Carta versus digitale (con molte sorprese)


La carta è un prodotto che genera un forte impatto sull’ambiente. È meglio scegliere il digitale? Non è detto. Per valutare l’impronta ecologica di un dispositivo elettronico occorre infatti considerare il suo intero ciclo di vita.

Nel tentativo di ridurre la nostra impronta ecologica, talvolta rischiamo di fare delle scelte sbagliate a causa di una visione incompleta delle questioni ambientali. Uno dei luoghi comuni più frequenti è che leggere libri o riviste in formato digitale sia un modo di salvaguardare l’ambiente, perché in tal modo si riducono il consumo di legname e di acqua e le emissioni di gas a effetto serra. Ma è proprio così? Per rispondere a questa domanda è necessario confrontare l’intero ciclo di vita di libri e riviste cartacee da un lato e delle tecnologie digitali utilizzate nella trasmissione, ricezione ed elaborazione di dati (Ict) dall’altro. Il metodo da utilizzare è l’Lca (Life cycle assessment o analisi del ciclo di vita), che ci dà un’esatta valutazione dell’impatto ambientale di un prodotto o di un servizio perché prende in considerazione tutte le fasi del ciclo di vita che lo riguardano, partendo dall’estrazione delle materie prime necessarie alla sua produzione fino allo smaltimento del prodotto finale.

Un triciclo carico di carta da riciclare in Vietnam. Foto Falco – Pixabay.

Il ciclo della carta

Per quanto riguarda la carta, essa, per essere prodotta, richiede il legname. Per fortuna, una quantità sempre maggiore di carta viene recuperata tramite la raccolta differenziata. Il riciclo però non è possibile all’infinito, perché ogni volta la lunghezza delle fibre, di cui è costituita la carta, si riduce un po’ (e questo è il motivo per cui anche la carta riciclata deve contenere una minima quantità di fibre nuove).

La produzione della carta, tuttavia è responsabile della deforestazione solo in minima parte. Secondo il Wwf, infatti, la deforestazione e il grave degrado delle foreste naturali sono dovuti a molteplici fattori, tra cui l’agricoltura intensiva, il disboscamento non sostenibile, l’attività mineraria, la costruzione di nuove strade e l’aumento del numero e dell’intensità degli incendi.

Del legname raccolto, il 50% viene usato per produrre energia, il 28% per le costruzioni, mentre per la produzione di carta viene impiegato circa il 13%. Nel mondo, l’area con certificazione di gestione forestale è passata da 18 milioni di ettari nel 2000 a 438 milioni nel 2014. Mentre le foreste naturali rappresentano il 93% dell’area boschiva mondiale, quelle piantate sono il 7%. Anche queste ultime, come le naturali, possono assorbire CO2 dall’atmosfera. La carta, come derivato del legno, rappresenta un magazzino di CO2 per tutto il suo ciclo vitale.

Per quanto riguarda le emissioni di gas a effetto serra, quelle dell’industria della carta si sono ridotte del 22% tra il 2005 e il 2013, e attualmente rappresentano l’1% del totale di quelle dell’industria manifatturiera (che rappresentano a loro volta il 29% delle emissioni di gas climalteranti a livello mondiale), contro il 6% dell’industria dell’estrazione e lavorazione dei minerali non metallici, del 4,8% di quella del ferro e dell’acciaio, del 4,3% del settore petrolchimico, dell’1,4% di quella dei metalli non ferrosi, dell’1,1% della produzione del cibo e del tabacco e del 10,5% di altri tipi d’industrie.

Bisogna comunque considerare che alcuni tipi di carta, come quella dei giornali e dei materiali da imballaggio sono costituiti completamente da fibre riciclate. In Europa, nel 2020, la raccolta differenziata della carta si è attestata intorno all’81% con una lieve flessione di 3 punti percentuali dovuta all’emergenza sanitaria da Covid-19. Nello stesso anno, in Italia, la raccolta è stata del 70%, pari a 9,6 milioni di tonnellate.

Naturalmente, quando si considerano i consumi e le emissioni per produrre libri, giornali e riviste cartacei, bisogna tenere conto che per la produzione della carta sono necessari dei procedimenti che comportano sia l’utilizzo che l’inquinamento dell’acqua. Per quanto riguarda l’utilizzo di acqua necessario a produrre una tonnellata di carta, le significative innovazioni introdotte negli ultimi anni dall’industria cartaria italiana, per ottimizzare i consumi, hanno permesso di arrivare a un consumo attuale di soli 26 metri cubi di acqua dolce per tonnellata, contro i 100 della fine degli anni ‘70. Inoltre solo il 10% dell’acqua utilizzata nell’intero processo produttivo è costituito da acqua fresca, mentre il 90% è acqua di riciclo.

Tra i maggiori inquinanti rilasciati con le acque reflue dall’industria cartaria c’è il mercurio, che viene trasformato dai microrganismi degli strati superficiali dei sedimenti marini in metilmercurio, una forma estremamente tossica del metallo, che entra nella catena alimentare attraverso il plancton, percorrendola interamente fino ai pesci di grossa taglia, i grandi predatori, in cui si concentra in maggiore quantità, a causa del processo di biomagnificazione.

Anche gli inchiostri utilizzati per la stampa contribuiscono all’inquinamento sia delle acque, durante la loro produzione, che dell’aria, durante il loro uso, per via dei solventi in essi presenti.

Bisogna inoltre considerare il trasporto sia della carta alle case editrici, che dei prodotti stampati ai punti di vendita o a casa dei lettori, nel caso della distribuzione attraverso le grandi piattaforme di vendita on line.

Il corretto smaltimento dei cellulari (e dei rifiuti elettronici in generale) è possibile ma costoso. Foto Fairphone.

L’impronta digitale

La lettura di testi per mezzo di un dispositivo elettronico come un e-reader, un tablet o un pc sembrerebbe essere molto più «leggera» per l’ambiente, rispetto alla carta stampata, perché un dispositivo può contenere migliaia di testi, questi si possono scaricare in un attimo e non devono essere trasportati, quindi apparentemente non c’è inquinamento. Nemmeno per spostarsi con un mezzo di trasporto per il loro acquisto, dal momento che esso può essere effettuato su internet. Inoltre i testi sono dematerializzati, quindi non si contribuisce alla deforestazione. Apparentemente la lettura dei testi digitali sembra rivoluzionaria per l’ambiente, ma un attento esame dimostra che la sua impronta ecologica è piuttosto elevata e non si discosta da quella della carta stampata. Questo perché non possiamo considerare solo i consumi del nostro dispositivo elettronico, ma dobbiamo innanzitutto considerare i consumi e gli scarti relativi al suo intero ciclo di vita e quelli di tutta la tecnologia necessaria per fare arrivare i testi fino al nostro dispositivo. In pratica, dobbiamo tenere conto delle materie prime utilizzate per la costruzione del nostro dispositivo, tra cui le terre rare, come il coltan, estratte con procedimenti e in luoghi rischiosi per i lavoratori, soprattutto perché spesso teatro di guerre per la loro appropriazione. Dobbiamo, inoltre, considerare il quantitativo di energia necessario sia per la sua costruzione, che per il suo trasporto fino a noi da luoghi lontanissimi e che per tale trasporto sono necessari mezzi ad altissimo consumo energetico come navi mercantili o aerei e autotreni. Certo non possiamo comparare il consumo di energia per la costruzione di un dispositivo elettronico con quella per la produzione di un singolo libro o rivista o giornale. Come dicevo prima, il nostro dispositivo può contenere fino a qualche migliaio di libri e, se siamo dei lettori particolarmente assidui, almeno in considerazione di questo fatto, potremmo pensare ad un risparmio energetico con la lettura di testi digitali. Il nostro dispositivo però ha bisogno di corrente per funzionare, mentre se leggiamo di giorno basta la luce solare.

Una caratteristica dei dispositivi elettronici è che la loro vita è piuttosto breve, sia perché le batterie al litio, di cui sono dotati, durano pochi anni, sia perché caratterizzati dall’obsolescenza programmata. Dopo un po’, infatti, pc, tablet ed e-reader non riescono più a effettuare i necessari aggiornamenti per adeguarsi ai nuovi sistemi operativi e alle nuove app (applicazioni), che hanno bisogno di una memoria sempre più ampia per funzionare. La batteria esaurita e l’obsolescenza programmata ci portano, quindi, a cambiare i nostri dispositivi dopo pochi anni di uso, anche se ancora funzionanti e a doverli smaltire come Raee (Rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche).

lo smaltimento

Il corretto smaltimento di questa tipologia di rifiuti è un processo multifase, lungo e costoso, che prevede il recupero e il riutilizzo di buona parte dei componenti. Tuttavia, non sempre questi rifiuti tecnologici vengono smaltiti correttamente, con il rischio che le sostanze tossiche contenute nei loro componenti, se gettati in discariche e non trattati in modo adeguato, possano inquinare l’ambiente.

È quello che sta capitando in molti paesi a basso reddito, dove viene effettuato in modo illegale e non tracciato lo smaltimento dei nostri rifiuti tecnologici, come ad esempio in diverse regioni o città africane, che si stanno trasformando in discariche a cielo aperto di rifiuti tecnologici dei paesi occidentali. Questo avviene perché gli impianti per il corretto trattamento dei rifiuti elettronici sono all’avanguardia, ma costosi. Si stima che già nel 2006, in Europa siano stati prodotti tra 8-12 milioni di tonnellate di Raee, ma attualmente si pensa che la loro percentuale rispetto al totale dei rifiuti solidi urbani sia equivalente a quella degli imballaggi in plastica. Il loro tasso di crescita è infatti elevatissimo. È evidente che smaltire un libro è molto più semplice ed economico: la cosa migliore da fare è donarlo oppure, nella peggiore delle ipotesi, destinarlo alla raccolta differenziata e riciclarlo.

Il peso dei data center

Ciò che ho descritto fino a qui però riguarda solo il nostro dispositivo personale. Quindi, molto meno dei reali consumi legati alla fruizione on line di libri, riviste, giornali (oltre che di video, film, podcast, ecc.), perché tutto ciò di cui possiamo fruire è formato da dati che si trovano in qualche gigantesco data center, da cui partono i servizi digitali che utilizziamo.

L’insieme dei data center è un sistema, che identifichiamo con il cloud, rappresentato da quella eterea nuvoletta, che vediamo nell’icona corrispondente, ma che ha ben poco di etereo. Si tratta in realtà di un insieme di strutture fisiche costituite da fibre ottiche, router, satelliti, cavi posizionati in fondo all’oceano, giganteschi centri di elaborazione dati pieni di computer. Tutto questo consuma un’enorme quantità di energia, anche perché molte di queste strutture necessitano, per funzionare bene, di impianti di raffreddamento.

Gli utenti finali non si rendono minimamente conto di questo grandissimo dispendio energetico, perché pagano esclusivamente la piccola quantità di energia consumata dai loro dispositivi, gli abbonamenti ai fornitori di contenuti e i gigabyte di traffico ai loro operatori telefonici. È evidente, quindi che anche le letture online pesano parecchio sull’ambiente e probabilmente non ci sono vantaggi in termini di risparmio energetico totale e di riduzione dell’inquinamento, rispetto alla carta stampata.

I servizi offerti dagli strumenti digitali costano (e molto) anche in termini ambientali. Foto Gerd Altmann – Pixabay.

Digitale e problemi fisici

Nella scelta tra un modo di leggere e l’altro pesano diversi fattori, tra cui l’età dei lettori (le persone anziane non sempre hanno dimestichezza con i mezzi informatici), la necessità di risparmiare spazio (la carta pesa e occupa grandi volumi), la possibilità di facilitare la lettura regolando le dimensioni dei caratteri offerta dai dispositivi elettronici, le esigenze dell’insegnamento a distanza, per cui è necessario che i due sistemi continuino a coesistere.

È però importante considerare che un’eccessiva esposizione agli schermi dei dispositivi elettronici può portare alla «sindrome da visione al computer» o Cvs (Computer vision syndrome), una condizione sempre più diffusa che interessa tra il 70-90% delle persone che passano diverse ore davanti ad uno schermo. I sintomi di questa sindrome sono variabili e sono di tipo visivo, neurologico e muscolo-scheletrico. Non è detto che si presentino tutti insieme e possono variare da una persona all’altra, in base alle abitudini di lettura allo schermo. Frequentemente, dopo alcune ore allo schermo, si presentano bruciore agli occhi, affaticamento e talora sdoppiamento della visione, mal di testa e dolori al collo, per la posizione assunta.

Molti problemi legati a una lunga esposizione a uno schermo sono dovuti al fatto che gli schermi di computer, tablet e smartphone emettono luce blu, che ha effetti negativi su uno dei nostri pigmenti visivi, la rodopsina, portando a un più rapido invecchiamento della vista. Inoltre, la luce blu influenza negativamente il sonno e la concentrazione, in particolare se l’esposizione avviene nelle ore serali, perché rallenta la produzione di melatonina, l’ormone che induce il sonno, provocando insonnia, irritabilità e ansia. Oltre a questo, un’esposizione costante alla luce blu può danneggiare la retina, che non ha sufficienti schermature per questa lunghezza d’onda. A differenza delle altre gamme di luce, che vengono assorbite dalla cornea e dal cristallino, quella blu-viola penetra in profondità nell’occhio e arriva alla zona centrale della retina, la macula, che elabora le nostre informazioni visive.

Infine, la luce blu è capace di influenzare i neurotrasmettitori del tratto retino-ipotalamico, responsabile della regolazione del nostro ritmo circadiano, che è alla base dei nostri processi biologici, tra cui sonno-veglia e produzione ormonale, con alterazioni sia fisiche, che comportamentali.

In conclusione, con un occhio alla salute del pianeta e uno alla nostra, scegliamo il supporto che più ci è confacente.

Rosanna Novara Topino

Quanto inquina l’Internet?

Sebbene sia difficile quantificarlo, secondo una recente ricerca di Greenpeace, il consumo energetico di internet è circa il 7% dell’energia elettrica mondiale. Il suo rilascio di CO2 sarebbe di circa un miliardo e 850 milioni di tonnellate cubiche all’anno, cioè circa 400 grammi per ciascun utente di internet. E l’energia utilizzata dai grandi data center è «pulita» o «sporca», cioè deriva da fonti rinnovabili o no? Secondo un altro report del 2017 di Greenpeace, che ha preso in considerazione i grandi data center e una settantina tra siti web e applicazioni, per quanto riguarda l’utilizzo di energia pulita, per le loro operazioni negli Usa, al primo posto si trova Apple con l’83% di energia pulita, seguita da
Facebook con il 67%, Google con il 56%, Microsoft con il 32%, Adobe con il 23% e
Oracle con l’8%. La restante parte di energia usata è fornita da gas naturale, centrali a carbone e nucleare.

RTN




La regina dei container

testo e foto di Martina Ferlisi, Sarika Strobbe, Amarilli Varesio |


Elettrodomestici, apparecchi elettronici e beni di ogni tipo, buttati via in Europa, sono riutilizzati in Africa. In Italia, alcuni immigrati di lungo corso si sono specializzati nelle spedizioni. Il passo verso il commercio di rifiuti tecnologici però è breve.

«Liberate i nostri container! Stiamo morendo dentro! Basta discriminazioni», sfilano gli striscioni. È un 19 agosto dal cielo coperto, il traffico è paralizzato e la via Gramsci di Genova è invasa da un fiume di magliette rosse, grida, musica e bandiere del Ghana.
Sono più di settecento i ghanesi che, da tutto il Nord Italia, hanno raggiunto la città per manifestare. Circa quattrocento dei container da loro spediti sono fermi, senza nessuna spiegazione, da più di un anno presso la dogana di Genova. «Non capiamo perché, non sappiamo perché, noi siamo oggi qui a chiedere il perché. Non possono bloccare i nostri container, la gente sta male, sono un sacco di soldi quelli che abbiamo speso». Queste le parole di Nanà Pomaah, pronunciate con rabbia al microfono di un giornalista. A guidare il corteo c’è lei. Un passo avanti a tutti, avvolta in un vestito rosso, cammina con fierezza.

Nanà Pomaah nel villaggio ghanese di Dormaa Ahenkro, luogo di origine della madre, ha ricevuto il titolo onorifico e tradizionale di regina. Un riconoscimento che le fa sentire la responsabilità di rappresentare il suo popolo, di sostenerlo nelle sue battaglie anche in Italia, con tutta la sua grinta e determinazione.

Il blocco dei container rappresenta un grande problema per la comunità ghanese, dentro di essi, infatti, ci sono generi alimentari, vestiti, macchine, beni di ogni tipo che gli immigrati raccolgono e spediscono ai loro familiari e soci. La stessa Nanà spiega di avere una fondazione a Dormaa Ahenkro, grazie alla quale aiuta bambini di strada e vedove. Per questo è per lei importante che il suo container arrivi a destinazione. Dopo dieci giorni di fermo del container al porto, inoltre, viene richiesto il pagamento di 130 euro al giorno a chi spedisce.

A seguito della manifestazione, i funzionari della direzione interregionale di Liguria, Piemonte e Valle d’Aosta dell’Agenzia delle dogane e dei monopoli, si sono resi disponibili a incontrare i ghanesi che si occupano delle spedizioni, per spiegare loro le motivazioni del blocco, e soprattutto quali regole dovranno rispettare in futuro affinché non se ne ripetano altri.

A corte, dalla regina

Nanà, alcuni giorni dopo la manifestazione di Genova, ci accoglie nel salotto di casa sua a Como dove vive da ormai 22 anni. Ha indossato per noi gli abiti e i gioielli tradizionali, quelli delle cerimonie ufficiali nelle quali riveste il suo ruolo di regina. Un turbante dorato le copre il capo, e un grande tessuto bianco decorato con melograni d’oro le cade morbido sulla spalla sinistra. A ciascun polso indossa tre bracciali d’oro, e per ogni mano tre grandi anelli, anch’essi d’oro. Sono abiti che un tempo erano esclusivi dei reali ma che ora vengono utilizzati anche nei matrimoni della gente comune. In passato questi gioielli erano d’oro vero, oggi non più. Questo significa essere regina in Ghana oggi: vestiti importanti da indossare, ma che non portano nessuna ricchezza materiale, solo responsabilità.

Nanà ci racconta che dopo essere stata nominata regina nel 2016 non le è stato dato nulla se non qualche appezzamento di terra e il rispetto, quello sì, di grandi e piccoli. «Quando sei regina devi lavorare per il tuo popolo, devi creare qualcosa per il tuo popolo», ci dice. Il suo sogno è infatti quello di costruire, per mezzo della sua fondazione, una scuola tecnica e una clinica per donne incinte, per creare competenze, posti di lavoro e sicurezza sociale.

Nanà non è sempre stata una regina e la sua vita in Italia non è stata sempre facile. Arrivata a Palermo molto giovane, è stata costretta a cambiare più volte città e lavoro. Ha iniziato come parrucchiera, e dopo aver ottenuto il diploma Asa (ausiliario socio assistenziale, ndr), si è dedicata alla cura degli anziani. Nanà sostiene che siano i loro racconti, i loro ricordi, che lei definisce la sua vera «università di vita», ad averle fatto maturare l’esperienza giusta, per farle affrontare con forza e consapevolezza anche i momenti più difficili. Sa bene infatti che solo il confronto e il dialogo potranno aiutare il cambiamento.

Grazie all’incontro tra gli spedizionieri ghanesi e i funzionari delle dogane, la situazione è stata chiarita: il blocco era stato causato da irregolarità nel carico dei container. I controlli avevano fatto emergere la presenza di merci come bombole, batterie usate, motori di frigoriferi, che, secondo le leggi e le convenzioni internazionali come quella di Basilea, non possono essere spediti, perché considerati rifiuti pericolosi e altamente inquinanti.

Nanà ci racconta che in Ghana si trovano principalmente prodotti provenienti dalla Cina di scarsa qualità. Per questo i beni che arrivano dall’Europa sono tanto ambiti e apprezzati. Anche se usati e talvolta rotti, possono comunque essere riparati e durare di più di quelli nuovi cinesi.

Uniti si può

Per gestire le spedizioni nella maniera più corretta, la comunità ghanese ha dato alla luce un’associazione, l’African shipment association. Guidata da Nanà, in quanto portavoce, e presieduta da Yusuf Amoudou, spedizioniere con esperienza quasi trentennale, è stata un’iniziativa molto apprezzata dai doganieri genovesi. Chi vuole farne parte deve infatti conoscere e rispettare le regole. «Adesso anche io insegno alla mia gente», ci dice Yusuf che nel frattempo ci ha raggiunti a casa di Nanà. «Le spedizioni sono diminuite perché prima ognuno mandava qualsiasi cosa, anche i rifiuti. Adesso non più».

Lo spedizioniere

Yusuf sfoggia la sua dentatura bianchissima mentre ci rivolge un sorriso. Ha indossato una cravatta con dei piccoli cavalli in corsa e lucidato le scarpe per la nostra chiacchierata. Yusuf viene dal Ghana, ed è in Italia dal 1989. Lavora come manutentore a Caverago, nella provincia di Bergamo. Negli anni ‘90 ha spedito il suo primo container e, piano piano, si è costituito una solida rete di connazionali che lo pagano per mandare beni, nuovi o usati, in Ghana. Frigoriferi, televisori, pompe, macchine da cucire, ma anche dentifricio, medicinali chiusi dentro grossi bidoni di plastica. Tutti beni che l’uomo raccoglie porta a porta, con il furgone, durante il weekend, e poi ammassa dentro un grande magazzino.

La logica sottostante a questa attività, nelle comunità africane in Italia, è quella di mandare ai propri familiari delle rimesse sotto forma di beni e non di soldi, perché questi ultimi vengono facilmente tassati dallo stato. «Nel container ci sono i miei oggetti più quelli di altre 20 o 30 persone», dice Yusuf definendo quello che in dogana viene chiamata una spedizione «groupage» (mettere in gruppo, ndr). Per Yusuf, questo è diventato il suo secondo lavoro. Una volta al mese, per 3.500 euro, affitta e spedisce un container da 40 piedi.

Riciclo e circolazione

Come Yusuf, molti altri immigrati presenti nelle nostre città, barcamenandosi tra lavori precari, portano avanti questo genere di attività informali di riciclo e riutilizzo, non senza contraddizioni. Spesso, i beni di seconda mano vengono recuperati da chi sgombera le cantine e, invece di portare gli oggetti all’isola ecologica, li rivende agli spedizionieri. Altra fonte sono donazioni di privati, mercati dell’usato, marketplace di Facebook, marciapiedi o rubati all’aziende di smaltimento rifiuti. Nelle comunità di origine intere famiglie ricavano gran parte del loro reddito dalla rivendita dell’usato europeo in piccoli negozi, o dal suo riutilizzo in diverse attività. Le auto, ad esempio, diventano taxi, i forni permettono di aprire delle panetterie, e i frigoriferi di vendere il ghiaccio lungo le strade accaldate delle capitali africane. Con un investimento modesto, si attivano piccole economie locali.

Non prima di aver ricevuto un bacio da parte di Nanà, usciamo di casa per andare con Yusuf nel luogo in cui i suoi collaboratori stanno caricando un container.

Dentro al container

Ci inoltriamo lungo una stradina immersa nel bosco punteggiata da sedie di plastica malridotte usate da prostitute con lo sguardo cupo. Sotto nubi dense, finiamo nel cortile di un grande capannone dove troneggiano cinque container aperti e montagne di oggetti ben incellofanati e accatastati, con i nomi dei proprietari accuratamente scritti sopra. Questa è la condizione necessaria per evitare che, in caso di apertura del container, i doganieri pensino che il carico sia destinato al traffico di rifiuti. Con grande maestria, da ore, quattro uomini stanno incastrando i pacchi nel container in modo da non lasciare neanche una fessura libera. Alcuni, vedendoci arrivare, mostrano un po’ di diffidenza, non sembrano contenti della nostra visita. Ci fermiamo pochi minuti, giusto il tempo per vedere alcuni pneumatici usati ammucchiati. Probabilmente non è ancora ben chiaro a tutti quali sono gli oggetti la cui esportazione è vietata dalla Convenzione di Basilea del 1992.

Per via di questa convenzione risulta molto difficile esportare, per esempio, gli oggetti elettronici. «Le apparecchiature elettroniche di seconda mano, possono essere esportate a condizione che abbiano la certificazione di funzionalità», ci spiegherà Florindo Iervolino, responsabile della dogana di Genova. In poche parole, è necessario che un tecnico compia dei test sull’elettrodomestico e certifichi il suo funzionamento o la possibilità di ripararlo. Ma questa operazione costa circa 60 euro.

Lo stratagemma usato dagli spedizionieri africani è quello di non dichiarare il materiale che necessiterebbe di certificazione. Inoltre, i beni vengono spediti con la dicitura «effetti personali o masserizie», che però dovrebbe essere al seguito di una persona che trasloca. Questo genere di spedizioni viene sottoposta a forme di controllo minori in dogana, e non permette di esportare e commerciare, ma solo di traslocare i propri beni. (questo è uno dei dettagli che indica che è   una pratica illecita).

L’ambiguità si gioca sul fatto che i beni presenti nei container sono di varia natura: oltre a quelli destinati esplicitamente alla rivendita in negozi dell’usato europeo che possono essere definiti merci, ci sono beni inviati come aiuto alle proprie famiglie, oppure spediti su richiesta: cioè oggetti già proprietà del destinatario al momento della spedizione e che quindi non rientrano in un vero e proprio commercio.

Piccoli commerci

Il recupero dei beni, lo stoccaggio, l’organizzazione del container richiedono fatica, pazienza e una capacità logistica non indifferenti. La motivazione che anima questo lavoro è la consapevolezza di poter dare ad altri e a se stessi delle nuove opportunità economiche.

Abu ha 26 anni ed è arrivato in Italia 5 anni fa. Per diverso tempo ha lavorato come rider, senza coperture assicurative. Nei week end vendeva e comprava vestiti ai mercatini dell’usato, e con il tempo è riuscito, assieme ad altri, ad affittare un container e a spedire beni di vario genere alla sorella in Gambia, permettendole così di aprire un negozio dell’usato. Tra i beni più richiesti dai clienti vi sono i frigoriferi. Abu allora ha iniziato a recuperarli da un italiano che effettua sgomberi, e che rivende a basso prezzo ciò che trova. Abu rivende i frigoriferi al triplo del prezzo, riuscendo così ad avere un margine di guadagno che lo aiuta a vivere. Il piccolo commercio del giovane ha un effetto positivo sull’economia della sua famiglia: la sorella rivende i beni, mentre la madre prepara e vende ghiaccioli alla frutta, che conserva in un grande frigorifero speditole dal figlio. Sebbene scelga quelli più nuovi e funzionanti, Abu non effettua nessun test di funzionamento, e come questi vengano spediti, nemmeno lui lo sa bene, è un suo socio a occuparsi della documentazione.

Forse, il motivo di quella certificazione, costosa e insostenibile per chi vorrebbe solo spedire oggetti con buone intenzioni, è chiara a chi lavora nelle grandi discariche a cielo aperto, come quella di Agbobloshie, nei sobborghi di Accra, capitale del Ghana. Lì, ogni giorno, uomini, donne e bambini bruciano apparecchiature di ogni genere per estrarre a mani nude rame, ferro, metalli di valore e guadagnarsi così la giornata.

Tutti in discarica

Mike Anane, giornalista ambientale, vive ad Accra e, da vent’anni, si occupa di documentare la tremenda situazione in cui versano i territori delle discariche e loro suoi abitanti. In questi luoghi vi è un’altissima incidenza di malattie respiratorie, della pelle e tumori. L’esposizione a fumi nocivi e tossici porta le persone a non respirare più, a non riuscire a dormire la notte. «In questi vent’anni, le persone sono diventate più consapevoli – dice Mike -, ma l’arrivo di rifiuti elettronici non si è mai fermato, nonostante le diverse convenzioni e regole che ne impedirebbero la spedizione. Ricevere un frigorifero che potrebbe smettere di funzionare in breve tempo è problematico laddove non vi sono infrastrutture adatte a un consono trattamento e smaltimento». Mike è categorico: «Per impedire che questo inferno continui a bruciare, i paesi dell’Occidente devono rispettare gli accordi, effettuare i controlli e smaltire i beni che non funzionano all’origine».

Le persone da noi incontrate non hanno intenzione di spedire beni non funzionanti, ma solo far arrivare alle proprie famiglie oggetti di qualità, ai quali non avrebbero accesso altrimenti. D’altra parte, il traffico illecito di rifiuti, spesso gestito dalle ecomafie, è un fenomeno che provoca grossi problemi ambientali e sociali in Africa e che va combattuto con fermezza. Come coniugare la volontà di offrire un’opportunità migliore ai propri familiari, con la sostenibilità? Un sistema che agevoli la certificazione del funzionamento dei beni usati, prima della loro partenza – evitando dunque che si trasportino rifiuti – che sia semplice ed economicamente accessibile agli immigrati, potrebbe essere un primo passo per rendere le esportazioni più trasparenti. Inoltre, vi è la necessità di un sistema in Italia che si preoccupi di agevolare pratiche di valorizzazione di beni già esistenti e prepararli al loro riutilizzo e commercializzazione.

Martina Ferlisi, Sarika Strobbe, Amarilli Varesio


Le autrici

Martina Ferlisi, ama scrivere, studia economia.
Sarika Strobbe, artista, studia antropologia.
Amarilli Varesio, cantautrice, studia antropologia.
• Le foto del servizio sono delle tre autrici e di Marta Lombardelli, videomaker.
• Sono state finaliste della nona edizione del Premio Morrione 2020, per la categoria video inchiesta con «Un’altra rotta». Qui il trailer: www.premiorobertomorrione.it/inchieste/unaltra-rotta/