Bolivia. La rivincita della democrazia
testo di Paolo Moiola |
Per la Bolivia è stato un anno vissuto pericolosamente. Il paese andino è passato dal golpe del novembre 2019 al ritorno alla democrazia dell’ottobre 2020. Un periodo molto difficile dal punto di vista politico e sociale, complicato anche dalla presenza della pandemia.
Non sarà facile governare il paese. Rimangono divisioni gravi e problemi seri. Eppure, almeno per ora, i boliviani ce l’hanno fatta: dopo un golpe e un anno di governo de facto il paese andino ha scelto il ritorno alla democrazia attraverso un processo elettorale libero, pacifico e molto partecipato.
Nonostante una tensione diffusa e le difficoltà imposte dalla pandemia, le elezioni dello scorso 18 ottobre hanno infatti registrato una grandissima affluenza, pari all’87 per cento degli aventi diritto. Il risultato è stato netto: Luis Arce Catacora, candidato del Mas-Ipsp (Movimiento al socialismo – Instrumento por la soberanía de los pueblos), ha vinto con il 55,1 per cento dei voti, con un vantaggio abissale su Carlos Mesa di Comunidad ciudadana (28,83%) e Luis Fernando Camacho di Creemos (14%). La presidenta de facto Jeanine Áñez e Carlos Mesa hanno subito riconosciuto la vittoria di Arce e del Mas. Cosa che non è avvenuta con Camacho, il leader dell’estrema destra separatista. È facile prevedere che da quest’ultimo arriveranno i maggiori problemi per il nuovo presidente e il suo governo.
Subito dopo la vittoria, il vincitore aveva scritto un tweet sobrio e distensivo: «Siamo molto grati per il sostegno e la fiducia del popolo boliviano. Recuperiamo la democrazia e riacquisteremo stabilità e pace sociale. Uniti, con dignità e sovranità».
Gli anni di Evo Morales
I boliviani – 11 milioni di persone di cui circa il 60 per cento indigeni (Aymara, Quechua e altre 34 etnie minori) – hanno scelto la continuità con i quasi 14 anni (gennaio 2006 – novembre 2019) di governo di Evo Morales, il primo indigeno eletto presidente.
I meriti di Evo Morales sono indubitabili, a iniziare dal riscatto e dall’inclusione sociale dei popoli indigeni. Con lui questi ultimi hanno riconquistato dignità e orgoglio, pure sulla scia delle tutele introdotte dalla nuova carta costituzionale, in vigore dal febbraio 2009. Anche in campo economico i risultati raggiunti sono stati estremamente lusinghieri.
È altrettanto certo che Evo Morales abbia commesso alcuni errori: sul tema della coltivazione della foglia di coca, sul parco nazionale del Tipnis, sulla gestione dell’Amazzonia boliviana. Probabilmente, il suo sbaglio più grande è stato però quello di forzare la mano per un nuovo mandato presidenziale (sarebbe stato il quarto). Detto questo, il golpe contro di lui del novembre 2019 e il (pessimo) governo de facto che ne è seguito non hanno avuto nulla a che vedere con la democrazia.
In questo momento, l’ex presidente, rientrato in patria dopo l’esilio prima in Messico poi in Argentina, ha sulle spalle una serie impressionante di accuse: dal terrorismo fino alla pedofilia e allo stupro. A tal punto che anche l’organizzazione Human rights watch, pur non lesinando critiche ai suoi anni di governo, nel rapporto «La giustizia come arma» (dell’11 settembre 2020) non ha esitato a etichettare come persecutorie e politicizzate le iniziative giudiziarie contro di lui.
Dopo la vittoria elettorale del 18 ottobre, ci si interroga su un eventuale ruolo politico di Morales. Tuttavia, se è vero che l’ago della storia boliviana non si è spostato a destra e il Mas è tornato centrale, è altrettando vero che oggi i protagonisti sono altri.
L’oggi di Luis Arce
Il nuovo presidente è Luis Arce, nato a La Paz nel 1963 da una famiglia di insegnanti. Economista, Arce è stato funzionario pubblico, professore universitario e soprattutto ministro dell’economia sotto Evo Morales. Durante il suo lungo operato come ministro (interrotto soltanto per curare un tumore), l’economia boliviana è cresciuta in maniera sorprendente (una media del 4,9 per cento all’anno) e soprattutto ha visto la drastica riduzione del tasso di povertà. Il tutto nell’ambito di una politica economica contraria al pensiero unico neoliberista e iniziata – era il maggio del 2006, primo governo Morales – con la nazionalizzazione del petrolio e del gas.
Al fianco di Arce, come vicepresidente, ci sarà David Choquehuanca, già ministro degli esteri, ex sindacalista e soprattutto aymara, caratteristica importante per quella parte di indigeni boliviani scontenta di aver lasciato la presidenza a un bianco (meticcio, a voler essere precisi).
Dal gas al litio
A parte la presenza di grandi bellezze culturali e naturali (dalle Ande all’Amazzonia), che cosa rende la piccola nazione latinoamericana strategicamente rilevante? La Bolivia del 2020 non è più soltanto il paese con giacimenti di gas (importanti, ma in rapido calo). È anche e soprattutto il paese con le più grandi riserve di litio al mondo, precedendo Argentina e Cile, come dimostrano tutte le principali rilevazioni geologiche (fonte Bbc). Il litio è il metallo del presente e del futuro se si considera che esso è componente essenziale delle batterie delle auto elettriche (oltre che di cellulari e vari dispositivi elettronici). Con l’elezione di Arce pare esclusa la privatizzazione della Yacimientos de litio bolivianos (Ylb), la compagnia statale che tratta il prezioso metallo. Tuttavia, il neopresidente non dovrà cadere nell’errore di puntare sull’estrattivismo, affidandosi cioè a una politica di semplice sfruttamento ed esportazione delle materie prime. La sfida è la creazione di una industria nazionale e la ricerca di una (difficile) compatibilità ambientale.
La foglia di coca e la mezza luna bianca
Come per tutti i paesi amazzonici, anche in Bolivia la preservazione dell’ambiente è, e sarà, un tema fondamentale. Finora l’Amazzonia boliviana (che interessa il 44 per cento del territorio) non è stata difesa in maniera adeguata, ripetendo gli errori dei paesi vicini (disboscamento ed espansione della frontiera agricola).
Il nuovo presidente dovrà affrontare anche la controversa questione della produzione della foglia di coca e il problema dei rapporti con la regione chiamata Media Luna (Mezza Luna, per via della sua forma).
La foglia di coca è parte della cultura boliviana e come tale protetta dalla legge (articolo 384 della Costituzione). Il problema nasce dalle quantità prodotte e dal loro uso. Secondo l’agenzia delle Nazioni unite contro la droga (Unodc), nel 2019 la Bolivia ha aumentato del 10 per cento le sue coltivazioni di foglia di coca (stimate in circa 25mila ettari). Nel paese il consumo di coca è legale per alcuni usi (infusione, rituali religiosi andini e mascado, la sua masticazione). Il problema è dato dal fatto che la Bolivia è anche il terzo produttore mondiale di cocaina dopo la Colombia e il Perù.
Quanto alla regione della Mezza Luna, essa comprende le pianure orientali del paese e quattro dipartimenti (Santa Cruz, Pando, Beni e Tarija). È abitata da una popolazione bianca o meticcia. Si tratta della regione più ricca della Bolivia per via dell’agricoltura estensiva, dell’allevamento. e dei campi petroliferi, che nel 2006 Evo Morales riportò – attraverso la compagnia pubblica Ypfb – sotto il controllo dello stato, con grandi proteste delle compagnie private e della comunità internazionale neoliberista.
Queste diversità hanno prodotto nella regione la nascita di un forte movimento separatista (Nación Camba), reso ancora più aggressivo dall’arrivo al governo del Mas. Proprio da Santa Cruz de la Sierra, capoluogo politico della Mezza Luna, arriva il personaggio dell’opposizione più controverso, sicuramente pericoloso: quel Luis Fernando Camacho giunto terzo nelle elezioni di ottobre. Cattolico fondamentalista (ma che strizza l’occhio agli evangelici), durante i suoi comizi era solito ripetere: «Dios va a volver a Palacio». E così ha fatto, rispettando tutti i canoni della visibilità mediatica: domenica 10 novembre 2019, in concomitanza con le dimissioni (forzate) del presidente Morales, Camacho è entrato a Palazzo Quemado, sede del governo a La Paz, e si è inginocchiato davanti a una Bibbia, aperta al centro di una bandiera boliviana. Due giorni dopo è stata la senatrice Jeanine Áñez, appena proclamatasi presidenta ad interim della Bolivia, ad affacciarsi al balcone del palazzo mostrando la Bibbia alla folla assiepata nella piazza sottostante.
Un anno dopo, alle elezioni del 18 ottobre 2020, la bianca Áñez si è ritirata, mentre il bianco Camacho si è piazzato molto lontano da Arce e Mesa, raccogliendo però parecchi voti nei dipartimenti della Mezza Luna.
Cosa l’estremista Camacho vorrà fare di quel consenso è una questione rilevante per il futuro del paese andino.
«No hay plata»
In una riunione tenuta pochi giorni prima di assumere la guida del paese, Arce e Choquehuanca hanno affermato che dovranno ridurre il numero dei ministeri perché «no hay plata» (non c’è denaro). Il vicepresidente ha polemicamente aggiunto che il governo transitorio è venuto per «assaltare» invece che per «governare».
A proposito di ricchezze, in «Le vene aperte dell’America Latina», il compianto Eduardo Galeano parla molto della Bolivia e del suo «aver nutrito la ricchezza dei paesi più ricchi». Proprio per il suo passato di dipendenza e sottomissione, oggi per il paese andino la cosa più importante è proseguire lungo la strada che assicuri un’esistenza degna a tutti i suoi abitanti e una reale sovranità nazionale.
Insomma, per il nuovo presidente Luis Arce governare la Bolivia si prospetta più impegnativo di quanto non sia stato vincere le elezioni.
Paolo Moiola