I Rohingya del Myanmar, ancora sfollati e rifugiati
A sette anni dallo scoppio della crisi che interessò il popolo dei Rohingya, gruppo etnico di religione musulmana stanziato nella parte occidentale del Myanmar, la comunità internazionale è ancora alle prese con una questione di difficile soluzione.
Sette anni fa, avvenne il primo esodo a seguito dello sfollamento forzato su larga scala di 750mila Rohingya che, sotto la pressione dell’esercito birmano, per sfuggire alla pulizia etnica, varcarono il confine e si stabilirono in Bangladesh, in particolare nella località di Cox’s Bazar.
La loro vita in campi profughi, organizzati in quell’area di confine grazie al governo di Dacca e agli aiuti della comunità internazionale, apparve fin dal principio molto critica.
Difficile la distribuzione di beni di prima necessità per il sostentamento. Per non parlare di istruzione, sviluppo, reinserimento sociale o occupazione per offrire un futuro agli sfollati che risultano apolidi, dunque privi di ogni diritto e riconoscimento.
Sconsigliato anche il piano di rimpatrio nell’ex Birmania: nello Stato di Rakhine, in Myanmar, l’escalation del conflitto ha peggiorato le condizioni dei Rohingya rimasti nei distretti originari.
Data la guerra civile in corso nel Paese, lo sfollamento interno è ai massimi storici, oltre 3,3 milioni di sfollati all’interno del Paese. Tra questi, circa 130mila sono Rohingya che si trovano nel Rakhine settentrionale e vivono in mezzo al fuoco incrociato, vittime dei combattimenti tra l’esercito regolare e i miliziani dell’Arakan army, organizzazione militare locale tra quelle che sfidano la giunta birmana al potere.
«I civili di etnia Rohingya in Rakhine stanno sopportando il peso delle atrocità commesse dall’esercito del Myanmar e dall’opposizione dell’Arakan Army», ha spiegato Elaine Pearson, direttore per l’Asia di Human Rights Watch, presentando l’ultimo rapporto sugli abusi nell’area.
In Bangladesh, a sua volta attraversato dalla crisi politica culminata con la fuga dell’ex presidente Sheikh Hasina, il governo provvisorio di Muhammad Yunus ha mostrato una certa solidarietà auspicando che i rifugiati Rohingya possano rientrare in Myanmar in piena sicurezza, dignità e diritti. Sebbene, dunque, un ritorno dignitoso, volontario e sostenibile in Myanmar resti la soluzione ricercata dalle autorità, mancano le condizioni sul terreno per renderla possibile.
In attesa di una soluzione, la vita per i Rohingya in Bangladesh resta sospesa. I rifugiati hanno bisogno di assistenza immediata e di aiuto per costruire il loro futuro: il 52% di loro ha meno di 18 anni e molti sono nati in esilio o hanno trascorso i primi anni di vita nei campi profughi.
Nel 2024, le agenzie umanitarie hanno richiesto 852 milioni di dollari per assistere circa 1,3 milioni di persone, ma i finanziamenti internazionali per coprire quella necessità sono insufficienti. Per questo le razioni alimentari sono state ridotte, i centri sanitari devono far fronte alla carenza di personale medico e di medicinali, la bassa qualità dell’acqua causa epidemie di colera ed epatite; le opportunità di formazione professionale sono ridotte.
La nazione, poi, affronta inondazioni catastrofiche che colpiscono milioni di cittadini e anche comunità che ospitano i rifugiati, aggravando la situazione che, nota l’Acnur, richiede allora «un sostegno globale ampio e sistematico».
Paolo Affatato
Donne. Perseguitate due volte
Le donne delle minoranze religiose sono la fascia più colpita dalle persecuzioni. La maggior parte sono cristiane, ma non mancano altri casi, come quello delle musulmane rohingya o delle yazide. Rapite, convertite forzosamente, picchiate, violentate, tenute segregate.
Rapite, violentate, schiavizzate. Le donne delle minoranze religiose sono spesso perseguitate due volte: innanzitutto perché appartenenti a gruppi tenuti ai margini della società, poi perché, appunto, donne.
Accade in Pakistan, Nigeria, Burkina Faso, Egitto, solo per fare qualche esempio, e per la gran parte si tratta di donne cristiane.
Non mancano, però, casi che riguardano altri gruppi religiosi.
In Myanmar, per esempio, Paese a maggioranza buddhista nel quale da anni viene perseguitata la minoranza musulmana dei Rohingya, una donna non può sposare un musulmano se non a rischio della vita.
Qualche anno fa a Pegu, una delle più grandi città del Paese, una folla impazzita incendiò l’intero quartiere di una ragazza buddhista per punirla della sua relazione con un musulmano.
Stesso destino di discriminazione spetta alle donne rohingya. «Nascere donna ed essere di origine rohingya significa, molto probabilmente, essere destinata a una vita fatta di privazioni e discriminazioni di natura etnica, religiosa e sessuale», sottolinea Amnesty international.
Cristiane, le più perseguitate
Tornando alle donne cristiane che vivono in paesi nei quali la loro fede è in minoranza, come in molte zone dell’Asia, del Medio Oriente o dell’Africa, esse «sono le prime vittime», afferma la fondazione pontificia Aiuto alla Chiesa che soffre (Acs) in un rapporto di novembre 2022: «Se credere in Gesù Cristo implica seri rischi in molte parti del mondo, essere una donna cristiana è ancora più difficile. In molti paesi in cui vige la persecuzione religiosa, la violenza contro le donne è spesso usata come arma di discriminazione».
Sulla stessa linea sono i dati emersi nella ricerca The 2023 gender report presentata, in occasione della giornata internazionale della donna dell’8 marzo 2023, da Porte Aperte/Open Doors, organizzazione internazionale che sostiene i cristiani perseguitati e che aggiorna ogni anno, con la sua World watch list, la classifica dei paesi dove si registrano le maggiori persecuzioni a causa della fede.
«Per le donne – sottolinea il rapporto – la violenza sessuale e fisica, il matrimonio forzato e la riduzione in schiavitù, uniti alle minacce e al controllo dei cellulari, sono elementi che le intrappolano in una ragnatela soffocante».
Il report presenta anche la classifica dei paesi nei quali le donne sono perseguitate sia per la loro fede che per il loro genere.
Al primo posto troviamo la Nigeria. A seguire Camerun, Somalia, Sudan, Siria, Etiopia, Niger, India, Pakistan e Mali.
Nelle regioni settentrionali della Nigeria, dove i cristiani subiscono i livelli più alti di violenza, le donne cristiane sono vittime di rapimenti, spostamenti forzati, traffico di esseri umani, uccisioni e violenza sessuale.
La punta di un iceberg
I casi di donne rapite, violentate, convertite forzosamente, uccise che emergono nelle cronache sono solo la punta di un iceberg. Spesso, infatti, le famiglie, per paura o per vergogna, non denunciano i crimini subiti.
Secondo l’Associazione cristiana della Nigeria, per esempio, il 90 per cento delle donne e delle ragazze detenute dagli islamisti è di fede cristiana. In Pakistan, il Movimento per la solidarietà e la pace ha stimato che le cristiane costituivano, già dal 2014, fino al 70 per cento delle ragazze e delle giovani di minoranze religiose che ogni anno erano costrette a convertirsi e a contrarre matrimonio.
Ma le denunce non corrispondono mai alla reale entità del fenomeno.
Un altro dato chiave, che emerge frequentemente nelle ricerche sull’argomento, è la maggiore incidenza di persecuzioni sessuali e religiose ai danni delle donne in aree di conflitto.
Questo è stato particolarmente evidente durante la presa del potere da parte dell’Isis (Daesh) su alcune aree della Siria e dell’Iraq. In quelle zone, in quegli anni – secondo il dossier del luglio 2020 della Coalition for genocide response intitolato Without justice and recognition the genocide by daesh continues – vigeva «un sistema organizzato di schiavitù sessuale delle minoranze».
Nadia Murad e le schiave sessuali
A raccontare le atrocità subite in prima persona, perché yazida, cioè donna della minoranza religiosa che vive per lo più nella Piana di Ninive, in Iraq, è stata Nadia Murad, Premio Nobel per la pace 2018. Nel suo libro L’ultima ragazza. Storia della mia prigionia e della mia battaglia contro l’Isis, edito da Mondadori, l’attivista per i diritti umani racconta: «A un certo punto non restano altro che gli stupri. Diventano la tua normalità. Non sai chi sarà il prossimo ad aprire la porta per abusare di te, sai solo che succederà e che domani potrebbe essere peggio». È il racconto dello stupro usato come arma di guerra. È la storia del rapimento e della prigionia che nel 2014 ha cambiato la vita di questa ventenne yazida che sognava una vita normale.
Nadia ha deciso di denunciare al mondo le violenze subite nella speranza di essere lei «l’ultima» del suo popolo ad aver vissuto quel genere di sofferenze.
La prassi di ridurre le donne delle minoranze religiose in schiave sessuali è presente anche altrove. Ad esempio in Mozambico e in altri paesi nei quali il fondamentalismo religioso ha gettato nel caos intere comunità.
Le violenze dei gruppi terroristici e islamisti hanno inoltre determinato una forte intensificazione del traffico di esseri umani.
C’è poi il caso della Nigeria dove si sono ripetuti diversi rapimenti di massa nei confronti delle donne cristiane da parte del gruppo jihadista di Boko Haram.
L’intento della milizia vicina all’Isis è, tra gli altri, quello di cacciare le comunità cristiane dai loro villaggi (cfr. MC 10/2016).
Asia Bibi e le altre
La persecuzione e le sofferenze non sono però solo numeri e dati, sono soprattutto storie di persone concrete.
Il caso che ha avuto maggiore rilievo sui media internazionali è stato quello della donna cristiana pachistana Asia Bibi che, dopo dieci anni di carcere duro e con una condanna a morte che pendeva sulla sua testa con l’accusa di blasfemia, ha ritrovato la libertà nel novembre 2018.
Oggi vive in Canada con la sua famiglia perché restare in Pakistan sarebbe stato per lei e i suoi familiari troppo pericoloso.
Ma ci sono tante altre Asia Bibi nel mondo. In Somaliland, ad esempio, due donne sono in carcere dal 2022 perché colpevoli di essere cristiane. Una delle due donne si chiama Hanna Abdirahman Abdimalik. Il 30 maggio 2022 è stata arrestata per essersi convertita al cristianesimo e per aver condiviso la sua fede attraverso un gruppo cristiano su
Facebook. La polizia non ha esibito un mandato d’arresto, ha interrogato la ragazza senza la presenza di un avvocato e le avrebbe ripetutamente domandato chi l’avesse convertita, aggiungendo che, qualora avesse rivelato l’identità della persona, oppure si fosse nuovamente convertita all’islam, sarebbe stata rilasciata. Hanna ha rifiutato di abiurare e il 27 giugno le forze di polizia del Somaliland hanno concluso le indagini presentando un fascicolo a suo carico al procuratore regionale di Hargeisa. Il procuratore ha quindi formalizzato le accuse di «crimini contro la religione dello stato» nei suoi confronti. I capi di accusa sono: blasfemia, oltraggio alla religione islamica e al Profeta dell’islam tramite social media, e diffusione del cristianesimo. Il 6 agosto 2022 il tribunale regionale l’ha condannata a cinque anni.
Il secondo caso riguarda la ventisettenne Hoodo Abdi Abdillahi, condannata a sette anni di carcere per essersi convertita, anche lei, al cristianesimo.
La donna è reclusa dall’ottobre 2022 presso il carcere femminile di Gebiley. Nel corso del processo non avrebbe avuto un avvocato difensore, mentre durante la reclusione non avrebbe potuto avere contatti con la famiglia.
Attualmente i due casi sono all’esame della Corte d’appello del Somaliland, in attesa di una sentenza definitiva.
Bangladesh, istruzione negata
Rahima Akter Khushi, 20 anni, è una giovane rifugiata rohingya, la maggiore di cinque fratelli nati nel campo profughi di Kutupalong a Cox’s Bazar, in Bangladesh. A raccontare la sua storia è Amnesty international.
Dopo aver completato gli studi superiori, a gennaio 2019 Rahima si era iscritta alla Cox’s Bazar international university con il sogno di conseguire una laurea in giurisprudenza. Dopo che un’agenzia di stampa internazionale l’aveva inserita in un video come una delle pochissime giovani donne rohingya in grado di raggiungere l’eccellenza accademica, il 6 settembre 2019, l’università le ha proibito di proseguire gli studi poiché «secondo le regole del governo del Bangladesh, nessun Rohingya può studiare in alcuna università pubblica o privata».
Negare l’istruzione alle giovani delle minoranze religiose è una delle armi di persecuzione: ad esempio in Nigeria è accaduto più volte che Boko Haram rapisse studentesse il giorno prima degli esami per negare loro un futuro.
Magda, rapita in Egitto
In Egitto, negli ultimi anni, la situazione dei cristiani è migliorata dopo l’ondata di attentati e vittime che c’erano stati nel periodo in cui era forte la presenza nel Paese del movimento dei Fratelli musulmani.
Se in generale nel Paese rimangono strascichi di emarginazione, ad esempio nel mondo del lavoro, situazioni nelle quali i cristiani continuano a essere penalizzati, è soprattutto nel Sud che si manifestano ancora oggi le forme più forti di persecuzione: una di queste è la piaga dei rapimenti di donne copte che avvengono lontani dagli occhi dei media, anche a causa del fatto che la maggior parte dei casi non viene denunciata.
Magda Mansur Ibrahim, cristiana copta ventenne, il 3 ottobre del 2020 è stata sequestrata mentre viaggiava dalla sua casa di Al-Badari verso il college di Assiut.
A riferire la sua vicenda è stato il portale Coptic solidarity. Sebbene la famiglia abbia denunciato il caso alla polizia, le autorità non hanno preso provvedimenti.
Tre giorni dopo il rapimento, è stato pubblicato sui social media un video in cui Magda appariva con indosso un hijab e dichiarava di essersi convertita all’islam sei anni prima, di essere fidanzata con un musulmano e, alla fine del filmato, chiedeva di non essere cercata.
I suoi genitori non si sono arresi e alla fine, poco meno di una settimana dopo, Magda è stata restituita loro. Dopodiché la famiglia ha chiuso ogni comunicazione senza fornire ulteriori informazioni circa il rapimento. Alcuni ipotizzano che tra le condizioni poste per la liberazione della ragazza vi fosse il divieto di parlare con i media, di sporgere denuncia o di cercare di scoprire l’identità del rapitore.
Gli stupri in Pakistan
Era il 14 febbraio 2021 quando la trentenne Neelam Majid Masih, cristiana, è stata aggredita da Faisal Basra. Lui era armato quando è entrato in casa di Neelam nel villaggio di Nanokay, Punjab, Pakistan. Sotto minaccia della pistola la ragazza è stata trascinata nella camera da letto, picchiata e violentata. Poi un vicino e cugino di secondo grado della donna è intervenuto costringendo Basra alla fuga.
A raccontare la vicenda è il portale persecution.org: «Pretendeva che lo sposassi e che mi convertissi, ma io ho rifiutato dicendo che non ero disposta a rinnegare Gesù. Lui ha risposto che mi avrebbe uccisa se non avessi accettato», ha raccontato la ragazza. La giovane, che ha riportato ferite al viso, alla spalla e alle gambe, ha sporto denuncia contro Faisal Basra, accusandolo di stupro. L’avvocato della vittima, Sumera Shafique, chiedendo aiuto all’associazione Aiuto alla Chiesa che soffre, ha sottolineato: «Neelam è determinata a raccontare la propria storia per porre fine alle aggressioni contro le ragazze e le giovani donne cristiane».
Schiava in Mozambico
Nel rapporto Ascolta le sue grida già citato si racconta la storia di Aana (nome di fantasia), giovane cristiana del Mozambico, rapita da un gruppo armato.
La giovane, dopo la sua liberazione, ha riferito che alle ragazze cristiane veniva imposta una «scelta»: «Avevamo tre opzioni. Le prime due erano essere selezionate da uno dei soldati per diventarne la moglie oppure essere scelte da alcuni uomini, non per il matrimonio, ma per seguire le norme più radicali dell’islam. Loro istruivano le giovani donne a diventare vere islamiche e brave madri perché credono che la donna sia colei che educa la famiglia a seguire i precetti nel modo corretto. La terza opzione riguardava le cristiane che non volevano convertirsi. Queste sarebbero state scelte dai soldati per essere loro schiave».
Aana ha spiegato che il suo indottrinamento è iniziato non appena è stata presa in ostaggio: «Il giorno in cui siamo arrivate ci hanno letto dei passi del Corano e hanno parlato dell’ingiustizia nel Paese, degli abusi sociali e della corruzione. Una delle cose che ripetevano più spesso era che la democrazia era demoniaca, perché in Mozambico permetteva ai politici di rubare e alla gente di morire di fame senza alcun tipo di assistenza. Cercavano di indottrinare le donne perché accettassero la loro proposta». Alla fine, la pressione psicologica conduceva le ragazze a «cambiare parte», ha spiegato la giovane. In condizioni di riduzione in schiavitù, spesso è l’unica via d’uscita.
Aana è riuscita a scappare e a denunciare. Oggi non è più prigioniera.
Manuela Tulli
Cari Missionari: di Rohingya, Trasparenza e preghiera e missione
Rohingya
Preg. P. Gigi,
vorrei condividere alcune riflessioni sul dossier sui Rohingya che mi aveva gentilmente mandato. Il testo è buono anche se non aggiornato, per questioni di tempo, alla seduta del Tribunale dei Popoli che ha avuto luogo il 6-7 marzo 2017 a Londra. C’è però un punto su cui ho avuto qualche perplessità. L’articolista sembra essere incorso in un’ingenuità quando riferisce un’opinione secondo cui la situazione di questa popolazione sembra più difficile ora che non sotto la dittatura. Ma è chiaro che sotto la dittatura tutti erano compressi e bloccati e nessuno poteva fare ascoltare le proprie ragioni, né questo popolo né nessun altro gruppo o persona perseguitati, ma questo non vuol dire che «si stava meglio quando si stava peggio», facile slogan qualunquista e filofascista. Io sono sempre convinta che Aung San Suu Kyi sia una persona straordinaria e piena di buoni propositi, ma questioni così antiche e complesse hanno bisogno comunque di un tempo un po’ disteso per la loro risoluzione. Quindi segnalare e sollecitare va bene, ma condannare no. Forse l’autore non voleva dire questo, ma la forma usata induce un po’ a pensarlo e mi sembra perlomeno un’ingenuità. Cordiali saluti. Grazie,
Maria Rosaria Salvini 26/07/2017
Abbiamo passato la email a Piergiorgio Pescali per un suo commento.
Nel mio lungo dossier (e soprattutto nei documenti, interviste, libri elencati come riferimenti alla fine del dossier e che ne sono l’ossatura) delle mancanze di Aung San Suu Kyi (Assk) si è parlato ben poco. Anzi, direi quasi nulla rispetto a quello che avrei dovuto fare. E volutamente, proprio perché si è voluto lasciare spazio alla comprensione della complicata vicenda dei Rohingya che ha le sue radici nella colonizzazione britannica, è scoppiata durante la Seconda Guerra Mondiale con la lotta tra britannici (appoggiati dalle etnie non bamar) e giapponesi (appoggiati dal governo di Aung San e dai Bamar [Birmani]), per divampare negli anni Settanta, durante la giunta militare.
Se c’è stata «ingenuità», allora sono in buona compagnia, perché della stessa ingenuità si sono «macchiati» Muhammad Yunus, Josè Ramos Horta, Shirin Ebadi, Desmund Tutu, Malala Yousafzai, Emma Bonino, Oscar Arias, lo stesso Ufficio di Diritti Umani delle Nazioni Unite, l’Ufficio di Coordinamento degli Affari Umanitari (Unocha), l’Unicef e molte altre singole persone e agenzie umanitarie che hanno chiesto (inutilmente) ad Assk di condannare «senza se e senza ma» le violenze di cui sono vittime i Rohingya e di mostrare (inutilmente) la volontà del governo di risolvere il problema non solo dei musulmani, ma delle decine di etnie che costellano il paese. Hanno peccato di ingenuità anche quelle persone che per anni hanno sostenuto Aung San Suu Kyi ed oggi si ritrovano inevitabilmente delusi a criticare il suo operato. Famosa l’intervista (proprio sui Rohingya) della Bbc (una delle emittenti che più hanno appoggiato la Lady durante il periodo di prigionia) in cui la stessa Assk ad un certo punto è sbottata dicendo che nessuno l’aveva avvisata che l’intervistatrice, troppo precisa nell’elencare le mancanze del governo, era musulmana. Già, perché la signora Assk, dopo aver tanto predicato contro il regime militare, oggi si trova a giocare dalla stessa parte del Tatmadaw (l’esercito birmano), negando i diritti ai lavoratori, negando le terre ai contadini di Monywa, negando ai Kachin il diritto all’autodeterminazione e giustificando le rappresaglie dell’esercito. Tutto in nome di una identità unitaria del paese.
Ho iniziato a frequentare il Myanmar nel 1988, quando ancora si chiamava Birmania. Ero presente al primo comizio pubblico di Assk e ho incontrato la Lady diverse volte prima, durante e dopo gli arresti domiciliari, quando in Occidente era una perfetta sconosciuta. Ho incontrato Michel Aris, il marito, il primo figlio Alexander e i numerosi professori con cui Assk ha lavorato ad Oxford. La figura che ne ho tratto è molto diversa dall’ Assk edulcorata e iconica propinata dal film agiografico di Luc Besson, forse per via degli astii e dei rancori che si erano instaurati tra queste figure e Assk. La sua miopia politica è sempre stata evidente, ma è stata celata da validi collaboratori (oggi purtroppo morti o troppo anziani) e dal fatto che, dalla sua casa – in cui era agli arresti domiciliari -, poteva criticare (anzi, per usare un termine più adatto, «condannare») senza dover dimostrare le sue capacità di governo. Ma quando si è trovata a dover affrontare i problemi che lei stessa, con ingenuità, denunciando, aveva detto che avrebbe risolto, ecco che è crollata perdendo consensi.
Assk ha accentrato su di sé tutte le cariche più importanti del governo, anche quelle che permettono di interloquire direttamente sul problema dei Rohingya (Assk è ministro degli Esteri, primo ministro, Consigliere di Stato, presidente del Comitato Centrale di pace nel Rakine, presidente del Comitato Unione e Dialogo, ministro dell’Ufficio del Presidente).
Sono stato espulso dal Myanmar di Than Shwe; diverse volte mi sono stati sequestrati appunti, fotografie, macchine fotografiche, registrazioni. Non sarò certo io, quindi, a chiedere il ritorno al regime militare, ma di fronte a quanto sta avvenendo non basta «segnalare», occorre anche «condannare» quello che è contro giustizia e democrazia.
Piergiorgio Pescali 09/08/2017
Trasparenza
Gentile direttore,
la lettera «Sorpresa e tristezza» (MC 7/2017 p.7) merita qualche ulteriore riflessione. Nessuno nega la possibilità, anche all’interno di una stimata congregazione come quella dei MC, che esistano mele marce. Succede nelle migliori famiglie […]. L’interesse delle rimanenti mele buone dovrebbe però essere quello di evitare che in futuro possano accadere fenomeni fraudolenti, e questo solitamente nelle diocesi e negli ordini religiosi non accade. Una gestione più trasparente dei beni mobili e immobili di proprietà sarebbe un valido antidoto. Se per esempio venisse rispettata la legge che impone di pubblicare i bilanci, e quindi rendere conto di come vengono amministrati i beni e quale provenienza abbiano, sarebbe sicuramente più difficile per i malintenzionati, interni ed esterni agli enti, agire in modo fraudolento.
La fondazione Missioni Consolata Onlus pubblica già da anni i bilanci, ma non evidenzia le proprietà e nulla viene riportato riguardo il loro utilizzo, anche se nella stragrande maggioranza dei casi queste informazioni non farebbero che aumentare il grado di soddisfazione in chi, riponendo in voi fiducia, vi affida donazioni e lasciti. L’ente cui lei appartiene è già innovativo: è abitudine infatti della maggior parte degli enti religiosi cattolici di nascondere ogni dato relativo, nonostante la Cei imponga da anni di redigere un bilancio anche alla più sperduta parrocchia, fino a quando l’ennesimo scandalo li obbliga a difendersi da accuse fondate urlando al complotto.
Gli amici protestanti su questo argomento sono avanti anni luce e vengono ripagati dall’opinione pubblica con un 8 per mille decuplicato rispetto al numero di fedeli. MC dovrebbe farsi promotore all’interno del mondo cattolico torinese, magari in compagnia dei Camilliani che hanno recentemente subito analoghe vicissitudini, di una campagna perlomeno torinese che invochi più trasparenza nelle gestioni economiche. Sono sicuro che troverebbe numerosi compagni di viaggio. Con sincero affetto,
Paolo Macina, Torino 04/07/2017
Caro Sig. Paolo,
concordo pienamente con lei sulla necessità della trasparenza, anche se ritengo che per essere davvero tale debba essere molto di più che un fatto legale o di pubbliche relazioni. Trasparenza si sposa anzitutto con giustizia, con onestà, con gratuità, con servizio e, per noi missionari e religiosi, con povertà. Per una vera trasparenza non basta certo aumentare o inasprire le leggi (dello stato, con 75mila leggi e 160mila norme varie), i canoni (del diritto Canonico, 1.752) o le normative (delle Costituzioni e Direttori di Diocesi e Istituti religiosi).
È una realtà che abbiamo sperimentato anche durante il nostro recente Capitolo generale: abbiamo una caterva di normative, documenti, direttorii, regolamenti, ma senza una profonda conversione personale, una vera passione per Gesù Cristo che diventa imitazione del suo stile di vita, tutto rischia di restare lettera morta. Grazie quindi della sua email, che esprime una preoccupazione che va ben oltre la nostra piccola realtà e coinvolge tutta la Chiesa.
Avevo preparato una lunga e articolata risposta, poi l’ho messa da parte perché troppo lunga per queste pagine. Ho fatto qualche ricerca e non mi risulta che esista una normativa precisa che impone agli enti religiosi di pubblicare i bilanci. Ci sono però tre punti chiave che tutti i documenti della Chiesa sottolineano: trasparenza, legalità e chiarezza. Fossero sempre applicati, avremmo risolto molti problemi.
Concludo con una mia considerazione. Gesù dice che dobbiamo valutare «dai frutti». Noi missionari della Consolata, e tutti gli altri missionari, non siamo un’organizzazione segreta di stampo mafioso o massonico, agiamo (e facciamo anche sbagli) alla luce del sole. Giudicateci dalle nostre opere.
In questi giorni di ferragosto abbiamo appena sepolto un missionario che in vita sua (50 anni di messa celebrati lo scorso anno) ha perso il conto di quanti milioni di lire (e forse di euro) ha maneggiato per aiutare i poveri e dare la possibilità a tantissimi bambini (quanti? non credo abbia mai tenuto il conto) di andare a scuola in Kenya, in Colombia e in Ecuador e costruirsi così un futuro diverso. Padre Giuseppe Ramponi è uno dei tanti Missionari della Consolata, l’810°, che ha dato tutto per amore, anche se ha fatto i suoi sbagli. La sua ricchezza e la sua debolezza? L’amore per i bambini poveri dell’Ecuador per i quali «rompeva» tutti, affidati ora al buon cuore dei suoi tanti amici.
Preghiera per ringraziare
Egregio sacerdote don Paolo Farinella,
sono particolarmente interessato alla sua rubrica «Non sappiamo pregare». Ogni sera dedico ore cercando di interpretare per un rinnovo della mia coscienza, un modo nuovo per ringraziare il Signore per quanto mi ha concesso nell’arco della mia vita: 83 anni. Purtroppo debbo rinunciare a malincuore, causa la mia scarsa preparazione teologica. Sono credente e praticante, apro e chiudo la giornata ringraziando il Signore, come mi ha insegnato la mia cara mamma. Le chiedo umilmente scusa per quanto espresso.
Domenico Musso Rivoli, 20/07/2017
Risponde don Paolo.
Carissimo Domenico, il suo modo di pregare altro non è che l’Eucaristia: ringraziare. È il vertice della preghiera cristiana. È vero che noi non sappiamo pregare (lo dice san Paolo!), ma è anche vero che lo Spirito Santo agisce in noi «sia che dormiamo sia che vegliamo» (sempre lo stesso san Paolo!). Mi permetta un piccolo suggerimento: non si accanisca più nel dedicare ore nell’interpretazione, si abbandoni soltanto, chiuda gli occhi e dica con san Tommaso, l’apostolo birichino: «Mio Signore e mio Dio». Il resto è in più. Pregare non è consumarsi nella ricerca, ma nell’imparare a «vedere Dio» con gli occhi del cuore. Lei è figlio, Dio Padre l’ama come è e non pretende nulla di più, perché lui è abituato a prendersi tutto con dolcezza e tenerezza: «Signore, non ho niente da darti, solo me stesso, prendimi così perché ti cerco con la stessa sete della cerva. Mi basta sapere che tu ci sei. Grazie e buon giorno… buona notte, Signore!». Un caro saluto affettuoso e grazie per la sua bella lettera.
Don Paolo Farinella 11/08/2017
Di pecorelle «buone» e altro ancora
Cari missionari,
ho ricevuto il numero di giugno [di MC, ed è] stata una gradita sorpresa, [vedere che] avete preso sul serio certe argomentazioni che non sono solo mie. Vorrei fare però delle precisazioni, [cominciando dal] titolo [perché] non intendevo discutere se siate o no ancora cattolici. Un giudizio temerario.
Titolo. Io intendevo enfatizzare che la rivista si occupa sempre più di cose collaterali. Le pagine più direttamente di formazione sono quelle di don Farinella che io poi ho criticato e ora aggiungo anche che non possono essere rivolte a tutti. Anzi lo sono, ma spesso sono o troppo difficili, o troppo provocatorie o troppo e solo per le pecorelle smarrite, troppo poco per quelle che non vorrebbero smarrirsi e per le quali ci sono sempre e solo rimproveri. Se però la scelta editoriale è questa lo si può dire, così si fa meno confusione. Però mi chiedo «chi si occupa delle pecorelle non smarrite?». In teoria sono 99 su 100, sappiamo che ora sono molte meno. Fa bene il pastore a inseguire quelle smarrite ma a me sembra che tanti pastori più che altro si occupino di rompere la staccionata e poi dicono, essendo noi ormai adulti, che non c’è né dentro né fuori (anzi guai a parlare di dentro e fuori, si è divisivi, scandalo) e le pecorelle «buone» devono con il dialogo convincere quelle altre. Anzi ormai siamo andati oltre e il dialogo non è più un mezzo ma il fine. Bisogna rimanere in dialogo, una sorta di stallo e se uno si convince, indurlo al dubbio che magari è meglio non convertirsi. Gesù però parlava di dentro e fuori, non è venuto a portare la pace, anzi la spada, era divisivo e ci ha indicato come esempio i bambini che credono con fiducia perché ha parlato la mamma e non gli adulti che discutono sempre tutto per partito preso. Mi scusi ma anche questa cosa dei cristiani adulti non mi va bene. Faccio un discorso fondamentalmente logico. Io credo che quelli che si definiscono come cristiani adulti intendano dire che hanno prima, diciamo, sentito il messaggio cristiano, l’hanno sottoposto a critica, girato e rigirato, hanno voluto fare come Tommaso e mettere il dito nella piaga, e poi e solo poi hanno accolto il messaggio. Ed è una cosa meritevole ma rimane il fatto che Gesù ama Tommaso ma «consiglia» di non fare come lui. L’esempio che indica è quello dei bambini e di quelli che credono senza mettere il dito nella piaga.
Fintanto che non si spiega in modo convincente quanto tutta questa pastorale creativa di questi cristiani adulti si accorda con gli insegnamenti di Gesù si fa una gran confusione, anzi purtroppo è già stata fatta, e quindi si fa un danno alla Chiesa. Io credo che faccia cosa buona il cristiano che non dice di essere adulto così si evita almeno la confusione. Di tutto c’è bisogno tranne che di ulteriore confusione.
[…] Ribadisco i complimenti per l’ottimo articolo riguardo alla Siria e tutta l’informazione che fate riguardo il Medio Oriente che dovrebbe passare sui telegiornali e senza la quale si ha una immagine distorta della situazione. Cordiali saluti
Andrea Sari
10/07/2017
Caro Sig. Andrea,
come le ho scritto personalmente, ho tagliato la sua email che avrebbe occupato da sola non tre, ma ben quattro pagine. Cercherò di pubblicarne altre parti nei prossimi numeri. Per quanto riguarda il titolo, ha ragione. Sono caduto nella trappola di voler attirare l’attenzione a tutti i costi. Come quel titolo di prima pagina letto in questi giorni su un quotidiano: «Sala giochi in chiesa». Che? Hanno messo i videogames o le slot machine? No, solo un angolo dove i bambini possono giocare in pace.
A risentirci. Intanto lascio ai nostri amici lettori dire la loro sulle pecorelle non smarrite. Ogni bene a lei.
Preghiera e missione
Caro Direttore,
allego una preghiera ispirata dal Messaggio di Papa Francesco per la prossima 91a Giornata Missionaria Mondiale.
La missione al cuore della fede cristiana.
O Signore nostro Gesù Cristo crocifisso e glorioso,
Radunati attorno a Te, apostolo del Padre, continuamente ci riscopriamo Tuoi discepoli-missionari, accogliendo con intima gioia il Tuo invito ad annunciare il Vangelo dell’amore. Il fondamento della missione della Tua Chiesa, di cui siamo membra vive, è la forza trasformatrice del Tuo Vangelo, che è la Tua stessa Persona. Nutrendoci con la Tua Parola, che è Spirito e vita, riceviamo luce per seguirti con fiducia e coraggio, riconoscendoti nostra Via e indicandoti ai nostri fratelli.
Alla Tua scuola sperimentiamo che sei la Verità che ci rende liberi da ogni egoismo, ricevendo la Tua Vita. In ubbidienza al Padre Tuo e nostro, desideriamo imitarti, lasciandoci trasformare dallo Spirito Santo perché la nostra vita sia culto, proclamazione e irradiazione di Te, che continuamente ti fai carne in ogni situazione umana.
Tu mediante la missione della Tua Chiesa – tempo provvidenziale della salvezza nella storia – continui a evangelizzare e agire, diventando nostro contemporaneo, affinché chi ti accoglie con fede umile e carità operosa sperimenti il potere trasformante del Tuo Spirito vivificante, che rende fecondo il cuore e il creato, come fa la pioggia con la terra.
La Tua Pasqua è energia vitale che rinnova il mondo, facendo germogliare la risurrezione dove tutto sembra che sia morto. Chi si apre al Tuo Vangelo, si scopre gioiosamente chiamato a partecipare al mistero della Tua passione, morte e risurrezione.
Mediante il Battesimo liberi gli uomini dal dominio del peccato e della morte, facendoli rinascere come nuove creature dall’acqua e dallo Spirito. Mediante la Cresima effondi il sigillo del Tuo Santo Spirito, che fortifica i battezzati indicando loro itinerari e metodi nuovi di testimonianza e di vicinanza al prossimo. Mediante l’Eucaristia, farmaco d’immortalità, Ti fai Pane del cammino per continuare attraverso di noi, Tuo Corpo e Tua Sposa, la Tua missione di Buon Samaritano, curando le ferite dell’umanità dolorante, e di Buon Pastore, cercando appassionatamente chi si è smarrito per sentieri contorti e senza meta.
Divino Maestro, benedici in particolare i giovani perché siano viandanti della fede, felici di portarti in ogni strada, in ogni piazza, in ogni angolo della terra, vivendo la loro responsabilità missionaria con immaginazione e creatività.
Signore della Chiesa, suscita in ogni comunità cristiana il desiderio di uscire dai propri confini e dalle proprie sicurezze per raggiungere le periferie esistenziali e geografiche bisognose del Tuo Vangelo. Fa’ crescere in tutti noi un cuore missionario, perché rispondiamo alle vaste necessità dell’evangelizzazione con la preghiera, con la testimonianza della vita e con la comunione dei beni.
Maria, Madre dell’evangelizzazione, che – mossa dallo Spirito – hai accolto il Verbo della vita con umile fede, aiutaci a dire il nostro «eccomi» per collaborare a far risuonare nel nostro tempo il Vangelo della vita che vince la morte, perché a tutti giunga il dono della salvezza.
Lode, onore e gloria Te, Gesù Signore, il primo e il più grande evangelizzatore. Amen. Alleluia!
Il Myanmar – o Birmania (Burma), secondo la vecchia denominazione coloniale – è sempre stato un paese di forte attrazione turistica. Anche quando – dal 1962 al 2011 – era governato da una dura giunta militare. I visitatori trovavano un paese affascinante abitato da gente gentilissima e sorridente. Ma era una visione parziale perché i loro movimenti erano limitati a zone geografiche circoscritte, per lo più abitate dai Bamar, il gruppo etnico predominante e di religione buddhista. Rimanevano esclusi ampi territori, abitati da altre etnie, che in Myanmar sono centinaia. Non è un modo di dire che il paese sia un mosaico etnico. Un mosaico turbolento: sono ben 18 i gruppi armati che operano sul territorio, tutti con la propria bandiera, il proprio esercito, i propri leader, i propri obiettivi. Insomma, dietro quei sorrisi si celava un paese diviso e in guerra.
Altra immagine che è necessario sfatare è quella dei monaci buddhisti visti come personificazione dell’atarassia. Come sinonimo di tranquillità, pace interiore ed esteriore, vita monasatica. Invece anche loro sono uomini con passioni e pulsioni. Le immagini dei monaci che manifestano in piazza contro la minoranza musulmana dei Rohingya e la comunità internazionale ne sono un’evidente testimonianza. Gli striscioni da loro mostrati parlano chiaramente: «No, Rohingya», «I profughi non sono del Myanmar», «Nazioni Unite, basta inventare storie sui Rohingya», «Non distruggete la storia e l’immagine del Myanmar», «Basta incolpare il Myanmar», «Gli amici dei Rohingya sono nostri nemici». Va ricordato che, nella nuova Costituzione del maggio 2008, il Myanmar riconosce al buddhismo una posizione speciale in quanto – si precisa – essa è la fede professata dalla grande maggioranza dei cittadini (art. 361). Nell’articolo successivo si dice però che lo stato riconosce altresì il cristianesimo, l’islam, l’induismo e l’animismo.
Da un paio d’anni si cerca di mettere ordine al mosaico etnico del Myanmar. Il 15 ottobre del 2015 il governo, al tempo ancora guidato dall’ex generale Thein Sein, ha firmato un accordo per il cessate il fuoco con 8 gruppi armati, tra cui quello dei Karen (Knu), l’organizzazione combattente più vecchia del paese. Dal 31 agosto al 3 settembre 2016, il nuovo governo di Aung San Suu Kyi ha organizzato, nella capitale Nay Pyi Taw, una grande conferenza di pace, convocando i rappresentanti di tutti i gruppi ribelli. Si è presentata anche la forte organizzazione per l’indipendenza dei Kachin (Kio). Nulla di decisivo secondo il Myanmar Times, ma il segnale c’è stato. Tanto che, a fine febbraio 2017, è iniziato un secondo incontro («Second Panglong Peace Summit»).
In questo quadro in divenire i Rohingya non trovano spazio. Sono più di un milione di persone, residenti per la quasi totalità nello stato di Rakhine. La particolarità è che non sono riconosciuti dallo stato birmano: sono considerati immigrati illegali bengalesi, anche se la maggior parte è in Myanmar da generazioni. Nel 2012, nel Rakhine, sono iniziati gli attacchi violenti e distruttivi della popolazione locale ai villaggi abitati dai Rohingya, senza che le forze di polizia intervenissero. Oggi migliaia di essi vivono in campi d’internamento privi dei requisiti minimi di vivibilità. Altre migliaia tentano di lasciare il Myanmar – via mare o via terra, usando mezzi di fortuna, quasi sempre gestiti dai trafficanti di uomini – per raggiungere soprattutto i paesi confinanti: Bangladesh, Malesia, Indonesia. Nonostante si tratti di paesi musulmani, anche qui i Rohingya sono respinti (come fa il Bangladesh da fine 2013) o comunque accettati con difficoltà. Siamo davanti alla tragedia di un popolo senza patria. Una tessera che nessuno vuole nel proprio mosaico.
Paolo Moiola
I Rohingya, minoranza islamica del?Myanmar
La diaspora degli invisibili
I Rohingya – oltre un milione di persone – sono una minoranza islamica che vive in Myanmar, nello stato di Rakhine. Esclusi dai censimenti perché non riconosciuti dallo stato, a causa delle discriminazioni e delle violenze patite, i Rohingya hanno cominciato a fuggire, via mare e via terra. Nella fuga molti hanno perso la vita, molti altri sopravvivono in campi profughi totalmente inadeguati per un’esistenza dignitosa. La persecuzione contro di essi ha radici storiche e non è iniziata di recente. Ultimamente però la situazione è precipitata, coinvolgendo più paesi, due a maggioranza buddhista e tre a maggioranza islamica: il Mynamar, la Thailandia, il Bangladesh, la Malesia e l’Indonesia. In questa vicenda le responsabilità di Aung San Suu Kyi, già icona del Myanmar, oggi ministro e consigliere di stato, non vanno taciute.
La luce del sole penetra attraverso le sottili fessure del tempio di Le-myet-hna, a Mrauk-U (stato di Rakhine, già Arakan), illuminando il volto sereno di una delle statue del Buddha. Percorro solitario lo stretto e claustrofobico corridoio lungo il quale i pellegrini buddhisti circumambulano recitando le preghiere. L’ultima volta che avevo visitato Mrauk-U, cinque anni fa, i templi erano affollati di turisti, per lo più birmani. Le cantilene dei fedeli si mescolavano ai commenti dei visitatori e i bagliori dei flash delle macchine fotografiche combattevano contro i raggi del disco solare appiattendo i suggestivi giochi di penombra.
La storia di Mrauk-U è un paradosso religioso: il buddhista Min Saw Mon, fondatore della dinastia, visse per 23 anni presso la corte islamica di Jalahuddin Muhammad Shah prima di riprendersi, con l’aiuto del sultano, il trono usurpatogli nel 1406 dal re di Ava, Minye Kyawswa, correligionario di Min Saw Mon.
Una storia di intreccio religioso che nel 2012 sarebbe diventato anche oggetto di contenzioso storiografico. Allora mi accompagnava nella visita Ma Thiri, studentessa di Museologia all’Università nazionale di arte e cultura di Yangon, la quale amava sottolineare che «i musulmani pretendono di riscrivere la storia chiamando Min Saw Mon col nome islamico di Suleiman Shah». Un’affermazione che prefigurava un conflitto culturale e religioso tra le comunità buddhiste e musulmane già in atto dall’era coloniale, ma che sarebbe scoppiato in tutta la sua violenza solo pochi mesi dopo la mia visita.
I musulmani del Myanmar
Nello stato del Rakhine, al confine con il Bangladesh, dal XIX secolo, vive – accanto a buddhisti di etnia rakhine – la maggioranza dei due milioni di islamici del Myanmar, il 4,3% della popolazione totale.
I musulmani dello stato Rakhine sono a loro volta divisi in due gruppi: i Kaman, discendenti di popolazioni che seguirono il principe Mughal Shah Shuja rifugiatosi nel 1660 a Mrauk-U, e i Rohingya il cui gruppo, a differenza dei Kaman, non è riconosciuto etnicamente dalla Costituzione birmana.
Ufficialmente i Rohingya non esistono e il censimento, effettuato nel 2014, ha registrato solo i 2.100.000 Rakhine nello stato omonimo, relegando altri 1.090.000 abitanti, identificati come «non conteggiati»1, in una postilla. Lo stesso documento precisa che «nel Rakhine una popolazione stimata in 1.090.000 abitanti non è stata conteggiata perché a loro non è stato permesso di autornidentificarsi usando un nome non riconosciuto dal governo»2.
I media generalmente fanno coincidere l’inizio degli scontri con una data precisa, il 28 maggio 2012, delineando erroneamente uno spartiacque cronologico con un periodo di convivenza pacifica che, nella realtà, non c’è mai stata.
Quel giorno l’uccisione da parte di tre musulmani di Thida Htwe, una donna ventisettenne di etnia rakhine, aveva dato avvio a quello che oggi viene comunemente chiamato il genocidio dei Rohingya.
Da quel fatidico giorno «zero» i media internazionali hanno iniziato ad occuparsi di un argomento di cui erano a digiuno, ma non certamente nuovo per il Myanmar.
I Rohingya e le radici coloniali del conflitto
Per comprendere cosa stia accadendo nel Rakhine, occorre risalire alle radici del conflitto che, come la maggior parte delle guerre etniche che affliggono il Myanmar, ha i suoi semi nella colonizzazione britannica.
I numerosi contatti tra l’area birmana e indiana avvenuti nel corso dei secoli, vennero intensificati dall’annessione della Birmania all’India conclusasi nel 1885 a seguito della Terza Guerra anglo-birmana. Tra il 1886 e il 1899, seguendo un copione già in atto nell’Indocina francese, dove funzionari vietnamiti venivano trasferiti negli uffici pubblici della Cambogia, anche nella colonia britannica migliaia di indiani chettyar, in particolare bengalesi, furono distaccati nelle regioni birmane in parte per compensare la mancanza di contadini che coltivassero le risaie, in parte per aiutare i colonizzatori nella gestione dell’amministrazione politica ed economica. In entrambe le regioni, queste decisioni avrebbero provocato negli anni a venire conseguenze catastrofiche.
Molti di loro divennero prestatori di denaro a contadini che, pressati dalle tasse e dal governo coloniale, cercavano nuovi terreni da coltivare, attrezzi e concimi chimici per velocizzare le operazioni di aratura, disboscamento, semina e raccolta del riso. L’apertura del Canale di Suez, infatti, aveva accelerato i commerci e diminuito drasticamente i prezzi dei trasporti provocando un’impennata della richiesta di prodotti esotici in Europa e obbligando i paesi colonialisti ad aumentarne la produzione e l’importazione. La quantità di denaro prestata dai chettyar era accompagnata da interessi esorbitanti che, spesso, i contadini non riuscivano a pagare. In questo modo si creava un meccanismo a spirale alla fine del quale le famiglie si trovavano costrette a cedere gran parte della loro terra, se non tutta, agli usurai. I campi, che tradizionalmente appartenevano ai villaggi e venivano coltivati dalle famiglie in base al loro bisogno e alla loro possibilità, si trasformarono in merce di scambio e venne introdotto, per la prima volta, il concetto di proprietà privata terriera.
L’avanzata giapponese nel Sud Est asiatico, avvenuta tra il 1942 e il 1944, radicalizzò le tensioni già esistenti: i Rakhine, buddhisti come i Bamar (il gruppo etnico più noto con il nome di Birmani e che ancora oggi rappresenta il 68% della popolazione del paese) di Aung San (padre di Aung San Suu Kyi, ndr), si schierarono a fianco delle armate imperiali nipponiche, mentre i musulmani, che sotto il dominio britannico avevano goduto di privilegi economici e territoriali, contraccambiarono il favore collaborando con gli alleati. Gli scontri furono intensi e spietati. Lo stesso Aung San, ministro della Guerra del governo fantoccio birmano instaurato da Tokyo, diede fulgido esempio di insensibilità quando, durante una battaglia contro i Karen – con l’intento di mostrare la sua idea di unità nazionale – uccise a sangue freddo un prigioniero di quella etnia e, sapendo che questi era musulmano, ordinò che il suo corpo venisse mostrato al villaggio su un carro destinato al trasporto di maiali (per questo atto i britannici, dopo la guerra, accusarono di omicidio Aung San tentando di processarlo).
Terrorizzati e sapendo di essere odiati dai Bamar, almeno quattrocentomila indiani abbandonarono il paese via terra per rifugiarsi in India mentre dietro di loro i britannici cercavano di fare terra bruciata, distruggendo ponti, navi e battelli, pozzi petroliferi, equipaggiamenti.
Nel Rakhine, allora chiamato Arakan (cambierà nome nel 1973), i musulmani si rifugiarono nel Nord della regione, nelle municipalità di Taung Po Lat Wae, Maungdaw e Buthidaung dove ancora oggi costituiscono la maggioranza della popolazione.
La fine della guerra e l’indipendenza della Birmania nel 1948 portò una nuova ondata di violenza, specialmente con il varo della nuova Costituzione che identificava 135 «razze indigene della Birmania»3, escludendo, tra queste, i musulmani del Nord dell’Arakan, i Rohingya, ma accettando un’altra comunità musulmana insediatasi nello stato, i Kaman. Fu in questo periodo che cominciò a diffondersi il senso di identità Rohingya, un termine sino ad allora pressoché sconosciuto che identificava quelle popolazioni di religione islamica provenienti dal Bengala Orientale (oggi Bangladesh), con cui il Rakhine condivide 275 chilometri di confine.
Prima degli anni Cinquanta il termine era comparso sporadicamente. Occorre risalire al 1799 per trovare, in un libro di un chirurgo scozzese, Francis Buchanan-Hamilton, il primo accenno a questa cultura: «Ora parlerò di tre dialetti parlati nell’Impero birmano, ma che derivano chiaramente dalla lingua della nazione hindù. Il primo è quello parlato dai maomettani che da lungo risiedono nell’Arakan e che chiamano se stessi Rooinga, o nativi dell’Arakan, chiamati dai veri indigeni dell’Arakan, Kulaw Yakain o stranieri Arakan»4.
Dopo di allora i documenti ufficiali non fanno quasi cenno ai Rohingya fino al 10 marzo 1950, quando un gruppo di musulmani dell’Arakan presentò un documento all’allora primo ministro U Nu, definendosi Anziani Rohingya.
Esiste, dunque, un’etnia Rohingya? Jacques Leider, il maggiore studioso di storia dell’Arakan e membro dell’Efeo (la Scuola francese dell’Estremo Oriente) mi dice che «Rohingya è un vecchio termine reclamato come identità politica che non implica alcun elemento distintivo etnico».
Anno 1974: l’inizio della discriminazione
Gruppo etnico o no, fino agli anni Settanta i Rohingya furono accettati e integrati nella società senza grossi problemi: la radio birmana trasmetteva tre volte la settimana un programma dedicato alla lingua rohingya, e il termine appariva addirittura nei testi scolastici. A Rangoon c’era anche un’associazione studentesca, la «Rangoon University Rohingya Students Association». È altresì vero che fino al 1961 un gruppo di Rohingya aveva lottato affinché le regioni settentrionali dell’Arakan, raggruppate nell’Amministrazione della Frontiera Mayu, aderissero al Pakistan Orientale e che un musulmano, Hla Tun Pru, chiedeva la formazione di uno stato indipendente, l’«Arakanistan»; ma tutti questi movimenti autonomisti erano marginali e lo stesso Pakistan (e in seguito il Bangladesh) non mostrava alcun interesse ad appoggiare i gruppi secessionisti. Le prime avvisaglie di intolleranza verso i Rohingya sorsero nel 1974, quando l’allora presidente birmano, il generale Ne Win, varò l’«Emergency Immigration Act», negando ufficialmente la cittadinanza birmana al gruppo musulmano. Al termine Rohingya, il governo sostituì quello di bengalesi, ad indicare che questa popolazione apparteneva ad un altro stato, il Bangladesh, il quale, a sua volta, non la riconosceva come propria entità. Tre anni più tardi l’operazione «Naga Min» (Re Dragone), il cui scopo era quello di espellere gli immigrati illegali dal paese, costrinse tra i 200 e i 250 mila musulmani del Rakhine (su un totale che allora si aggirava attorno ai 700.000) a guadare il fiume Naf e trovare rifugio nel Bangladesh. Le condizioni di vita nei campi in Bangladesh erano talmente dure che, prima che Arabia Saudita, India e Unhcr riuscissero ad organizzare un programma di rientro (due anni più tardi), 12.000 profughi erano morti d’inedia.
Anno 1982: la legge di cittadinanza
Il varo della legge di cittadinanza del 1982 («Myanmar Citizenship Law»), in vigore ancora oggi, segnò un altro punto di svolta nella vicenda dei Rohingya. La nuova legge, sostituendo la «Union Citizenship Act» del 1948, restringeva ulteriormente i termini di cittadinanza dividendo la popolazione del paese in tre gruppi: cittadini a tutti gli effetti, cittadini associati e cittadini naturalizzati.
Nel primo gruppo rientrano coloro che appartengono alle otto principali nazioni etniche (Kachin, Kayah, Karen, Chin, Birmani o Bamar, Mon, Rakhine e Shan) e chiunque abbia avuto avi che risiedevano in Birmania prima del 1823 (anno dello scoppio della Prima guerra anglo-birmana)5. Al secondo gruppo appartengono coloro che hanno ottenuto la cittadinanza birmana nel 1948 sotto la «Union Citizenship Act»6. Infine, i cittadini naturalizzati sono coloro che possono provare di risiedere in Myanmar da prima del 4 gennaio 1948, data dell’indipendenza nazionale, ma che non avevano inoltrato richiesta di diventare cittadini associati sotto la «Union Citizenship Act»7.
I Rohingya non appartengono ad alcuna di queste categorie e sono, quindi, considerati stranieri a tutti gli effetti.
«Come è possibile provare di risiedere in Myanmar dal 1823?», chiede sarcasticamente Shukur Khan, un quarantenne di Buthidaung, il quale continua: «Prima del 1951 non c’era alcun obbligo di registrare la residenza e comunque molti documenti sono andati perduti, bruciati o eliminati, spesso intenzionalmente, visto che gli archivi sono gestiti da Rakhine e Bamar».
Lo sfogo di Shukur e il risentimento contro i Rakhine, con cui i Rohingya dividono in modo turbolento la coabitazione nello stato, mostrano chiaramente la frattura e la sfiducia reciproca tra le due comunità.
«È vero che abbiamo la carta di scrutinio di cittadinanza che ci permette di votare, ma dato che per il governo noi non esitiamo, non abbiamo alcun diritto, a differenza dei Rakhine e dei Kaman», lamenta Nur Kawim, madre di sei figli, di cui tre emigrati in Arabia Saudita, dove esiste la più numerosa comunità Rohingya fuori dal Myanmar dopo quella del Bangladesh.
La legge di cittadinanza del 1982 sconvolse la società musulmana birmana: la giunta militare, prima indifferente alla presenza della comunità rohingya, cominciò a guardare con attenzione le aree di confine e nel 1991 il «ministero del Progresso delle Aree di confine, delle Etnie nazionali e dello Sviluppo» (conosciuto come NaTaLa) avviò un intenso programma di trasferimento di buddhisti nelle zone abitate prevalentemente dagli islamici offrendo amnistie a prigionieri e nuove sistemazioni abitative con terreni annessi ai senzatetto di Yangon e Mandalay. Nello stesso periodo vennero fondati i famigerati NaSaKa, le «guardie di frontiera» gestite dalle comunità rakhine in modo pressoché autonomo rispetto al potere centrale e che comprendevano 1.200 membri fra polizia, servizi segreti e funzionari di dogana.
L’illegalità dello status cui erano relegati i Rohingya li ingabbiava: da una parte le loro terre venivano confiscate, dall’altra il NaSaKa, abolito nel 2013 da Thein Sein, obbligava chiunque avesse più di 10 anni a lavorare gratuitamente almeno due giorni al mese per i servizi dello stato.
In pochi mesi dal varo del programma di colonizzazione interna 250.000 musulmani fuggirono di nuovo nel Bangladesh, mentre nel capoluogo Sittwe e in altre città del Rakhine, iniziarono a registrarsi i primi scontri tra le comunità buddhiste e islamiche.
Il rientro di 200.000 rifugiati in Myanmar, effettuato a seguito di un accordo tra governo birmano e Unhcr, fu aspramente criticato da numerose organizzazioni non governative. Secondo un sondaggio di Médecins Sans Frontières (Msf), il 63% dei 60.000 Rohingya che, in un primo tempo, accettò di rientrare fu rimpatriato contro la propria volontà8. Entro il 1996 i campi profughi del Bangladesh vennero praticamente svuotati a forza e 200.000 esuli furono costretti a varcare di nuovo il confine e stanziarsi nel Rakhine.
Anno 2010: le aperture democratiche
Le aperture democratiche avviate nel 2010 dal governo Thein Sein stravolsero, nel bene e nel male, l’intero sistema sociale del Myanmar. L’unica forza interetnica in grado di garantire l’unità della nazione, il Tatmadaw (l’esercito), cominciò a perdere potere inducendo i gruppi etnici ad accelerare le pressioni centrifughe autonomiste. I governatori dei singoli stati, che fino al 2010 erano stati anche capi militari e che garantivano la stabilità regionale (usando anche il pugno di ferro per reprimere sul nascere ogni conflitto), diventarono funzionari civili e si trasformarono essi stessi in difensori di una delle fazioni coinvolte nella lotta. La libertà di stampa, di parola, di viaggiare all’interno del paese e la possibilità per i giornalisti stranieri di entrare nella nazione portarono alla ribalta internazionale il problema dei Rohingya. Questa volta, però, i Rakhine buddhisti, che fino ad allora avevano combattuto l’amministrazione centrale, trovarono nel governo e nelle stesse forze di polizia un formidabile alleato per le loro rivendicazioni ai danni dei musulmani.
Da parte sua Nay Pyi Taw cercò con successo di ammortizzare il risentimento delle minoranze etniche cercando aiuto tra i buddhisti ed utilizzando la religione come deterrente. Il buddhismo divenne, quindi, uno dei principali veicoli di unione nazionale da contrapporre alle religioni considerate estranee alla tradizione birmana.
In una sessione di addestramento teorico militare, venne presentata una relazione in cui si affermava che «i musulmani bengalesi si infiltrano tra la popolazione per propagandare la loro religione. La popolazione aumenta grazie all’immigrazione illegale»9.
Buddhisti contro musulmani
L’inversione demografica è, ancora oggi, uno dei temi di più facile appiglio per chiunque voglia gettare benzina sul fuoco: «I bengalesi fanno più figli di noi buddhisti, inoltre il Bangladesh ha tre volte la popolazione del Myanmar, ma su un territorio che è più di quattro volte più piccolo del nostro. Logico che il governo del Bangladesh sostenga l’emigrazione clandestina nel Rakhine. Nel giro di pochi anni i Rakhine diventeranno la minoranza e saranno comandati dai musulmani», afferma Kyaw Naing Tun, studente della facoltà di fisica della Technological University di Sittwe.
Persino la «Sangha» (comunità, ndr) buddhista, in particolare i monaci più giovani, è scesa in campo contro gli islamici. Organizzazioni come il «MaBaTha» («Associazione per la protezione della razza e della religione») e il «Movimento 969» hanno lanciato proclami xenofobi definendo i Rohingya «serpenti» o «cani pazzi» ed invitando i Rakhine a non assumere musulmani, non comprare alcun bene nei loro negozi e ai conducenti a non far salire Rohingya sui loro mezzi. In uno dei proclami lanciati dal MaBaTha si legge che «se compri qualcosa in un negozio di musulmani, i tuoi soldi non si fermeranno lì, ma verranno utilizzati per distruggere la tua razza e la tua religione. Quei soldi verranno usati per avere una donna birmana buddhista che molto preso sarà costretta a convertirsi all’islam […]. Una volta che i musulmani diventeranno numerosi, ci sommergeranno e prenderanno il nostro paese per trasformarlo in una satanica nazione islamica»10.
Nge Le Lun, una Rakhine buddhista che appoggia l’idea di un dialogo tra le comunità, mi mostra una email che ha ricevuto dall’Associazione dei monaci di Mrauk U: «I bengalesi sono crudeli per natura; i Rakhine devono capire che loro vogliono distruggere la terra dei Rakhine; i bengalesi mangiano riso coltivato dai Rakhine e al tempo stesso stanno pianificando lo sterminio dei Rakhine e usano i loro soldi per comprare armi al fine di uccidere la gente rakhine»11.
Il risentimento antimusulmano si ripercuote anche contro le organizzazioni umanitarie e non governative che operano sul territorio, viste come alleate dei Rohingya.
«Quello dei bengalesi è un problema interno al Myanmar. Le Nazioni Unite e le organizzazioni occidentali appoggiano i bengalesi che sono immigrati illegali. In ogni altro paese l’illegalità è combattuta, qui, invece, ci voglio imporre persone che, oltre che essere qui illegalmente, portano anche violenza», lamenta Thet Win, un giovane rakhine che incontro in un ristorantino di Maungdaw.
Le leggi antislamiche del governo
Questa insofferenza nei confronti di chi si prodiga a favore di chi necessita di aiuto (sia esso Rohingya che Rakhine) si trasforma in aperta ostilità. Basta un nonnulla, come la rimozione di una bandiera buddhista da un ufficio di rappresentanza internazionale da parte di una cooperante, come avvenuto a marzo 2014, per scatenare il putiferio: una folla rabbiosa di Rakhine ha devastato 33 uffici di Ong e di organizzazioni dell’Onu costringendo 300 cooperanti a lasciare lo stato.
Nel febbraio 2014 il governo ha sospeso le attività di diverse Ong tra cui Msf (nel luglio dello stesso anno l’organizzazione francese è stata invitata a rientrare e dal gennaio 2015 ha ripreso le sue operazioni in Myanmar)12. La «All Rakhine Refugee Committee» ha dichiarato di rifiutare ogni tipo di aiuto da parte delle Ong e dall’Onu13.
In questo clima, per il parlamento birmano è facile approvare, su espressa richiesta di alcuni movimenti buddhisti, una serie di norme volte a contrastare la società islamica nel Myanmar: il «Religious Conversion Bill», l’«Interfaith Marriage Bill», il «Monogamy Bill», il «Population Control Bill», tutte leggi rientranti nel pacchetto della «National Race and Religion Protection».
Il «Programma nazionale di protezione della razza e della religione», approvato nel 2014 e ancora in vigore, ostacola la conversione all’islam e i matrimoni di donne buddhiste con uomini musulmani, obbliga gli uomini musulmani a tagliarsi la barba per le fotografie su passaporti, mentre limita a due il numero di figli per le coppie musulmane, oltre che ad obbligare le donne a lasciare passare un periodo minimo di 36 mesi tra un parto e l’altro14.
Una delusione di nome Aung San?Suu Kyi
La liberazione di Aung San Suu Kyi, avvenuta nel novembre 2010, aveva portato una ventata di speranza tra i Rohingya.
In una intervista rilasciata nel 2013, la Lady (soprannome di Suu Kyi, ndr) aveva identificato il problema di fondo che divideva le comunità nel Rakhine: «Ciò che è venuto a mancare durante gli anni della dittatura militare, è la capacità del dialogo e del compromesso. Nessuno vuole cedere sulle proprie richieste e questo porta inevitabilmente ad uno stallo dei negoziati»15.
Purtroppo questa capacità di dialogo non sembra sia stata sviluppata dalla stessa Aung San Suu Kyi. Nay San Lwin, militante Rohingya e autore di un blog su quello che sta avvenendo nella sua comunità, mi confida la sua delusione, condivisa da molti e che si avverte in tutte le comunità etniche e religiose: «Aspettavamo che la Lady prendesse una netta posizione di condanna nei confronti delle violenze nel Rakhine. Purtroppo tutte le sue belle parole spese sui diritti umani, sulla democrazia e a favore delle minoranze etniche si sono dissolte appena lei è entrata in politica».
La ritrosia della Lady nel condannare in modo netto le violenze contro le comunità islamiche, non solo nello stato Rakhine e non solo contro i Rohingya, ha attirato numerose critiche verso quella che, un tempo, era vista come paladina dei diritti umani, così la sua elezione a ministro e consigliere di stato, nel marzo del 2016 non ha generato nella società islamica (e non solo) quella euforia e quelle speranze che ci si sarebbe potuti aspettare soltanto sei o sette anni prima.
La lettera – datata 29 dicembre 2016 – dei tredici premi Nobel16 e dieci personalità del mondo della politica, dell’editoria e della cultura a livello internazionale17, è solo l’ultimo dei tanti giudizi negativi sull’operato di Suu Kyi, anche lei premio Nobel per la pace nel 1991: «Nonostante i ripetuti appelli a Daw Aung San Suu Kyi siamo delusi che non abbia preso alcuna iniziativa per assicurare pieni ed eguali diritti di cittadinanza ai Rohingya. Daw Suu Kyi è la leader (del paese, ndr) ed è sua responsabilità primaria guidarlo e guidarlo con coraggio, umanità e compassione».
La lettera termina con un’esortazione che significativamente ripete le stesse richieste avanzate dalla comunità internazionale dal 2012, segno che le politiche dei governi Thein Sein e Aung San Suu Kyi (foto) nei confronti delle minoranze etniche non si distanziano molto le une dalle altre: «Esortiamo le Nazioni Unite a fare tutto il possibile per incoraggiare il governo del Myanmar ad eliminare ogni restrizione in materia di aiuti umanitari, in modo che le persone possano ricevere beni di prima necessità. L’accesso ai giornalisti e agli osservatori delle agenzie per i diritti umani dovrebbe essere consentito e si dovrebbe formare una commissione internazionale e indipendente per stabilire la verità sulla situazione attuale»18. La negligenza di Aung San Suu Kyi non ha scuse avendo accentrato su di sé tutti gli incarichi chiave del governo. Ha la possibilità di dettare legge e la responsabilità di ciò che accade nel paese. Non potendo candidarsi alla presidenza della nazione, ha aggirato la Costituzione retrocedendo il presidente, il suo consigliere più fidato, Htin Kyaw (foto) a pura figura emblematica19. Ha avocato il ruolo di ministro dell’Ufficio del presidente e di ministro degli Esteri che le permette di sedersi nel potentissimo «Consiglio nazionale di difesa e sicurezza», un organismo di undici membri che si occupa di sicurezza interna. Ha, inoltre, creato ad hoc la figura di «Consigliere di stato» che presiede i due più importanti comitati che si occupano della politica nello stato Rakhine: il neonato «Comitato centrale sull’implementazione di pace, stabilità e sviluppo dello stato Rakhine» (formato il 31 maggio 2016) e il «Comitato di unione, pace e dialogo».
Htin Kyaw e Suu Kyi hanno anche sfruttato l’opportunità conferita loro dalla Costituzione di nominare i capi di governo dei sette stati e delle sette regioni non tenendo conto dei risultati elettorali. Così nonostante nel Rakhine l’«Arakan National Party» abbia ottenuto il 52,6% dei voti contro il 14,5% della «Lega nazionale per la democrazia» (il partito della Lady), il capo del governo è U Nyi Pu, membro di quest’ultima.
Movimenti islamici e chiamata al «jihad»
Il nuovo governatore, insediatosi nell’aprile 2016, si è posto come obiettivo la pace e la stabilità politica. Il suo mandato, però, si è inaugurato con nuovi fatti di violenza repressi col sangue, uccisioni di massa e stupri20. Fin qui nulla di nuovo rispetto agli anni passati, se non che gli attacchi di ottobre e novembre 2016 che hanno coinvolto le guardie di frontiera, sono stati rivendicati da un nuovo attore: l’«Harakah al-Yaqin» (Movimento della fede). Lo stesso gruppo ha postato alcuni video in cui si invitano i musulmani birmani a unirsi alla lotta contro gli infedeli21. Poco si sa di questa organizzazione fondata da una ventina di Rohingya residenti in Arabia Saudita e guidati da Hafiz Tohar, nome di battaglia Ata Ullah, e da Ameer Abu Amar, un pakistano nato da una famiglia Rohingya immigrata a Karachi. Il movimento avrebbe iniziato a reclutare affiliati nel 2013, subito dopo gli scontri del 2012 e, nel 2014, con aiuti sauditi, sarebbero iniziati i primi addestramenti sulle colline del Mayu, al confine con il Bangladesh. Secondo i servizi segreti birmani, l’Harakah al-Yaqin potrebbe contare su una rete di centinaia di collaboratori, responsabili di attacchi a militari e di uccisioni di presunti informatori e collaborazionisti. A differenza di altri gruppi, l’Harakah al-Yaqin non contiene un riferimento ai Rohingya nella sua denominazione: un chiaro segno dell’intenzione di internazionalizzare il conflitto inserendolo nel disegno più ampio del jihad. Non è un caso che, già nel 2012, un altro movimento, il «Tehreek-e-Taliban Pakistan» avesse invocato la guerra santa e che, nel giugno 2015, avesse offerto aiuti per addestrare Rohingya al jihad.
Anni di politiche sbagliate e, in particolare, lo scoramento seguito alla grande delusione verso Aung San Suu Kyi hanno contribuito a far emergere questi gruppi armati d’ispirazione internazionale. Significativo, in questo senso, il video postato da MulMujahidin il quale spiega che «durante il governo della giunta militare in Myanmar, noi Rohingya pensavamo che quando sarebbe arrivata Aung San Suu Kyi avremmo potuto vivere liberi […]. Ci siamo sbagliati […]. Ora dobbiamo unirci al jihad. Se non uccidiamo i kafir (miscredenti, infedeli, ndr) non avranno mai timore di noi»22.
Il Rakhine e il peso della povertà
Una guerriglia organizzata e internazionalizzata è una nuova emergenza per il Myanmar. Essa è stata favorita anche dall’allontanamento dell’esercito (Tatmadaw) dalla vita sociale: senza il controllo capillare del territorio da parte del Tatmadaw, gli scontri tra le due comunità si sono moltiplicati e oggi circa 120 mila Rohingya sono rinchiusi in campi profughi in cui mancano i servizi essenziali (cibo, acqua, servizi igienici, medicine)23.
La sete di terra ha indotto il governo di Nay Pyi Taw a creare i campi per i rifugiati interni in aree depresse e su terreni soggetti ad inondazioni, aggravando la già precaria condizione igienica dei profughi.
Un sondaggio commissionato dall’«Integrated Household Living Conditions Assessment» (Ihlca-2) ha rivelato che il 24,6% della popolazione non ha terra di sua proprietà con punte massime che arrivano al 60% nella zona settentrionale dello stato, dove si concentra la maggioranza dei Rohingya24.
«Il problema non è solo religioso o etnico – mi dice l’economista Wai Shwe Yee -. Il governo da anni sta cercando investitori per innalzare il tenore di vita degli abitanti, ma durante gli anni della dittatura l’intero commercio era in mano ai militari e ai Bamar. La democratizzazione, che ha liberalizzato l’economia, ha portato i Rakhine, impiegati nei posti pubblici, ad accorgersi che il piccolo commercio era dominato dai musulmani».
Il Rakhine è lo stato più penalizzato del Myanmar dal punto di vista economico: un rapporto dell’Unicef fissa l’indice di povertà al 43,5%25, secondo solo allo stato Chin, mentre la Banca mondiale, utilizzando nuovi e più ampi criteri di analisi, innalza lo stesso indice al 77%, superando anche quello del Chin26.
Le condizioni sociali sono le peggiori della nazione: il 16,3% dei bambini sotto i cinque anni soffre di malnutrizione, contro una media nazionale del 9,1%27 e il 37,4 dei bambini tra i zero e i 59 mesi sono sottopeso rispetto ad una media nazionale del 22,6%28. Anche il consumo energetico pro capite, indice di benessere e di sviluppo economico e industriale, è il più basso del Myanmar: solo 3 kw/h di elettricità contro i 121 kw/h della media nazionale; questo significa che i Rakhine e le industrie dello stato sono obbligati e far uso di generatori elettrici, il cui costo è proibitivo.
In questa situazione trovare investitori, come spiega Wai Shwe Yee, è un’impresa proibitiva, ma non impossibile. Il 29 gennaio 2015 è stata inaugurato l’oleodotto e il gasdotto che collega il porto di Kyaukpyu, nella parte meridionale del Rakhine, alla cinese Kunming. Un progetto faraonico di 2.400 chilometri i cui 2,5 miliardi dollari sono stati interamente investiti dalla China National Petroleum Company, la quale, per zittire le polemiche e le recriminazioni dei contadini, per la maggioranza rakhine, che protestavano per l’espropriazione dei propri terreni, ha promesso un ritorno di 53 miliardi di dollari in royalties in 30 anni e che il 10% del gas resterà in Myanmar. La protesta popolare, però ha indotto il governo di Nay Pyi Taw a cancellare il progetto ferroviario che avrebbe dovuto costeggiare il gasdotto e congiungere Kyaukpyu a Kunming.
Alla fine del 2015 il governo ha anche approvato il progetto della «Zona ad economia speciale» di Kyaukpyu che porterebbe nella zona investimenti per 100 miliardi di dollari.
Le organizzazioni rakhine locali lamentano che gli investimenti non beneficeranno l’economia locale: «Le compagnie che hanno investito nei progetti nello stato Rakhine, cinesi, indiane, singaporeane, thailandesi, tendono a portare manodopera dei loro paesi o, quando questa non è sufficiente, bamar. Noi Rakhine non traiamo alcun vantaggio da questi investimenti», mi dice Kyal Nyein Han, un abitante del villaggio di Maday.
Senza volerlo Kyal Nyein Han ha toccato un’altra conseguenza del conflitto in atto con i Rohingya. Le compagnie che investono nel Rakhine necessitano di manodopera a basso costo e la disponibilità nello stato non è sufficiente rispetto alla qualità e quantità di domanda. I Rohingya avrebbero potuto rappresentare una soluzione, ma molti di loro sono confinati nei campi profughi in Myanmar o nel Bangladesh, altri sono fuggiti in Malesia, Thailandia o Indonesia, altri ancora sono emigrati nei paesi arabi.
La diaspora dei Rohingya: in Bangladesh, Thailandia, Malesia e Indonesia
La diaspora Rohingya ha come risultato, oltre che privare di preziosa manodopera il paese, di fomentare il malessere delle famiglie musulmane nel Rakhine, molte delle quali sono costrette a dividersi.
Il deterioramento della situazione nel Rakhine e la paura di una destabilizzazione del paese, secondo Aung San Suu Kyi sarebbero da attribuirsi alla facilità con cui i musulmani possono varcare il confine birmano-bengalese. «Io e il mio partito abbiamo sempre sostenuto che il governo avrebbe dovuto controllare e far rispettare il confine tra Birmania e Bangladesh. Per anni nessuno se n’è occupato con il risultato che migliaia di immigrati clandestini oggi sono in territorio birmano. La radice del problema è tutta qui, oltre al fatto che in Birmania c’è la paura che elementi esterni possano destabilizzare il paese»29.
Myanmar e Bangaldesh si sono sempre rimpallati il «disturbo» dei Rohingya: il governo birmano, definendoli bengalesi, afferma che sono cittadini del vicino stato islamico, mentre Dacca li rispedisce al mittente in quanto, da decenni, residenti nel Rakhine.
Nel Bangladesh vi sono solo due campi ufficialmente riconosciuti dal governo e gestiti dall’Unhcr: quelli di Nayapara (o Noapara) e di Kutupalong che ospitano rispettivamente 19.000 e 14.000 Rohingya. Accanto a questi vi sono altri insediamenti considerati illegali: Shamlapur, in cui vi sarebbero 8.000 rifugiati, Leda, con 15.000 persone e altri 30.000 Rohingya si sarebbero stabiliti nel campo di Kutupalong senza essere registrati. Questo significa che l’Unhcr ha una capacità logistica di gestire la situazione dei profughi inferiore a quella reale.
Dato che il Bangladesh non aderisce alla Convenzione del 1951 sullo status dei rifugiati, questi vivono perennemente in una condizione precaria senza che possano sperare in una veloce e definitiva risoluzione della loro situazione.
Dall’ottobre 2016, inoltre, oltre 50.000 Rohingya avrebbero attraversato il fiume Naf cercando riparo dalla nuova ondata di violenze che ha infiammato il Rakhine.
Il governo bengalese ha redatto, nel settembre 2013, uno Strategy paper, un documento, su rifugiati e indocumentati in Bangladesh in cui si ufficializza per la prima volta che i Rohingya sono cittadini del Myanmar e che «vi sono tra le 300.000 e le 500.000 persone di nazionalità del Myanmar che vivono non registrate fuori dai campi e che sono entrati in Bangladesh in modo irregolare»30.
Il Bangladesh, come già ricordava Kyaw Naing Tun, lo studente di fisica di Sittwe, è uno degli stati più popolati al mondo (163 milioni di abitanti si assiepano su un fazzoletto di terra di 148.000 km2 – circa metà del territorio italiano -, in confronto il Myanmar ha 55 milioni di abitanti con 677.000 km2 di superficie disponibile) e, obiettivamente, fa molta fatica a prendersi cura di così tante bocche da sfamare.
Il ministro della Giustizia Syed Anisul Haque nel luglio 2014 ha proibito matrimoni tra bengalesi e Rohingya: molti di questi, infatti, per ufficializzare la loro posizione, sposavano bengalesi prendendo così la cittadinanza del Bangladesh.
Il principale timore del governo di Dacca, guidato dall’Awami League di Sheikh Hasina Wazed, è che i Rohingya possano divenire strumenti di disturbo in mano ai due principali partiti dell’opposizione, il Jatiya Party di Muhammad Ershad e il Jamaat-e-Islami, il più popolare partito islamico bengalese, che hanno nelle provincie delle Chittagong Hill Tracts e di Cox’s Bazar, confinanti con il Myanmar, i loro principali serbatorni elettorali.
La diaspora rohingya non colpisce solo il Bangladesh, ma anche le nazioni che si affacciano sul Golfo del Bengala e il Mar delle Andamane: la Thailandia, la Malesia e l’Indonesia (si veda la mappa qui sopra, ndr).
I barconi dei trafficanti d’uomini
L’allentamento delle misure di sicurezza e di controllo da parte delle autorità del Myanmar dopo il 2010, ha accelerato il flusso di migranti via mare.
Solo dal gennaio 2014 circa 94.000 Rohingya sono fuggiti dal Rakhine e dal Bangladesh a bordo di barconi verso le coste malesi, thailandesi e indonesiane31, ma secondo il ministero degli Esteri del Bangladesh vi sarebbe da calcolare almeno un terzo di emigrati cittadini bengalesi in più32.
La mancanza di scrupoli da parte delle organizzazioni di trafficanti d’uomini che, in maniera del tutto illegale, organizzavano le tratte marittime era giunta a livelli parossistici. Ogni aspirante passeggero doveva sborsare l’equivalente di 1.600-2.400 dollari per un viaggio via mare pericoloso e senza alcuna garanzia di successo. Cifra che aumentava fino a 7.000 dollari per un biglietto aereo verso le capitali dei paesi del Sudest asiatico33.
In nome del principio di non interferenza negli affari interni di ogni stato membro, l’Asean e la comunità internazionale hanno ignorato il problema fino al maggio 2015, quando cinquemila rifugiati e immigrati sono stati abbandonati dai trafficanti nel Mar delle Andamane e nel Golfo del Bengala. Prima che si potesse intervenire un migliaio di essi erano affogati o morti di stenti nelle acque dell’Oceano Indiano34.
Da quella tragedia il controllo delle coste birmane e bengalesi si è fatto più capillare e nel 2015 il numero di partenze da questi due paesi è diminuito a 31.000 persone35.
Thailandia, Malesia e Indonesia ospitano in totale circa 150.000 rifugiati rohingya; nella sola Malesia vi sarebbero 159.000 persone registrate provenienti dal Myanmar, di cui 45.000 Rohingya36. Mentre Bangkok cerca di tenere a bada i richiedenti asilo islamici affinché non alimentino le file del secessionismo nel Sud del paese, Kuala Lumpur utilizza i profughi provenienti dal Rakhine per propri fini propagandistici.
Lo scorso 4 dicembre 2016 il primo ministro malese Najib Razak ha denunciato, durante una manifestazione, il «genocidio Rohingya» e ha lanciato un messaggio alla collega birmana Aung San Suu Kyi: «Quando è troppo è troppo».
Secondo Jacques Leider neppure il termine genocidio sarebbe appropriato: «Ciò che sta accadendo nel Rakhine non è un genocidio semplicemente perché non possiamo parlare di una etnia rohingya. Possiamo parlare di xenofobia, ma non di genocidio o di razzismo nei confronti dei Rohingya».
La prudenza di Leider è confortata anche dal fatto che, sino ad oggi, nessun documento delle Nazioni Unite parla di genocidio anche se secondo l’Ufficio dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite è «molto probabile si stiano commettendo crimini contro l’umanità»37.
Genocidio o no, lo sfogo del primo ministro malese Najib Razak non è disinteressato: con le elezioni generali in vista (agosto 2018) e la sua popolarità in calo a picco a causa delle accuse di corruzione, il primo ministro malese ha bisogno di riacquistare voti e credibilità tra l’elettorato musulmano e sviare l’attenzione dai problemi interni che affliggono la Malesia.
Del resto la stessa Malesia non è immune da discriminazioni nei confronti dei Rohingya. Solo coloro che possiedono una carta Unhcr (che li identifica come rifugiati) hanno accesso ai servizi sanitari, alle scuole pubbliche, ai servizi sociali pagando comunque il 50% delle rette e, nonostante il governo di Kuala Lumpur abbia più volte assicurato di voler rilasciare permessi di lavoro temporanei, questi sono consegnati col contagocce. I pochi fortunati che hanno la possibilità di lavorare guadagnano la metà di un loro collega malese38.
Le leggi restrittive malesi verso le Ong internazionali permettono solo a tre di queste di lavorare con i rifugiati: la «Angkatan Belia Islam Malaysia», la «Taiwanese Buddhist Tzu Chi Foundation», che gestisce una clinica gratuita che assiste i Rohingya e la «Myanmar Refugees Activist», che offre corsi di specializzazione professionale ai profughi del Maynmar.
La corruzione dilagante nello stato colpisce anche i profughi: alcuni Rohingya hanno denunciato di essere costretti a pagare somme tra i 5 e i 12 dollari ai poliziotti per evitare il carcere nel caso vengano fermati e trovati senza carta Unhcr.
La stessa Unhcr non è stata esente, in passato, di accuse di corruzione secondo cui funzionari dell’agenzia delle Nazioni Unite avrebbero intascato fino a 400 dollari per rilasciare le carte Unhcr ai rifugiati. Dopo una replica in cui non si negava la possibilità che tali atti fossero accaduti39, l’organizzazione ha cambiato tutte le carte di registrazione e i metodi per ottenerle.
Aung San Suu Kyi: dopo le parole, è l’ora dei fatti
Quella dei Rohingya non è certamente la sola tragedia – culturale, religiosa, etnica, politica, economica – che affligge una minoranza. In Myanmar, specialmente, decine di etnie hanno subito e subiscono ancora oggi, a sette anni dalla fine della dittatura, soprusi da parte delle autorità di un governo colluso con i militari.
Forse è giunta l’ora, per Aung San Suu Kyi e la sua Lega nazionale per la democrazia, di dimostrare che i discorsi di democrazia, giustizia, autonomia lanciati durante gli anni della dittatura militare, non erano solo parole di propaganda.
Gli scontri con i Kachin, i Karen e le altre nazioni etniche, così come le proteste dei contadini di Monywa, sfrattati per far sposto agli investitori di miniere cinesi (per l’estrazione di rame, ndr), dimostrano che il nuovo governo – su cui così tanti avevano risposto le loro speranze – è ancora lungi dal dimostrare che il paese ha imboccato la strada che per tanti anni Aung San Suu Kyi e gli altri ministri avevano richiesto ai militari.