Il presidente Rodrigo Duterte ha fatto della lotta alla droga la sua bandiera. I metodi che usa, tuttavia, non sono dei più legali. Spacciatori e consumatori possono essere freddati dalla polizia al minimo sospetto. Mentre le carceri del paese sono sovraffollate e i centri di riabilitazione (per tossicodipendenti) pure. Reportage (a caldo) dal paese delle settemila isole.
Testo e foto di Luca Salvatore Pistone
Canottiera bianca, pantaloni neri e mocassini marroni. Orly Fernandez veste sempre alla stessa maniera. Il viso, scarno, è incorniciato da capelli a caschetto neri corvino. Gli rimangono pochi denti, ma, tutto sommato, dimostra meno di sessant’anni, la sua età.
Esce dal suo laboratorio con un foglio tra le mani. «Glielo hanno appiccicato sul petto con del nastro adesivo. C’è scritto: “Sono uno schifoso tossico”. Gli hanno legato mani e polsi e gli hanno sparato alla tempia. Ha il cervello spappolato».
A Malabon, una città di quasi 400mila abitanti a pochi chilometri a Nord della capitale delle Filippine, Manila (nella Regione capitale nazionale), tutti conoscono Orly. Dal 2001 manda avanti la Eusebio Funeral Services, la più famosa agenzia di pompe funebri della zona.
Siede alla scrivania nello studiolo dove tiene la contabilità, accanto alla sala del commiato. Osserva per qualche secondo un cartello sopra la sua testa con la scritta «L’autopsia è gratis».
«I nostri prezzi sono competitivi. Per le persone uccise per fatti di droga – di solito le più povere – chiediamo 35mila pesos (quasi 600 euro). I nostri concorrenti arrivano a chiedere anche più del doppio».
Guerra alla droga
I governi che negli ultimi anni si sono succeduti nelle Filippine hanno dichiarato guerra allo shaboo, una metanfetamina molto potente. Il suo costo è accessibile: un grammo può valere tra gli 80 e i 100 euro, di solito è acquistato con una colletta. Le diffuse problematiche sociali hanno favorito l’ingresso e la diffusione dello shaboo nel paese. Ma è stato con l’arrivo del presidente Rodrigo Duterte, nel 2016, che si è registrato un netto aumento delle operazioni di polizia contro spacciatori e tossicodipendenti. Un personaggio, Duterte, che ha fatto della guerra alla droga la sua personalissima crociata. «Hitler ha massacrato tre milioni di ebrei (giusto puntualizzare che l’Olocausto fece sei milioni di vittime, nda) […] ci sono tre milioni di drogati. Sarei felice di macellarli. […] Se la Germania ha avuto Hitler, le Filippine avranno me». Queste le sue parole al momento dell’insediamento.
Sia in patria che all’estero Duterte è accusato di essere il mandante di esecuzioni extragiudiziali. Secondo diverse organizzazioni per i diritti umani, dall’inizio del suo mandato i morti ammazzati per questioni relative allo shaboo sono più di 20mila. Per la polizia questi sarebbero meno di un quarto – tutti passati a miglior vita perché avrebbero messo a rischio l’incolumità degli agenti -, mentre il numero degli arresti ammonterebbe a 100mila.
I fatti parlano chiaro: oggi nelle Filippine chi viene sorpreso a spacciare o a consumare shaboo muore. Chi ammazzato da sicari in motocicletta – qui meglio conosciuti come vigilantes -, che non si prendono nemmeno la briga di coprirsi il volto; chi in retate della polizia che viene sospettata di introdurre sulla scena del crimine armi posizionate ad hoc, per sostenere che l’agente di turno ha dovuto fare fuoco per legittima difesa; chi giustiziato con un colpo in testa e fatto ritrovare in una pozza di sangue su un marciapiede.
Così l’avvento di Duterte ha fatto la fortuna delle pompe funebri, tra cui la Eusebio. «Ho molti contatti con la polizia. Quando trovano un morto chiamano me. Anche cinque o sei cadaveri in una notte.
Ci tengo però a dire che non paghiamo nessuno per questi favori». Chi muore per fatti di droga non viene neanche più portato all’obitorio. La scientifica fa i suoi rilievi e il medico legale si limita a constatare il decesso. Lo spacciatore, o il tossicodipendente di turno, va liquidato subito, facendo spendere il meno possibile allo stato, così le forze dell’ordine si rivolgono direttamente alle pompe funebri.
«Nel caso in cui nessuno viene a reclamare il corpo – spiega Orly – lo avvolgiamo in un lenzuolo bianco e lo portiamo al cimitero. Lì viene seppellito insieme ad altri corpi non reclamati o identificati».
Pronto intervento
Sono quasi le undici di sera. Squilla il cellulare di Orly. «Ok», si limita a rispondere. Mette giù e corre ad avvisare i suoi due «giovani»: è così che chiama i suoi assistenti, coetanei Carlos e Joseph. «Andiamo, hanno trovato il corpo di un ragazzo non molto lontano da qui».
A quest’ora non c’è traffico e in pochi minuti raggiungiamo il luogo del misfatto: un vicolo cieco poco illuminato nel baranggay (quartiere) Baritan. La pioggia battente non fa desistere i più curiosi intorno al perimetro delimitato dalla scientifica.
Una signora anziana si dispera. Ha continui mancamenti. È la madre della vittima e Orly si catapulta su di lei mettendole in mano il suo biglietto da visita. Le sussurra qualcosa all’orecchio e sale sul furgoncino.
Herman, questo il nome del ragazzo ammazzato. Ventotto anni. Era uno del baranggay. È stato freddato con un colpo di pistola in un occhio mentre rincasava. Ha il volto e il busto interamente coperti dal sangue. La scientifica non si degna neanche di coprirlo.
«Fumava shaboo tutto il giorno. Sapeva quali rischi correva», dice a bassa voce una sua giovane vicina di casa. «Mi hanno detto che aveva cominciato a spacciare», le fa eco un signore di mezza età.
I poliziotti finiscono i rilievi e fanno cenno ai «giovani» di Orly di prendersi il loro morto. Lo spettacolo è finito e la folla si disperde.
Il «metodo» Duterte
Punta di diamante della crociata di Duterte è la strategia tokhang (dalla contrazione delle parole toktok «bussare» e hangyo «richiesta»), già ampiamente rodata ai tempi in cui era sindaco a Davao. I poliziotti, grazie a una rete di informatori, sono dotati di elenchi dettagliati di utilizzatori e venditori di shaboo. Sulla base di questi invitano gli spacciatori a consegnarsi alle autorità e ad avere in tal modo salva la vita. Un solo avvertimento: chi sgarra ha le ore contate. Il tokhang sembra avere dato i suoi frutti. Secondo gli archivi della polizia nazionale, in poco più di due anni di governo Duterte sarebbero state più di un milione e mezzo le autodenunce che hanno comportato un impressionante sovraffollamento delle carceri e dei centri di riabilitazione.
«La polizia ha almeno una spia in ogni baranggay. Quando questa viene a sapere di un tossico o di uno spacciatore in zona, spiffera tutto ai poliziotti che fanno fare il lavoro sporco ai vigilantes».
Fe Siega Peregrino ha 54 anni, è vedova e vive insieme ai quattro figli nell’umilissimo Distretto 2 a Quezon City, una città di oltre due milioni di abitanti confinante con la capitale Manila, sempre nella Regione capitale nazionale.
Da un anno a questa parte alla famiglia Peregrino si è aggiunta Lady Love, 12 anni, figlia di un cugino di Fe Siega. «I suoi genitori sono stati uccisi davanti ai suoi occhi. Adrian e Vivian sono stati giustiziati con una pistola da uomini mascherati. Non è importato loro di farlo davanti alla bambina. È stata Lady Love a raccontarcelo. La polizia non ha mai aperto un’indagine».
Con una scopa Fe Siega caccia un ratto che si è intrufolato in casa. «Mio cugino Adrian tirava un risciò, un lavoro molto faticoso. Non guadagnava abbastanza per mantenere moglie e figlia. Vivian faceva l’estetista a domicilio e anche i suoi guadagni erano scarsi. Poi, un giorno, hanno provato lo shaboo. Annullava la stanchezza, così potevano lavorare più ore al giorno. Hanno cominciato a spacciarla entrambi per fare più soldi. Le spie sono venute a saperlo e li hanno uccisi. Non so se avessero avuto qualche avvertimento».
In un recente dossier di Amnesty International dal titolo Se sei povero, vieni ucciso1, supportato da inchieste, reportage e testimonianze, viene spiegato come nelle Filippine nascono le liste stilate dagli informatori della polizia. Viene dato risalto a dicerie, rivalità, trascorsi reali o completamente inventati. Un agente riceve delle mazzette per delle esecuzioni: tra i 155 e i 285 euro, talvolta con un’aggiunta da parte delle autorità locali. Succede anche che un ufficiale retribuisca i vigilantes per ammazzare al posto suo.
La via della riabilitazione
Per gli spacciatori grandi, medi e piccoli delle Filippine dell’era Duterte, è possibile scegliere tra morte violenta e carcere: sono le uniche due alternative. Per i tossicodipendenti si aggiunge una terza scelta: la riabilitazione. Essere accettati in un centro di riabilitazione è una vera e propria benedizione: non c’è il rischio di essere ammazzati e dopo un periodo, relativamente breve, di trattamento, si può ricominciare una nuova vita.
Il Centro di riabilitazione per tossicodipendenti Bitucan si trova a Taguig City, altra città alle porte di Manila. Ubicato all’interno di un compound della polizia, è uno dei più grandi del paese e rientra nelle quaranta strutture di recupero riconosciute dal governo.
Il dottor Bien Leabres è il direttore sanitario della struttura: «Nell’agosto del 2016 abbiamo toccato un picco di 1.500 persone. Da allora la media mensile è di mille pazienti, anche se il nostro centro non potrebbe ospitarne più di 500 tra uomini e donne».
Tutti s’inchinano al suo passaggio. «Good morning Sir!», sono le uniche parole proferite dalle bocche dei pazienti. Ovunque regnano il silenzio più assoluto e la disciplina. Indipendentemente da età e sesso, sembrano tutti automi svuotati di ogni volontà.
«Nel 90 per cento dei casi, i nostri pazienti fanno uso di shaboo. Il restante 10 per cento si divide tra marijuana, ecstasy e cocaina». Il dottor Leabres viene interrotto in continuazione da infermieri che gli portano incartamenti da firmare. «L’intero ciclo di riabilitazione può andare dai sei mesi a un anno. Successivamente i nostri pazienti devono tornare qui con una certa regolarità, di solito una volta a settimana, per seguire un altro programma sanitario. Pagano solo una parte della quota mensile, 3mila pesos (circa 50 euro), mentre alla parte restante, 12mila pesos (circa 200 euro), ci pensa lo stato. Ma se il paziente è povero è lo stato a sobbarcarsi l’intera retta. Quasi il 70 per cento dei nostri pazienti è qui a titolo gratuito». Nella clinica, che dipende dal ministero della Sanità, ci sono scuole, atelier, mense, dormitori e un campo da pallacanestro, lo sport nazionale. I pazienti indossano dei pantaloncini e una t-shirt il cui colore varia a seconda dello stadio di guarigione. Chi è all’inizio del percorso porta il verde, chi è alla fine il bianco.
Sveglia alle cinque di mattino. Poi attività fisica e pulizie degli spazi comuni. Corsi di teatro, pittura e falegnameria. Il pasto, a pranzo e a cena, è sempre lo stesso: riso, pollo, verdure e un frutto. Nel tardo pomeriggio ogni paziente deve scrivere su un diario personale come ha trascorso la giornata, che sarà letto dalla squadra di psicologi. Alle nove in punto si spengono le luci.
«Tutte le rehab (i centri per la riabilitazione) – dice il direttore – sono sovraffollate. È per questo motivo che in parlamento si è votato lo stanziamento di fondi per la creazione di un nuovo centro di riabilitazione per tossicodipendenti a Manila che potrà arrivare a ospitare fino a 5mila persone».
Nelle carceri di Mindanao
Le rehab hanno molto in comune con le carceri. Il sovraffollamento prima di tutto. L’intero sistema penitenziario filippino sembra dovere implodere da un momento all’altro. Le prigioni, sia maschili che femminili, ospitano da due a quattro volte il numero di persone per cui sono state pensate. Costruzioni che, già sul nascere, non rispettano neanche lontanamente gli standard dettati dalle Nazioni Unite.
Dall’isola di Luzon, dove si trova la Regione capitale nazionale, andiamo in aereo a Davao, una delle città più grandi del paese, sull’isola di Mindanao. Davao è la roccaforte della famiglia Duterte, e oggi è governata dalla figlia di Rodrigo, Sara. Qui tutto inneggia ai meriti del presidente per aver ripulito le strade dell’arcipelago da tossici e spacciatori. La prigione e fattoria penale di Davao si perde a vista d’occhio. Un’area di 30mila ettari, 8mila dei quali destinati a due carceri, una maschile e una femminile. Un’immagine che più di tutte descrive le condizioni in cui versa la struttura e, più in generale, l’universo delle prigioni filippine ai tempi di Duterte è la seguente: letti a castello fino a quattro piani, due persone per materasso e amache – per chi se le può permettere – montate all’interno degli stessi letti a castello.
Nella sezione maschile, che potrebbe ospitare massimo 3mila detenuti, ce ne sono 5.400. I dormitori sono un’accozzaglia di spranghe di ferro – i letti – malamente saldate una all’altra. I prigionieri più anziani si trovano in una camerata dove i letti a castello non superano i due piani. C’è anche una camerata riservata agli stranieri, in buona parte occidentali.
Il carcere maschile di Davao è diviso in tre sezioni separate una dall’altra da una rete di ferro ricoperta di filo spinato. Nella prima, chiamata Inmate Minimum, i detenuti indossano una maglietta marrone e scontano pene sotto i dodici anni; nella seconda, Inmate Medium, magliette blu e pene dai dodici ai ventidue anni; nella terza, Inmate Maximum, indumenti colore arancione e pene dai ventidue anni all’ergastolo. In quest’ultima sono rinchiusi quasi esclusivamente tossicodipendenti e spacciatori.
Le giornate sono scandite da un programma denso. Sveglia alle 4:30; ginnastica con tracce pop e dance, doccia, colazione a base di riso e uova, lavanderia, attività facoltative come artigianato e corsi di teologia. I detenuti con la maglietta marrone possono andare a lavorare, retribuiti, nella fattoria penale. Poi pranzo, pomeriggio libero durante il quale è possibile continuare con le proprie attività, i corsi letterari, guardare la Tv o giocare a biliardo e a pallacanestro, andare a messa in chiese improvvisate o a pregare alla moschea e infine la cena. Le luci si spengono alle 21:30 in punto.
La voce dei reclusi
Incontriamo alcuni detenuti: «Il mio vicino di casa aveva allestito nel suo appartamento un piccolo laboratorio per la produzione di shaboo. Una sera, durante una retata, mi trovavo sul pianerottolo. Gli agenti arrestarono anche me credendomi un suo collaboratore». Quando accadde il fattaccio, Brian aveva 23 anni. Oggi ne ha 38. Il giudice lo ha condannato all’ergastolo.
Persone nel posto sbagliato al momento sbagliato, scambi di persona, errori giudiziari nella classificazione delle prove. Già da prima dell’arrivo di Duterte, la politica della «tolleranza zero» nei confronti delle droghe era in voga. Ufficialmente il suo governo non ha fatto altro che inasprire le leggi e mostrare i muscoli attraverso le retate della polizia.
«Vi rendete conto che sono qui per due maledettissimi grammi di shaboo? Forse ci dovrò passare tutta la vita. Non sono un drogato, volevo solo provare una cosa nuova». Ronald ha appena 22 anni.
Virgilio, 56 anni, dovrà invece scontare una condanna di vent’anni per tentato omicidio. «Un anno fa ho provato ad ammazzare mio nipote perché era diventato il disonore della famiglia. Si drogava e vendeva shaboo». Eric, 47 anni, ha stuprato una minorenne. È accaduto quasi due anni fa. «Sono pentito», è l’unica frase che si sente di dire. Dovrà rimanere dietro le sbarre sedici anni.
Le sentenze per il tentato omicidio e lo stupro sono molto meno severe di quelle per la tossicodipendenza e lo spaccio di sostanze stupefacenti. Poco importa se i quantitativi di droga siano bassissimi. Tocchi lo shaboo e, se non vieni giustiziato, finisci al fresco per oltre vent’anni o fino all’ultimo dei tuoi giorni, a discrezione del giudice.
Ciò che più sorprende, parlando con i detenuti, è che quasi nessuno si lamenta del sovraffollamento del carcere. In molti lamentano l’ingiustizia per la condanna ricevuta – quasi il 70 per cento dei prigionieri si trova qui per reati connessi alla droga – ma tutti sembrano sopportare senza eccessive rimostranze una vita tanto congestionata.
«Certo – spiega Arthuro, 61 anni, un ex professore di liceo, mentre gioca con un cucciolo di cane divenuto la mascotte del suo dormitorio – non è piacevole vivere così. Alla radio ho sentito che il congresso sta votando un disegno di legge per stanziare 3 miliardi di pesos l’anno (quasi 50 milioni di euro), per cinque anni, affinché vengano migliorati e ampliati gli istituti penitenziari esistenti. Ma io penso che siano altri i problemi. Ad esempio le visite. Sono permesse tutti i giorni, ma molti di noi provengono da altre località, da altre isole e i nostri parenti e amici devono sopportare alti costi per raggiungerci. Io vengo da lontano, sono qui da cinque anni e in tutto questo tempo ho ricevuto solo tre visite».
Chi è sposato e possiede un documento che lo certifichi, ha diritto ad accedere alla room for conjugal visit use, una stanzetta dove è possibile avere rapporti sessuali con la propria coniuge. L’ambiente consiste in quattro pareti di legno senza tetto all’interno delle camerate. Ogni camerata ha almeno quattro di queste stanze per le visite coniugali, ognuna delle quali contrassegnata da un carattere # seguito da un numero. Pertanto la moglie, non solo deve attraversare ali del carcere colme di detenuti, ma deve anche consumare l’atto con il marito nella totale assenza di privacy. A completare la scena, immagini pornografiche che tappezzano le pareti della room e ciabatte messe a disposizione delle signore. Nelle carceri femminili, invece, le camere per le visite coniugali non sono previste perché a seguito del rapporto la reclusa potrebbe rimanere incinta.
Altro fatto impressionante è il numero delle guardie. La buona condotta dei galeotti influenza il numero dei secondini preposti alla loro sorveglianza. Nella sezione Maximum, che ospita circa 1.500 persone, ci sono appena tre agenti. Una guardia per 500 persone. «Ad aiutarci – confida un secondino che chiede di rimanere anonimo – ci sono alcuni detenuti modello, come i capi dormitorio. Hanno il compito di far rispettare le regole e raccogliere eventuali lamentele. Vanno in giro con i nostri stessi manganelli, ma è raro che se ne servano. Lavoro qui da diversi anni e non abbiamo mai registrato disordini».
Luca Salvatore Pistone
(1) Il rapporto di Amnesty International citato è reperibile sul web: www.amnesty.it/filippine-la-guerra-della-polizia-ai-poveri.
Droghe e tossicodipendenza
Foto di: Chiara Grimoldi – Dossier a cura di: Paolo Moiola |
In Portogallo, dall’aprile del 2001, il consumo, il possesso e l’acquisizione di ogni tipo di droga per uso personale non rappresenta più un crimine (www.sicad.pt). La misura ha avuto successo. Lo dicono i numeri (riduzione dei morti per overdose, dei contagi da Hiv, ecc.) e i giudizi di organizzazioni inteazionali. Nelle Filippine, avviene esattamente il contrario: il presidente Rodrigo Duterte, eletto nel maggio 2016, ha dato l’ordine di uccidere spacciatori e consumatori di droga senza inutili arresti e processi. Una giustizia sommaria che, a metà settembre, aveva già fatto 3.426 vittime, 1.491 uccise dalla polizia e le restanti da civili. In Italia, nel 2015 si sono registrati 45.823 ingressi totali negli istituti carcerari, di questi 12.284, pari al 26,8 per cento (un detenuto su 4), in violazione dell’articolo 73 della legge antidroga (detenzione di sostanze illecite). «Come ogni anno e come ogni altro paese occidentale impegnato nella war on drugs – si legge nel 7° Libro bianco sulla legge sulle droghe del giugno 2016 -, la cannabis e i suoi derivati sono le sostanze più prese di mira dal sistema proibizionista. Quasi il 50% delle segnalazioni e delle operazioni antidroga hanno avuto come oggetto i cannabinoidi, nonostante questi siano le sostanze meno dannose per i consumatori, e il loro mercato sia quello in cui i consorzi criminali sono meno coinvolti».
Che la cosiddetta «guerra alla droga» sia fallita ormai lo dicono in molti e da tempo. La dichiarazione più clamorosa, risalente al giugno 2011, è stata quella della «Commissione globale per le politiche sulle droghe», organismo prestigioso anche se quasi sempre inascoltato. «Le immense risorse – si legge nel suo circostanziato rapporto – dirette alla criminalizzazione e alle misure repressive su produttori, trafficanti e consumatori di droghe illegali hanno chiaramente fallito nella riduzione dell’offerta e del consumo». Ancora più duro il comunicato della Commissione uscito ad aprile 2016, subito dopo la chiusura della sessione delle Nazioni Unite dedicata alle droghe (Ungass on drugs): «La Commissione è profondamente delusa […]. Il documento (della sessione speciale, ndr) sostiene un inaccettabile e datato status quo legale. […] Non chiede la fine della criminalizzazione e incarcerazione degli utilizzatori di droga».
Paolo Moiola
Questo dossier parte dal crack, un sottoprodotto della cocaina diffusosi a partire dal Brasile (su MC – l’elenco degli articoli è a pag. 49 – ne abbiamo già parlato). La dottoressa Luana Oddi, medico al Sert di Reggio Emilia, ci spiega perché questa droga ha preso piede anche da noi, perché è considerata molto pericolosa e come la sanità pubblica cerca di aiutare i suoi consumatori. Nel dossier, oltre alle foto, abbiamo usato alcuni grafici, tratti da rapporti inteazionali, con l’obiettivo di far meglio comprendere la problematica al pubblico più giovane, normalmente più esposto. A chiudere, un’intervista a un terapeuta, don Domenico Cravero, che a Torino segue varie comunità di recupero fondate soprattutto sul lavoro nell’agricoltura biologica, e un commento di Sandro Calvani, che ha seguito la problematica delle droghe nella veste di direttore di alcune agenzie delle Nazioni Unite. Pur nella diversità dell’analisi e delle possibili soluzioni, entrambi arrivano a un punto: al di là delle responsabilità e delle debolezze dei singoli consumatori, le droghe sono una manifestazione di società malate. (pa.mo.)
L’esperienza del Sert di Reggio Emilia
Il crack, effimera euforia
Spesso la diffusione di una droga è determinata dalla sua disponibilità in uno specifico territorio geografico, in relazione a fattori climatici, economici, politici e storici. L’uso di sostanze ha origini antiche: da sempre l’uomo ricorre a derivati di piante o animali con effetti psicotropi per fini trattamentali/sciamanici o spiritualistici/ritualistici. Oggi le vie di comunicazione, avvicinando i continenti e le culture, hanno reso le droghe sempre più disponibili e soprattutto le hanno «sradicate» ai loro abituali e tradizionali contesti di uso (Guede da Silva, 2012; Santorini, 2013). La scoperta, poi, delle sostanze psicotrope come mezzo di scambio commerciale e di proficuo guadagno, ne ha implementato la diffusione e il cosiddetto consumo edonistico (Guede da Silva, 2012).
Sud e Nord
Si possono così evidenziare differenti fenomeni e stili di consumo a seconda dell’area del mondo presa in considerazione. In particolare grandi sono le differenze tra i paesi del Sud del mondo (spesso produttori e detentori del consumo tradizionale e culturale di sostanze psicotrope) e i paesi occidentali, che si configurano, in genere, come i principali fruitori dei derivati delle droghe naturali (derivanti cioè da prodotti vegetali, minerali o animali) e che riconoscono nel loro consumo finalità spesso edonistiche o di automedicazione (lenire un’angoscia esistenziale, una depressione dell’umore, un dolore cronico non rispondente ai farmaci, ecc.).
Accade così che l’acquisizione di nuove modalità di consumo, separate da specifici contesti (setting) e finalità (ritualistiche, religiose, curative), favorisca il nascere e la propagazione dell’uso tossicomanico delle droghe.
Nel mondo le più diffuse sono l’eroina, la cocaina e la cannabis (grafici alla pagina 42, ndr). Tra queste, come evidenziato da uno studio di David J. Nutt del 2010 (in The Lancet), la cocaina, dopo l’eroina, è la sostanza più dannosa, in termini di danni sociali, sanitari e individuali. In particolare le conseguenze più spiccate sono associate al consumo della cocaina per via endovenosa e al crack. La comparsa del crack è fatta risalire già agli anni ‘70 in Brasile, paese simbolo di questa sostanza, sollievo e dannazione allo stesso tempo soprattutto per le esistenze disperate delle favelas. È da qui che il crack ha iniziato a diffondersi. Negli anni ‘80 ci fu la sua diffusione epidemica nelle strade degli Usa.
Dalla cocaina al crack
Che cosa sono la cocaina e il crack? Il crack è un derivato della prima, sostanza di antichissima storia e classificata, in relazione ai suoi effetti, tra gli psicostimolanti, definiti come la classe di sostanze che eccitano il sistema nervoso centrale, aumentano l’attenzione e riducono l’affaticamento. La cocaina è estratta dalle foglie della coca, pianta appartenente alla famiglia delle Erythroxylaceae ed originaria delle regioni tropicali centro e Nord occidentali dell’America del Sud (il 60% è prodotta in Perù, il 20% in Bolivia, il 15% in Colombia). Più notoriamente l’uso voluttuario della cocaina (idrocloridrato) consiste nell’assunzione in forma di polvere cristallina chiamata con una serie di espressioni gergali diverse: «coca», «neve», «Charlie».
La cocaina idrocloridrato viene consumata tramite aspirazione con le narici o, meno frequentemente, iniettata in vena dopo essere stata disciolta in acqua (Emcdda, 2001).
L’espressione gergale «crack» designa la cocaina trattata per essere fumata o, più precisamente, per inalae i vapori che danno effetti immediati e intensi. Per poter inalare la cocaina è necessario trasformare il prodotto in polvere nella forma di base, che ha infatti, un punto di fusione più basso di quello della prima, rendendola più idonea ad essere scaldata e trasformata in vapore. Il crack ha l’aspetto di cristalli, e ha ormai sostituito quasi completamente la cosiddetta freebase (vedi Glossario sul sito), rispetto alla quale si ottiene con un processo più semplice: il cloridrato di cocaina diluito in acqua, viene mescolato con bicarbonato di sodio e scaldato. Da tale reazione si ottengono piccoli agglomerati solidi detti «rocks» (rocce, sassi, pietre). Questi cristalli sono bruciati, per essere inalati, in una pipa d’acqua e quando esposti al calore provocano un singolare rumore (scricchiolante), da cui – probabilmente – il caratteristico nome di crack.
I vapori del crack
Una dose di crack contiene mediamente 100-200 mg di cocaina. Il crack è di aspetto simile a pietre, a pezzetti di stucco o scaglie di sapone (foto a pagina 37). Sul mercato si può trovare preconfezionato in piccoli sacchetti o contenitori di plastica, pronto per essere utilizzato.
Per fumare il crack, si ricorre generalmente a pipe speciali, il cui fornello è coperto da una maglia metallica (o stagnola traforata). Su tale fornello è posta la sostanza che, scaldata con la fiamma, produce il vapore da aspirare. Un altro strumento molto diffuso e di ampio utilizzo a causa della sua economicità è la bottiglia di plastica.
L’assunzione del crack avviene tramite l’aspirazione dei vapori (e non dei prodotti della combustione come avviene, ad esempio, con le sigarette). Ciò è importante, in quanto i vapori sono assorbiti molto più velocemente del fumo. Questo attribuisce al crack proprietà farmacocinetiche molto simili a quelle della cocaina assunta per via endovenosa: come questa, infatti, permette la rapida entrata in circolo e quindi nel sistema nervoso centrale della sostanza, foendo euforia in modo quasi istantaneo. Il fumatore di crack inala profondamente i vapori trattenendoli nei polmoni per il tempo più lungo possibile, in modo da aumentae al massimo l’assorbimento.
Gli effetti sull’esistenza: vivere per il crack
La via inalatoria, così come quella endovenosa, garantisce la maggiore rapidità d’effetto grazie alla vastità del letto venoso polmonare che permette un subitaneo assorbimento. Questa è sicuramente la caratteristica farmacocinetica più rilevante dal punto di vista clinico: le concentrazioni ematiche e cerebrali si elevano rapidamente, fornendo un intenso stato di benessere e una intensa euforia (rush). A tale rapida insorgenza degli effetti corrisponde una durata altrettanto breve degli stessi (dai due ai cinque minuti). Passato l’effetto, l’umore si abbassa e l’abusatore abituale di crack si ritrova in uno stato di profondo malessere (crash, crollo) la cui intensità è proporzionale all’intensità dell’euforia. Gli effetti del crack sono così intensi che il consumatore si concentra esclusivamente nella ricerca e al consumo della sostanza. Dopo essere stato invaso dagli effetti di potente euforia, il crackomane sviluppa un’incontrollabile compulsione e un irrefrenabile desiderio di ripetere il consumo della sostanza. È tale desiderio invasivo e urgente, in inglese craving, il sintomo nucleare della dipendenza patologica. Esso può portare il crackomane alla perdita di interesse per quelli che fino ad allora erano stati elementi prioritari della sua vita, financo quei bisogni primari connessi con la sopravvivenza, quali dormire, mangiare, ecc. (Galera, 2013): ecco allora che inizia il processo di declino e perdita di affetti, lavoro, relazioni, salute. La necessità di procurarsi la sostanza spinge la persona a furti, spaccio, prostituzione e ciò particolarmente vero per il crack, essendo il consumo di tale sostanza frequentemente associato ai contesti più marginali e poveri. La compulsività dell’uso associata alla caduta delle inibizioni e alla riduzione della percezione dei rischi, tipici effetti delle sostanze ad azione psicostimolante, espone, inoltre, a rischi sanitari rilevanti, ad iniziare da quello infettivologico, con scambio di materiale di consumo e con la pratica di relazioni sessuali promiscue e senza ricorso al condom, aumentando la probabilità di trasmissione di malattie sessuali (e nel caso delle donne, di rimanere incinte) (Gessa, 2008).
Il consumatore di crack – più frequentemente ed in quantità mediamente superiori di 10 volte rispetto a quello di cocaina per via intranasale – può assumere la sostanza in modalità binge (letteralmente abbuffata), cioè continuativamente, ininterrottamente per ore o giorni e fino ad esaurimento delle scorte (run, ad indicare per l’appunto, una maratona di assunzione) (Gessa, 2008).
Vivere gli effetti euforizzanti e psicotropi del crack può significare, quindi, l’inizio di una spirale in cui il consumatore quotidianamente vede come sua unica priorità il crack e i mezzi per procurarselo, a dispetto delle conseguenze dannose a esso associate (Guede da Silva, 2012).
Lo sviluppo della dipendenza
I consumatori di crack possono diventare rapidamente dipendenti. In particolare, rispetto ai cocainomani per via intranasale, gli assuntori di crack hanno un più alto rischio (circa il doppio) di sviluppare dipendenza perché usano la sostanza con più frequenza, in più larghe quantità e sono più sensibili agli effetti della sostanza (Rosselli, 2011). La modalità inalatoria causa un rush quasi istantaneo, la «botta« (high) del crack, ma anche un «calo» (crash) più intensi rispetto a quelli sperimentati con la cocaina per via nasale. Cosa succede dopo aver consumato crack? Tale fase – di durata variabile tra i 15 e i 30 minuti – è caratterizzata da euforia, accresciuta performance cognitiva e motoria, ipervigilanza, labilità affettiva. L’intensa euforia è descritta come un’irrefrenabile eccitazione sessuale (full body orgasm). Si percepisce un aumentato senso di onnipotenza e sicurezza e una ridotta percezione della fatica (oltre che dei propri limiti).
Con il mantenimento dell’uso gli effetti positivi e piacevoli diminuiscono per dare spazio a sintomi indesiderati, di tipo prevalentemente psichico: accentuazione dell’ansia, dell’irritabilità e della paranoia, fino a sviluppare un vero e proprio quadro psicotico caratterizzato da anedonia (incapacità di provare piacere), allucinazioni, idee di persecuzione, delirio.
La crisi d’astinenza e le sue fasi
L’interruzione del consumo di crack nei soggetti da esso dipendenti si accompagna all’insorgenza di un quadro di malessere dovuto proprio alla mancanza della sostanza: è la crisi di astinenza. Questa può comparire, in alcuni casi, anche dopo un breve periodo di consumo, specie quando esso sia stato caratterizzato da forte compulsività o qualora siano presenti fragilità psicologiche e sociali, fattori predisponenti allo sviluppo di un disturbo da uso. Quando il consumo diventa continuativo o la persona sviluppa una vera e propria astinenza, si va incontro a un quadro che possiamo suddividere in tre fasi.
Fase I – Crash: si verifica quando le scorte di dopamina si esauriscono e compare il senso di fatica. È questa la fase iniziale dell’astinenza da cocaina: drastico abbassamento del tono dell’umore (depressione) e della energia fisica, che compare già 15-30 minuti dopo la cessazione dell’uso e che persiste per almeno 8 ore e può durare fino a 4 giorni. In questa fase il consumatore sperimenta depressione, che diventa presto disforia (alterazione dell’umore in senso depressivo), ansia, paranoia, malinconia, apatia, difficoltà di attenzione e di concentrazione, anoressia, insonnia e craving. Quindi nelle 8-24 ore successive, il soggetto presenta ipersonnia e astenia fisica. Seguiranno alcune settimane di profonda anedonia e – da una a dieci – di craving feroce.
Fase II – Sindrome disforica tardiva: inizia 12-96 ore dopo l’uso della sostanza e può durare dalle 2 alle 12 settimane. I primi 4 giorni il consumatore presenta sonnolenza, craving, anedonia, irritabilità, problemi di memoria e idee di morte. In tale fase alto è il rischio di suicidio e di ricaduta, vista come un mezzo per interrompere il quadro di malessere psico-fisico.
Fase III – Estinzione: i sintomi disforici e di malessere della precedente fase iniziano a diminuire o si risolvono completamente e il craving diventa ridotto in intensità e frequenza di presentazione.
La velocità di progressione tra i diversi stadi, dipenderà dalla frequenza, intensità, tempo di assunzione, ma anche dallo stato psicologico, fisico e socio-sanitario della persona.
L’intervento medico
Dal punto di vista medico tra i principali sintomi da monitorare e trattare vi sono quelli psichici, che possono caratterizzare tanto la fase di intossicazione acuta che quella di astinenza e che spesso sono anche il motivo primario di ricorso alle cure mediche e farmacologiche. L’attenzione medica al riconoscimento e al trattamento di tali quadri deve essere prioritaria in quanto essi peggiorano la prognosi, pongono a rischio non solo di ricaduta, ma anche di autolesione (fino al suicidio), aumentano il rischio di abbandono delle cure (Roselli Marques, 2011).
L’alta percentuale di disturbi psichici a volte è l’esito finale della continuativa azione della cocaina sui circuiti neuronali (depressione, psicosi, discontrollo degli impulsi e della rabbia), altre volte è preesistente al consumo di crack, che appare pertanto sintomo di un disturbo di personalità o del tentativo di autocura della persona.
Sebbene una quota di nostri consumatori di crack siano accomunati da un passato di consumo iniettivo di altre droghe, frequentemente il crack si inserisce all’interno di una gamma di policonsumo (alcol, cannabis, benzodiazepine). Ad esempio, al fine di ridurre l’angoscioso stato emotivo tipico del crash o per attenuare l’ansia e la paranoia conseguente al ripetuto consumo, i consumatori cronici di crack sono soliti ricorrere all’uso di sostanze ad azione sedativa quali alcol, benzodiazepine (nel territorio reggiano è diffusissimo il Rivotril) o ancora l’eroina.
È bene specificare che l’uso di alcol combinato con la cocaina sniffata ha un significato farmacologico e clinico diverso dall’associazione con il crack. Nel primo caso, infatti, l’alcol serve principalmente a rinforzare gli effetti positivi della cocaina (prolungando ed attenuando l’intensità dell’azione euforizzante, impedendo che questa viri verso sentimenti di ansia ed eccessiva agitazione psico-fisica) ed è assunta prima o in contemporanea alla cocaina. Nel secondo caso, invece, ha soprattutto la finalità di auto-trattamento e prevenzione della disforia e dell’agitazione e degli altri effetti indesiderati del crack, oltre a ridurre la secchezza della bocca (Dias, 2011).
Da non dimenticare poi, l’impatto sulla salute fisica, con aumentato rischio di contrarre malattie infettive specie sessualmente trasmissibili o conseguente a scambio di paraphealia (oggetti connessi all’uso di droghe, ndr) (Cruz, 2013). La compulsività e la frequenza d’abuso sono fattori in grado di influire su tale rischio: i consumatori giornalieri hanno un rischio di contrarre l’Hiv superiore di 4 volte rispetto ai consumatori non abituali (De Beck, 2011).
Il condizionamento dell’ambiente
La velocità con cui si instaurano il declino socio-sanitario, oltre alle complicanze cliniche correlate, nel caso del crack è particolarmente spiccata. Ciò è in parte da relazionarsi alle caratteristiche farmacologiche della sostanza, ma in parte anche alla estrema fragilità sociale dei contesti in cui il crack è maggiormente diffuso. Il crack è stato largamente commercializzato in quartieri poveri di risorse e caratterizzati da disordine sociale e le cui popolazioni, spesso appartenenti a minoranze razziali ed etniche, godevano di scarse possibilità economiche o di miglioramento del loro stato. La popolazione consumatrice di crack in Brasile è concentrata principalmente nella popolazione urbana, giovane e marginalizzata: è la droga delle favelas.
Ma anche in altre aree geografiche i crackomani vivono condizioni di precarietà economica, socio-lavorativa e abitativa (sono spesso senza fissa dimora), sovente coinvolti in atti di criminalità. Hanno una esistenza molto disagiata, ma soprattutto di grave solitudine primariamente dal punto di vista relazionale, provenendo frequentemente i consumatori da famiglie assenti o pluri-problematiche, tra i principali fattori di rischio associati alle condotte di consumo.
Più di ogni altra malattia, la dipendenza è la prova che la nostra salute e quindi il nostro malessere sono fortemente influenzati dall’ambiente in cui si vive. L’individuo e l’entità psico-mente di cui è costituto sono influenzati continuamente dall’interazione con l’ambiente esterno, sia nella sua componente comportamentale, che psicologica e organica (ricordiamo l’epigenetica e la neuro-psico-endocrino immunologia).
Gli studi generalmente concludono che un contesto di vita svantaggioso, l’esclusione sociale, la carenza di risorse economiche e lavorative, aumentano il rischio di sviluppare i disturbi di uso. Basti pensare alla crisi economica, considerata da tutti i più importanti studi epidemiologici, un fattore di aggravamento dei consumi di sostanze.
Nella specificità di Reggio Emilia tale sostanza ha incontrato un altro tipo di fragilità: la popolazione migrante che vive in stato di irregolarità. La mancanza di una dimora, di un lavoro, di una rete sociale, la lontananza dai legami familiari, il fallimento di un progetto migratorio su cui era fondata la speranza di riscatto personale ma anche di tutta la famiglia, porta la persona a rifugiarsi in un oblio chimico che annulla temporaneamente le preoccupazioni, i pensieri, la sofferenza e che rende meno duro vivere in strada o all’interno di case abbandonate.
Cocainomani e crackomani
Da quanto detto si comprende che essenziale è la distinzione tra cocainomane e crackomane. Tra queste due tipologie di consumatori – colui che aspira per via nasale la cocaina a scopo per lo più ricreativo e colui che inala crack – esistono confini molto rigidi. Citando la relazione dell’Osservatorio europeo: «Chi consuma cocaina ad uso ricreativo è altra cosa rispetto ai gruppi emarginati come i giovani senza fissa dimora, chi è dedito alla prostituzione e i consumatori problematici di eroina che fumano cocaina “base/crack”, oppure si iniettano cocaina mescolata con eroina, in aree a macchia di leopardo all’interno di determinate città» (Emcdda, 2001).
Quello che si sta osservando, però, negli ultimi anni e anche nella nostra città è la crescente sfumatura del confine tra cocaina e crack sia per la diffusione di tale tipologia di sostanza tra i «consumatori della notte», sia per le «tendenze» del mercato delle droghe, che evidentemente offre di più questo tipo di sostanza. Sempre l’Osservatorio europeo inoltre, segnala in vari paesi dell’Unione, compresa l’Italia, la pratica di mescolare la cocaina «base/crack» con il tabacco in un mix da fumare. In più, la presenza sul mercato di crack già pronto rende questo prodotto più appetibile.
Strategie di riduzione del danno
Crescenti sono le evidenze orientate a supportare o incoraggiare l’introduzione di programmi di riduzione del danno che prevedano la distribuzione di materiali sterili e sicuri necessari per fumare (Ti, 2012) o almeno una serie di precauzioni da adottare in caso in cui lo scambio della pipa diventi inevitabile (ad esempio usare dei boccagli). Ciò al fine di ridurre il rischio di diffusione delle malattie infettive così come di lesioni locali della bocca legate allo scambio e al riuso della pipa (bruciature, tagli, ulcere) (Duff, 2013).
Molti paesi hanno avviato l’apertura di Supervised Smoking Facility (sulla falsariga delle cosiddette «stanze del buco»), luoghi in cui poter inalare il crack, permettendo un aumento dell’accesso a pipe pulite, una riduzione dello scambio e foendo un ambiente più sicuro dove consumare, alternativo alle cosiddette «crack houses» (locali improvvisati senza la minima tutela sanitaria). Inoltre, strutture di questo tipo portano beneficio anche alla comunità circostante in termini di riduzione delle scene aperte di consumo (Duff, 2013).
Oltre ad approfondire gli studi tesi a individuare interventi di riduzione del danno più orientati all’uso di crack, si stanno raccogliendo esperienze di autocontrollo del consumo, cioè modalità di uso del crack che si accompagnino a strategie o attività in grado di alleviare il craving a esso associato (Krawczyk, 2015; Zuffa, 2010).
I servizi che offrono la vasta gamma di interventi, in cui le strategie della riduzione del danno si integrino con quelle terapeutiche di tipo farmacologico e psicologico, ciascuna rispondente a fasi motivazionali diverse della persona, sono quelli con il migliore esito (outcome) (Krawczyk, 2015).
Consumatori e servizi di cura: le barriere
Per la cocaina non esiste un farmaco efficace come, ad esempio, per l’eroina (buprenorfina e metadone) o l’alcol (baclofene, disulfiram-antabuse, alcover-Ghb e naltrexone). E forse anche per l’impossibilità a rispondere con una pillola su misura a tale disturbo, i dati relativi agli accessi ai servizi sanitari segnalano che solo una piccola parte dei consumatori necessitanti di cura o interventi sociosanitari arrivano a fae domanda (Ti, 2011).
Ciò è legato però anche all’esistenza di barriere e fattori che ostacolano l’arrivo ai servizi: tempi, liste di attesa, stigma, servizi strutturati sulle esigenze del personale e non su quelle del consumatore. Ad iniziare, ad esempio, dal limitato orario di apertura dei Sert: il crackomane consuma di notte per tutta la notte, «crolla» al mattino, quando gli ambulatori aprono e si risveglia solo in tarda mattinata, quando gli ambulatori chiudono. A ciò si aggiungono caratteristiche del consumatore che possono ritardare l’arrivo ai servizi di cura: scarsa motivazione al cambiamento, non consapevolezza della problematicità del disturbo di uso, autostigmatizzazione e motivi culturali che non «permettono» di considerare il carattere socio-sanitario delle dipendenze e degli abusi da sostanze. La difficoltà di accesso appare ancora più grande per alcune categorie, ad esempio le donne, tra le più interessate dal problema del crack: per loro è la paura dello stigma o delle ripercussioni sulla custodia dei propri figli a fare la differenza.
Per un nuovo approccio
Servizi a bassa soglia riducono le difficoltà di accesso favorendo l’emersione del sommerso, specie della frangia più marginalizzata dei consumatori. La caratteristica di questi servizi è un approccio non giudicante e attento alle ragioni e alle fragilità sociali. Ciò li rende più appetibili, in quanto in grado di rispondere ai bisogni primari e come tali più sentiti dall’utenza confermando la teoria della piramide di Maslow (pasti, servizi igienici e docce, bagagliaio, un letto dove riposare, lavatrice). Dall’accoglimento e soddisfazione di tali bisogni e dal legame cosiddetto «lento» instaurato con le persone può nascere una relazione terapeutica di fiducia attraverso cui la persona può essere orientata ai servizi di cura sanitari oltreché ad un processo motivazionale di cambiamento delle proprie condotte di consumo.
Luana Oddi
Donne e crack
I problemi più seri sono per le donne incinte e i loro figli.
La dipendenza da cocaina denota una particolarità di genere, risultando il rapporto femmine/maschi, in termini di frequenza di consumo, più alto rispetto a quanto osservabile con altre tipologie di droghe (con prevalenza tendenzialmente maggiore nel genere maschile). Con il crack, ciò è ancor più vero, arrivando a riscontrare in specifici contesti caratterizzati da disagio sociale grave, addirittura una maggiore prevalenza del consumo di crack tra le donne che non tra gli uomini (Pope, 2011). E questo, nonostante la maggior parte delle donne dichiari di aver iniziato a usare crack insieme o indotta dal proprio partner, anch’egli consumatore.
Le donne consumatrici di cocaina e crack tendono, a parità di entità di consumo, a sviluppare più rapidamente dell’uomo dipendenza patologica e conseguenze sanitarie correlate (Pope, 2011). Le donne tendono a soffrire maggiormente di disturbi psichici e in particolare di depressione che è uno dei fattori associati all’induzione e alle recidive dei disturbi di uso, e che – nello specifico del crack -, trova una forma di autocura nelle proprietà psicostimolanti di questo. Gli stati umorali negativi aumentano il craving e il rinforzo positivo dell’azione euforizzante della cocaina e una più grave sindrome d’astinenza. Tutto ciò comporta che a dispetto di una più alta motivazione ad aderire ai trattamenti, le donne consumatrici di crack abbiano esiti dei trattamenti peggiori (Johnson, 2011).
Le donne adottano più frequentemente modalità tipo binge di consumo e ricorrono più frequentemente a comportamenti sessuali a rischio (sesso non protetto con aumentata trasmissione di malattie veneree e infettive, promiscuità sessuale) o alla prostituzione in cambio di soldi o droga (gli uomini sono invece più di frequente coinvolti in attività criminali o di spaccio) (Sherman, 2011; Bertoni, 2014).
Le donne sono più spesso vittime di violenza agita nei contesti più marginali di consumo di crack e più frequentemente subiscono violenza sessuale e fisica da parte dei loro partner. In tale situazione il crack è visto come mezzo per dimenticare, non sentire, lenire il dolore dei traumi fisici ed emotivi subiti. Insomma, un mezzo per sopravvivere (Krawczyk, 2015).
Di particolare importanza tra le conseguenze dell’uso di crack sono gli effetti nella donna in gravidanza, fase in cui il metabolismo della cocaina è ridotto, il che implica una maggiore tossicità sia sulla madre che sul concepito. Oltre all’aumentato rischio di aborto e nascita prematura, il crack può essere responsabile di una serie di alterazioni fisiche e comportamentali che hanno permesso di riconoscere questi bambini esposti al crack come «crack babies».
I neonati nati da donne che abbiano consumato ripetutamente la sostanza possono manifestare una sindrome di astinenza la cui frequenza e il cui grado di intensità sono influenzati dal riscontro o meno di positività urinaria del neonato (il che dipende dall’interruzione o meno dell’uso di sostanza, in prossimità del parto, da parte della madre). Essa è caratterizzata da irritabilità, sudorazione profusa, ipertonia e disturbi del sonno, tremori, pianto continuo e inconsolabile, suzione eccessivamente energica, ma non più efficace, instabilità del sistema nervoso autonomo (tachicardia, sudorazione, ipertermia), peso e altezza più bassi alla nascita, ridotta circonferenza cranica. Con la crescita si possono strutturare difficoltà comportamentali e neurologiche (anomalo tono muscolare, disturbi della postura), disturbi dell’apprendimento e deterioramento cognitivo (QI più basso, disturbi del linguaggio, disturbi dell’attenzione), che tendono a comparire con frequenza più alta rispetto ai loro coetanei non esposti a cocaina.
Nei bambini delle madri consumatrici di crack, a causa del più alto rischio di contrarre infezioni, si è riscontrata una associazione più alta con infezioni da Hiv ed epatite C che possono trasmettersi per via transplacentare più frequentemente e più facilmente anche perché il crack inficia il regolare sviluppo ed attività del sistema immunitario del neonato.
Gli effetti dannosi del crack, così come accade per ogni altra sostanza che sia assunta in gravidanza, sono amplificati, indotti e/o associati alle conseguenze sul benessere psico-fisico dell’unità madre-bambino, dei fattori socio-economici e psicologici vissuti dalla madre, che agiscono la loro azione aldilà o insieme al consumo della cocaina.
Luana Oddi
Torino / La?testimonianza
La?drammatica?caduta della?speranza
Domenico Cravero è un parroco della provincia torinese (prima a Settimo, poi a Poirino). È soprattutto un sacerdote che, oramai da una vita, lavora come psicoterapeuta a fianco delle persone con problemi di droga. «Ho iniziato – racconta – a interessarmi concretamente dei ragazzi consumatori di sostanze stupefacenti nel novembre del 1975. Abitavo a Venaria e nell’oratorio della parrocchia m’imbattei con quella realtà. In città c’era già una piccola comunità di accoglienza. La mia prima messa – era il 1977 – la celebrai tra loro. Da allora non ho mai smesso di occuparmi di questa emergenza. Che continua oggi in forme molto diverse e più nascoste».
Nel 1984 padre Cravero fonda una comunità e un’associazione di volontariato (Associazione solidarietà giovanile, Asg) e poi a una cooperativa sociale (Terra Mia). Attualmente coordina il progetto terapeutico ed educativo in otto comunità, curando in particolare la formazione degli operatori. Ogni comunità si specializza su un particolare servizio terapeutico o educativo nell’area minori, adulti e mamma bambino. Viene trattata non solo la condizione della tossicomania, ma anche il disagio mentale nella molteplicità delle sue forme. Una casa è adibita per l’accoglienza e l’accompagnamento al lavoro di profughi. È attivo anche un dormitorio per persone senza fissa dimora alla stazione ferroviaria di Torino Porta Nuova. Oltre alle comunità ci sono anche due case-famiglia per l’accoglienza di minori (a Scalenghe e a Carmagnola).
Le comunità – distribuite nel territorio torinese (Torino, Moncalieri, Marentino, Grugliasco, Carmagnola) e a S. Benedetto Belbo (Cuneo) – si sostengono attraverso l’agricoltura biologica. I prodotti agricoli sono venduti in un negozio della cooperativa, La bottega dei Mestieri, a Torino (via Foà 59) e nei mercati rionali. Sono attivi anche laboratori di trasformazione di alimenti e un servizio di vendita e distribuzione di panieri alimentari.
Padre Cravero, come descriverebbe l’universo delle droghe nel 2016?
«Oggi le droghe non fanno più paura, a livello sociale, e non sono considerate un’emergenza. Effettivamente è cambiato molto: ci sono farmaci sostitutivi e molta più tolleranza.
Il problema però rimane. Sono numerosi gli assuntori, anche se ormai non si considerano più droghe quelle chiamate leggere. Questo è un inganno. Il pericolo delle droghe, infatti, non sono tanto i danni arrecati alla salute. Non si tratta quindi di un’emergenza sanitaria. Anche per la cura dell’Hiv ci sono per fortuna farmaci efficaci. Il problema delle droghe è etico. Le droghe leggere o pesanti limitano fino ad azzerare la creatività e il protagonismo delle nuove generazioni. Sono una risposta passiva (in gergo il consumo si dice “farsi”) e alienante in un arco dell’età evolutiva dove massimo può essere l’apporto dell’innovazione e della creatività in tutti gli ambiti. Il danno più grave delle droghe consiste quindi nel bloccare il rinnovamento della società che avviene, da sempre, attraverso il contributo delle giovani generazioni che sono il presente e il futuro della collettività».
Come lei ha ricordato, pare che un tempo si parlasse molto di più di tossicodipendenza. Sono diminuiti coloro che fanno uso di droghe o è cambiata la società?
«Non sono diminuiti gli assuntori. Sono se mai cresciute le condizioni di sicurezza verso i danni immediati alla salute e questo è un gran bene. Quella che è cambiata di più è la società che sta vivendo da un po’ di anni una drammatica caduta della speranza. Si crede sempre meno nel progetto di cambiarla. Anziché modificare le ingiustizie e le condizioni che ci rendono inumani si preferisce modificare il modo con cui ci percepiamo. Siamo al più grave stadio del narcisismo: la modificazione artificiale dello stato mentale al posto del sano piacere di trasformare il mondo».
In base alla sua esperienza, quali sono le droghe più pericolose? In questi anni c’è stata una loro moltiplicazione?
«Le droghe sono tanto più nocive quanto più bloccano la creatività e rendono passivi e abulici i giovani. Il danno quindi è soggettivo e non misurabile chimicamente, essendo il vero problema un impoverimento umano (quindi etico) e non solo un rischio sanitario. C’è stata, a mio modo di vedere, una moltiplicazione e, insieme, una buona capacità di “gestirne” il rischio per la salute. Apparentemente quindi va tutto bene: si muore molto meno per overdose».
La domanda di droga è trasversale alle classi sociali. C’è un substrato psicologico comune, secondo lei?
«Nelle tossicomanie c’è sempre un problema di salute mentale o di pesanti condizionamenti psicologici. I tossicomani dovrebbero quindi sempre essere curati e mai abbandonati. Con i tagli sanitari e la perdita della speranza oggi invece è forte la tentazione dell’abbandono. Le tossicomanie riguardano però, fortunatamente, solo una parte assolutamente minoritaria della popolazione. Il grosso del consumo riguarda l’abuso e la tossicodipendenza. Qui i numeri sono alti, anche tra gli adolescenti. Qui si colloca il vero danno umano e sociale».
I piccoli spacciatori sono reclutati soprattutto tra gli immigrati. Come si può affrontare questo problema?
«Certamente non solo tra gli immigrati. Secondo la mia osservazione molti dei consumatori (italiani) sono a loro volta piccoli spacciatori… Nella mia cooperativa stiamo facendo un’esperienza davvero entusiasmante nell’accoglienza degli immigrati e dei profughi giovani (e anche minori). Questi ragazzi hanno tantissimo da insegnarci e da darci. Siamo riusciti a recuperare molte terre abbandonate (in pianura e in collina) e a costruire un’unità produttiva agricola che con i soli italiani mai avremmo potuto fare. È un esempio molto concreto che l’abuso si batte con la creatività e il lavoro. Non basta certo l’informazione e neppure la terapia. Ci vuole il protagonismo attraverso il lavoro».
Ci parli del percorso di recupero dei tossicodipendenti ospitati nella sua Comunità.
«Da due anni sto sviluppando un sistema di cura attraverso l’agricoltura sociale. Ho chiamato questo percorso terapeutico “agricura”».
I «costi» della tossicodipendenza vengono pagati non soltanto dai consumatori, ma anche dalle loro famiglie e dallo Stato (in termini di spesa sanitaria, di sicurezza, eccetera). Che fare?
«Tocca alle istituzioni e alle famiglie organizzate (per esempio attraverso le “scuole dei genitori” un’attività di educazione degli adulti nelle scuole pubbliche) invertire esattamente il processo. I giovani devono accorgersi che gli adulti li stanno aspettando e credono nelle loro possibilità. Il problema drammatico di oggi è l’inazione dei giovani, la perdita del loro contributo. Le droghe sono solo una falsa soluzione, umiliante perché illusoria. I giovani hanno diritto di trovare ben altro nelle piazze, nelle strade, nelle discoteche… delle loro città».
Il mercato della droga costituisce un business globale ad altissima redditività anche a causa del proibizionismo. Da tempo, in Italia, si litiga attorno alla legalizzazione della cannabis. Che pensa al riguardo?
«Non voglio negare valore a questo dibattito che ha le sue ragioni. Io stesso ho partecipato in più occasioni a questa ricerca. Personalmente però percorro un’altra strada: incidere non sull’offerta ma sulla domanda di sostituti artificiali del desiderio e del piacere di vivere. Nessun piacere artificiale potrà mai competere con la soddisfazione di avere un posto e una missione nella società, con la felicità di avere degli amici e delle persone affidabili attorno a sé».
Paolo Moiola
Bangkok / L’analisi
Pochi vincitori, milioni di vinti
Secondo statistiche ufficiali, nel mondo almeno 246 milioni di persone consumano droghe illecite. Le (costosissime) misure repressive non funzionano. Occorrerebbe investire su informazione ed educazione, ma la questione, pur globale, da sempre divide stati, governi e istituzioni.
Nelle questioni che appassionano gli esperti di affari internazionali è difficile trovare un dibattito più annoso e profondamente divisivo che la questione delle droghe. Da quando i Sumeri cominciarono a usare oppio 5.000 anni fa, le coltivazioni, i traffici e il consumo di sostanze narcotiche e psicotropiche sono stati sempre in testa alla classifica delle preoccupazioni e dei guai nelle relazioni internazionali. E visto dalla parte della gente, ben oltre dunque gli aspetti istituzionali, scientifici, legali ed economici, non c’è questione globale che ha fatto soffrire popoli e famiglie più delle droghe.
Non per caso la Convenzione mondiale sull’oppio nel 1912 fu il primo trattato internazionale di carattere multilaterale e globale, cioè il primo documento del diritto internazionale ratificato da molti paesi, dopo il trattato della Croce Rossa sottoscritto nel secolo precedente. Tutti gli altri temi sottoposti a consultazioni, ad accordi e a leggi inteazionali sono venuti dopo, a partire dalla Società delle Nazioni nel 1919 e poi con le Nazioni Unite a partire dal 1945. Nei secoli precedenti al 1912 la produzione e il traffico di droghe ha prodotto guerre in diverse parti del mondo, gli effetti di alcune delle quali non si possono dire spenti nemmeno oggi, come testimonia per esempio la questione di Hong Kong, che fu generata dalla prima guerra dell’oppio conclusasi nel 1842. E da allora non c’è mai stata nel mondo una coltivazione di droghe che sia stata pacifica, cioè che non abbia generato o acuito conflitti gravi e sanguinosi che sono durati per decenni. Negli anni più recenti, nel Triangolo d’Oro e in Colombia a partire dagli anni ’60, in Afghanistan a partire dagli anni ’80, droghe considerate illecite dai trattati inteazionali, accompagnate sempre da colossali traffici di armi, violenza illimitata, corruzione ed enormi flussi di denaro sono state ovunque gli ingredienti essenziali di conflitti disumani e duraturi.
Si può dire dunque che per oltre un secolo la questione delle droghe, perfino quando ha ottenuto qualche forma di consenso teorico, come espresso per esempio nella Convenzione unica globale sugli stupefacenti nel 1961, non ha mai davvero consolidato un vero consenso pratico, né sulle questioni generali, né sulle questioni particolari. Nessun accordo di politiche sulle droghe, raggiunto e firmato da quasi tutti i governi del mondo, sembra avere la forza di ridurre significativamente le percentuali importanti di contrari, come invece è successo per quasi tutte le altre grandi questioni globali, come ad esempio la questione di parità di diritti della donna, la questione della discriminazione razziale, la cooperazione per lo sviluppo sostenibile, la questione del cambio climatico, etc. Sono abbondanti le prove della mancanza di consenso sulle buone pratiche di risposta alle tre aree principali del problema droga: la produzione, il commercio e il consumo. La Global Commission on Drug Policy, in prima linea nel criticare le attuali politiche proibizioniste, repressive e spesso violente di lotta alla produzione, commercio e uso di droghe, è formata da diversi ex capi di stato e di governo, soprattutto dei paesi che più hanno sofferto gli effetti della secolare guerra alla droga, e ne è membro anche Kofi Annan ex segretario generale delle Nazioni Unite. A livello nazionale, in grandi paesi federali come gli Stati Uniti, Germania, Brasile, sono numerosi i governi locali che hanno scelto e applicano politiche di tolleranza per l’uso di droghe considerate illecite in opposizione evidente alle leggi federali. In altre aree, come nell’Unione europea, si applicano politiche molto diverse, che potremmo definire una casistica a 360 gradi, cioè lo stesso commercio e consumo di una droga specifica viene considerato un crimine perseguibile in alcuni paesi e del tutto normale e legale in altri, con decine di sfumature diverse in ogni paese. Non c’è metodo più efficace per creare confusione e demolire la credibilità dell’informazione ufficiale su un rischio di salute che quello di divulgare e legiferare di tutto ed il contrario di tutto tra paesi vicini.
Conseguenza di società malate
Tra le cause di tanta confusione c’è certo la mancanza comune di coerenza tra la realtà e ciò che i governi promettono di fare nei trattati internazionali, ma gli elefanti nella stanza (che nessuno vuol vedere) sono altre due questioni. La prima è il fatto che le misure – violente o minacciose – di repressione che dovrebbero scoraggiare la produzione, fermare i traffici e punire il consumo, oltre che non rispettare i diritti umani, semplicemente non funzionano. La seconda è il fatto che sia l’opinione pubblica che i governi e perfino la maggioranza dei consumatori non vogliono ammettere che, dietro alle tossicodipendenze, ci sono sempre società civili malate, famiglie disfunzionali e soprattutto persone con malattie mentali non riconosciute e non curate. E anche la produzione e il commercio di droghe illecite in qualche modo sono sintomi di un sistema socio-economico fallito, insano per tutta la nazione in cui si verifica.
Finché ci sarà domanda
In tutte le mie esperienze sul campo, nel Triangolo d’oro, come in Bolivia e in Colombia, la politica più efficace di cooperazione con le comunità impoverite e marginalizzate dove venivano prodotte cocaina o eroina è sempre stata il trasferimento di potere sulle scelte di sviluppo sostenibile alla gente vittima della situazione. Quando la gente ha accesso alle decisioni che cambiano la realtà socio-economica sceglie sempre attitudini e attività legali con accesso e successo sul mercato. A livello locale nei paesi produttori di droghe, lo sviluppo alternativo – che sostituisce le coltivazioni illecite con altre produzioni lecite – è economicamente fattibile e sostenibile, ma richiede anche uno stato di diritto capace di difendere i diritti di tutti. A lunga scadenza e su scala mondiale però i soldi spesi in modo più efficace sono quelli che riducono la domanda di droghe illecite, che – legalizzate, decriminalizzate o no – saranno comunque sempre prodotte da qualche parte e trafficate fino a che ci sarà domanda. L’esperienza di forti riduzioni di consumi di tabacco e di alcool, due droghe lecite in quasi tutto il mondo, ha dimostrato che campagne di informazione ed educazione ben fatte possono ridurre i consumi fino al 90%.
In un mondo dove, ormai da decenni, almeno 246 milioni di persone usano droghe illecite e ci sono 207.000 morti l’anno relazionati con il consumo di droghe (United Nations World Drug Report 2016), una nota di speranza andrebbe cercata nel costruire pace nella mente di tutti coloro che hanno a che fare con questa realtà.