Gocce di speranza


I Missionari della Consolata sono arrivati nel 2018 a Luacano, diocesi di Luena nella provincia di Moxico. Proprio nella regione dove, sedici anni prima, aveva avuto i suoi momenti conclusivi la guerra civile che ha stravolto la vita del paese dal 1975 al 2002 lasciando pesanti distruzioni e numerosi campi minati.

Luacano si trova 220 km a est di Luena (anche Lwena, ndr), capoluogo della provincia di Moxico, a 1.300 km da Luanda, capitale dell’Angola, e ad appena 100 km dai confini con il Congo Rd. La cittadina è stata fondata nel 1931. Moxico, con i suoi nove comuni, compreso Luacano, ha un’estensione territoriale di 223.023 km2 (circa dieci volte la Lombardia, con un decimo della sua popolazione, ndr). È la provincia dove si sono combattute le ultime fasi della guerra civile. Nel comune di Luacano, dove i Missionari della Consolata sono arrivati nel 2018, oltre a provocare innumerevoli morti, la guerra ha portato la distruzione di infrastrutture, scuole, case e chiese, e ha causato un massiccio esodo di popolazione che ha lasciato il territorio senza insegnanti, infermieri, medici, artigiani e tecnici.

Secondo l’ultimo censimento, nel 2014 Luacano aveva 21.447 abitanti. Considerando un tasso di natalità annuo intorno al 7%, e le difficoltà di registrazione e le incertezze dei documenti, oggi si stima ci siano circa 40mila abitanti. Le principali attività economiche sono la pesca e la coltivazione della manioca. La popolazione è composta da due gruppi etnolinguistici: i Tchokwe e i Luvale, che hanno un profondo patrimonio culturale. Di particolare rilievo sono i «mukanda», i riti di circoncisione per l’iniziazione dei «wali» (giovani), riti che però non comportano la mutilazione genitale femminile.

Le nostre comunità

La parrocchia santa Maria Mãe de Deus di Luacano è nella diocesi di Luena. A servirla siamo in due Missionari della Consolata: insieme a me, lavora padre Bernard Maina Wambui. Ha sette centri sparsi su un’area di 13.573 km2 (grande come la Campania, ndr). Il primo centro è Calomba dove c’è una piccola comunità di cattolici. Sono in tre, tra i quali l’unica donna catechista, la signora Victorina Tumba (Soba), che non sa né leggere né scrivere.

Il secondo è la comunità di Caifuche che vede crescere il numero di fedeli di giorno in giorno. Lì, non c’è ancora un responsabile della comunità che, per ora, è guidata da una piccola commissione di fedeli. Gli incontri di preghiera o la celebrazione della messa avvengono sotto un albero di mango.

Il terzo è la comunità di Lituta. Questa soffre per il fatto che la maggior parte dei suoi membri è analfabeta e molto attaccata alla religione tradizionale.

Il quarto centro è la comunità di Cazanguissa. È quella meglio organizzata di tutta la parrocchia, perché le responsabilità sono condivise, e così riesce anche ad aiutare due comunità vicine (Sambololo e Cualendende). I pochi giovani collaborano nelle attività pratiche e animano il coro. Esiste un gruppo di 48 catecumeni di diverse età che, con il nostro aiuto, è attualmente suddiviso secondo le varie tappe del cammino di iniziazione cristiana. La comunità però non è in grado di autofinanziarsi, in quanto i suoi membri non hanno risorse economiche da condividere, possono offrire solo servizi e lavori concreti.

Il quinto è quello del Lago Dilolo che è stata senza la messa per dieci anni fino all’anno scorso. La vita della comunità è guidata da un piccolo consiglio locale. La maggior parte dei fedeli non è battezzata e per questo abbiamo organizzato insieme un piano di formazione e catechesi.

Il sesto centro è la comunità di Caxita che è quella più lontana da Luacano (200 km). È una comunità vivace guidata da tre catechisti che hanno costruito una cappella in legno ed erba. Questa comunità ha il potenziale per diventare una chiesa forte, ma la sua distanza e le strade dissestate costituiscono una grande sfida per noi.

Il settimo è la comunità parrocchiale di Luacano dove c’è la celebrazione quotidiana della messa, l’adorazione eucaristica settimanale, la disponibilità al sacramento della riconciliazione due volte alla settimana, oltre all’accompagnamento di gruppi e movimenti. Anche il catechismo viene insegnato su base settimanale.

La comunità è divisa in diversi gruppi: bambini, giovani, uomini e donne. Sperimenta anche l’incostanza nella partecipazione a causa del grande movimento di persone verso altre località (Luau e Luena) alla ricerca di pascoli più verdi.

È da notare che i bambini e i giovani sono una parte importante della popolazione e un gran numero di loro non sa né scrivere né leggere, il che rende molto difficile trasmettere qualsiasi formazione religiosa o sociale.

La cappella di Tchinyama a 60 km sud dalla nostra presenza IMC a Luacano Angola

Programma di eradicazione dell’analfabetismo

Per capire meglio la situazione di Luacano, dobbiamo vedere come va in generale il sistema educativo in Angola. Secondo i dati ufficiali del ministero dell’Istruzione per l’anno 2019@, quasi il 25% della popolazione angolana è analfabeta. Tuttavia, la realtà sul campo è molto varia e non corrisponde alle statistiche ufficiali.

Secondo il servizio della televisione pubblica dell’Angola (Tpa) del 26 marzo 2019, nella provincia di Cuanza Norte, che dista solo 211 km dalla capitale, oltre il 90% degli studenti di prima media non sa né leggere né scrivere. Se quella provincia così vicina a Luanda è in queste condizioni, possiamo immaginare la situazione scolastica in comuni remoti come Luacano.

Infatti, il tasso reale di analfabetismo, secondo le organizzazioni non governative, è del 45-55%, ovvero 13 milioni di angolani dai 15 anni in su@.

Il rapporto Undp (Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo) sull’Angola degli anni 2014-2018 mostra un tasso del 47% di angolani tra i 5 e i 23 anni che non frequentano la scuola e, tra questi, il 16% non l’ha mai frequentata.

Va notato che in province come Lunda Norte, oltre l’85% della popolazione adulta è analfabeta.

La causa principale di questa drammatica situazione è la lunga guerra civile durata più di 25 anni fino al 2002. Ma, dopo l’accordo di pace, nel paese è emerso un pessimo sistema educativo: scuole senza strutture, senza materiale didattico, e con insegnanti senza un’adeguata preparazione.

Stando così le così, noi missionari della Consolata abbiamo intrapreso un programma di alfabetizzazione in cui educhiamo la gente del posto a leggere e scrivere. Durante la settimana i nostri giovani si incontrano nel pomeriggio per corsi di alfabetizzazione che coinvolgono anche la sensibilizzazione vocazionale. Infatti, da questa attività sono uscite cinque ragazze che studiano in diverse case di suore e cinque giovani entrati nel seminario minore.

visita pastorale alla cappella di san Paolo in Lituta alla distanza di 67km dalla sede parrocchiale

Maternità precoce

Purtroppo è frequente incontrare ragazze di appena 12 anni incinte o sposate. La maggior parte viene da noi chiedendo aiuto, ma con i mezzi limitati che abbiamo possiamo solo incoraggiarle a rimanere positive, mentre nel profondo di noi siamo turbati.

Un pomeriggio, mentre stavo camminando nel villaggio di nome bairro Morango, le nuvole hanno iniziato ad addensarsi e presto ho sentito le prime gocce di pioggia sulla fronte. Mi sono riparato velocemente nella casa più vicina, una capanna dal tetto di erba secca. Entrando, mi sono stupito che nella sua semplicità quella casa fosse in grado di ospitare ben quattordici bambini. Tra di essi c’era una ragazza di 13 anni che allattava un bambino nato da appena due settimane. Il resto dei suoi fratelli non era mai entrato in una scuola. Nessuno sapeva pronunciare una parola portoghese, tutti parlavano solo luvale. Non c’era niente da offrire allo sconosciuto appena entrato in casa: nessuna sedia, niente acqua e, con sorpresa, non c’era nemmeno un piccolo segno dell’imminente pasto per l’intera famiglia.

Più avanti, nella settimana, li abbiamo inclusi nel programma alimentare, ma ancora una volta la sfida principale è l’incapacità di finanziare un programma umanitario così nobile.

Salute

Nel comune di Luacano c’è una struttura sanitaria, ma purtroppo mancano i medici, e il loro laboratorio non ha le attrezzature per far fronte al crescente numero di malattie.

Qui la malaria è comune a causa dei prolungati periodi di piogge e della mancanza di un buon sistema di drenaggio e di fognature. La mancanza di conoscenza dell’igiene di base contribuisce anche a diverse malattie. La maggior parte dei cittadini soffre costantemente di diarrea e vomito. L’assenza di acqua potabile è la causa della maggior parte delle malattie. Per questo, nonostante le nostre ristrettezze economiche, abbiamo contribuito a scavare numerosi pozzi per migliorare il benessere della nostra gente.

In questa situazione ci sono persone che hanno optato per l’assistenza domiciliare, cioè le cure tradizionali.

Il comune di Luacano non ha obitori. All’ospedale comunale e al centro di maternità infantile non c’è mai stata una camera mortuaria, così, quando qualcuno muore, il funerale si fa entro il giorno seguente, prima che il corpo inizi la decomposizione.

Trasporti

La distanza tra Luena, sede della diocesi e capitale della provincia, e Luacano, è un’altra delle difficoltà che tutti hanno. L’unica via di comunicazione esistente è la ferrovia, mentre la strada è in condizioni impossibili. Sono solo 220 km, ma con il treno ci vogliono cinque ore. I treni sono disponibili cinque giorni alla settimana (lunedì, martedì, mercoledì, giovedì e sabato).

Se invece si decide di utilizzare la strada, uno lo fa a suo rischio e pericolo. Le strade hanno due caratteristiche principali: sono molto sabbiose durante il periodo secco e diventano un pantano durante la stagione delle piogge.

Tornando al treno, vale la pena sottolineare alcune sue caratteristiche che lo rendono unico: è un treno con motore alimentato a diesel; c’è un continuo movimento di persone da una carrozza all’altra; ogni stazione in cui si ferma diventa un mercato all’aperto dove si comprano prodotti alimentari (principalmente limoni, pesce ecc.) e dove un gran numero di bambini cercano di venderti di tutto, anche quando ci sono condizioni meteorologiche avverse.

Questa unicità è enfatizzata anche da una natura bellissima e lussureggiante lungo la linea ferroviaria.

Stando così le cose continuiamo a dialogare con le autorità locali affinché intervengano sul mantenimento delle poche infrastrutture di questo meraviglioso paese. Abbiamo con loro ottime relazioni che ci permettono anche di godere di una buona sicurezza, specialmente in previsione di offrire ai nostri amici la possibilità di visitare la missione.

La nostra casa

La nostra casa si trova in un quartiere costruito dal governo locale dopo la guerra. Era stata donata al vescovo di Luena, dom Tirso Blanco (defunto il 22/02/2022).

È una casa semplice con i servizi essenziali e dotata di pannelli solari. A poca distanza c’è un’altra casa conosciuta localmente come la «casa del vescovo», che gli era stata donata dallo stesso comune come sua dimora per le sue le visite pastorali. Questa casa è più ampia ed è a disposizione degli ospiti. Per l’acqua è stato scavato un pozzo che serve egregiamente per le nostre necessità e per quelle dei fedeli quando vengono alla chiesa.

Siamo in un rapporto molto positivo e cordiale con i nostri vicini, bella gente che ha un cuore grande nella propria semplicità e che fa anche buona guardia alla casa quando noi siamo lontani per visitare i centri.

Manioca, cibo di base

La popolazione locale è sempre vissuta dipendendo dalle piogge stagionali e, nella stagione secca, dalle acque raccolte negli stagni naturali. I continui drastici cambiamenti climatici hanno rotto questo equilibrio ed è stato necessario scavare nuovi pozzi per rispondere ai bisogni della gente.

L’alimentazione dipende per il 90% dalla manioca. Foglie di manioca come verdure, steli di manioca come legna da ardere e tuberi di manioca come pasto principale. Con una dieta così limitata, ci sono molti casi di sindrome da insufficienza alimentare soprattutto nei bambini piccoli. L’unica volta che c’è un cambiamento di menù è quando viene cucinato un pesce essiccato della stagione precedente.

Per cambiare questa realtà stiamo iniziando a introdurre altre colture stagionali intercambiabili, come il mais e i fagioli che maturano in un tempo più breve della manioca, la quale impiega un anno intero prima di essere pronta per il consumo.

Sfide

A Luacano bisogna imparare a vivere senza internet, visto che la rete mobile è debole e instabile. In compenso il contatto con la gente del posto è sempre pieno, a ogni ora del giorno.

Anche la nostra mobilità è limitata perché durante la stagione delle piogge (da settembre a marzo) siamo costretti a fermarci nella sede centrale a causa dell’acqua che rende le «strade» impossibili anche con un potente fuoristrada.

Per fare le spese poi, non possiamo contare sull’unico negozio locale. Esso vende i prodotti a un prezzo tre o quattro volte più alto che in città, così bisogna percorrere i 220 km che ci separano da Luena con il treno che parte il pomeriggio alle tre, pernottare in città, comprare il necessario e poi prendere un altro treno per ritornare a casa il giorno dopo alle quattro del mattino. Sono qui a Luacano da meno di un anno. Non era certo nelle mie previsioni essere inviato in un posto così remoto e impegnativo. Ma è una bella sfida per la mia passione missionaria. Ringrazio di cuore tutti quelli che ci sono vicini con la loro preghiera e il loro sostegno.

Martin Mbai Ndumia


Angola

  • 1.246.700 km² di superfice (23° del mondo per estensione)
  • 25.789.024 abitanti nel 2014
  • 35.928.000 abitanti al 23/03/2023, h 15, secondo l’United nations world population prospect.

Paese situato nell’Africa sudoccidentale. Sotto influenza portoghese dal XV secolo, colonia fino al 1951, poi provincia d’oltremare e infine indipendente dal Portogallo l’11 novembre 1975 dopo un’aspra guerra.
Al momento dell’indipendenza il Paese era diviso, da una parte il Movimento popolare di liberazione dell’Angola (Mpla), fondato nel 1956 e appoggiato dall’Urss, dall’altra l’Unione Nazionale per l’Indipendenza totale dell’Angola (Unita) e il Fronte di liberazione nazionale dell’Angola (Flna), più vicini agli Stati Uniti. In gioco c’erano non solo contrasti etnici e interni, ma anche il controllo delle ricche risorse (petrolio e diamanti in particolare) del Paese. Iniziò così la guerra civile che sarebbe durata fino al 2002.

La guerra ha devastato le infrastrutture e danneggiato gravemente la pubblica amministrazione, l’economia e le istituzioni religiose.

È importante notare che i 27 anni di guerra civile in Angola hanno lasciato milioni di famiglie alla fame, altre sono state costrette a fuggire dalle loro case nei paesi vicini, Congo e Zambia, e oltre 100mila bambini sono stati separati dalle loro famiglie.

Quando i combattimenti sono terminati nel 2002, mine antiuomo ed esplosivi erano disseminati ovunque in campi,
villaggi e città, e hanno continuato a uccidere e ferire migliaia di persone. Le vittime delle mine antiuomo non ricevono alcun sostegno dal governo.

M.M.N.


LA RELIGIONE

La popolazione dell’Angola è prevalentemente cristiana. Non esistono statistiche accurate sull’argomento. La maggioranza è cattolica, circa il 20% è protestante di varie denominazioni e gli altri aderiscono a credenze tradizionali. Solo una piccola percentuale (forse il 2%) aderisce all’Islam o ad altre religioni. I cattolici sono più numerosi nella regione costiera occidentale densamente popolata. La Chiesa cattolica continua a svolgere un ruolo importante nel fornire istruzione al popolo dell’Angola. Il Paese ha attualmente cinque arcidiocesi e 19 diocesi: Huambo (diocesi di Huambo, Benguela, Kwito-Bié), Luanda (Luanda, Cabinda, Caxito, Mbanza Congo, Sumbe, Viana), Lubango (Lubango, Menongue, Ondjiva, Namibe), Malanje (Malanje, Ndalatando, Uije) e Saurimo (Saurimo, Dundo, Lwena). La nostra diocesi, Lwena, dopo la morte del salesiano dom Tirso Blanco il 22/02/2022, è in attesa della nomina di un nuovo vescovo Si stima che il 47% della popolazione angolana, soprattutto nelle aree rurali, pratichi varie forme di religioni indigene. Anche molte persone che professano il cristianesimo, si trovano ancora attaccate ad aspetti delle pratiche e delle credenze religiose tradizionali.

M.M.N.


Archivio MC




Reportage da Kirkuk: I sopravvissuti (alla follia dell’Isis)


L’Isis ha portato distruzione, morte e follia non soltanto a Mosul. Siamo andati nella città petrolifera di Kirkuk, a lungo contesa dalle varie fazioni in lotta, per incontrare i sopravvissuti della guerra. Molti altri vivono nei campi profughi (a volte da anni) in attesa di capire la loro sorte.

testo e foto di Angelo Calianno

Sono passati quasi 5 anni dalle invasioni e dai massacri dell’Isis in Iraq. Dal 2017 la presenza degli uomini del Daesh è stata notevolmente ridimensionata fino a ridursi a poche frange che combattono ancora in Siria. Alcune tra le città precedentemente occupate – come Sinjar, Mosul, Kirkuk – sono state riconquistate, anche se sono andate semidistrutte durante le battaglie per riperderne il controllo.

Dove sono oggi tutti quegli uomini e donne che hanno combattuto contro l’Isis? Dove sono e cosa fanno oggi le persone sopravvissute a maltrattamenti, abusi e violenze? Ci sono ancora cellule dormienti dell’Isis? Dove sono gli accusati di collusione con i terroristi dello Stato islamico?

Tra Erbil, Mosul e Kirkuk incontro alcune delle persone che hanno vissuto quei giorni, che hanno perso molti dei propri cari durante gli scontri e gli attentati di questi ultimi, tremendi anni.

Il petrolio (come sempre)

Uno dei più grandi obiettivi del Daesh durante la sua prima comparsa è stata proprio Kirkuk.

Questa è oggi una città di circa 600 mila abitanti di diversi credi religiosi, tra cui sunniti, sciiti e cristiani. L’importanza della città risiede nel suo sottosuolo, uno dei più ricchi e antichi giacimenti di petrolio del Medioriente. Una stima dello scorso novembre ha calcolato che, se si estraesse tutto il petrolio greggio da quest’area, la sua quantità ammonterebbe a oltre 9 miliardi di barili: questo dice molto sul motivo per il quale sia stata così contesa.

I terroristi del califfato sono arrivati a Kirkuk e nella sua provincia nel 2014. La regione è stata strenuamente difesa dalle milizie curde dei peshmerga che l’hanno contesa all’Isis fino al 2017. Anche lo stato semiautonomo del Kurdistan avrebbe voluto, in qualche modo, annettersi i giacimenti di petrolio ai suoi territori. Nel 2017, le milizie sciite del governo iracheno però sono entrate in città con i carri armati a riprenderne il controllo.

Si è sfiorato un altro conflitto interno tra curdi iracheni e iracheni, diversi civili sono stati feriti e tantissimi curdi, inclusi i peshmerga, hanno ripiegato verso la capitale Erbil, lasciando definitivamente Kirkuk nelle mani di Baghdad.

A Kirkuk

Arrivo nella zona di Kirkuk in auto con Ahmed Salah, un militante peshmerga che ha combattuto un po’ ovunque sul fronte anti Isis. Alcuni dei suoi zii e cugini sono morti proprio in questa zona, durante i primi scontri contro gli uomini dello Stato islamico.

Per arrivare qui da Erbil abbiamo attraversato tre check-point, uno peshmerga e due delle forze di sicurezza irachene. «Da questi villaggi e queste campagne – mi racconta -, molta gente si è unita al Daesh. Vedi quella casa? Oggi è tenuta sotto controllo 24 ore al giorno: uno dei ragazzi che ci abitava con la sua famiglia era un terrorista, oggi è in carcere. Ha molti fratelli e si teme che alcuni di loro possano far parte delle cellule dormienti».

Pensi ci siano molte persone che segretamente ancora supportano l’Isis?, gli chiedo. «Io penso di sì, lo pensa anche l’intelligence, vedi quel ragazzo ad esempio?».

Mi dice indicando un ragazzo vestito con abiti tradizionali, barba lunga e con visibili problemi di ritardo mentale.

«Il Daesh arruolava molte persone con poca istruzione, gente che aveva problemi mentali o problemi economici. Li indottrinavano con la religione islamica. Io conosco quel ragazzo e la sua famiglia: non si sarebbe mai vestito così prima. È stato arruolato anche lui, poi per il suo chiaro stato psicologico è stato lasciato in pace e riaffidato alla famiglia che comunque è sotto controllo».

Tu hai combattuto un po’ ovunque – dico al mio interlocutore -. C’è stato un episodio che più di altri ti ha segnato? «Ce ne sono stati tanti, uno dei più brutti è stato quando ho trovato mio cugino e mio zio uccisi qui vicino. Tuttora non ne sappiamo il motivo, ma durante l’invasione del Daesh si moriva per niente. Forse però l’immagine che non mi toglierò mai dalla mente è un’altra…».

Ahmed Salah tira fuori il cellulare per farmi vedere alcune fotografie, ritraggono un pickup bianco con quattro cadaveri senza vestiti al suo interno: «Qui eravamo tra Mosul e Sinjar. Avevamo scavato delle trincee per ostacolare qualsiasi attacco potesse arrivare con i mezzi terrestri. Una mattina, all’alba, vediamo questo pickup venire a tutta velocità verso di noi. Non si vedeva nulla per la nebbia e il parabrezza era tutto sporco di terra e polvere».

«Abbiamo aperto il fuoco contro il veicolo che poi si è infossato nella trincea. Quando abbiamo aperto le portiere del mezzo abbiamo trovato loro: erano quattro ragazzini nudi e legati. Sull’acceleratore era stata messa una pietra. Erano sicuramente stati rapiti, avevano subito abusi e poi erano stati lanciati contro di noi. Non siamo mai nemmeno riusciti a fare il riconoscimento dei cadaveri per sapere chi fossero, ma forse per i parenti, in quei giorni, è stato meglio non sapere la fine che avevano fatto i loro figli».

Ahmed Salah mi saluta e si incammina verso casa, ma dopo qualche secondo torna indietro per dirmi qualcos’altro: «Vorrei aggiungere un’altra cosa, un dubbio che per noi è sempre stato importante. All’inizio, durante gli scontri con il Daesh, venivamo continuamente bombardati. I colpi di mortaio si susseguivano notte e giorno, senza tregua. Poi le esplosioni cessavano non appena gli americani mettevano piede nel nostro campo. La stessa cosa accadeva quando dalle nostre postazioni gli americani cercavano di colpire i terroristi, non centravano mai l’obiettivo al primo colpo, ma sempre al terzo o al quarto. Queste coincidenze sono accadute più di una volta e a tutti i peshmerga hanno sempre creato molto sospetto».

Nel nome di Allah

A Kirkuk incontro altri due ragazzi che sono sfuggiti per un soffio alle spedizioni punitive dell’Isis. Essendo cristiani erano uno i primi bersagli da persegure. Il modo in cui sono riusciti a scappare è davvero particolare: «Siamo scappati perché uno dei nostri amici era con il Daesh. Prima di arrivare a Kirkuk ci ha telefonato per avvisarci, così siamo riusciti a fuggire con le nostre famiglie».

Chiedo loro: conoscevate molte persone che si sono unite al Daesh? Se sì, perché lo hanno fatto secondo voi? «Ne conoscevamo diverse, con due in particolare lavoravamo trasportando ortaggi e frutta nei mercati. Sai, all’inizio, quando ne parlavano e facevano le prime riunioni nelle moschee, non sembrava una cosa così grande. Nessuno pensava che saremmo arrivati a questo punto, alla guerra, alle violenze. I miei amici si sono uniti al Daesh perché a loro sembrava una cosa giusta. Erano sunniti. Il governo sciita di Baghdad aveva impoverito le loro famiglie, vedevano la corruzione ovunque. Il Daesh aveva promesso che ci sarebbero stati soldi divisi più equamente nel nome di Allah. Io penso che quando si sono resi conto di quello che sarebbe successo, fosse troppo tardi per tirarsene fuori. Sono riusciti però a salvare noi».

Avete avuto più notizie di loro? «No, penso siano morti. Non sono più tornati a casa e le loro famiglie comunque sono sorvegliate dall’esercito, nel caso dovessero tornare o altri terroristi si facessero vedere».

Gli Yazidi del campo profughi

Gli uomini dell’Isis hanno perpetrato violenze ovunque, ma c’è un gruppo su cui si sono particolarmente accaniti, i credenti di una fede religiosa che i terroristi hanno praticamente decimato. Sono gli Yazidi, ritenuti dal Daesh, per il loro singolare credo religioso, adoratori del diavolo.

Uno degli stermini più atroci che l’Iraq abbia mai vissuto si è consumato a Sinjar. Il 4 agosto 2014 gli uomini del Daesh hanno ucciso 5mila persone, mentre in 7mila sono stati rapiti, la maggior parte donne per diventare «schiave del sesso», e bambini, poi mandati nelle scuole di rieducazione per diventare militanti, erano tutti di fede yazida.

Mirza è una di quelle persone riuscite a fuggire dal massacro. Ha 39 anni, anche se dimostra molto più della sua età. Lo incontro in una tenda nel campo di rifugiati a Shari, nella provincia di Dohuk. L’Iraq ha decine di campi profughi destinati ai cosiddetti «rifugiati interni», quelle persone che hanno perso le proprie case e terre durante il conflitto contro l’Isis. In questo campo sono quasi 5mila. Vivono accatastati in tende consumate dalle intemperie.

Mirza ha combattuto nell’esercito iracheno per 11 anni, per questo, quando l’Isis è arrivato a Sinjar, il suo nome era in cima alla lista delle persone da eliminare. Da 4 anni Mirza vive qui con la sua famiglia. In una delle tende a lui destinate ha aperto un piccolo laboratorio dove ripara apparecchi elettrici. Nel campo tutto funziona solo con i generatori a gasolio. Lo intervisto mentre si riscalda davanti a una stufetta a legna. Fuori ci sono tre gradi e la pioggia battente ha ricoperto le strade del campo di fango.

Mirza, raccontami di come hai fatto a fuggire da Sinjar? In quanti siete scappati? «Prima del 4 agosto 2014, già da giorni sapevamo che il Daesh sarebbe arrivato. Avevo dei conoscenti che si trovavano vicino al loro campo, furono loro ad avvisarci di scappare. Ci dissero che altrimenti sarebbe potuta finire molto male per noi. Con mio fratello prendemmo tutta la nostra famiglia: i nostri figli, mogli, fratelli e sorelle, eravamo in 30, la notte prima che arrivassero gli uomini del Daesh ci nascondemmo in montagna».

Come avete fatto a sopravvivere? Siete più tornati a Sinjar?, gli chiedo. «Ogni notte scendevo nei villaggi a valle per prendere da mangiare, dalle montagne abbiamo poi passato illegalmente il confine con la Siria dove siamo rimasti per tre mesi, poi anche lì la situazione cominciò a peggiorare. Allora sono riuscito a trovare uno smuggler che ci ha portato di nuovo in Iraq e poi in Kurdistan. Abbiamo speso tutto quello che avevamo per il viaggio, 1.000 dollari. Sono in questo campo da allora».

Conoscevi alcune delle persone che si sono arruolate con l’Isis? A molti faccio la stessa domanda, come hanno potuto farlo secondo te? Molte delle persone, prima che arrivasse Daesh, vivevano in pace e non avevano mai fatto del male a nessuno.

«Io penso che dipenda moltissimo dalla loro istruzione ed educazione, da dove vengono, dalle loro famiglie, per molti all’inizio sembrava una cosa buona, nessuno quando si sono arruolati aveva parlato di sterminare gli Yazidi, uccidere i propri amici perché di religione diversa. La propaganda era più religiosa e mirata contro l’invasione occidentale, contro le multinazionali che volevano usare la nostra terra, contro la corruzione. Ogni giorno però la situazione diventava più grave fino ad arrivare a quello che sappiamo oggi. Ci hanno sterminati», mi dice commuovendosi.

«Io conoscevo alcune delle persone che hanno attaccato Sinjar. Molto probabilmente oggi sono morte. Io non ce l’ho con loro. So che sono stati manipolati e che gli hanno riempito la testa di sciocchezze. Però nessuno ci ha difeso, ora con la mia famiglia viviamo qui, senza lavoro, senza futuro. Quest’anno non ci hanno nemmeno consegnato il gasolio per il riscaldamento e da giorni non fa altro che piovere. Io vorrei tornare un giorno a Sinjar, ma oggi Sinjar non esiste più».

Mirza mi racconta che nel campo ci sono anche diverse ragazze che sono state rapite da Daesh e poi segregate a Mosul per essere «schiave sessuali»: «Conosco le famiglie di tutti qui, alcune di queste ragazze, da allora, da quando sono riuscite a scappare, non parlano più, non riesco a immaginare quanto possa essere doloroso solo ricordare quello che è successo».

Bassem, cristiano di Mosul

Spostandomi a Mosul mi ritrovo in una città in rovina. In questi vicoli, oggi devastati dai bombardamenti americani, sono morti insieme agli uomini dello Stato islamico anche migliaia di civili. In alcune di queste case, mi dice la gente per strada, l’Isis teneva segregate sia ragazze che ragazzi per abusare sessualmente di loro. Altri luoghi invece, come chiese e scuole, venivano usati come carceri o stanze per le esecuzioni.

Davanti alla chiesa armena di Etchmiadzin, sventrata dalle bombe americane, incontro Bassem.

Vive in uno stanzino qui accanto, poca roba ammassata sotto un edificio pericolante, lo incontro mentre beve whisky da una bottiglia di plastica con due suoi amici. Molti non musulmani comprano a poco prezzo distillati fatti in casa: per tanti di loro, soprattutto dopo la distruzione di Mosul, è l’unica via di fuga dalla realtà.

Bassem, perché hai deciso di vivere in questo centro storico ormai distrutto?, gli chiedo. «Ho sempre vissuto qui. Non me ne sono andato quando è arrivato Daesh, non me ne sono andato quando gli americani bombardavano e non me ne vado adesso. Poi li vedi quelli?».

Mi dice indicando alcuni ragazzi con un vecchio veicolo a tre ruote: «Girano di edificio in edificio per rubare tutto quello che trovano, soprattutto metalli come il rame. In questa chiesa ci sono ancora candelabri, lapidi, targhe di ottone. Io sono qui per proteggerla».

Bassem toglie il lucchetto della catena che chiude la porta della chiesa. Entrando, tra calcinacci e vetri rotti, solleva il maglione per mostrarmi delle cicatrici sulla schiena: «Un giorno mi hanno portato qui perché hanno trovato a casa mia una parabola per la televisione e dell’alcol. Mi hanno preso a bastonate sulla schiena e lasciato per terra. Non sono riuscito a muovermi per settimane. Ridevano mentre lo facevano e mi sputavano addosso».

Bassem mi mostra altri angoli della chiesa e racconta ancora dei giorni dei bombardamenti. Lo fa con un sorriso abbozzato, con il sollievo di essere sopravvissuto, ma senza molta speranza di vedere una ricostruzione. Dopo aver riconquistato la maggior parte delle città irachene, è cominciata la ricerca dei dispersi, migliaia sono le persone di cui non si ha più traccia.

Tra novembre 2018 e gennaio 2019 sono state trovate oltre 200 fosse comuni contenenti migliaia di cadaveri giustiziati dall’Isis. Al momento sono state scoperte nelle province di Ninive (la maggior parte attorno alla città di Mosul), Kirkuk, Salahuddin e Anba.

Secondo le prime stime dell’Onu, le vittime trovate sarebbero 12mila. Si è cominciato un lento e paziente riconoscimento dei cadaveri che potrebbe portare in futuro a dei processi per crimini contro l’umanità. Tutti gli intervistati mi hanno parlato delle vittime ancora da ritrovare. Nella stessa Mosul, ad esempio, tantissimi corpi si trovano ancora sotto le macerie della città, impossibili da estrarre se non ci sarà una ricostruzione.

Dopo l’Isis: giustizia sommaria, sospetti, paura

Il segno dell’Isis non è stato lasciato solo addosso alle sue vittime. Proprio in questi giorni Human Rights Watch ha pubblicato un dossier che parla di arresti indiscriminati e torture da parte dell’intelligence irachena e di quella curda, ai danni di chi – in qualche modo – ha interagito con gli uomini del Daesh.

Ragazzi che lavoravano nei ristoranti dove gli uomini del califfato andavano a mangiare, musulmani sunniti che praticano un islam più radicale, famiglie di ragazzi arruolati nelle file dell’Isis. Moltissimi vengono arrestati, interrogati, spesso con violenza, e una volta rilasciati, tutta la loro comunità li marchia come terroristi. Tra di loro ci sono molti minorenni, Human Rights Watch, nel suo dossier, riporta che fino a dicembre 2018 il numero di minori detenuti superava i 1.500, di cui 185 condannati con l’accusa di terrorismo. Recentemente, 19 di loro hanno dichiarato di essere stati percossi con tubi di plastica e torturati con scosse elettriche, fino ad essere costretti a confessare di aver fatto parte dell’Isis. Tutto pur di far cessare le torture.

Il terrorismo in queste terre non ha portato solo morte e distruzione ma ha lasciato una scia di paura: la paura di un’altra guerra e che nuovi gruppi di terroristi possano apparire da un giorno all’altro. Questa paura ha fatto chiudere spesso un occhio alle autorità sui metodi usati nelle indagini antiterrorismo, e ha portato ad un sovraffollamento, spesso non giustificato, delle carceri.

Il timore che l’Isis possa tornare ha inoltre insinuato il sospetto della gente nei confronti dei propri vicini di casa, a dubitare dei propri conoscenti, a volte dei propri amici.

Malgrado questo, ogni persona da me incontrata o intervistata mi ha espresso speranza. Non quella di avere una vita migliore o rivivere nelle proprie case ricostruite, ma quella di tornare a vivere in pace, senza paura che il terrore possa tornare a regnare per queste strade.

Angelo Calianno


Yazidi: Il tempio vuoto

Su una montagna, a 60 km da Mosul, sorge il sacro tempio degli Yazidi, dove una volta l’anno i fedeli si recano in pellegrinaggio.
È un freddissimo giorno di febbraio, piove da molti giorni, ci togliamo le scarpe per camminare nella parte sacra del tempio, sentendo la pietra bagnata e gelata del pavimento delle ampie corti. Uno dei sacerdoti mi mostra il pozzo sacro: «Qui – mi racconta -, è dove tutte le ragazze, dopo essere scappate o liberate dalla cattività dell’Isis, vengono per purificarsi, per essere di nuovo pulite».

Come mai è così vuoto il tempio?, chiedo. «Da quando è arrivato l’Isis il numero di chi viene al tempio è sempre minore, persino nelle nostre festività principali ho visto centinaia di persone in meno. Tutto questo è il frutto dei massacri e anche della fuga di tanti nostri fedeli all’estero».

Si è stimato che su quasi 600mila yazidi, 100mila siano fuggiti all’ estero durante i primi attacchi dello Stato islamico. Oggi 6.500 sono le persone, per lo più donne, che portano il peso e i segni della cattività, durata in alcuni casi 3 anni. Sopravvissute ai rapimenti, agli stupri sono passate da questo tempio per lavarsi via la violenza, per ricominciare una nuova vita.

A.Cal.

 

Archivio MC: sulla vicenda degli Yazidi la rivista ha pubblicato un dossier uscito a marzo 2017 e firmato da Simone Zoppellaro.

 




Iraq: Il ritorno dei cristiani nella piana di Ninive, ricostruire dopo l’Isis

Testi di Marta Petrosillo, foto ACS |


Estate 2014: centinaia di migliaia di cristiani fuggono da Mosul e dalla piana di Ninive. L’Isis ha iniziato la sua avanzata con distruzioni e massacri. Quando la zona viene liberata più di due anni dopo, molti decidono, con coraggio, di tornare. Vogliono ricostruire una presenza cristiana vecchia di duemila anni. In prima fila a sostegno delle popolazioni le Chiese cristiane.

Ritornare a vivere a casa propria dopo l’Isis, dopo l’orrore, dopo aver visto tanti, familiari e amici, abbandonare per sempre il paese, è possibile. Ce lo dimostrano i cristiani iracheni che, nonostante il dolore e l’incertezza, non si sono arresi a chi voleva cancellare la loro presenza da queste terre e oggi sono tornati in gran numero nella piana di Ninive dalla quale erano dovuti fuggire in massa.

Quando è stata liberata tra fine 2016 e inizio 2017, e quando si sono potute constatare le distruzioni compiute, nessuno sperava in un simile miracolo.

Iraq Ninive area Qaraqosh/Bakhdida – ritorno a casa

Tornare in città distrutte

A Qaraqosh, piccolo centro urbano a circa 30 km a Sud Est di Mosul, nel Nord dell’Iraq, noto per essere la roccaforte della cristianità nel paese, si stima che siano ritornati 25.650 cristiani: il 46 per cento di quanti abitavano la cittadina prima dell’invasione dell’Isis nell’agosto 2014.

Notevoli risultati si sono registrati anche in altri villaggi della piana: a Karemlesh, distante 5 km da Qaraqosh, sono rientrati il 26 per cento dei cristiani fuggiti nel 2014, mentre a Telskuf, 60 km più a Nord, i rientri sono stati ben 5.313, ossia il 73 per cento, la quota più alta della zona. Proprio nel villaggio di Telskuf è stata riconsacrata la prima chiesa della piana di Ninive, quella di San Giorgio, danneggiata e profanata dall’Isis. «Un messaggio di speranza e di vittoria. Lo Stato islamico voleva cancellare la presenza cristiana e invece i jihadisti se ne sono andati, mentre noi siamo tornati», ha detto monsignor Bashar Matti Warda festeggiando la riconsacrazione della chiesa l’8 dicembre 2017.

Le Chiese unite per ricostruire

Il processo di ricostruzione ha visto le Chiese irachene in prima linea. L’opera di ripristino e di riedificazione delle oltre 13mila abitazioni bruciate, distrutte e danneggiate dallo Stato islamico, è stata ed è coordinata, infatti, dal Comitato per la ricostruzione di Ninive (Nrc, Nineveh Reconstruction Committee), istituito il 27 marzo 2017 dalle tre Chiese dell’Iraq: caldea cattolica, siro cattolica e siro ortodossa, con la collaborazione della fondazione pontificia Aiuto alla Chiesa che soffre.

Ognuna delle tre Chiese ha due suoi rappresentanti nel comitato. Monsignor Timothaeus Mosa Alshamany, arcivescovo della Chiesa siro ortodossa di Antiochia e priore del monastero di San Matteo, dopo la firma dell’accordo ne ha sottolineato la duplice, storica portata: da un lato lo spirito ecumenico, dall’altro la reale possibilità per migliaia di cristiani di tornare alle loro radici e a una vita dignitosa. «Oggi – ha affermato – siamo una Chiesa davvero unita; unita per la ricostruzione delle case nella piana di Ninive, per infondere fiducia nei cuori delle persone che vivono in quei villaggi e per invitare quelli che li hanno lasciati a tornare».

Iraq, Bartela, 10/09/017, distribuzione di piantine di palma alla chiesa della Vergine Maria della Chiesa ortodossa siriaca. © ACS

Ripristinare la dignità

Molti sacerdoti si sono trasformati in ingegneri, architetti e geometri. Don Georges Jahola è uno di loro: è il sacerdote siro cattolico che ha coordinato la ricostruzione di Qaraqosh. Non appena celebrata la messa, don Jahola smette i paramenti e prende il cellulare per seguire i lavori. Gli abbiamo parlato a fine gennaio scorso: «Dopo 2 anni di occupazione dello Stato islamico, al nostro rientro abbiamo trovato quattro chiese bruciate, due siro cattoliche e due siro ortodosse. Abbiamo trovato una chiesa totalmente distrutta, mentre altre erano gravemente danneggiate. Abbiamo celebrato la messa in chiese bruciate. Ora stiamo costruendo e ristrutturando edifici dove poter svolgere catechesi e altre attività pastorali».

La priorità è quella di ristabilire una presenza cristiana, per fare in modo che anche altre famiglie decidano di tornare. «Vogliamo creare spazi per i bambini e per il tempo libero degli adulti e dei giovani», continua don Jahola che ricorda anche le drammatiche condizioni in cui ha trovato Qaraqosh: «Abbiamo visto una città distrutta. Da un lato a causa di oltre due anni di abbandono, dall’altro per via della furia dell’Isis. Il 35% delle case era stato distrutto. Ci siamo spaventati, ma non ci siamo persi d’animo. Abbiamo mappato tutte le case, le abbiamo fotografate, assegnato loro un codice ed elencato i danni di ciascuna. Qui in Iraq se non ci pensa la Chiesa a far fronte alle necessità di questa povera gente non lo farà nessuno».

Oggi, laddove un tempo sventolavano le bandiere nere dell’Isis, sono tornate le famiglie cristiane. «Quasi tutte le parrocchie hanno riaperto – continua don Jahola -. Soltanto due anni fa era impensabile poter ritornare a Ninive. Ma questo significa per noi riacquistare le nostre radici e poter vivere la nostra fede in unione con quella dei nostri antenati».

«Qui c’è il nostro futuro»

Ritornare a casa non è stato semplice per i cristiani. «È stata una ferita al cuore quando ho visto cosa rimaneva della mia abitazione e della mia città», ci confida Wisam, rientrato a Qaraqosh assieme alla sua famiglia dopo aver vissuto da rifugiato a Erbil, capoluogo del Kurdistan iracheno, per oltre due anni.

Ad aiutare Wisam e gli altri cristiani desiderosi di tornare a casa vi è anche Amjeed Tareq Hano, un giovane di 28 anni che aiuta il team di 70 ingegneri al lavoro nella sola Qaraqosh. Sulla sua scrivania un’alta pila di richieste. «Per poter ricevere un sostegno i proprietari devono contribuire personalmente alla ricostruzione o al ripristino – spiega il giovane ad Acs -. Soltanto così possiamo contenere i costi e aiutare altre famiglie».

Amjeed sottolinea come il governo iracheno non abbia affatto sostenuto l’opera di ricostruzione. «Sconfiggiamo l’Isis armati di intonaco e mattoni».

Dopo la presa della piana di Ninive da parte dell’Isis, anche Amjeed ha vissuto con la sua famiglia a Erbil. Non ha mai rimpianto la decisione di rimanere nel proprio paese, in Iraq. «Dobbiamo bollire l’acqua, l’elettricità è prodotta dai generatori e le strade sono piene di buche. L’Iraq è tutto fuorché sicuro, ma questa è la nostra casa e qui è il nostro futuro. E la nostra patria ha estremamente bisogno della presenza di noi cristiani».

Iraq, Qaraqosh, giugno 2018, padre Georges Jahola mostra figure e dati del piano di ricostruzione. © ACS

Un nuovo vescovo per i Caldei

Ma se nella piana di Ninive il ritorno dei cristiani dopo la liberazione dallo Stato islamico è stato a dir poco sorprendente, a Mosul, seconda città dell’Iraq, la situazione è ben diversa.

«La nostra più grande sfida è quella di restituire la fiducia ai fedeli, così che possiamo lavorare insieme per costruire il futuro dei cristiani in Iraq», ci dice monsignor Michaeel Najeeb Moussa, domenicano, poco dopo la sua ordinazione episcopale come vescovo dei caldei di Mosul avvenuta il 25 gennaio. Dopo quasi cinque anni da quando lo Stato islamico aveva costretto il suo predecessore monsignor Emil Shimoun Nona a lasciare la città, la comunità caldea di Mosul e della piana di Ninive ha nuovamente un pastore.

Vi sono molti funzionari governativi e anche studenti universitari cristiani che si recano a Mosul ogni giorno, ma nessuno ha il coraggio di rimanere stabilmente a vivervi. Il timore è che permangano in città cellule nascoste di jihadisti e, in ogni caso, che l’Isis possa tornare. In più i cristiani ora faticano a fidarsi anche dei loro ex vicini di casa musulmani che in molti casi hanno aiutato i combattenti islamisti. «Preferiscono percorrere anche 85 chilometri per tornare a dormire nei villaggi della piana di Ninive, perché qui non si sentono al sicuro», ci spiega il presule.

Al momento neanche lui può tornare a risiedere in città: «L’85 per cento delle chiese di Mosul è stato distrutto così come l’arcivescovado». Ma monsignor Najeeb spera di tornarvi presto ed è sicuro che la presenza di un vescovo in città donerà di nuovo speranza anche agli altri. «Credo che il ritorno dei cristiani a Mosul sia possibile, e credo che tutto cambierà quando si tornerà a celebrare stabilmente la messa, come si è fatto per duemila anni, prima dell’arrivo dell’Isis».

Convertirsi, fuggire o morire

Monsignor Najeeb ha avuto un ruolo essenziale nella salvaguardia delle radici cristiane. Quando è fuggito a Erbil, dopo l’arrivo dell’Isis nel 2014, ha salvato decine e decine di manoscritti antichi che catalogava e digitalizzava da decenni per preservare il patrimonio storico del popolo cristiano e di tutti gli iracheni.

Esattamente come il suo predecessore, l’arcivescovo emerito dei caldei di Mosul, Emil Shimoun Nona, anche monsignor Najeeb ha affrontato lo stesso destino dei cristiani di Mosul e della piana di Ninive.

Nella notte tra il 9 e il 10 giugno del 2014, l’Isis ha preso possesso della città, costringendo alla fuga oltre metà della popolazione. Ai pochi cristiani che, nelle prime settimane dopo l’arrivo dell’Isis, sono rimasti a Mosul, è stata imposta inizialmente la jizya, la tassa, cosiddetta «di protezione», riscossa ai non musulmani ai tempi dell’impero ottomano. Ma il piano per trasformare l’Iraq e la Siria in un unico Califfato islamico non poteva prescindere dall’eliminazione delle minoranze religiose. Così a metà luglio i jihadisti hanno marchiato le case cristiane della città con la lettera araba «ن», iniziale della parola nasara: nazareni. Quindi i fondamentalisti hanno obbligato i cristiani rimasti a scegliere se convertirsi, fuggire oppure essere uccisi. Nelle ore seguenti code interminabili di auto e di persone si sono dirette verso il Kurdistan iracheno e la piana di Ninive. Ma chi ha optato per la seconda scelta si è visto costretto a fuggire di nuovo nella notte tra il 6 e il 7 agosto 2014, quando lo Stato islamico ha preso possesso di 13 villaggi cristiani della piana.

In una sola notte, oltre 125mila fedeli hanno dovuto abbandonare le proprie case senza poter prendere nulla. Molti di loro hanno camminato per ore in pigiama prima di giungere a Erbil o alla vicina città di Duhok. Sfuggiti alla crudeltà dei miliziani, gli ultimi cristiani in Iraq hanno dormito per giorni nelle chiese, nelle scuole, all’ombra di palazzi fatiscenti per poi trovare «finalmente» una casa in tende asfissianti in cui le temperature, nella calda estate del 2014, sfioravano i 44 gradi.

Poi, fortunatamente, grazie alle Chiese locali e alla generosità di molti benefattori, le famiglie hanno trovato alloggio in case prefabbricate o in appartamenti in affitto dove hanno vissuto almeno fino alla metà del 2017.

Iraq, Qaraqosh, giugno 2018, madre e figli davanti alla loro casa ricostruita a Qaraqosh. © ACS

Una storia di persecuzioni

Quella perpetrata dallo Stato islamico non era tuttavia la prima persecuzione subita dai cristiani iracheni. Il loro numero complessivo nel paese era già diminuito da un milione e 200mila fedeli nel 2003 ai poco più di 300mila del 2014.

L’instabilità del paese, in seguito all’inizio della guerra nel 2003 e alla caduta del regime di Saddam Hussein, ha significato l’inferno per la minoranza cristiana, schiacciata nel fuoco incrociato tra sunniti e sciiti e direttamente perseguitata.

In città come Baghdad, Bassora, Kirkuk, Mosul, tante famiglie cristiane si sono viste recapitare messaggi minatori sull’uscio delle proprie case e, col passare del tempo, hanno dovuto rinunciare alla Messa di Natale nella sera del 24 e a fare l’albero e il presepe se non all’interno delle proprie case. Alcuni cristiani hanno dovuto pagare la jizya, sono stati espropriati delle loro terre e le donne si sono abituate a coprire il capo con un foulard, per confondersi tra le musulmane.

Numerosi rapimenti e uccisioni di fedeli, sacerdoti e perfino vescovi hanno segnato gli ultimi anni della vita dei cristiani in Iraq.

Uccisi in odio alla fede

A Mosul, uno dei simboli del martirio cristiano in Medio Oriente, dopo la caduta di Saddam sono stati uccisi in odio alla fede oltre mille cristiani. La persecuzione non ha risparmiato né l’arcivescovo caldeo monsignor Faraj Rahho, rapito e poi ucciso nel 2008, né il suo segretario, padre Ragheed Ganni.

Padre Ragheed non aveva voluto arrendersi alle minacce di chi gli intimava di chiudere la sua chiesa dello Spirito Santo a Mosul. È stato ucciso il 3 giugno, al termine della Messa. «Ti avevo detto di chiudere la chiesa. Perché non l’hai fatto?», gli ha domandato uno dei suoi assassini. «Come posso chiudere la casa di Dio?», ha risposto lui prima di soccombere al fuoco dei proiettili.

Non vi è dunque da stupirsi se nei lunghi mesi tra il 2014 e il 2017, molti cristiani hanno lasciato il paese in preda allo sconforto e a causa della mancanza di prospettive future.

Poi però con la liberazione della piana di Ninive e la ricostruzione delle case cristiane è avvenuto un vero e proprio miracolo. Lo stesso che oggi si attende a Mosul.

Marta Petrosillo

Iraq, dicembre 2014, bambini al centro “Werenfried” creato per accogliere persone forzate a lasciare le loro case dall’Isis. © ACS


La solidarietà del papa viaggia in Lamborghini

«Ci lasciano increduli e sgomenti le notizie giunte dall’Iraq: migliaia di persone, tra cui tanti cristiani, cacciati dalle loro case in maniera brutale». Così papa Francesco all’Angelus del 10 agosto 2014. Sono passati soltanto tre giorni dalla presa dei villaggi della piana di Ninive, ma il santo padre nomina già come suo inviato speciale nel paese il cardinal Fernando Filoni, prefetto della Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli, e già nunzio in Iraq dal 2001 al 2006. È il primo di molti gesti di vicinanza del pontefice ai cristiani iracheni e alle altre minoranze schiacciate dall’Isis.

«Cari fratelli e sorelle, siete nel mio cuore», dirà poi il santo padre in un videomessaggio registrato il 6 dicembre 2014 per i cristiani di Mosul ricordando l’importanza della loro testimonianza di fede, «la vostra resistenza è martirio, rugiada che feconda».

Segni concreti di vicinanza

Sin dall’inizio della tragica avanzata dell’Isis il papa esprime il desiderio di visitare i suoi fedeli iracheni. Le precarie condizioni di sicurezza non rendono possibile la visita, anche se il viaggio del cardinal Parolin in terra irachena, dal 24 al 28 dicembre 2018, fa ben sperare per il futuro.

Tuttavia i cristiani d’Iraq percepiscono forte la vicinanza del pontefice, attraverso le sue parole, la sua preghiera e i suoi gesti concreti.

Già nel 2016 papa Francesco, attraverso la fondazione Aiuto alla Chiesa che soffre, ha finanziato con 100mila euro la Saint Joseph Charity Clinic che a Erbil offre assistenza medica gratuita.

Poi il 15 novembre 2017, Francesco ha deciso di devolvere al progetto Acs per la ricostruzione dei villaggi cristiani della piana di Ninive, parte del ricavato della vendita all’asta della Lamborghini Huracan da lui ricevuta in dono dalla casa automobilistica.

I fondi ricevuti sono stati impiegati nella ricostruzione di due strutture della Chiesa siro cattolica distrutte dalla guerra nel villaggio di Bashiqa: l’asilo intitolato alla Vergine Maria e il centro polivalente dell’omonima parrocchia, che sarà a disposizione di oltre 30mila abitanti di diverse etnie e fedi.

M.P.

Iraq, Qaraqosh, giugno 2018. Cristiani che ricostruiscono le loro case con l’aiuto di ACS. © ACS




Liberia:

Cronache dal paese «inventato»


La Liberia ha una storia singolare. È stata fondata da ex schiavi afroamericani. Grande un terzo dell’Italia, non ha mai avuto una storia facile. Dopo due sanguinose guerre civili, è il paese che nel 2014 ha subito più vittime a causa dell’ebola. Ma è anche il primo stato africano con una donna presidente. Oggi i giovani chiedono un futuro che valorizzi la bellezza della loro terra.

Dall’ultimo piano del Ducor Palace Hotel, il grande albergo a 5 stelle di Monrovia, abbandonato dal 1989, il panorama è letteralmente mozzafiato: la capitale della Liberia si snoda a perdita d’occhio ai piedi del fatiscente stabile che sorge su una collina nei pressi della città vecchia. Dopo un primo entusiasmante sguardo, a colpire, però, è un’enorme «macchia» malconcia che occupa il lembo di terra che si affaccia da un lato sull’Oceano Atlantico e dall’altro sul fiume Mesurado. «Quella laggiù è la baraccopoli di West Point, conta circa 70.000 abitanti. I politici sono corrotti e se ne fregano della maggior parte della popolazione che vive in condizioni di povertà estrema. Tra l’altro, quando l’ebola nel 2014 è arrivato in quello slum è stata la fine per il nostro paese che era già in ginocchio», racconta il guardiano dell’albergo con sconforto.

Devastata da due guerre civili (1989-1995 e 1999-2003), la Liberia è una nazione che arranca, da sempre spaccata in due. Da un lato la miseria, dall’altro la ricchezza. La morfologia di Monrovia parla chiaro: l’enorme e caotica baraccopoli, i quartieri popolari, le discariche frequentate da uomini e donne in cerca di cibo e il grande cimitero centrale abitato dai senzatetto, contrapposti alle zone residenziali con vie asfaltate sulle quali si affacciano ordinati compound che, con alti muri e filo spinato, proteggono gli uffici delle tante Ong presenti nel paese e le case della borghesia locale. Ricchissimi e poverissimi, niente classe media.

Ad aumentare il divario vi è l’elevato costo della vita dovuto principalmente alla mancanza di energia elettrica. Ricco di ferro, oro e diamanti, il sottosuolo della Liberia è povero di risorse energetiche. «La poca elettricità che abbiamo la otteniamo con il petrolio d’importazione. I prezzi dei prodotti dei supermercati così aumentano perché devono coprire le spese dei generatori», sospira un tassista alle prese con il caotico traffico. E se si pensa che lo stipendio di un insegnante liberiano si aggira intorno ai 200 dollari al mese, si comprende come per la maggior parte della popolazione sia impossibile accedere ai negozi di alimentari. Si ricorre così ai mercati di strada e si mangia carne proveniente dalle foreste: scimmie, iguane… Ed è anche per questo che l’ebola ha trovato terreno fertile.

Il governo ha vietato il consumo di selvaggina. Un decreto difficile da rispettare soprattutto adesso che il costo della vita si è alzato ulteriormente proprio per il fatto che, per più di un anno, durante l’epidemia, tutto si è bloccato: imprese chiuse, attività ferme, scuole sprangate, ospedali governativi in tilt, confini serrati.

Ricostruzione necessaria

«Dobbiamo provvedere a una difficile ricostruzione del paese su tutti i fronti. Abbiamo perso due anni», spiega l’attuale vicepresidente Joseph Boakai, candidato alle elezioni presidenziali del prossimo ottobre, mentre siede composto nel suo ufficio.

Oggi più di prima, quasi tutti i prodotti vengono importati e i prezzi sono alle stelle. Le perdite stimate dalla Banca mondiale in termini di Prodotto interno lordo sono pari a 240 milioni di dollari. Molti ragazzi che dovevano diplomarsi nel 2014 hanno potuto sostenere gli esami solo nel 2016 e il sistema sanitario è da ricostruire.

«Durante l’epidemia sono morte tantissime persone anche di malaria e altre malattie, perché tutte le forze erano concentrate sulla cura dell’ebola. Ora dobbiamo lavorare per garantire agevolazioni sanitarie a chi ce l’ha fatta per effettuare controlli periodici e curare i lasciti fisici della febbre emorragica», racconta Neima Nora Candy, responsabile della sanità pubblica per la Croce rossa liberiana.

Del resto l’epidemia, direttamente o indirettamente, ha colpito tutti e la Liberia deve fare i conti con le conseguenze lasciate dal virus, imparando dai suoi sbagli. Dopo essere stata dichiarata «ebola free» l’11 maggio 2015, la Liberia ha dovuto affrontare altri tre casi immediatamente isolati. Solo in questa nazione sono 4.809 i morti dichiarati (dati Organizzazione mondiale della sanità, Oms). Le persone all’inizio faticavano a credere al virus. Le usanze tradizionali, la diffidenza nei confronti degli operatori sanitari occidentali, il ritardo con cui è stata dichiarata l’emergenza (l’8 agosto 2014), un governo e un sistema sanitario non pronti: tanti sono stati i fattori che hanno permesso all’epidemia di uccidere le persone come mosche nei villaggi e di arrivare in men che non si dica nella capitale.

«Una volta giunta in città e penetrata a West Point è stato un disastro. Così qui in Liberia si è registrato il più alto numero di morti rispetto alle vicine Sierra Leone (3.955) e Guinea (2.536). I risultati? Oltre ai cadaveri, quasi 6.000 sopravvissuti e altrettanti orfani di madre, padre o di entrambi», afferma Tolbert Nyesmah, attuale viceministro della Salute.

L’eredità dell’epidemia

L’emergenza non è quindi terminata anche se, come dice Amr Nugy, a Monrovia per conto dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim), «essendo stata dichiarata la fine della crisi arrivano meno fondi, nonostante i problemi siano ancora tanti, tra emarginazione e povertà». Le conferme si trovano camminando per la città, parlando con le persone, con i sopravvissuti che lottano ogni giorno contro dolori fisici e disturbi psicologici. «Sono diventata sorda ad un orecchio e cieca ad un occhio. Appena sono uscita dal centro di trattamento di Medici senza frontiere (Msf), le persone della mia comunità mi emarginavano: avevano paura». Lela Glay ha 45 anni e vive ad Harbel, la contea nei pressi dell’aeroporto. È depressa, uno stato emotivo a lei sconosciuto prima di contrarre il virus. Ha sei figli e a stento riesce a tirare avanti. «Chi ce l’ha fatta si porta dietro uno stigma difficile da cancellare», spiega con sconforto suor Anna Rita Brustia, missionaria della Consolata impegnata in Liberia dagli anni Settanta.

Innumerevoli sono anche gli orfani dell’ebola: solo ad Harbel se ne contano 614. Tra Liberia, Sierra Leone e Guinea sono 16.600 secondo i dati Unicef. Non esistendo la cultura dell’orfanotrofio, i bambini sono per lo più stati presi in carico da parenti. Si sono create così famiglie allargate enormi, difficili da gestire. «Mi prendo cura dei miei quattro nipoti. Non riesco però a mandarli a scuola tutti», ammette con sconforto un giovane tassista.

Inoltre, ad aggravare la già difficile situazione, vi sono le più giovani vittime dell’ebola: bambini di pochi mesi che dovrebbero essere il futuro della Liberia e che invece, colpiti indirettamente dal virus, si trovano a lottare per la sopravvivenza. Nel Bardnesville Junction Hospital, l’ospedale pediatrico aperto da Msf nel 2014 per curare anche i pazienti affetti da altre patologie, i letti sono occupati da piccoli appena nati. «Sono malnutriti e molti sono vittime dell’abuso di paracetamolo. Durante l’ebola si è infatti registrato un enorme innalzamento del consumo del farmaco che le mamme spaventate somministravano ai figli senza conoscere i dosaggi. Dal momento che i piccoli non guarivano gliene davano sempre di più. Questa brutta abitudine è rimasta tutt’ora», spiega l’infermiera Kathy Beuve di Msf Francia. È infatti necessario continuare a sensibilizzare la popolazione su diversi fronti perché, purtroppo, non sono da escludersi nuovi casi. «Il governo adesso è preparato se scoppiasse un’emergenza. Però sappiamo che il virus persiste nello sperma maschile per qualche mese. Quindi dobbiamo stare sempre allerta e monitorare soprattutto le comunità più isolate», ammette il viceministro.

Verso le elezioni

Nel frattempo la Liberia si prepara alle elezioni che si terranno il prossimo 10 ottobre, quando la popolazione si recherà alle urne per votare sia per il nuovo presidente che per il rinnovo della camera dei rappresentanti. Al potere dal 2006, 78 anni, prima presidente donna dell’Africa, vincitrice del Premio Nobel per la Pace nel 2011, l’attuale capo di stato liberiano Ellen Johnson Sirleaf non si ricandiderà, nel pieno rispetto della Costituzione che prevede due mandati. A rappresentare il partito al potere (Unity Party) sarà infatti l’attuale vicepresidente Joseph N. Boakai.

«La Liberia ha le risorse per diventare una grande potenza. Dobbiamo certo provvedere a migliorare le infrastrutture per favorire i commerci e il turismo. Fuori Monrovia, per esempio, le strade sono tutte sterrate e per raggiungere alcune bellissime località che potrebbero attirare turisti ci vogliono ore. Fondamentale per la nostra economia è inoltre l’agricoltura, sulla quale intendo puntare», spiega Boakai osservato dal ritratto della Sirleaf appeso al muro alle sue spalle. L’agricoltura in Liberia occupa infatti il 70% della forza lavoro e il 44,7% del Pil totale che si aggira intorno a poco più di 2 miliardi di dollari. Tra le colture per l’esportazione prevalgono quella di caucciù, cacao, caffè e palma da olio. Però, come afferma un contadino che abita nella zona di Harbel (dove si trovano le coltivazioni di caucciù della statunitense Firestone), «i giovani faticano a trovare lavoro. Prima le guerre civili, poi l’ebola. Per noi è un periodo davvero difficile e la popolazione ha perso la fiducia nella classe politica e nella Sirleaf alla quale all’inizio tutti abbiamo creduto con entusiasmo».

«Molti di noi non sanno chi votare», ammette un giovane studente davanti all’Università di Monrovia. Il principale partito dell’opposizione è il Congress for Democratic Change, cappeggiato dall’ex calciatore George Weah: vincitore del Pallone d’oro nel 1995 e già candidato alle presidenziali nel 2005, quando perse proprio contro la Sirleaf. Inoltre nel 2011 partecipò, con scarsi risultati, alla corsa per diventare vicepresidente e attualmente ricopre la carica di senatore. «Alcuni di noi lo ammirano perché rappresenta riscatto e forza di volontà, però a livello politico molti hanno dei dubbi», prosegue il ragazzo.

Il paese «inventato»

Fondata nel 1822 dall’American Colonization Society (una società umanitaria statunitense che propugnava la liberazione degli schiavi afroamericani e il loro reinserimento in Africa), la colonia proclamò l’indipendenza il 26 luglio 1847 e adottò una Costituzione su modello di quella degli Usa.

Oggi il paese si trova ad attraversare un delicato momento di transizione con molti drammi alle spalle.

Nel frattempo la missione Onu, stabilitasi in Liberia il 19 settembre 2003 con il compito di mantenere pace e sicurezza, viene progressivamente ritirata.

A guardare avanti, per fortuna, ci sono i giovani di Monrovia, quelli cresciuti nei quartieri più poveri. Come i cantanti Hip Co (hip hop liberiano) che durante l’epidemia hanno continuato a riunirsi per creare canzoni che, in lingua locale, spiegassero alle persone le misure di sicurezza da adottare. Oppure i giovani surfisti di Robertsport (cittadina a 120 km da Monrovia) che nonostante il già scarso turismo sia calato definitivamente, oggi si battono per rivalutare le meravigliose spiagge che sorgono a Nord della capitale. E, come dicono loro con speranza e convinzione, «arriveranno tempi migliori anche per la nostra nazione». Sono sopravvissuti alla guerra e all’ebola, ora non hanno più paura di niente.

Valentina Giulia Milani


Cronologia essenziale

Dal «back to Africa» all’«ebola free»

  • 1821 l’American Colonization Society acquista una porzione di territorio della Sierra Leone per fornire agli schiavi afroamericani una terra dove poter tornare.
  • 1822 il territorio dell’attuale Liberia inizia a essere popolato da ex schiavi che fondano Monrovia.
  • 1836 abolizione dei lavori forzati.
  • 1839 la colonia si trasforma in Commonwealth autonomo.
  • 1841 il Congresso americano chiama il territorio Liberia, ossia «terra dei liberi».
  • 1847, 26 luglio il Congresso liberiano, che rappresenta solo gli americani espatriati e non i nativi, proclama l’indipendenza.
  • 1958 la discriminazione razziale è messa fuori legge.
  • 1980 il sergente Samuel Doe s’impossessa del potere con un golpe militare.
  • 1985 Doe vince alle elezioni presidenziali.
  • 1989 il Fronte nazionale patriottico della Liberia (Fnpl), guidato da Charles Taylor inizia la guerriglia contro il presidente Doe.
  • 1990 Doe viene ucciso dai ribelli.
  • 1995 accordi di pace di Abuja (Nigeria).
  • 1997 Taylor vince le elezioni presidenziali e impone un regime autoritario e corrotto.
  • 1999 Ghana e Nigeria accusano Taylor di appoggiare il Fronte rivoluzionario unito (Ruf) in Sierra Leone, mentre Gran Bretagna e Usa minacciano di sospendere gli aiuti alla Liberia.
  • 2000le forze liberiane attaccano i ribelli del Lurd (Liberiani uniti per la riconciliazione e la democrazia) nel Nord.
  • 2003l’offensiva del Lurd e l’arrivo delle truppe americane costringono Taylor a cercare rifugio in Nigeria. Vengono firmati gli accordi di pace ad Accra. Inizia la missione di pace dell’Onu.
  • 2005a novembre Ellen Johnson-Sirleaf vince le elezioni. È la prima donna a essere eletta presidente di uno stato africano.
  • 2006Taylor viene arrestato. Verrà condannato a 50 anni di carcere nel 2012 dalla Corte Speciale per la Sierra Leone.
  • 2011 la presidente Johnson-Sirleaf riceve il Premio Nobel per la pace e a novembre vince di nuovo le elezioni contro l’ex calciatore George Weah.
  • 2014il virus ebola dilaga nel paese.
  • 2015, 11 maggiola Liberia viene dichiarata «ebola free».
  • 2017, 10 ottobre sono in programma le prossime elezioni presidenziali.

Va.Mi.




Nepal terremoto dimenticato


La notizia del devastante sisma che ha colpito il paese nel 2015 è passata veloce. Alle difficoltà orografiche si è sommata l’incapacità del nuovo governo a far fronte alla ricostruzione. I grossi finanziamenti si sono bloccati nella burocrazia. Mentre piccole associazioni continuano a lavorare con e per la gente.

È trascorso più di un anno dal terremoto in Nepal, uno dei paesi più poveri del continente asiatico. Era il 25 aprile 2015 quando la terra ha tremato nella zona tra Kathmandu e Pokhara. Il sisma, di magnitudo 7,9 della scala Richter, è stato seguito da numerose scosse si assestamento. Il governo nepalese, dopo due giorni, ha dichiarato lo stato di emergenza. Il 12 maggio 2015, neanche un mese dopo la prima scossa, la stessa regione è stata soggetta a un altro forte movimento tellurico, di magnitudo 7,4 della scala Richter. Il bilancio totale è di quasi 9.000 persone decedute (difficile stabilie l’esatto numero in una nazione dove vi sono tante case costruite in remote zone di montagna), mentre altre migliaia (16mila secondo i dati delle Nazioni Unite) sono rimaste ferite o costrette a spostarsi dal proprio villaggio. Più di 600mila abitazioni sono state distrutte o gravemente danneggiate. Una catastrofe sia per le perdite umane, sia per la distruzione di siti importanti a livello storico, archeologico e religioso, come lo stupa (monumento buddista) Swayambhunath, considerato il più antico al mondo. Bisogna tornare al 1934 per registrare l’ultimo tra i peggiori terremoti avvenuti nella regione nepalese: all’epoca morirono 8.500 persone.

Di fronte all’ecatombe del 2015 numerose Ong di tutto il mondo si sono attivate per portare aiuti economici e soccorsi tangibili alla popolazione, malgrado le iniziali difficoltà logistiche e le complessità burocratiche. Le prime forme di assistenza si sono concentrate nel fornire alle persone sfollate beni di prima necessità (acqua, cibo, coperte), teloni, ripari per dormire e per proteggersi dalle intemperie. La solidarietà internazionale si è mossa con celerità, manifestando una forte compartecipazione al dramma: privati cittadini hanno elargito importanti donazioni. Tante organizzazioni hanno raccolto fondi per la ricostruzione e svariate nazioni hanno inviato al governo nepalese ingenti aiuti finanziari. A oltre un anno di distanza da questa catastrofe facciamo il punto della situazione.

Una ricostruzione difficile

Migliaia di case, scuole, ospedali, templi e monumenti storici aspettano ancora di essere riedificati. Le difficoltà dipendono soprattutto da fattori burocratici, dalla corruzione e dall’incapacità gestionale del nuovo governo nepalese, installatosi solo nello scorso mese di ottobre. L’inefficienza è stata dimostrata, dapprima, nella gestione dei blocchi in vari punti della frontiera tra India e Nepal, poi con la mancata attuazione dell’Autorità nazionale per la ricostruzione. «È dal dicembre 2015 che si discute di questa proposta, ma sembra sia svanita dall’agenda politica» spiega Patrizia Broggi, vicepresidente di Eco-Himal, associazione di volontariato Onlus (www.ecohimal.org) impegnata nella conservazione delle aree himalayane attraverso la cooperazione con le popolazioni che vi abitano.

«Il governo nepalese – precisa Patrizia – aveva annunciato che avrebbe dato dei fondi a chi aveva perso tutto a causa del sisma. Per questo si era parlato dell’apertura di un ufficio ad hoc per le relative procedure e per la distribuzione del denaro. In realtà, dell’ufficio o dell’Autorità nazionale per la ricostruzione non se ne sa nulla. Sulle prime, sembrava che la problematica principale fosse l’accesso ai fondi messi a disposizione. I richiedenti avrebbero dovuto compilare determinati moduli, ma la maggior parte delle persone che hanno diritto a un sostegno sono analfabete. Per ovviare a questo ostacolo, all’inizio, come Onlus, avevamo pensato di intervenire attraverso un nostro referente locale, che avremmo pagato proprio per assistere alcune famiglie bisognose nella compilazione dei moduli. Oltre alle procedure molto nebulose per ottenere i fondi, in seguito si era ventilata una clausola secondo cui per ottenere un sostegno finanziario sarebbe stato necessario avere un conto corrente bancario, il che è assurdo in un paese come il Nepal. E lo è ancora di più considerate le condizioni socio economiche in cui si trovano le persone colpite dal terremoto».

Fondi bloccati?

Questo è, in effetti, il paradosso di una tragedia che avrebbe potuto essere gestita diversamente. Il Nepal ha ricevuto, grazie alla solidarietà internazionale, più di quattro miliardi di dollari per la ricostruzione, ma la maggior parte di questo denaro è fermo in qualche ufficio del palazzo governativo nepalese.

Gli aiuti sono stati distribuiti con il contagocce e secondo criteri discriminatori. Infatti, come ha evidenziato Amnesty Inteational, gli interventi post terremoto non hanno raggiunto gruppi emarginati a livello sociale ed etnico: l’appartenenza di classe, di casta (un aspetto discriminante che deriva dalla forte influenza culturale esercitata dall’India sul Nepal) e il credo religioso risultano elementi discriminanti per ottenere o meno i sussidi. Sono state proprio queste forme di discriminazione, in particolare a danno delle minoranze madhese e tharu che vivono nella regione meridionale di Terai, a spingere l’India ad attuare un blocco parziale alla frontiera con il Nepal.

Appena insediatosi, il nuovo governo nepalese, con a capo Khadga Prasad Sharma Oli, ha infatti varato una Costituzione che non tiene conto dei diritti e delle peculiarità delle minoranze etniche presenti sul territorio nepalese. La diatriba politico-diplomatica tra India e Nepal, durata dall’ottobre 2015 sino a febbraio 2016, ha aggravato le condizioni in cui versano i terremotati. Nel mese di novembre, il governo nepalese – proprio per affrontare l’emergenza dovuta alla mancanza di carburante – aveva disposto la vendita delle riserve di legna come combustibile. Ciò aveva creato lunghissime code, poiché migliaia di persone ne necessitavano per poter cucinare. Solo agli inizi del 2016 India e Nepal hanno trovato un accordo, culminato in un’intesa che rafforza le relazioni economiche e culturali tra i due paesi.

Piccoli progetti, grande aiuto

Eco-Himal – ci racconta ancora Patrizia Broggi – proprio come altre organizzazioni di piccole e medie dimensioni, riesce a lavorare e a realizzare progetti perché opera direttamente sul territorio, avendo referenti locali fidati e preparati. Sono loro che permettono alle Ong di intervenire concretamente a favore della popolazione.

«Noi di Eco-Himal – precisa Patrizia – una volta raccolti i fondi, li mandiamo ai nostri collaboratori in Nepal. Tra questi ci sono Ghana Shyam Paudel e Narayan Kumar Shrestha. Narayan è nato a Salleri, nel distretto del Solu-Khumbu e con lui ormai collaboriamo da anni, anche perché lavora spesso in Italia, nei rifugi di montagna, nella zona dell’Ossola, in provincia di Verbania».

Grazie a questi intermediari locali, Eco-Himal sta portando avanti progetti concreti nel Nepal post terremoto. «Abbiamo innanzitutto contribuito alla ricostruzione del monastero femminile di Deboche nella valle dell’Everest, che è stato quasi totalmente distrutto. Quando sono stata in Nepal nel novembre 2015 avevo visto che gli operai locali lo stavano già ricostruendo. Questo grazie anche naturalmente alla collaborazione di altre organizzazioni inteazionali che operano sul territorio. Adesso, come Eco-Himal, stiamo indirizzando i nostri progetti d’aiuto nella zona di Salleri, nel Nepal centro-orientale. Per esempio, abbiamo mandato fondi per la costruzione di una strada che permette l’accesso a un piccolo ospedale. Si tratta di una struttura sanitaria che è diventata molto importante dopo il sisma, poiché permette alle persone del posto di accedere a cure immediate. La strada risulta fondamentale per raggiungere l’ospedale.

Poi, sempre nell’area di Salleri, precisamente a Gaidu, stiamo lavorando alla ricostruzione della scuola primaria Ramilo Joati, uno dei sette edifici scolastici della zona completamente crollati. Gli studenti, in tutto 150, oggi fanno lezione all’interno di grandi tende con enormi difficoltà. I problemi non sono solo logistici e pratici, ma anche, soprattutto, psicologici. Molti bambini sono rimasti traumatizzati dal sisma. Quindi, in questo caso, e come in altre situazioni, è indispensabile continuare in parallelo un lavoro di supporto psicologico».

Eco-Himal sta inoltre portando avanti un progetto per sostenere un piccolo orfanotrofio, con sede a Kathmandu, dove sono stati accolti nove bambini, di età compresa fra i 6 e i 10 anni. I bambini ospitati hanno perso il padre o la madre, e sono stati abbandonati. Sono stati avviati anche programmi di adozione a distanza: «Con 500 euro all’anno – ci dice Patrizia – si contribuisce a pagare i libri, i vestitini e la tassa scolastica, quindi l’istruzione di bambini che altrimenti non avrebbero la possibilità di imparare a leggere e scrivere».

Non solo stranieri

Molto attiva nella regione del Timal è l’organizzazione nepalese Sahakarya Ra Bikas (connessa al Nepal Center for Cooperation and Development, Ccd, ccdnepal.org), diretta da Salam Singh Tamang, a cui sono collegate diverse Ong italiane, tra cui Libri contro fucili e 12 dicembre.

Collabora con Sahakarya Ra Bikas anche Enrico Crespi, da oltre un decennio impegnato in Asia nell’implementazione di vari progetti educativi, sanitari e di sviluppo comunitario. Enrico ha lavorato, oltre che in Tibet, Cambogia, Sikkim e Mozambico, anche in Nepal, dove per 13 anni ha visto l’alternarsi di monarchie e governi, il tutto inframmezzato dalla guerriglia maoista. Conosce bene la situazione nepalese ed è per questo che sostiene il progetto «Take care 1 Village Nepal», attivato da un network di Ong proprio per fornire sostegni per la ricostruzione. In particolare, la zona interessata dagli aiuti è chiamata Timal, nel distretto di Kavre. Il progetto è gestito dagli stessi abitanti dei villaggi coinvolti, ovvero Bolde Pediche, Thulo Prasel, Narayansthan, Meche, Chapakori. In quest’area sono crollate 1.519 case, per questo le Ong coinvolte nel progetto hanno individuato le famiglie più disagiate da sostenere e da aiutare. Nel marzo 2016 l’organizzazione Sahakarya Ra Bikas aveva consegnato i fondi per la ricostruzione di due scuole, una con sede a Mukpa (Meche), l’altra ubicata nel villaggio di Dhulkhu.

Emergenza in montagna

Tra i maggiori problemi, oltre alla realizzazione di ripari adeguati e stabili, soprattutto per affrontare le stagioni monsoniche, vi è quello della difficile reperibilità di acqua potabile nella zona del Langtang, duramente colpita dal sisma. In quest’area, situata a Nord di Kathmandu, famosa per le sue vette, è stato istituito, nel 1971, il primo parco nazionale in Nepal. Nel Langtang durante e dopo il terremoto ci sono state moltissime frane, che hanno chiuso le sorgenti. Ciò ha creato enormi problemi legati alla disponibilità di acqua potabile.

In altre regioni, come nel distretto del Solukhumbu frequentato da tanti appassionati di trekking, le maggiori difficoltà sono state risolte. Un problema molto delicato riguarda tutte le aree remote di montagna, non ancora raggiunte da nessuna Ong. Molte persone che abitano in case isolate, dopo il sisma, non hanno ricevuto alcun aiuto e lentamente stanno abbandonando i luoghi nativi e i loro campi coltivati a orzo e ad altri cereali, per raggiungere i centri urbani più vicini. Non avendo la possibilità di ricostruirsi la casa, perché non hanno avuto alcun sostegno, nemmeno da parte del governo nepalese, tanti contadini di montagna cercano altre soluzioni spostandosi dalle loro valli ancestrali.

Un fenomeno, già presente in Nepal prima del terremoto (come in tante altre zone di montagna nel mondo), si è negli ultimi mesi intensificato, producendo un duplice effetto: da un lato, l’aumento delle persone urbanizzate e un affollamento nei campi di tende degli sfollati; dall’altro, lo spopolamento delle aree montane, che può provocare gravi conseguenze a medio e lungo termine. È in queste aree remote che il governo nepalese dovrebbe intervenire, anche per il tramite di progetti specifici, magari concordati e implementati con Ong locali e inteazionali.

Silvia C. Turrin


Ricordiamo che in Nepal sono presenti da anni i missionari Salesiani, Gesuiti e Camilliani, sia italiani che indiani. Tutti sono molto attivi nella ricostruzione con particolare attenzione a ospedali, scuole e case per orfani (ndr).




Haiti


Nel Nord Ovest di Haiti, un braccio di mare cristallino separa la terraferma dall’isola dei bucanieri. Siamo a Port-de-Paix, il capoluogo del dipartimento più povero e arido del paese. A capo della diocesi omologa c’è un vescovo molto impegnato per la pace sociale, anche a livello nazionale.

Monsignor Pierre-Antornine Paulo, haitiano, è un religioso degli oblati di Maria Immacolata. Ha studiato negli Stati Uniti e a Roma ed è poi stato formatore di futuri missionari nel suo paese. Nato nel 1944, dal 2001 è vescovo coadiutore della diocesi di Port-de-Paix (dipartimento del Nord Ovest) e titolare dal 2008. È stato superiore regionale del suo ordine e dal 2011 è vice presidente della Conferenza episcopale haitiana (Ceh). Un fisico alto e asciutto, mons. Paulo ha un’agenda fitta d’impegni, ma è sempre molto disponibile. Arriviamo da lui un po’ all’improvviso, nella nuova sede del vescovado che deve ancora essere ultimata.

Ricostruzione?

Sono passati più di sei anni dal disastroso terremoto del 12 gennaio 2010, che non ha toccato il Nord del paese, ma la zona della capitale e parte del Sud. Monsignor Paulo ci parla della ricostruzione e ne evidenzia alcuni aspetti: «Positivo è stato l’interesse generale, mondiale, che l’umanità ha manifestato per Haiti. Le chiese in particolare. Interesse in parte finalizzato alla ricostruzione degli edifici, ma più in generale a tutto quanto concee le vittime, ovvero l’assistenza, l’apertura delle frontiere per i profughi, ecc.». C’è stata una grande generosità: molti paesi hanno contribuito e i loro popoli hanno dato denaro, ricorda il prelato, che però è critico: «Ma di tutto quello che è stato raccolto è arrivato ad Haiti, direi, un quarto. Gli altri tre quarti sono andati a degli intermediari, che hanno intercettato questi soldi prima che arrivassero sul terreno. Dei fondi, inoltre, gli attori haitiani, religiosi o politici, a seconda dei casi, non hanno avuto la gestione».

Anche i fondi per la chiesa non sono stati gestiti dalla Conferenza episcopale locale, ma dalle chiese sorelle di Usa, Francia e Germania tramite la struttura Proximité Catholique avec Haiti et son église, «Proche», in sigla, che in francese significa «vicino». In questo modo i tempi delle realizzazioni sono diventati molto lunghi, perché per qualsiasi operazione occorre l’approvazione delle conferenze episcopali straniere. «Quello che si sarebbe dovuto fare secondo me sarebbe stato porsi la domanda: perché c’è stato un così grande crollo di case? Forse c’è qualche problema nel modo in cui costruiamo. La mia idea era quella di formare i professionisti della costruzione, dai muratori agli ingegneri, nei metodi della costruzione antisismica». Il vescovo sta infatti lavorando per mettere in piedi nella sua diocesi una cellula di persone con competenze nella costruzione antisismica.

Un altro aspetto importante, che solo in parte è stato realizzato è il decentramento dei servizi, dalla capitale Port-au-Prince ai dipartimenti.

«A livello educativo il ministero dell’Educazione ha fondato università pubbliche in molti dipartimenti. E questo aiuta il decentramento accademico. Lo stato ha utilizzato le risorse della chiesa, perché molto spesso i rettori di queste università sono preti. È successo a Port-de-Paix, Gonaives, Les Cayes».

Ma purtroppo alcune misure importanti non sono state prese, a cominciare dalla creazione di possibilità abitative in provincia. «Costruire villaggi nei dipartimenti avrebbe aiutato la gente a fermarsi nei luoghi in cui era sfollata. Ma purtroppo è successo il contrario. Sono stati fatti annunci di ricostruzioni a Port-au-Prince. Così chi aveva lasciato la capitale vi è tornato in cerca di abitazione, e addirittura chi non ci viveva prima ci è andato in cerca di fortuna. Il terremoto ha quindi contribuito a sovrappopolare ancora di più Port-au-Prince. E questo per mancanza di visione dei politici. Costruire in provincia avrebbe anche creato lavoro».

Una chiesa «mediatrice»

La chiesa cattolica ha avuto un ruolo molto importante per fare uscire il paese dalla crisi politica del 2013 e accompagnarlo verso le elezioni del 2015, seppure queste non siano andate poi a buon fine ed è oggi in corso una transizione verso nuove elezioni (cfr. MC aprile 16).

Monsignor Paulo, in veste di vice presidente della Ceh, ha partecipato agli incontri sul dialogo inter haitiano detti di «El Rancho», dal nome dell’hotel dove si sono tenuti nel gennaio 2014. «C’è qualcosa di fondamentale nelle relazioni tra haitiani – ci spiega il monsignore -, sia tra governanti e governati, sia tra gli stessi partiti politici, che ci impedisce di andare avanti: una mancanza profonda di fiducia. È la storia di un popolo che è sempre stato deluso da chi lo governava».

La chiesa, cosciente del problema, ha voluto provare a mettere gli haitiani uno di fronte all’altro, per sanare tutti i rancori, con un’«operazione verità». «Per gestire il nostro paese, cosa si deve fare? Si sente che c’è qualcosa che non va. Tutti chiedono il cosiddetto dialogo, sedersi intorno a un tavolo e dire le cose come stanno tra di noi haitiani. Ma se non ci sarà l’occasione di fare questo chiarimento, i problemi saranno sempre gli stessi. Lo abbiamo visto sotto i regimi precedenti e poi con Aristide, Préval, Martelly e ancora con Privert. Questi è il presidente provvisorio appena nominato, con il quale ci sono già dei problemi. Sono questioni ricorrenti, strutturali, non congiunturali».

A inizio 2014 la chiesa ha dunque accettato di giocare il ruolo di mediatrice. Si trattava di sbloccare la creazione del Consiglio elettorale provvisorio e di organizzare le elezioni generali, in ritardo di anni. Le consultazioni avvenute il 9 agosto e poi il 25 ottobre 2015, si sono nuovamente incagliate in quanto contestate da una parte dei partiti.

Mons. Paulo ricorda: «È stato straordinario lo spirito che si era creato, molto positivo, entusiasta. Cosa che ci dice che possiamo sederci e prendere decisioni per andare lontano. Ma poi si sono verificate delle complicazioni che non siamo riusciti a controllare e hanno fatto sì che il processo fallisse. Un aspetto molto positivo è stato vedere che c’era la volontà di conoscersi meglio, condividere le nostre idee».

Ma fuori dalla sala, poi, qualcosa non ha funzionato: «Altre idee hanno condizionato la situazione, con i supporter di certi partiti esclusi dall’incontro. Anche alcuni responsabili di partito, presenti al dialogo si sono chiesti: come possiamo concretizzare quello che abbiamo detto?

A mio parere il successo è stato quello di avere iniziato questo dialogo inter haitiano, di aver vissuto un certo spirito, che fa desiderare di rivivere momenti simili, ma con la volontà di realizzare sul terreno tutto quello che si decide nella sala dell’incontro».

Un dialogo necessario

Si parla di dialogo nazionale, ma ad Haiti la comunità internazionale, in particolare Stati Uniti, Canada e, in misura minore, Francia, e ora anche il Brasile, hanno sempre esercitato una grande influenza. «Il paese si è messo nella condizione di dovere utilizzare l’aiuto della comunità internazionale. Se gli haitiani non arrivano a capirsi tra di loro, su chi ha torto e chi ha ragione, accettandosi, si ha sempre bisogno dell’arbitraggio internazionale. Questo interviene per portare gli haitiani a regolare i conflitti tra di loro».

Se l’incontro di El Rancho era focalizzato sulle elezioni, è stato un incubatore di quello che monsignor Paulo vede come lavoro più approfondito da realizzare, un dialogo inter haitiano. «Avevo sperato che nel corso della transizione in atto, prima di arrivare alle elezioni presidenziali, si fosse potuto istituire un dialogo nazionale, anche prolungando nel periodo della transizione. Un dialogo più allargato, che coinvolgesse più settori della società. È il momento opportuno».

L’impunità è uno dei grandi problemi, così come la corruzione. «Ne abbiamo parlato a El Ranchio. Sono grandi sfide. Tutti noi ne siamo coinvolti; è una questione profonda, radicata nel nostro sistema politico-sociale. Dobbiamo bonificare il tessuto sociale».

Una società civile in difficoltà

La società civile ha avuto nella storia recente di Haiti una grande importanza. Ha però subito attacchi dai diversi regimi ed è molto divisa. Il vescovo di Port-de-Paix è noto per essere vicino ai movimenti contadini della sua diocesi. Durante le elezioni presidenziali e legislative di ottobre 2015 la partecipazione al voto è stata scarsa, e poi manifestazioni di piazza, a volte violente, hanno fatto rimandare e infine annullare il secondo tuo. Da questo impasse è nato l’attuale periodo, con presidente e governo provvisori. «Per quanto riguarda la reazione alle elezioni del mese di ottobre, posso dire che c’è stata una manipolazione di certi partiti politici. Non erano manifestazioni spontanee del popolo. Anche se è vero che la gente non è contenta. Ma osservo l’assenza di una società civile ben strutturata e motivata. Sarebbe il ruolo della società civile quello di fare il contrappeso alla politica. Va bene manifestare per far capire agli attori politici certe posizioni. È giusto gridare e rivendicare, ma senza scivolare nella violenza». E continua: «La società civile ad Haiti è molto debole, quando non è assente del tutto. È un punto sul quale occorre lavorare molto, per attivarla dappertutto, in tutti i dipartimenti. È un bisogno urgente. Abbiamo, inoltre, una certa tendenza che porta ad avere troppi partiti politici: un centinaio hanno corso per la presidenza. È anormale. Ci sono associazioni che si trasformano in movimenti politici e poi candidano qualcuno. Tutto ciò avviene senza preparazione, organizzazione e strutturazione. Credo che quello che ci vorrebbe per i partiti politici è che possano organizzarsi e federarsi, per avee 5 anziché 50, in rappresentanza delle diverse tendenze. Così il popolo avrà più facilità a scegliere».

Scuole «di fede»

La diocesi di Port-de-Paix coincide con il territorio amministrativo del Dipartimento Nord Ovest di Haiti. È l’area più povera del paese, e meno collegata con la capitale, in quanto le due strade di accesso sono sterrate e impervie. La parte più a Ovest viene anche definita Far West sia a causa della difficoltà di accesso, sia del paesaggio semidesertico e punteggiato di enormi cactus. Qui la malnutrizione infantile è una realtà.

«Ho partecipato all’incontro di Aparecida nel 2007 (V Conferenza dell’episcopato latinoamericano, 13-31 maggio), dove ci siamo resi conto di alcuni aspetti, sul piano pastorale. La fede, per noi cattolici, necessita di un approfondimento continuo, affinché diventi adulta. Ci sono cattolici coraggiosi, ma con una fede non molto profonda. È una delle ragioni che portano alcuni a scivolare verso altre religioni, o altre confessioni cristiane. Questo fatto è anche associato a una mancanza di formazione. La dottrina cristiana è una delle più complicate. Abbiamo la trinità, l’incarnazione, l’immacolata concezione, l’assunzione, la redenzione, cose difficili da spiegare. Ero a Miami recentemente, e ho incontrato dei latinoamericani molto attratti dall’islam, perché è una religione facile. Da qui sorge la domanda: come dare una formazione ai nostri cristiani, in modo umano e diretto?

Nella mia diocesi, in tutte le parrocchie, abbiamo creato quello che in creolo chiamiamo scuole “konnessans lafwa” (conoscenza della fede). Otto moduli di formazione, per conoscere la fede: da dove viene, come viverla, le grandi verità. Se fosse stato un uomo a fondare la religione sarebbe a taglia umana, e più facile da spiegare. Gesù è venuto per salvarci, per portare una buona notizia, non per fondare una religione. Ma questa, se è rivelata, diventa difficile abbordarla umanamente».

Un altro aspetto molto caro al prelato è la «chiesa comunità»: «Promuoviamo le cellule parrocchiali di evangelizzazione. Ce ne sono in Italia, a Milano. Papa Francesco ne ha parlato. Si tratta di una replica delle comunità ecclesiali di base (Ceb) dell’America Latina. Io ci credo molto, perché rispondono a una grande questione: tra i cattolici abbiamo una pastorale più funzionale che relazionale. Voglio dire: si va in chiesa ma poi nella comunità non ci si conosce, non c’è una condivisione di fede. È funzionale, nel senso che il prete ha la sua funzione, ci sono i sacramenti, ma poi la relazione di fede tra vicini non c’è.

La pastorale relazionale è qualcosa della chiesa primitiva. Si va a messa e si crea un gruppo che continua a incontrarsi dopo. Queste vogliono essere le cellule, una nuova espressione delle ceb, che noi chiamiamo in creolo «ti fanmi legliz» (piccola famiglia della chiesa). In questo modo vogliamo rinforzare la fede dei nostri cattolici qui nel Nord Ovest».

Marco Bello