Guatemala. Rompere il ciclo della miseria


C’è un altro modo per migrare dal Centro America agli Stati Uniti. E senza mettere i propri soldi e la propria vita nelle mani dei trafficanti. Ottenere un visto è difficile, ma possibile. E si crea un ciclo virtuoso, ma non senza sacrifici. Ecco alcune storie di successo.

Sumpango e Santiago Sacatepequez. In piedi nel suo campo di more, Arnoldo Chile Recopachí si toglie il cappello, con la manica della felpa si asciuga il sudore dalla fronte e poi si concede un momento per osservare il sole scomparire dietro il vulcano Agua.

Sorride con la serenità di chi si trova esattamente dove vuole essere.

Arnoldo ha 33 anni e nella vita ha già realizzato buona parte di tutto ciò che ha sempre sognato. Da qualche anno è proprietario di un vasto terreno coltivato a more ed è riuscito a costruirsi una casa nel piccolo villaggio di El Rejón nella zona periferica di Sumpango, dove vive con sua moglie a un’ora di strada da Città del Guatemala.

Con un visto per lavoratori agricoli H-2A in mano, dal 2016 per Arnoldo è stato tutto un andirivieni tra Stati Uniti e Guatemala. Da allora trascorre otto mesi in California, dove è impiegato come responsabile dei lavoratori guatemaltechi nella logistica di un’azienda agro- alimentare, e quattro mesi a Sumpango, in Guatemala, dove si occupa del suo campo di more acquistato con le rimesse.

Arnoldo nel suo campo di more, nei dintorni di Aldea El Rejon, Sumpagngo, Guatemala. Foto Simona Carnino

 

L’imprenditrice

Nel frattempo, dall’altra parte di Sumpango, nella piccola comunità di Rancho Alegre, Roselia Canel Tejaxún intercetta gli ultimi raggi di sole che entrano dalla finestra della sua camera e che le sono necessari per finire di ricamare un güipil (o huipil), la blusa tipica dell’abbigliamento femminile maya. Anche lei sorride, pensando che presto avrà abbastanza soldi per aprire il suo atelier di moda nel terreno che ha appena acquistato. A quel punto, nonostante abbia solo 22 anni, sarà un’imprenditrice e potrà costruire una casa per la sua futura famiglia con i proventi dell’investimento. Mentre Roselia sta pensando a tutto questo, Juan Pacache e sua moglie, con la zappa in spalla, stanno tornando a casa dal loro campo di taccole situato nella zona più periferica di Sumpango, dopo un’intera giornata trascorsa a concimare la terra e controllare la crescita delle piante.

A pochi chilometri di distanza, a Santiago Sacatepéquez, Vilma Lemus Chaval si occupa degli ultimi clienti della giornata nel suo negozio di frutta. Normalmente chiude le porte della frutteria intorno alle otto di sera, attraversa la strada e va a casa dove cena con sua madre, sua nipote e suo figlio di sette anni. Il giorno dopo si alza, si prepara e torna in negozio. Così fa tutti i giorni, almeno fino a quando non tornerà negli Stati Uniti.

Uscire dalla miseria

Roselia ricama un vestito tradizionale, a casa, RAncho Alegre, Sumpango, Guatemala. Foto Simona Carnino

Arnoldo, Juan, Roselia e Vilma hanno lavorato per circa quattro mesi come braccianti agricoli in una floricoltura del South Dakota, Usa. «Questo lavoro ci ha permesso di guadagnare circa 4mila dollari al mese – spiega Roselia -. Dopo quattro mesi di lavoro, io personalmente sono riuscita a risparmiare abbastanza da comprare una terra a poche centinaia di metri da casa dei miei. Inoltre, ho regalato parte dei miei guadagni agli anziani del villaggio che vivono in condizione di miseria e ne hanno davvero bisogno. Se riesco a farmi ancora tre o quattro stagioni di lavoro negli Stati Uniti, sono certa di poter mettere via i soldi necessari ad aprire il mio negozio di moda qui a Sumpango. Cucire mi rende felice ed è esattamente quello che voglio fare».

Arnoldo, Juan, Roselia e Vilma sono solo quattro delle migliaia di persone centroamericane costrette a migrare negli Stati Uniti per motivi economici, ma sono tra i pochi che hanno avuto la possibilità di farlo con i documenti regolari.

«Migrare con un visto in mano, ti salva la vita perché non sei costretto a viaggiare con un coyote (specie di trafficante, ndr) e non rischi di morire attraversando una frontiera o sequestrato da un narcos – spiega Arnoldo -. Io ho avuto questa fortuna perché sono stato coinvolto in un programma di invio di lavoratori agricoli temporanei di Cuatro Pinos, una cooperativa agricola di Santiago Sacatepéquez di cui mio padre è socio. Dopo un solo anno di lavoro negli Stati Uniti sono riuscito a comprarmi un campo di more qui in Guatemala. Normalmente un migrante non riesce ad avere delle rimesse utili prima dei due anni di lavoro, ma nel mio caso è stato possibile perché non avevo un debito da pagare a un coyote».

I numeri della migrazione

Secondo il Dipartimento di sicurezza interna degli Stati Uniti, nel 2022 circa 9mila persone provenienti dal Guatemala sono riuscite a entrare nel Paese con un contratto di lavoro temporaneo. Di queste, 2.982 sono arrivate con il visto agricolo H-2A e 5.999 con il visto H-2B per lavoratori temporanei non agricoli. In entrambi i casi i lavoratori sono stati selezionati da reclutatori privati, che fanno le veci del datore di lavoro statunitense, o attraverso il programma di mobilità lavorativa del ministero del Lavoro guatemalteco.

Nonostante negli ultimi anni si sia verificato un chiaro aumento dei visti temporanei regolari, questa tendenza contrasta con i dati della migrazione irregolare del 2023, per cui 55.302 persone guatemalteche sono state deportate via aerea dagli Stati Uniti, 19.665 via terra dal Messico e 222.085 sono state arrestate mentre tentavano di attraversare irregolarmente il confine con gli Usa. Sebbene mettersi in viaggio con un coyote abbia raggiunto il prezzo di circa 16mila euro per una traversata di sola andata attraverso il Messico fino alla frontiera Sud degli Stati Uniti senza nessuna garanzia di arrivo, questo continua a essere il modo più frequente per migrare verso il Nord America per un cittadino centroamericano, perché di fatto andarci in maniera regolare non è per nulla facile e tanto meno pubblicizzato né dagli Stati di origine né da quelli di destinazione.

Migranti regolari temporanei viaggiano in Messico per un periodo di lavoro, con intermediazione di Cierto Global. Foto Simona Carnino

Non è facile

Le principali difficoltà sono di tipo amministrativo e burocratico. In Guatemala, servono circa 120 giorni per richiedere un visto di lavoro temporaneo per gli Stati Uniti, e ottenerlo non è scontato.  Il procedimento inizia quando le grandi imprese agricole negli Usa richiedono al dipartimento del lavoro una certificazione che dimostri la necessità di assumere lavoratori stranieri a causa della mancanza di manodopera locale. Quando ottiene questo documento, il datore di lavoro deve comunque aprire le candidature prima ai possibili lavoratori locali e, se nessuno si candida per la posizione, allora può iniziare la selezione all’estero, facendosi aiutare dai reclutatori, organizzazioni che lavorano nei paesi di origine dei migranti e che si occupano di fare la prima scrematura dei profili.

«Ci occupiamo di selezionare la manodopera qualificata attraverso le organizzazioni contadine qui in Guatemala – spiega Johana Bustamante, direttrice di Cierto global, responsabile del reclutamento etico dei lavoratori agricoli -. Facciamo colloqui e valutiamo anche le competenze tecniche dei candidati. Per esempio, andiamo a vedere come se la cavano con la raccolta delle fragole o delle taccole. Poi, è sempre l’azienda negli Stati Uniti che fa la scelta finale dei lavoratori. Dopo questa fase, noi ci occupiamo di tutta la parte burocratica necessaria al rilascio dei visti».

Vilma nella sua cucina tradizionale. Guatemala. Foto Simona Carnino.

Evitare il «coyote»

Sebbene non ci siano limiti di numero per i visti agricoli H2-A, non si può dire lo stesso per il visto H2-B per lavoratori non agricoli. In questo caso ne sono previsti solo 66mila all’anno che in genere vengono concessi quasi esclusivamente a chi ha già avuto un’esperienza precedente negli Stati Uniti, in particolare proveniente dal Messico. Tutto ciò rende oggettivamente improbabile che una persona centroamericana ottenga questo tipo di visto, per cui alla fine preferiscono affidarsi a un coyote.

«La migrazione temporanea regolare dal Guatemala agli Stati Uniti è recente e ci sono pochi contratti con le aziende là – continua Johana Bustamante -. Le tempistiche per ottenere i visti sono molto lunghe, ma il problema più grave è che comunque tanti decidono di partire con il coyote perché ci sono parecchi reclutatori che truffano le persone, promettendo visti in cambio di denaro per poi sparire nel nulla».

Vilma Estela Lemus Chavac, 45 anni, di Santiago Sacatepéquez, è stata vittima di questa truffa. «Nel 2008, io e mia sorella abbiamo conosciuto una persona che ci ha promesso di darci un visto per lavorare negli Stati Uniti in cambio di diecimila quetzales a testa (circa 1.200 euro, nda) – racconta Vilma, guardando tristemente a terra -. Allora ho venduto l’unico pezzo di terra che avevo per racimolare i soldi necessari, ma alla fine quest’uomo è scomparso e io ho perso tutto. Per molti anni non ho pensato di partire, poi ho conosciuto Cierto global e ho ricominciato a credere nella possibilità di poter viaggiare regolarmente negli Stati Uniti senza indebitarmi e senza truffe».

Juan nel suo campo, Sumpango. Guatemala. Foto Simona Carnino

Pagare i debiti e investire

Così, nel marzo 2023, Vilma è partita alla volta degli Stati Uniti dove è rimasta quattro mesi a coltivare i fiori in un’azienda agricola del South Dakota. Ha dovuto pagare solo 400 quetzales (45 euro) per il passaporto, poiché il biglietto, il visto e l’alloggio sono stati coperti dal datore di lavoro, come avviene nella maggioranza dei casi di assunzione di lavoratori agricoli stagionali regolari. Una volta tornata a casa, Vilma è riuscita a pagare i debiti accumulati nel corso degli anni per tenere in piedi la casa che condivide con sua mamma di 83 anni, sua nipote e i suoi tre figli. «Grazie al denaro guadagnato negli Stati Uniti, sono riuscita a coprire le bollette e le spese necessarie alla nostra sopravvivenza. Inoltre, ho affittato un negozio dove vendo verdura, frutta e vestiti. Questo mi ha permesso di generare nuove entrate».

Tra i reclutatori riconosciuti dal ministero del Lavoro guatemalteco c’è la cooperativa agricola Cuatro Pinos, che dal 2016 gestisce un programma di migrazione regolare esclusivamente per i soci e i loro familiari. «Nell’ultimo anno abbiamo inviato 150 lavoratori, che insieme hanno accumulato un milione e mezzo di dollari in rimesse, reinvestite nella produzione agricola qui – spiega Vanessa García, direttrice esecutiva della Fondazione Juan García Comparini che si occupa della responsabilità sociale di Cuatro pinos -. La migrazione stagionale permette alle persone di migrare senza rischiare la vita durante il viaggio. Inoltre, non devono pagare il debito al coyote e possono mantenere i legami familiari perché tornano dopo pochi mesi».

Vilma nel suo negozio ei frutta e verdura e abiti. Santiago Sacatepéquez, Guatemala. Foto Simona Carnino

Non tagliare le radici

Secondo una ricerca del Pew research center, un migrante irregolare in media vive all’estero circa 13,6 anni, con il rischio di perdere i legami familiari e comunitari. La vita di Juan Pacache, però, mostra che è possibile vivere un’esperienza di migrazione lunga mantenendo gli affetti intatti. Gli ultimi 20 anni della sua vita li ha trascorsi andando e tornando più volte, inizialmente dal Canada, poi, negli ultimi anni, degli Stati Uniti. «La mia casa e il mio campo di taccole sono il frutto diretto delle mie rimesse – racconta Juan -. Dopo il primo viaggio in Canada, ho investito tutti i miei risparmi nell’istruzione dei miei figli, per cercare di rompere il circolo di povertà in cui eravamo e dare a loro una possibilità lavorativa migliore della mia. Ora che sono grandi, utilizzo le rimesse per comprare terra, fertilizzanti, sementi e per assumere persone che lavorino con me. Voglio reinvestire il denaro in un circolo economico virtuoso beneficiando chi della mia comunità non è potuto migrare come ho fatto io». In Guatemala, le rimesse sono aumentate dell’11,5% nei primi otto mesi del 2023 rispetto all’anno precedente e oggi rappresentano il 18,99% del Pil. Secondo l’ultimo report dell’Ong Acción contra el hambre realizzato in America Centrale, sia i migranti regolari che quelli irregolari inviano rimesse, ma i migranti regolari le inviano più frequentemente e con importi mensili più elevati.

Le donne sono un ridotto numero all’interno dei programmi di migrazione regolare, perché i datori di lavoro del settore agricolo normalmente preferiscono la manodopera maschile. «Mi sento fortunata a essere stata selezionata l’anno scorso – racconta Roselia -. Noi donne abbiamo dimostrato di poter lavorare anche più velocemente degli uomini. Per questo dovrebbero darci più opportunità di viaggiare, soprattutto perché per noi donne migrare con il coyote spesso significa subire violenza fisica e sessuale; quindi, darci un visto significherebbe salvarci la vita». Mentre Roselia sta aspettando che le venga rinnovato il visto per tornare negli Stati Uniti, Vilma e Juan sono nuovamente in South Dakota da marzo 2024, dove resteranno per alcuni mesi. Lavorano duramente tutta la settimana dal mattino alla sera e la domenica riposano. Ogni giorno chiamano le loro famiglie, per raccontarsi la giornata vicendevolmente e per sentirsi un po’ meno soli. Anche se a volte si sentono tristi perché lontani da casa, il pensiero di tornare presto e di migliorare la vita nel loro Paese d’origine li riempie di energia. «Le autorità guatemalteche dovrebbero considerare che le persone se ne vogliono andare dal Guatemala perché non c’è lavoro e quando c’è è mal pagato – conclude Juan -. Per questo motivo dovrebbero facilitare il processo di reclutamento in Canada e negli Stati Uniti, permettendo a tutti di migrare regolarmente. Stiamo costruendo il Guatemala con le nostre stesse rimesse, quindi lo Stato ha il dovere di rispettare i nostri diritti e darci la possibilità di viaggiare senza rischiare di morire».

Simona Carnino

Vilma con la sua famiglia. Guatemala. Foto Simona Carnino

 




El Salvador. Bukele, presidente e dittatore

Il nome di Nayib Bukele, appena rieletto presidente a furor di popolo (82 per cento dei suffragi), è molto popolare anche fuori del Salvador. È giovane (42 anni), ma non tanto quanto i suoi omologhi del Cile (Gabriel Boric ha 38 anni) e, ancora più, dell’Ecuador (Daniel Noboa, 36). Si è guadagnato fama e popolarità soprattutto per una cosa: l’aver sconfitto le «maras» (Mara salvatrucha e Barrio 18), le bande criminali che, fino a pochi anni fa, dominavano il piccolo paese centroamericano.

Per ottenere questo risultato Bukele non è andato per il sottile. Nel marzo del 2022 il presidente ha decretato lo stato d’emergenza (régimen de excepción), che consente di sospendere i diritti fondamentali della persona, una condizione che il prossimo mese compirà due anni. I risultati ottenuti sono stati eclatanti, in un verso e nell’altro. Secondo i dati governativi, il 2023 è stato l’anno più sicuro nella storia del paese: se nel 2015 il tasso di omicidi raggiungeva la cifra di 106,3 ogni centomila abitanti, oggi è caduto al 2,4. Un tasso questo che collocherebbe El Salvador al primo posto tra i paesi più sicuri in America Latina e al secondo nelle Americhe (subito dopo il Canada). L’altra faccia della medaglia racconta che, sotto lo stato d’emergenza, il governo ha arrestato circa 75mila persone, ovvero oltre l’uno per cento dell’intera popolazione (6,4 milioni). Le immagini dei detenuti seminudi e in catene hanno fatto il giro del mondo. Come quelle del Cecot (Centro de confinamiento del terrorismo), la mega prigione da 40mila posti, inaugurata dal presidente in persona nel gennaio 2023.

Un’impressionante immagine dei detenuti all’interno del mega carcere Cecot, inaugurato dal presidente Bukele nel gennaio 2023. (Foto Oficina de Prensa – Presidencia de la República de El Salvador)

Se la gestione della sicurezza ha dato risultati, la situazione economica rimane estremamente precaria, a cominciare dalla moneta in circolazione nel paese. Nel 2001 il colón è stato sostituito dal dollaro statunitense e, nel settembre 2021, questo è stato affiancato dal bitcoin, criptovaluta tutt’altro che stabile. Altro dato significativo è l’entità delle rimesse degli emigrati salvadoregni (oltre 1,4 milioni soltanto negli Stati Uniti) che raggiunge il 24,5 per cento (2023) del Prodotto interno lordo del paese, una percentuale tra le più alte del continente. Nel frattempo, si sono fatti sempre più stretti i rapporti con la Cina che sta finanziando molti progetti come l’avvenieristica Biblioteca nazionale, inaugurata nella capitale lo scorso novembre.

Tra le tante possibili domande, una in particolare risulta ostica: Nayib Bukele è un presidente populista o un dittatore populista? L’aggettivo è un dato di fatto, mentre il passaggio da presidente a dittatore è dibattuto. Certamente, la strada intrapresa pare quella. Ne è sicuro «El Faro», fondato nel 1998 a San Salvador, primo giornale su internet dell’America Latina, trasferitosi in Costa Rica nell’aprile 2023 a causa dello «smantellamento della nostra democrazia». D’altra parte, lo stesso Bukele in un post sui propri canali social si è autodefinito «El dictador más cool del mundo mundial» (Il dittatore più figo del mondo): la sua risposta – ironica ma non troppo – alla circostanza che la Costituzione del paese vieterebbe un secondo mandato consecutivo.

Paolo Moiola