Missionario della Consolata), sulla cui testa era stata posta una taglia molto cospicua.
La riflessione su Il piano di Dio per noi (un progetto di formazione biblico-pastorale) ha guidato l’azione di evangelizzazione integrando la fede e la vita in cui la liberazione della terra era l’obiettivo principale. E il Consiglio indigenista missionario (Cimi), fondato nel 1972, è diventato gradualmente uno strumento di riflessione e appoggio alla causa.
Oggi, sette giovani sacerdoti missionari della Consolata africani – Philip Njoroge Njuma, James Murimi Njimia, Joseph Musito, Jean Tuluba, Jean-Claude Bafutanga, Joseph Mugerwa, Gabriel Ochieng -, insieme a Francesco Bruno, un fratello missionario italiano, accompagnano le comunità indigene nella Raposa?Serra do Sol. Inoltre nella zona lavorano tre suore missionarie della Consolata.
Padre Philip Njoroge sottolinea che «i protagonisti sono gli indigeni. Seguiamo e camminiamo insieme in modo che le loro vite prosperino nel pieno rispetto dei loro diritti, della loro cultura e saggezza ancestrale». Dopo 70 anni di presenza, per una congregazione che ha nel suo Dna la missione ad gentes, l’esperienza di lavoro missionario in Raposa Serra do Sol ha insegnato ai missionari a camminare con le popolazioni indigene, con le loro speranze e lotte, gioie e conflitti, rompendo confini e modelli tradizionali di evangelizzazione.
Il professor Ednaldo Pereira André, secondo tuxaua di Maturuca, riassume così le grandi sfide: «Rispettare gli impegni, prendersi cura della terra e intensificare la produzione, lavorare nelle comunità per affrontare insieme i problemi e gli ostacoli in sintonia con Il piano di Dio su di noi. È urgente investire nella formazione dei leader: tuxaua, coordinatori di comunità, mandriani, catechisti e agenti di salute… in modo che capiscano bene il loro ruolo».
Politici e pastori
Inácio Brito, uno dei primi insegnanti a implementare l’educazione indigena, chiede una maggiore presenza nelle comunità per aiutare a combattere le minacce. «Oggi la politica dei partiti vuole dividere disseminando i pastori evangelici nelle comunità in cui le leadership indigene sono deboli», afferma il professore. «Vogliono toglierci i diritti garantiti dalla Costituzione: educazione, salute, trasporti, progetti, ecc. Questa è una persecuzione. La lotta per la terra è nata dall’unione tra le varie regioni, ma molto è cambiato nonostante il Cir continui nel suo sforzo di coordinamento».
La strategia dei politici e dello stato è chiara: dividere i gruppi per indebolire il popolo. Ci sono evidenze chiare di questa strategia, come l’emendamento parlamentare del deputato federale Édio Lopes, scritto in collaborazione con il senatore Romero Jucá (due politici notoriamente anti indigeni), che ha portato una mandria di bovini nelle comunità. Questa decisione è criticata per la dipendenza che può creare e per l’uso politico che se ne può fare. «Non è sbagliato ricevere queste “offerte” di bestiame perché recentemente abbiamo avuto molte perdite. Ma dobbiamo fare attenzione alla strumentalizzazione e al pericolo di invasione e divisione che ne può derivare. I politici ci hanno sempre dato contro e adesso improvvisamente ci offrono il miele. Dobbiamo aprire gli occhi», avverte Brito.
Le donne sono impegnate attraverso l’«Organizzazione delle donne indigene di Roraima» (Omir) con progetti di formazione e sostenibilità economica. Una delle coordinatrici, Marisete de Souza, indica i risultati ottenuti che includono l’aumento dei capi di bestiame, miglioramento della coltivazione e l’incarico di tuxaua assunto da alcune donne. «Il nostro lavoro mira a rafforzare l’identità e le tradizioni. Lo facciamo con la pianificazione di workshop, seminari, assemblee e corsi. Il nostro ruolo di donna, madre, moglie e attivista del movimento indigeno è lottare per la sostenibilità e contro le bevande alcoliche. Lavoriamo insieme ai missionari che ci appoggiano».
L’importanza della terra
Dopo la fine del latifondo nella terra Raposa Serra do Sol, gli indigeni hanno occupato aree strategiche. Nuove comunità sono nate. Per esempio, dov’era l’azienda del fazendeiro Jair, a 250 km da Boa Vista, cinque famiglie hanno creato la comunità San Matteo, che ora comprende ben 19 famiglie. Questa comunità si è incontrata per discutere i problemi e rinnovare gli impegni. Per tre giorni, adulti e giovani discutono. I bambini accompagnano e scrivono sui loro quaderni. Matias de Lima e Jacir José de Souza, due leader storici, fanno memoria della lotta. Per Jacir, le principali sfide sono «raccontare ai giovani e bambini i risultati ottenuti e gli impegni da mantenere. Inoltre essere sempre in allerta con nuovi tentativi di invasione».
Matias de Lima ricorda di essere stato arrestato e picchiato riportando la rottura della clavicola. «Sono preoccupato. Una volta i tuxaua erano determinati, ora vedo insicurezza. I politici stanno comprando alcuni tuxaua, dei coordinatori e la gente. Se non apriamo gli occhi, soffriremo ancora», avverte il vecchio attivista della causa indigena. «Non possiamo rinunciare ai nostri impegni. Se cadiamo, dobbiamo alzarci. Questi bambini hanno bisogno di terra per piantare e mangiare. Io continuerò la lotta finché avrò vita».
L’attuale tuxaua della comunità, Martinho Macuxi Souza, uno dei figli di Matias, ricorda che «prima il bianco ci ha proibito di cacciare, pescare e coltivare. Hanno arrestato, picchiato e bruciato le nostre case e la missione di Surumú. Oggi non vediamo più i nostri parenti soffrire violenza. Non voglio le mucche offerte dal governo e dai politici», ribadisce. «Per quanto riguarda la terra, stiamo cercando di fare del nostro meglio seguendo i principi di una agricoltura sostenibile e la formazione tecnica che riceviamo presso scuola di Surumú, su come allevare il bestiame e coltivare ortaggi senza pesticidi. Facciamo ancora troppo poco per custodire e proteggere la terra», sostiene Martinho.
Tira (ancora) una brutta aria
I coniugi Edinho Batista e Catiane de Souza sono appena rientrati da Brasilia (Df) dove hanno partecipato al «15° Acampamento Terra Livre» (Atl), che dal 23 al 27 aprile ha riunito 3.000 indigeni da tutto il Brasile. Ci sono ancora 836 terre indigene da demarcare. «Ci sforziamo di custodire e proteggere la nostra Madre Terra, ora vogliamo aiutare anche altri fratelli e sorelle indigeni a liberare la loro terra», dice Edinho. Per Catiane «la partecipazione delle donne è stata determinata e forte. Ora informerò le comunità sulle decisioni prese». Con il tema «Unificare la lotta in difesa degli indigeni: la garanzia dei diritti originari dei nostri popoli», a Brasilia l’Atl si è svolto mentre tutt’intorno si percepiva un forte risentimento anti popoli indigeni in un clima di ostilità che perdura da quando è stata promulgata la Costituzione federale del 1988.
Nonostante gli investimenti, nella Ti Rss sono tuttora visibili i problemi relativi a salute, istruzione, sicurezza e infrastrutture. La salute delle popolazioni è di competenza del «Segretariato della salute Indigena» (Sesai), creato nel 2010.
Rispetto all’educazione, quasi tutte le comunità hanno scuole elementari. Alcuni centri principali hanno anche le scuole secondarie e il programma di «Educazione per i giovani e adulti» (Eja). Sfortunatamente molte strutture si trovano in condizioni precarie e necessiterebbero di ristrutturazioni urgenti, cosa che raramente viene fatta dalle autorità pubbliche.
Per costruire nuove scuole e centri sanitari, alcune comunità si affidano ai progetti della Chiesa cattolica e all’aiuto dei missionari. La Fondazione Missioni Consolata Onlus ha appoggiato la realizzazione di alcuni progetti. Le distanze e le condizioni delle strade rendono il lavoro sempre difficile e costoso.
Spesso, l’aiuto alle popolazioni indigene è rallentato dalle dispute di competenza tra i vari organismi amministrativi del governo federale, dello stato e del municipio. Da non sottovalutare, inoltre, il peso negativo della propaganda dei latifondisti e dei politici contro l’omologazione che per costoro continua ad essere un fallimento e che perciò dovrebbe essere rivisto.
Gioventù
La vita nella Raposa Serra do Sol è migliorata dai tempi del latifondo. Gli indigeni hanno ripreso le loro attività tradizionali e recuperato i valori culturali, anche se con difficoltà. C’è molta vita, organizzazione, spiritualità e senso di cittadinanza. C’è molta gioventù. La miseria è l’eredità lasciata dagli invasori che hanno violentato, bruciato case, chiese, scuole, centri sanitari. Queste persone rappresentano tuttora una minaccia all’autonomia e alla dignità delle popolazioni indigene.
Jaime C. Patias Consigliere Generale dei missionari della Consolata
Noi siamo Makuxi
Lungo il Rio Branco. Viaggio a Roraima?/ 3
La battaglia per la demarcazione e l’omologazione della terra indigena Raposa Serra do Sol è stata lunghissima e non pacifica. Ancora oggi, tra ricorsi e progetti di legge, non pare conclusa. Siamo stati a Barro (Surumu), in una comunità di indios makuxi.
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La Br-174 è diritta e con scarsissimo transito. Un cartello avverte che stiamo passando accanto a São Marcos, una delle tante terre indigene della parte nordorientale dello stato di Roraima.
La Br-174 prosegue fino a Pacaraima, al confine con il Venezuela. Partiti da Boa Vista, noi la lasciamo dopo circa 200 chilometri per girare a destra e imboccare una strada sterrata. Entriamo nella terra indigena Raposa Serra do Sol.
La comunità di Barro
Attualmente il 46% della superficie di Roraima è demarcata come terra indigena1. Quella di Raposa Serra do Sol è la seconda per estensione, dopo la terra degli Yanomami. È abitata da cinque popolazioni: Wapixana, Taurepang, Patamona, Ingarikó e soprattutto dai Makuxi2, l’etnia indigena più numerosa dello stato (con oltre 20mila persone).
Dopo lo sterrato, ecco un ponte su cui è stato collocato un posto di blocco. La polizia ci fa passare dopo un cenno del nostro guidatore. «Siamo arrivati», ci dice dom Roque Paloschi, vescovo di Roraima, che per tutto il tragitto ha pigiato sull’acceleratore dell’auto.
Il villaggio appartiene alle comunità makuxi di Barro. È una strada con qualche casa e alcuni luoghi pubblici. C’è un ambulatorio medico della Sesai, un locale per la foitura dell’acqua e una chiesetta. Sulla strada transita, libero e tranquillo, un gruppo di vacche: dopo l’agricoltura, l’allevamento costituisce un’importante attività di sostentamento per la popolazione indigena.
Dom Roque è qui per un impegno ufficiale: deve officiare la cresima a un gruppo di Makuxi. Dato che la chiesetta è troppo piccola per ospitare una celebrazione con 20 cresimandi, gli organizzatori hanno spostato tutto sotto una vicina tettornia, dove una cantante e alcuni musicisti stanno già provando, tra le bizze dell’impianto di amplificazione.
I cresimandi - donne e uomini di varie età - arrivano in gruppo indossando una elegante tunica rossa. Sono scalzi come lo stesso dom Roque. La cerimonia, molto partecipata e coinvolgente, si conclude con il taglio di una grande torta ricoperta di cioccolato.
Ad aiutare il vescovo c’è padre Carlos Eduardo Alarcón, missionario della Consolata colombiano, che dal 2007 lavora in area indigena. Carlos si offre di accompagnarci e raccontarci le vicende di questa comunità makuxi.
Sequestri, incendi, violenza (e impunità)
A Surumu c’è una scuola, la «Escola Estadual Indigena Padre José de Anchieta», di insegnamento fondamentale. Poco fuori del villaggio ce n’è una seconda. Viene annunciata da un cippo levigato posto al centro della stradina. Sulla pietra è stato scritto il nome: «Centro indígena de formação e cultura Raposa Serra do Sol». E il suo motto: «Sabedoria, trabalho, paciência».
«Saggezza, lavoro, pazienza: queste tre bellissime parole sono raffigurate dal libro, dalla zappa e dalla tartaruga», ci spiega padre Carlos.
Il Centro indigeno di formazione e cultura è nato nel 1997 su iniziativa del Consiglio indigeno di Roraima (Conselho Indígena de Roraima, Cir3) e della diocesi con l’obiettivo di formare tecnici specializzati in agricoltura, allevamento e gestione ambientale.
Il posto è bello: una collinetta alberata sulla e attorno alla quale sono sorti alcuni edifici. Ma la prima impressione è incompleta. Avvicinandoci ci accorgiamo che una parte delle costruzioni sono scatole vuote: hanno soltanto i muri estei. È tutto ciò che rimane della missione Surumu fondata dai missionari e missionarie della Consolata4.
Schierata al fianco delle popolazioni indigene e a favore della demarcazione in area continua delle loro terre, la missione era invisa ai bianchi che di quelle terre si erano impossessati. Insulti, intimidazioni e violenze erano all’ordine del giorno. Quando il ministro Marcio Thomas Bastos annunciò che il presidente Lula avrebbe firmato l’omologazione di Raposa Terra do Sol, le azioni dei fazendeiros bianchi si fecero più eclatanti a Boa Vista e in tutto lo stato. Nel gennaio del 2004 la missione fu assaltata e tre missionari della Consolata furono sequestrati e tenuti in ostaggio per alcuni giorni. Gli autori erano un gruppo di indigeni contrari alla demarcazione, ma dietro di loro si nascondevano i bianchi (e la chiesa evangelica della regione)5. Quasi un anno e mezzo dopo - era l’aprile del 2005 - Lula firmò il decreto d’omologazione.
Anche in questo caso la reazione fu violenta. «Il 17 settembre - racconta padre Carlos - oltre un centinaio di indios assaltò la missione. Vennero devastati e bruciati la chiesa, la mensa e il dormitorio degli studenti, una parte dell’ospedale e degli alloggiamenti delle suore compresa la cappella, la biblioteca e la sala per gli incontri. Un professore fu picchiato. Non ci furono altre vittime soltanto perché quel giorno i missionari, le suore e la coppia di volontari laici erano fuori sede. Come nel 2004, anche in questo caso i mandanti erano i fazendeiros guidati da Paulo César Quartiero». Quella di Paulo César Quartiero è una storia di potere e impunità. È stato il latifondista (produttore di riso) più importante della regione, responsabile della maggior parte delle azioni violente contro la demarcazione, almeno fino al 2009. In quell’anno il Supremo tribunale federale obbliga i non-indigeni a lasciare Raposa. I media si dividono. Alcuni si schierano contro la decisione. Altri parlano di evento storico: per la prima volta sono i latifondisti a doversene andare (dietro indennizzo) e non gli indigeni. Quartiero, sempre impunito, cambia strategia. Nel 2010 acquista 12 mila ettari di terra sull’isola di Marajó, nello stato del Pará (tra l’altro, innescando anche lì una serie di conflitti). Nello stesso anno viene eletto deputato federale, distinguendosi subito per la sua attività anti indigena. Nell’ottobre del 2014 viene eletto vicegovernatore di Roraima. Quello che farà nella sua nuova veste lo vedremo nei prossimi mesi.
Oggi i corsi del Centro di formazione e cultura Raposa Serra do Sol sono seguiti da 32 studenti di varie etnie. Accanto alle discipline classiche (matematica, chimica, biologia, ecc.), vengono insegnate la cultura e la tradizione indigene. Perché si vogliono preparare tecnici, ma anche leaders comunitari. Questo legame studenti-comunità è stato rinforzato dall’introduzione del sistema dell’alternanza (sistema de alteância), come ci spiega il cornordinatore: «Sono 4 anni di studio, ma ogni 2 mesi gli alunni tornano nelle proprie comunità per mettere in pratica ciò che qui stanno apprendendo».
Anselmo parla con voce bassa, però l’orgoglio indigeno traspare chiaramente dalle sue parole. «In ragione della sua funzione, il centro è sempre stato visto come una minaccia da parte degli invasori, garimpeiros o arrozeiros. Per questo lo attaccarono». Il cippo incontrato all’entrata del centro non riportava soltanto il motto «Saggezza, lavoro, pazienza», ma anche tre altre parole, che sintetizzano il progetto politico delle comunità indigene: terra, identità e autonomia. Un progetto malvisto dalle autorità locali.
«Il governo di Roraima - spiega Anselmo - continua ad attuare una politica anti indigena. A tal punto che ha creato proprie organizzazioni indigene per dividerci e per contrastarci dal di dentro, cercando di impedirci di attuare i nostri progetti»6.
Quello di Anselmo non è un giudizio influenzato dall’essere parte in causa. I governi di Roraima hanno sempre contrastato i diritti indigeni e in particolare la demarcazione in area continua. Il progetto era (ed è) di demarcare le terre indigene in isole, dividendo in tal modo non soltanto l’area geografica, ma le stesse popolazioni indigene (demarcação contínua versus demarcação em ilhas).
Risaliamo sull’auto di dom Roque. Lasciamo la comunità makuxi e Raposa Serra do Sol. Ci aspettano 200 chilometri sull’asfalto della Br-174 prima di rientrare a Boa Vista, capitale di Roraima. Una capitale bianca che non ha mai nascosto la propria insofferenza per le terre indigene e i suoi abitanti.
Paolo Moiola(fine terza puntata - continua)
Note
1 - Cfr. Instituto Socioambiental (Isa), Diversidade Socioambiental de Roraima, São Paulo 2011, pag. 19.
2 - Il termine «makuxi» si può incontrare scritto anche come «macuxi». L’eventuale accento di makuxí e Surumú viene utilizzato soltanto per facilitare la pronuncia in lingua italiana.
3 - Il sito del Consiglio indigeno di Roraima: www.cir.org.br.
4 - Sulla missione di Surumu si veda il dossier firmato da Consiglio indigeno di Roraima, Benedetto Bellesi e Carlo Miglietta, Anche gli angeli perdono le ali, in MC luglio-agosto 2001. 5 - Si tratta della chiesa evangelica della Assembléia de Deus, una delle più potenti in Brasile. Sul tema si veda: Folha de S.Paulo, 28 agosto 2008. 6 - Si tratta delle organizzazioni Arikon, Alicidir e Sodiur (Sociedade de Defesa dos Índios Unidos do Norte de Roraima). Quest’ultima, in particolare, si è resa responsabile della distruzione della missione di Surumu nel settembre del 2005.
Paolo Moiola
Dalla montagna del vento
Invasioni, epidemie, distruzioni. Davi Kopenawa, sciamano e voce internazionale del popolo yanomami, ha conosciuto e pagato sulla propria pelle l’incontro con l’uomo bianco. Con la forza della sua intelligenza è riuscito a non farsi fagocitare. Oggi è conosciuto in tutto il mondo e la causa indigena ha trovato in lui un rappresentante di grande spessore, rispettato e ascoltato. Lo abbiamo incontrato nella sede di Hutukara, a Boa Vista.
Boa Vista. La sede dell’associazione si trova in una via tranquilla. La si nota
immediatamente perché sul muro di cinta della casa che la ospita è stato
disegnato il suo logo multicolore. Il nome Hutukara rimanda al mito yanomami sull’origine del mondo, quando una parte della vecchia volta celeste cadde formando la terra attuale (Urihi).
Nella stanza d’entrata incrociamo un paio di persone che via
radio stanno comunicando con qualche villaggio indigeno. Di lì a poco compare il padrone di casa. Capelli neri e lisci, volto tondo, una collanina nera al collo, indossa una maglietta bianca con inserti verdi e dei pantaloncini a
scacchi, proprio come un bianco. Ma bianco non è, anche se ha spesso corso il
rischio di diventarlo o di apparire tale agli occhi degli altri. Lui è Davi
Kopenawa Yanomami, sciamano, presidente di Hutukara, ma anche noto portavoce internazionale del popolo yanomami. È arrivato nella capitale proveniente da Watoriki, il villaggio yanomami il cui nome significa «montagna del vento».
Davi non lesina sorrisi, in particolare all’amico Carlo Zacquini, un napë (non-Yanomami) conosciuto nel lontano 1977. Fratel Carlo ha
portato con sé The Falling Sky. Words of a Yanomami Shaman, l’edizione inglese del libro autobiografico scritto da Davi assieme all’antropologo francese Bruce Albert. Glielo consegna per farsi fare una dedica. Davi si siede al tavolino e inizia a scrivere. Lo fa lentamente scandendo a voce alta ogni parola scritta in lingua yanomae sulla pagina bianca.
Nel frattempo i nostri programmi subiscono un imprevisto rallentamento. Si presenta un giornalista di San Paolo, che naturalmente ha
fretta. Ci chiede di parlare per primo con Davi. «Soltanto pochi minuti», ci assicura. Ci facciamo da parte, pur sapendo di rischiare, con l’arrivo del tramonto, di fare foto e riprese senza la luce naturale (come infatti avverrà). Fratel Carlo ci fornisce immediatamente una lettura di quanto accaduto: «Oggi i bianchi lo cercano. Spesso lo adulano, o gli fanno proposte che per molti altri sarebbero allettanti. Per Davi non è facile».
Occupiamo il tempo a conversare con una delle persone intente a parlare via radio. Lucivaldo è tecnico d’infermeria e lavora al polo
base di Demini, che serve anche Watoriki. «È un lavoro – spiega Lucivaldo – che richiede molta disponibilità perché il territorio è di difficile accesso. Si lavora nella comunità per 30 giorni, lontani dalla propria famiglia. Poi si torna in città per 15 giorni». La comunità dove Lucivaldo lavora conta 190 indigeni, seguiti da un’équipe di 4 persone, un infermiere e 3 tecnici d’infermeria.
Dopo circa mezz’ora torna Davi, finalmente libero di conversare con noi. Ci sistemiamo all’aperto, in un cortiletto interno della casa.