Italia. Missione come ponte tra mondi


Il Festival della missione 2025 si terrà a Torino. Preceduto da eventi pre festival durante il 2025, si svolgerà tra il 9 e il 12 ottobre nelle piazze della città.
In un contesto globale nel quale le distanze tra persone e tra Paesi sembrano aumentare, così come i conflitti e le crisi ambientali, il tema della kermesse sarà «Il volto prossimo».
Non sarà una celebrazione della missione, ma un laboratorio di speranza nel quale ascoltare il racconto di molte esperienze di pace, resistenza e trasformazione.

Sarà Torino la città ospite del prossimo «Festival della Missione», occasione di riflessione e, soprattutto, di incontro con molti protagonisti della «Chiesa in uscita» nelle periferie del mondo.

Un evento che, come spiegano i promotori, non sarà solo una celebrazione della missione, ma un laboratorio di speranza e un invito a tutti ad aprirsi al mondo.

Dal 9 al 12 ottobre 2025, la terza edizione della kermesse promossa da Cimi (Conferenza degli istituti missionari italiani) e Fondazione Missio Italia, avrà come location l’area tra piazza Castello e piazza Carlo Alberto. Si interfaccerà con il programma del Festival dell’Accoglienza, evento diffuso promosso dalla Pastorale migranti dell’arcidiocesi di Torino tra settembre e ottobre, e avrà come tema di fondo «Il volto prossimo», collegandosi alla riflessione sul «Vivere per-dono» iniziata nella scorsa edizione del 2022 a Milano. Si inserirà, inoltre, nel contesto del Giubileo del 2025 promosso dal Papa con il tema «Pellegrini di speranza».

Festival della Missione 2022 a Milano. L’incontro «Missione tra vecchie e nuove vie». Da sinistra: p. Carlos Reynoso Tostado, saveriano; Elisabetta Grimoldi, laica saveriana; suor Dorina Tadiello, comboniana della comunità di Modica; il giornalista Paolo Affatato; i coniugi Marangoni della comunità di famiglie Bethesda di Padova; Fabio Agostoni, laico a Ginevra. @foto di Luca Lorusso

L’interrogativo sul volto del prossimo, e sul rendere prossimo il nostro volto all’altro, ha una sua urgenza particolare oggi, in un contesto globale nel quale le distanze tra persone e tra Paesi sembrano aumentare, così come i conflitti e le crisi ambientali.

Alla conferenza stampa di presentazione del Festival, tenutasi martedì 19 novembre presso l’Arcivescovado di Torino, sono intervenuti monsignor Roberto Repole, arcivescovo di Torino e vescovo di Susa, Agostino Rigon, direttore generale del Festival (insieme a Isabella Prati), e Lucia Capuzzi, giornalista di «Avvenire» e direttrice artistica dell’evento (insieme al regista e documentarista Alessandro Galassi).

Per loro, Torino, città con una forte vocazione missionaria che ha visto nascere le missioni salesiane di don Bosco e l’Istituto Missioni Consolata di san Giuseppe Allamano, canonizzato lo scorso 20 ottobre, diventerà il cuore pulsante di una riflessione universale.

Il legame tra il Festival della Missione e il Festival dell’Accoglienza, come sottolineato da monsignor Repole, sarà un’occasione per allargare gli orizzonti, connettendo l’attenzione ai più fragili (del secondo) con la prospettiva internazionale (del primo).

Agostino Rigon ha definito il Festival «una risposta al movimento dello Spirito e della storia», sottolineando l’urgenza di camminare insieme come Chiesa e società.

In un momento in cui le forze del mondo missionario sembrano ridursi, l’obiettivo dell’iniziativa non è solo quello di unire risorse, ma di costruire alleanze e ponti con realtà civili e religiose.

Tra piazza Castello e piazza San Carlo, ha aggiunto il direttore generale del Festival, si allestiranno «tavoli di ascolto» dedicati alla ricerca delle tracce del divino nella realtà contemporanea.

Il centro di tutto, ha spiegato Lucia Capuzzi, sarà la narrazione. Non la speculazione teologica sulla missione, ma il racconto dei protagonisti della missione.

Le storie saranno il fulcro del programma, coinvolgendo missionari e comunità di tutto il mondo per raccontare esperienze di annuncio, di pace, giustizia e trasformazione.

Tra i progetti più significativi che faranno parte degli eventi «pre festival», quelli che verranno organizzati in città nelle settimane che precederanno il Festival, vi sarà un focus su Haiti, paese «invisibilizzato» dai media internazionali e attualmente sconvolto da violenza e povertà, e un altro su una periferia come Brancaccio, a Palermo, dove la memoria di don Pino Puglisi continua a ispirare progetti di rinascita.

Il Festival proporrà durante l’anno scolastico anche un programma educativo sulla pace, elaborato in collaborazione con il Centro studi Sereno Regis, che mira a mostrare i meccanismi della violenza e a promuovere la nonviolenza e giustizia riparativa. L’11 ottobre, in Piazza Castello, si terrà un grande evento dedicato alla pace.

Durante la conferenza stampa, per dare un assaggio di cosa sarà il Festival, sono intervenuti anche tre missionari per dare la loro testimonianza: suor Angela Msola Nemilaki, superiora generale delle Madri Bianche, le suore missionarie di Nostra Signora d’Africa, ha acceso i riflettori sul dramma della tratta di esseri umani. La religiosa ha raccontato la storia di Lulu, una giovane vittima di tratta e tortura. La missione, per suor Angela, è ridare dignità a chi se n’è visto privato, attraverso piccoli gesti di presenza e gentilezza, nella consapevolezza che, come affermato da papa Francesco, «solo aprendo il cuore agli altri scopriamo la nostra umanità».

Padre Dario Bossi, missionario comboniano in Brasile, ha parlato delle sfide globali legate al cambiamento climatico e del «razzismo ambientale», per cui capita sovente che le prime e principali vittime dei cambiamenti climatici siano i più poveri. «La missione oggi è costruire alleanze dal basso», ha detto, invitando a riflettere sul debito di giustizia che il Nord del mondo ha nei confronti del Sud.

Infine, Cristian Daniel Camargo, giovane missionario laico della Consolata e artista argentino, ha presentato il suo progetto «Murales por la Paz», una proposta artistica e teologica che invita comunità di tutto il mondo a dipingere insieme, costruendo pace e dialogo attraverso l’arte.

Dal 2018, il suo progetto «teo artistico» ha realizzato oltre 60 murales in luoghi come Colombia, Guatemala, Italia, Salvador e Argentina, e Camargo spera di proseguirlo in Kenya e Uganda, e poi di tornare in Italia nell’ottobre prossimo per partecipare al Festival della Missione.

«Se la Chiesa sparisse, è come se non ci fosse più cielo sulla terra», ha concluso monsignor Repole, citando il sociologo Hans Joas. Il Festival della Missione 2025 promette di essere uno «squarcio di cielo» su Torino, un’occasione per riflettere sulla dimensione umana e trascendente della missione, intrecciando storie di fragilità e speranza, per fare del mondo una sola famiglia.

Luca Lorusso

Il Festival della Missione 2022 a Milano si è tenuto prevalentemente all’aperto. La gran parte degli incontri sono stati alle Colonne di San Lorenzo. Anche il Festival 2025 a Torino si terrà negli spazi di piazza Castello e piazza Carlo Alberto in centro città. @foto di Luca Lorusso




Senza dono, che Natale è?

Il rito dei doni a Natale è una furba trovata del capitalismo consumista, oppure, al contrario, una spina nel fianco del materialismo?

Una conversazione col teologo Roberto Repole.

Dopo il lungo mese di Novembre, quello in cui le giornate si accorciano drasticamente e inizia a fare freddo, in cui si sente una certa malinconia, ecco finalmente Dicembre, il mese del Natale.

Si accendono le luci colorate per le strade, in casa si crea spazio per il presepe e l’albero, quotidianamente i bimbi aprono le finestrelle del calendario dell’Avvento dietro cui si nascondono dei poco sobri cioccolatini. Chi ha una vita spirituale si confronta con la realtà dell’incarnazione di Dio, con le figure di Maria, Giuseppe, Gesù bambino, Elisabetta, e così via. E si pensa ai regali.

Spesso, proprio riguardo ai regali, capita di sentire una lotta interiore: la spinta spontanea al dono si scontra con la sensazione di essere usati dal mercato, di renderci complici della riduzione del Natale, delle nostre relazioni, del mondo intero a una corsa consumistica.

Ci è così tornato alla mente un piccolo libro dal titolo Dono, che parla proprio di questo dilemma, e abbiamo conversato con il suo autore: don Roberto Repole, classe 1967, sacerdote della diocesi di Torino che insegna alla Facoltà teologica dell’Italia settentrionale e che, dal 2011, è presidente dell’Associazione teologica italiana.

Cominciando da Babbo Natale

Il primo capitolo del libro di Repole si apre proprio con il racconto dell’attesa di una bimba per il suo regalo di Natale, e pone subito al lettore una domanda piuttosto provocatoria: il rito dei doni a Natale è una furba trovata del capitalismo consumista, oppure è, al contrario, una spina nel fianco del materialismo? Per arrivare alla conclusione che il dono (quello vero) è una spina nel fianco del materialismo consumista, il testo compie un percorso che inizia da un’interpretazione molto bella, a nostro modo di vedere, della figura di Babbo Natale. «Nell’era del capitalismo e del consumismo – ci dice don Repole -, anche una tradizione come quella del regalo natalizio rischia di essere assorbita dai dinamismi consumistici. Ciò non toglie però che l’atto di scambiarsi doni a Natale riveli la nostra resistenza umana proprio ai meccanismi del consumismo, perché dice che gli uomini non sono soltanto mercato. Ad esempio la figura di Babbo Natale, individuo che porta regali venendo da un luogo sconosciuto, rappresenta simbolicamente il fatto che la vita stessa ci è stata data da qualcuno, e arriva da lontano». Babbo Natale è un uomo anziano. Sembra più un nonno che un babbo. Don Roberto suggerisce che anche questo è un simbolo, quello del legame tra le generazioni: «Ciò di cui viviamo è frutto non soltanto di chi ci ha immediatamente preceduti, ma ci è donato da tutta l’umanità vissuta prima di noi. Cosa su cui non riflettiamo mai a sufficienza, soprattutto perché la logica capitalistica ci spinge a pensare che siamo noi gli unici protagonisti e artefici di noi stessi». Babbo Natale esprime una comunione più profonda di quella che i nostri occhi carnali possono vedere: «Siamo in comunione con tutte le generazioni che ci hanno preceduto, non fosse altro che per il fatto che loro hanno permesso a noi di vivere la nostra vita così come la viviamo. La consapevolezza del legame tra le generazioni andrebbe recuperata, perché in questo momento storico corriamo il rischio di mettere una generazione contro l’altra invece di sottolineare il debito che ciascuna ha nei confronti della precedente e la responsabilità nei confronti della successiva».

Il pranzo di Natale

Anche l’invito al pranzo di Natale o alla cena della vigilia, come la figura di Babbo Natale, ha un suo senso profondo che oltrepassa quello della gioia dello stare assieme: invitare qualcuno a un pasto singnifica donargli qualcosa di nostro allo scopo di nutrirlo, donare la vita. «Dal punto di vista del cristianesimo è fonte di grande riflessione il fatto che Gesù ci abbia consegnato la certezza della sua presenza proprio dentro un pasto. Il pasto ha per gli uomini qualcosa di altamente simbolico. Il bisogno di nutrirci non è soltanto a un livello biologico. Con il pasto esprimiamo la consapevolezza fondamentale che non ci diamo la vita da soli, e che abbiamo bisogno di prenderla da fuori. E il fatto stesso di mangiare insieme dice che noi umani riceviamo e nello stesso tempo offriamo la vita agli altri. L’invito al pasto, soprattutto in contesti di grande povertà, significa “io, per una volta, mi prendo cura della tua vita”».

Il dono contraffatto

Ma, domandiamo a don Roberto, la realtà del dono è sempre positiva? Pensiamo ad esempio ai regalini dei pacchetti di merendine, per nulla disinteressati, alle donazioni che i paesi ricchi fanno ai paesi poveri potenziando un circolo vizioso di dipendenza dei secondi dai primi, a un certo atteggiamento di «dispensare carità» che, con il donare ai poveri, certifica e rafforza la loro condizione di emarginazione invece di includerli. «Il dono può essere contraffatto nel momento in cui non si riflette a sufficienza su quello che c’è in gioco in esso. Ad esempio il dono diventa negativo quando è sempre e soltanto unidirezionale. In un caso del genere si crea una strutturale disuguaglianza tra gli uomini. Qualcuno dona e qualcuno riceve senza possibilità di scambiare i ruoli. Nel dono autentico invece, nel momento in cui doniamo riceviamo.
Quando faccio un dono a qualcuno, come minimo ricevo da lui la possibilità di fargli un dono. Sono attivo, ma nello stesso tempo anche passivo: tutti siamo insieme donatori e donatari».

Il mercato è una grande cosa

Don Roberto con la sua voce cordiale pronuncia le parole «dono autentico», ma a noi viene da chiederci se il dono vero sia possibile, soprattutto in un mondo che sembra sempre più ridotto a mercato, in cui la logica del mercato, dello scambio, sembra un destino a cui non possiamo sottrarci. Viviamo in un tempo in cui la speranza fatica a sopravvivere. «Il mercato è una grande cosa, ma è una realtà dentro un’altra realtà ben più grande che è la società umana. La crisi economica in cui oggi viviamo è solo una parte di una crisi più ampia: il concepire la società come fosse nient’altro che un mercato. In tutti i settori, l’educazione, la scuola, la salute, gli affetti, noi rischiamo di pensare secondo la logica del mercato, cioè secondo una logica del pareggio: io dò qualcosa per ricevere in contraccambio qualche cosa di uguale e contrario.
Quando riduciamo la società a questo, perdiamo qualcosa di fondamentale della nostra umanità. Mi pare che oggi abbiamo ridotto la società alla logica del pareggio, e reagiamo alla crisi prodotta da essa con la stessa logica. Incapaci di vedere che noi siamo ben altro».

Sembra quasi che la mancanza di speranza nella nostra epoca derivi in qualche modo dall’idea che il mercato sia una specie di destino inesorabile, contro cui non si può fare nulla. «È così! La speranza fiorisce laddove c’è l’imprevedibile. E il dono, la gratuità, è sempre qualcosa di imprevedibile perché non lo possiamo produrre noi, viene dalla generosità altrui, gratuita. La speranza secondo me invece muore laddove abbiamo ridotto la società soltanto a ciò che possiamo prevedere e governare».

La «banalità» del dono

Dalla conversazione con don Roberto sembra emergere che il dono sia una realtà meno banale di quanto sembri a prima vista. Ad esempio, nel suo libro dice che, mentre il mercato ha una logica dello scambio proporzionato tra dare e avere, il dono invece ha una logica dello scambio sproporzionato. Mentre il mercato elimina il rischio, la gratuità, la relazione, la libertà, la responsabilità; il dono li prevede tutti. «Il dono funziona secondo una logica della sproporzione. Quando io ricevo un dono, viene a crearsi un disequilibrio tra me e il donatore, tant’è che mi viene spontaneo dire “grazie, non dovevi, non era il caso”. Queste parole servono a dire che tra me e il donatore si è creato un disequilibrio che a sua volta esprime qualcosa di fondamentale, cioè l’assoluta libertà di chi fa il dono e la sua imprevedibile generosità. Lo squilibrio però non viene mantenuto perennemente. Io infatti posso contraccambiare, sempre secondo la logica del dono: non sarà qualcosa di dovuto, sarà qualcosa di libero e gratuito. All’affermazione della mia persona che c’è stata da parte di chi mi ha fatto il dono, rispondo con l’affermazione della persona dell’altro contraccambiando il dono». Si tratta di uno scambio, ma di uno scambio totalmente differente da quello economico. Perché legato alla gratuità, alla libertà, alla fiducia.

«Nella sproporzione, nella disuguaglianza che si crea donando, si afferma un interesse fondamentale: l’interesse alla persona dell’altro. Per questo mi sembra che una società umana sia radicata fondamentalmente, come dicono molti acuti sociologi, proprio in questa dimensione del dono».

E se il cuore di tutto fosse dono?

Siamo partiti da Babbo Natale e siamo arrivati a dire che l’umanità è fondata sul dono. Se una riflessione di questo tipo viene proposta da un teologo è probabile che in qualche modo c’entri anche Dio nella questione. Lo chiediamo a don Repole, ricordando che uno degli ultimi capitoli del suo libro si intitola «E se il cuore di tutto fosse dono?», cioè, se all’origine di tutto, quindi anche dell’uomo, ci fosse il dono?

«C’è tutta una tradizione che ci dice che a Natale è Gesù bambino a portare i doni. Non è un caso che proprio nel giorno di Natale, nella tradizione cristiana, abbiamo instaurato la prassi rituale del dono: in qualche modo è Gesù Cristo stesso, in quanto figlio di Dio fatto uomo, a parlare del dono che Dio ha fatto di se stesso all’umanità. Gesù, dono di Dio, è il fondamento dell’esistenza stessa del mondo e dell’umanità. Noi siamo purtroppo abituati in modo catechistico a pensare che dapprima c’è l’uomo, poi il suo peccato, poi di conseguenza arriva Gesù che ci salva dal peccato. Questo è vero, ma va inserito in un orizzonte ancora più grande: Dio crea il mondo pensando già a Gesù, ed è quando decide di farsi dono, di donare se stesso nel suo figlio all’umanità, che Dio crea l’umanità e il mondo. Dunque per certi aspetti la prima parola del cristianesimo è proprio “dono”, cioè “grazia”. La grazia è talmente rivelativa della vita di Dio che in quella grazia, in quel dono, cioè in Gesù, noi conosciamo che il dono fa parte della vita stessa di Dio. Ed è per questo che noi siamo impastati di dono. Ed è per questo che, pur in un orizzonte come quello del mondo contemporaneo in cui un’ipertrofia dell’economicismo e del mercato sembrerebbe farci smarrire ogni sentirnero di speranza, noi cristiani possiamo continuare a essere fiduciosi. L’umanità continua a essere altro, e prima o poi l’inquietudine verso un mondo che ci soffoca in cui tutto è ridotto a mercato, porterà, porta già ora, a una reazione positiva che fa emergere il meglio di noi».

Vivere con speranza in un mondo che l’ha smarrita

In una società che sembra aver smarrito completamente la speranza, la realtà del dono può aiutarci a rintracciarla.

«Io penso che sia una fonte di speranza vedere che, nonostante tutto, anche in questo nostro mondo, tantissima gente dona. Basta guardare alle cose più semplici che magari non siamo più abituati a vedere: ci sono ancora persone che generano figli e donano la vita. Ci sono dei nonni che si prendono cura dei nipoti. C’è molto volontariato. La nostra società si regge ancora in piedi, nelle cose grandi come in quelle piccole, grazie al fatto che tantissime persone donano tempo, energie, denaro. Scendendo in profondità, io credo che possiamo nutrire speranza nella misura in cui sentiamo una resistenza dentro di noi rispetto al mondo che si trasforma in mercato. Il fatto che ci siano delle persone, e sono sempre di più, che sentono soffocante questo mondo è un segno di speranza, perché significa che stiamo reagendo con i nostri anticorpi, cioè con la capacità e il desiderio di dono che contraddistinguono la nostra umanità».

A Natale doniamo la vita

Alla fine della nostra chiacchierata, alla luce di tutte le considerazioni fatte, chiediamo a don Repole di darci un consiglio per vivere al meglio la realtà del dono nel Natale che si avvicina. «I regali di Natale possono avere una consistenza enorme dal punto di vista umano e spirituale nella misura in cui sappiamo accogliere il dono guardando negli occhi chi ce lo fa. Vivere il regalo ricevuto come un segno della presenza di qualcuno che ci sta dando qualcosa di sé, e il regalo donato da noi come la promessa di volerci essere e donare per l’altro. I regali di Natale possono essere segnati dalla logica del peggior consumismo se ci soffermiamo a guardare solo cosa riceviamo o cosa doniamo, concentrando la nostra attenzione sulle cose in sé e sul loro valore economico, oppure possono diventare tutt’altro: quando guardiamo negli occhi chi ci dà un dono e valorizziamo la cosa più importante, cioè non il dono in sé, ma il fatto che lui/lei si stia consegnando a noi, così come quando, qualunque cosa noi impacchettiamo per qualcun altro, facendo un dono consegniamo la nostra vita».

Luca Lorusso