«Non pensavamo di dover continuare a fuggire anche una volta giunti in Europa», dice un migrante agli operatori di Medici senza frontiere (Msf) a Ventimiglia, al confine con la Francia.
Una conclusione a cui Msf è giunta grazie a testimonianze raccolte tra i beneficiari di dodici dei suoi progetti in Paesi europei (come Italia, Grecia e Polonia) ed extraeuropei (come Libia, Niger e Serbia).
Dal momento della partenza dai Paesi di origine a quello dell’ingresso nell’Ue, e anche dopo, salute, benessere psicofisico e dignità dei migranti sono messi a repentaglio.
In particolare, l’organizzazione umanitaria individua quattro fasi del percorso migratorio nelle quali la violenza diventa esplicita: la prima è l’intrappolamento nei paesi con i quali l’Ue ha preso accordi di contenimento; la seconda è l’assenza di assistenza e la violenza sui confini; la terza è la detenzione in condizioni spesso degradanti all’interno dei confini dell’Ue; la quarta è l’insicurezza sistematica, l’esclusione e l’indigenza sperimentate nei Paesi di approdo.
Intrappolati nei Paesi extra Ue
Accordi di cooperazione tra Ue e Paesi extra Ue (ad esempio, Libia, Tunisia e Serbia), da cui spesso i migranti transitano per compiere l’ultimo tratto di viaggio, permettono a Bruxelles di esternalizzare le proprie frontiere, intrappolando le persone in Stati non sicuri, dove le condizioni di vita sono difficili e le violenze quotidiane.
La Libia è l’esempio per eccellenza di questa prima forma di violenza fisica e psicologica sui migranti. Tra il 2016 e il 2022, la quantità di persone che dopo aver tentato di lasciare il Paese nordafricano vi sono state riportate a forza è cresciuta fino alla metà del totale delle partenze. Nei primi otto mesi del 2023, più di 11mila persone sono state intercettate e respinte in Libia. Dietro a questo incremento si nascondono i cospicui finanziamenti di Ue e governo italiano per rafforzare la capacità libica di controllare i propri confini.
Muri, barriere, assenza di soccorsi
Nonostante questo, i flussi verso l’Europa continuano. Ed è a questo punto che i migranti si scontrano con una seconda tipologia di violenza. Muri e barriere, dotati delle più moderne tecnologie di sorveglianza, costellano i confini esterni dell’Ue e testimoniano la brutalità dell’approccio securitario europeo alle migrazioni.
Ad esempio, lungo il confine tra Polonia e Bielorussia corre una barriera di filo spinato alta 5,5 metri. Questa crea quella che viene chiamata la «zona della morte»: una terra di nessuno tra i due Paesi alla quale le organizzazioni umanitarie non possono accedere e dove i migranti – esposti alle intemperie e oggetto di violenze e umiliazioni da parte della polizia polacca di frontiera – si trovano bloccati.
Ma non sono solo muri e barriere a tenere fuori i migranti dell’Ue. Anche la decisione, sempre più frequente, dei Centri maltese e italiano per il coordinamento dei salvataggi in mare di ignorare la presenza di barche in difficoltà nelle proprie aree di competenza costituisce una forma di violenza psicofisica sui migranti. Questo mentre le organizzazioni umanitarie che cercano di supplire alla mancanza di operazioni di salvataggio sono criminalizzate e le loro attività osteggiate.
Detenzioni
Giunti nell’Ue, i migranti si scontrano con una terza forma di violenza, la detenzione. Molti si trovano a vivere in strutture di accoglienza che di accogliente hanno ben poco.
Sono gli hotspot, introdotti in Italia e Grecia per velocizzare le operazioni di identificazione dei migranti ed eventuali processi di rimpatrio. Luoghi dove le persone sperimentano privazioni e restrizione di diritti e libertà. Questo genera in loro un senso di coercizione che aumenta le sofferenze fisiche e psicologiche già accumulate durante il viaggio.
Marginalizzazione
Infine, a testimonianza di quanto la violenza sia connaturata alle politiche migratorie europee, in diversi Paesi si verificano forme di rifiuto ed esclusione che impediscono ad adulti e bambini di accedere al sistema di accoglienza. In questo modo, i migranti sono forzati a vivere nella precarietà e non beneficiano, ad esempio, di un’abitazione o di assistenza sanitaria di base.
In più alcuni Paesi destinatari di movimenti secondari, come la Francia, ostacolano i flussi: per i migranti, superare il confine italo-francese a Ventimiglia è diventato molto difficile a causa del ripristino dei controlli alla frontiera.
Violenza connaturata alle politiche Ue
Quelle descritte dal rapporto di Medici senza frontiere sono quattro forme di violenza che generano un costo umano enorme. L’organizzazione umanitaria, infatti, riscontra tra i migranti, oltre a problemi fisici come malnutrizione, disidratazione, malattie della pelle e dell’apparato gastrointestinale, anche un’allarmante crescita di disturbi psicologici: disturbi del sonno, ansia, stato di allerta costante e flashback ricorrenti di momenti traumatici.
Nonostante l’evidenza dei dati, le politiche e le pratiche dell’Ue sulle migrazioni sono state confermate e normalizzate nell’ultima versione del Patto europeo su migrazioni e asilo del dicembre 2023. Lo scopo rimane quello di contenere i flussi, senza considerare però l’impatto su coloro che quei flussi li compongono: persone.
Aurora Guainazzi
Sostituzione etnica o necessità?
Per controllare l’immigrazione clandestina, c’è (anche) «Frontex», l’agenzia europea per le frontiere e le coste. La sua azione è antitetica a quella delle Ong le cui operazioni di salvataggio sono spesso ostacolate. Se non si vuole ragionare in termini di umanità e solidarietà, il dilemma pratico è tra chi vede i migranti come un pericolo e chi li considera una necessità.
Il 10 giugno 2016, sulla frontiera fra Bulgaria e Turchia, si svolse la cerimonia di inaugurazione della «Agenzia di controllo della frontiera europea», meglio nota come Frontex. Istituita nominalmente già nel 2004, inizialmente aveva funzione di consulenza. Con l’intensificarsi del problema migratorio venne trasformata in un corpo operativo dotato di uomini e mezzi per rafforzare le attività di controllo alle frontiere già svolto dalle singole polizie nazionali.
Il controllo dell’immigrazione clandestina e il rimpatrio dei migranti irregolari sono fra le sue funzioni principali. Funzioni che, ad oggi, svolge con la disponibilità di 750 milioni di euro annui, 2.500 uomini, venticinque imbarcazioni, otto velivoli e un’ampia strumentazione di vigilanza elettronica posta lungo i tratti di frontiera più battuti dai migranti. Da qui al 2027, il progetto è di raddoppiare il bilancio di Frontex e portare il numero di addetti a 10mila unità. Con grande gioia soprattutto delle imprese di armi e strumentazione elettronica che, con Frontex, fanno molti affari. Tra esse le multinazionali Airbus (Olanda), Leonardo (Italia), Thales (Francia) che offrono elicotteri, droni, sistemi di sorveglianza, ma anche imprese minori come Glock (Austria) e Mildat (Polonia) per il rifornimento di munizioni e armi leggere. Secondo l’organizzazione Corporate europe observer, tra il 2017 e il 2019, Frontex si è incontrata con 108 imprese per discutere l’acquisto di fucili, munizioni, dispositivi aerei e marittimi di sorveglianza, rilevatori di esseri umani.
Il «curriculum» di Frontex
Fra il 2020 e il 2022, Frontex è stata oggetto di numerose inchieste da parte di organi dell’Unione europea, perché accusata da prestigiose organizzazioni umanitarie e testate giornalistiche di respingimenti illegali e violazione dei diritti umani.
Ad esempio, secondo le ricostruzioni dell’agenzia giornalistica Lighthouse reports, fra il marzo 2020 e il settembre 2021, si sono verificati ventidue casi in cui Frontex ha collaborato con la polizia greca per rimettere gli immigrati in imbarcazioni di fortuna e respingerli in Turchia. Su un altro fronte, quello del Mediterraneo sud, le organizzazioni Human rights watch e Border forensics hanno documentato che, nel 2021, Frontex ha utilizzato la sua capacità di sorveglianza aerea per intercettare le imbarcazioni che trasportavano migranti e segnalare la loro posizione alla Guardia costiera libica affinché le respingessero in Libia.
Secondo l’Oim, l’Organizzazione internazionale per le migrazioni, nel 2021 ben 32.425 migranti sono stati respinti sulle coste libiche in aperta violazione con la Convenzione di Ginevra sui rifugiati, secondo la quale «Nessuno stato contraente espellerà o respingerà, in qualsiasi modo, un rifugiato verso i confini di territori in cui la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate a motivo della sua razza, della sua religione, della sua cittadinanza, della sua appartenenza a un gruppo sociale o delle sue opinioni politiche».
Un rapporto del 13 luglio 2023 delle Nazioni Unite conferma che in Libia «si registrano rapimenti, arresti arbitrari e sparizioni di cittadini e personaggi pubblici per mano di vari attori addetti alla sicurezza».
Onde e Ong
Un’altra strategia, ancora più subdola, utilizzata dall’Italia per ridurre gli sbarchi, è quella di lasciare i migranti in balia delle onde, ossia senza un sistema di protezione in caso di naufragio. Nel 2013 tale attività era svolta da Mare nostrum, ma con la sua chiusura non era più chiaro chi l’avrebbe svolta. Perciò il vuoto venne colmato da alcune organizzazioni umanitarie, fra cui Medici senza frontiere, Save the children, Sea eye, che si dotarono di imbarcazioni e velivoli per individuare le barche di migranti in difficoltà e trarli in salvo. Ma la scelta non piacque ai vari governi che si susseguirono, accusando le organizzazioni umanitarie di complicità con i trafficanti di esseri umani, fecero di tutto per sabotare la loro attività di salvataggio.
Il primo giro di vite si ebbe nel 2017 per mano di Marco Minniti, ministro dell’Interno del governo Gentiloni e proseguì nel 2019 per mano di Matteo Salvini (oggi vicepresidente del consiglio dei ministri, ndr) che fece introdurre multe fino a un milione di euro per quelle navi che fossero entrate nelle acque territoriali italiane senza averne ottenuto il permesso. In seguito, le sanzioni vennero ammorbidite, ma l’attività di salvataggio delle Ong rimane ancora oggi fortemente osteggiata, come mostra il divieto dei salvataggi multipli introdotto dall’attuale governo Meloni, o l’abitudine di assegnare porti di sbarco molto lontani dai luoghi d’intervento.
Clandestini
Mettere piede nel territorio di un paese ricco è la prima sfida di ogni migrante che viaggia come fuggitivo. Ma subito dopo si pone il problema di rimanerci. In Italia, ad esempio, può rimanerci solo chi riceve una qualche forma di risposta positiva alla domanda di asilo (qui sopra una riproduzione del modulo, ndr) avanzata per motivi politici, sociali, razziali, sessuali.
Nel 2022 in Italia si sono registrati 120mila arrivi irregolari per l’88% via mare e il 12% via terra. Nello stesso anno sono state presentate 84mila richieste di asilo, ma quelle accolte sono state meno della metà (48%). In altre parole, due terzi degli arrivati nel 2022 non sono stati autorizzati a rimanere in Italia. E mentre alcuni sono rimpatriati con la forza, i più restano nel nostro paese come irregolari senza alcun tipo di permesso. Senza documenti, senza residenza, senza assistenza sanitaria, senza possibilità di svolgere un lavoro alla luce del sole, sono costretti a vivere come clandestini. Il loro numero in Italia è stimato in mezzo milione e sono una vera manna per caporali, imprese criminali e imprese sommerse, alla ricerca di mano d’opera che, non potendo vantare alcuna tutela legale, può essere sfruttata e tartassata in ogni modo possibile.
Intanto, in Inghilterra, il governo ne aveva studiata un’altra per sbarazzarsi alla radice dei richiedenti asilo. Aveva annunciato di avere stipulato un accordo con il Rwanda che, in cambio di denaro e altri benefici, sarebbe stato disposto a prendersi un certo numero di richiedenti asilo inviati dall’Inghilterra. Ancora una volta i migranti sarebbero stati trattati come pacchi da spedire da una parte all’altra del globo (come vorrebbe fare anche il governo Meloni con i trasferimenti in Albania, ndr). Fortunatamente, nel giugno 2023 la Corte d’appello britannica ha dichiarato il Rwanda un paese non sicuro e ha annullato la decisione del governo. Ma questo ultimo è intenzionato a rivolergersi alla Corte suprema, per cui non è ancora detta l’ultima parola.
Costruire la paura
Nel 2021, mentre in tutta Europa continuava la campagna di terrorismo per convincerci che eravamo sotto la minaccia di un’invasione migratoria che ci avrebbe sommerso, cambiando totalmente narrativa ci veniva chiesto di spalancare le nostre porte a chi fuggiva dall’Ucraina. Una disponibilità che dovevamo avere senza se e senza ma, non importa quanti ne sarebbero arrivati. Allora capimmo che non è una questione di numeri, ma di colore della pelle.
Sensazione confermata anche da altre dichiarazioni successive, come quella del ministro dell’Agricoltura Francesco Lollobrigida il quale, nel corso di una conferenza sulla denatalità, affermò che «non possiamo arrenderci all’idea della sostituzione etnica».
L’esperienza con gli ucraini dimostra che, se si vuole, l’accoglienza si può fare e anche bene. Al contrario, se non si vuole, l’accoglienza non si fa e quella poca realizzata è fatta male. In Italia, di partiti che hanno incluso l’accoglienza dei migranti nel proprio programma di governo non ce ne sono, mentre ce ne sono di quelli che hanno basato la propria campagna elettorale sulla costruzione della paura verso i migranti della rotta balcanica e mediterranea. E dopo averli dipinti come dei barbari che vogliono prendersi ciò che è nostro, hanno promesso muri, blocchi navali, respingimenti. Oggi quelle forze politiche le abbiamo al governo e non potendo fermare i flussi, cercano di fare la faccia cattiva ostacolando i salvataggi e rendendo più difficile la permanenza di chi arriva (articolo a pagina 27, ndr).
Non garantiscono sufficienti strutture di prima accoglienza e organizzano quelle esistenti sempre più sotto forma di carceri; riducono e depotenziano i centri di accoglienza per richiedenti asilo; demoliscono le esperienze di accoglienza di tipo inclusivo; sguarniscono gli uffici che devono rilasciare i permessi di soggiorno. E dopo avere organizzato la disorganizzazione, gridano al caos emergenziale per alimentare nella popolazione l’avversione verso i migranti.
Anziani e forza lavoro
Una situazione non solo cinica e disumana, ma anche assurda perché il Documento di economia e finanza del 2023, redatto dal governo Meloni, afferma che di immigrazione l’Italia ne ha bisogno come il pane, addirittura per ridurre il peso del debito pubblico.
Atteso che la popolazione anziana crescerà portandosi dietro un aumento spese, e che le nascite diminuiranno restringendo la forza lavoro, il solo modo per ridurre l’impatto del debito pubblico è tramite il lavoro degli immigrati, i soli capaci di fare aumentare Pil, contributi sociali e gettito fiscale.
Cosa va detto alla gente
Quello che dunque va fatto rispetto alla questione migratoria è un’operazione verità. Alla gente va detto che, senza migranti, la vecchia e infertile Europa è destinata al declino. Va detto che l’unico modo per salvarla è attraverso i migranti che, secondo il citato Documento di economia e finanza 2023, solo per l’Italia, dovrebbe essere nell’ordine di 280mila nuovi arrivi all’anno di qui al 2070.
Chiarito che abbiamo bisogno degli immigrati, dobbiamo fare anche scattare l’umanità che è in noi e il dovere di solidarietà a cui ci richiama la Costituzione. Per cui dovremmo organizzarci per accogliere chi fugge, per favorire una coesistenza sociale e culturale che potrebbe arricchire tutti; dovremmo creare corridoi umanitari che mettano fine alle traversate della morte; dovremmo attivare la collaborazione internazionale per mettere in salvo i migranti che si trovano intrappolati in situazioni violente come succede in Libia.
In una parola, dovremmo togliere la questione migratoria dalle grinfie dei trafficanti di esseri umani e dei trafficanti della politica. Dovremmo riportare il fenomeno nelle nostre mani per gestirlo con spirito di umanità, solidarietà e lungimiranza.
Francesco Gesualdi (seconda parte – fine)
L’economia dei respingimenti
Ogni anno sono milioni i rifugiati e i migranti. Lasciano i loro paesi per guerre, persecuzioni, disastri naturali, fame. Cercano rifugio e ospitalità nei paesi ricchi, i quali – oggi ancora più che nel passato – mettono in atto politiche di respingimento. Proviamo a spiegare i termini di una questione planetaria.
Secondo l’Unhcr, l’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa di rifugiati, nel 2023 almeno 117 milioni di persone (secondo le prime stime) in tutto il mondo hanno lasciato le loro case per sfuggire a guerre e persecuzioni. A questi occorre aggiungere – stando ai dati dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) – circa 281 milioni di migranti (e ancora non c’è unanimità giuridica sugli spostamenti dovuti ai cambiamenti climatici: sono rifugiati ambientali o migranti ambientali?). La sola guerra in Ucraina ha provocato lo spostamento di circa 7 milioni di individui. Persone che scappano senza una meta ben precisa con il solo intento di mettersi in salvo. Molti terminano il loro viaggio non appena trovano un accampamento della Croce Rossa o delle Nazioni Unite pronti ad accoglierli. Altri, invece, proseguono con l’intento di trovare riparo in un paese ricco, dove pensano di potersi garantire un futuro diverso. I paesi ricchi, però, non li vogliono e il loro viaggio si trasforma spesso in tragedia. Il naufragio di Cutro (26 febbraio 2023), con il suo centinaio di vittime, ne è una triste testimonianza.
Le strategie dei governi
Per impedire ai migranti di entrare e stabilizzarsi dentro i loro confini, i paesi ricchi si avvalgono di un piano strategico articolato su più livelli.
Il primo livello di sbarramento è rappresentato da accordi con i paesi di transito affinché impediscano ai migranti di proseguire il loro viaggio.
In Europa, le grandi ondate migratorie sono iniziate nel 2011 dopo l’intervento armato in Libia da parte dell’Occidente che destabilizzò il paese mettendo in fuga centinaia di migliaia di libici e di stranieri immigrati che si trovavano nel paese per lavorare.
Nel 2013 un barcone si rovesciò nei pressi di Lampedusa e affogarono quasi 400 persone. Il fatto provocò grande sconcerto nell’opinione pubblica e l’allora governo Letta decise di avviare l’operazione Mare Nostrum, il pattugliamento del Mar Mediterraneo da parte della Marina militare italiana per salvare i migranti in pericolo. Ma l’operazione non durò più di un anno.
Nel frattempo, anche il Medioriente era entrato in piena crisi umanitaria per il protrarsi della guerra in Iraq e in Afghanistan e il divampare della guerra in Siria. Quell’anno all’incirca quattro milioni di siriani si trovavano in Libano e Turchia. Tuttavia, c’era anche chi cercava di raggiungere l’Unione europea. Nel 2015 ben 900mila persone approdarono sulle coste greche, in un paese impreparato ad affrontare un’emergenza umanitaria di tali proporzioni dopo anni di austerità che lo avevano messo in ginocchio.
Così l’Unione europea chiese aiuto alla Turchia, che si impegnò a pattugliare le proprie coste per impedire ai migranti di imbarcarsi verso la Grecia. In più, qualora qualcuno fosse riuscito a raggiungere i paesi europei, la Turchia se lo sarebbe ripreso. In cambio, l’Unione europea ha versato (a rate) sei miliardi di euro per il mantenimento dei rifugiati in Turchia. Oltre che con i soldi, l’Ue ha pagato Erdogan anche con il silenzio sulla violazione dei diritti umani e altri abusi commessi dal governo turco verso i Curdi. Ma questo non poteva essere messo nero su bianco.
Il patto è scaduto nel 2021 e non è dato sapere se e come verrà rinnovato. Ma ha fatto scuola e negli anni seguenti altri accordi sono stati stipulati sia dall’Ue che dal governo italiano con vari paesi del Nord Africa.
L’accordo con la Libia
Nel caso dell’Italia, uno dei più imponenti è stato quello firmato nel 2017 con la Libia. In cambio di mezzi e denaro elargiti dall’Italia alla Guardia costiera libica, il governo del paese si impegnava a bloccare i flussi migratori tramite la chiusura del confine sud, il blocco delle partenze via mare verso l’Europa, il respingimento a terra dei migranti intercettati al largo delle coste libiche.
Il memorandum, rinnovato già due volte, prima nel 2020 poi nel 2023, dovrebbe aver comportato una spesa complessiva di 124 milioni di euro. Il condizionale è d’obbligo perché la trasparenza scarseggia.
Lorenzo Figoni, esponente di Action Aid, sottolinea come il Parlamento svolga un ruolo marginale sull’argomento: vota i finanziamenti di massima indicati in legge di bilancio, ma poi non chiede una rendicontazione dettagliata della spesa. Di certo comunque c’è che la Libia è un inferno per i migranti.
In varie occasioni Ong e Nazioni Unite hanno documentato come rifugiati e migranti vengano arbitrariamente arrestati e imprigionati in centri di detenzione dove rimangono per lunghi periodi in condizioni disumane. Senza cibo, senza acqua, senza servizi igienici, sono spesso sottoposti a percosse e torture con bastoni, spranghe, plastica fusa, scariche elettriche, prolungati periodi di sete. Le donne, comprese ragazze giovanissime, subiscono ripetute violenze sessuali.
Crimini commessi da parte di personale governativo libico sovvenzionato dal governo italiano. Come se non bastasse, vari rapporti delle Nazioni Unite denunciano forti collusioni fra trafficanti di esseri umani e vertici della polizia, nonché della Guardia costiera libica.
Lo sostiene, ad esempio, il rapporto d’indagine pubblicato il 3 marzo 2023 da Human rights council quando scrive di «avere ragionevoli motivi per ritenere che il personale di alto livello della Guardia costiera libica e della Direzione per la lotta alle migrazioni illegali sia colluso con trafficanti e contrabbandieri che assieme ai gruppi di miliziani catturano i migranti e li privano della loro libertà». E aggiunge: «La Missione ha anche ragione di credere che le guardie abbiano chiesto e ottenuto pagamenti per il rilascio dei migranti.
In Libia, la tratta, la riduzione in schiavitù, il lavoro forzato, la detenzione, l’estorsione e il contrabbando di esseri umani generano entrate significative a individui singoli, a gruppi criminali organizzati, a personale delle istituzioni statali».
L’accordo con la Tunisia
Secondo Action Aid, tra il 2015 e il 2020, l’Italia ha speso oltre un miliardo di euro a favore di Libia, Niger, Tunisia, Sudan e altri governi africani che non garantiscono il rispetto dei diritti umani, come contropartita della loro attività di respingimento o trattenimento dei migranti. Una politica che il governo Meloni intende rafforzare coinvolgendo un’Unione europea con la quale la contrapposizione è continua. Richiesta che la Commissione europea sembra intenzionata ad accogliere a giudicare dal protocollo di intesa firmato con il governo tunisino il 16 luglio 2023. Fra i molteplici punti toccati, è compresa anche la lotta alle migrazioni illegali con un sostegno finanziario ipotizzato in 105 milioni di euro da parte dell’Ue.
Il memorandum è però controverso: il presidente tunisino Saied parla di carità, mentre i governi europei non vedono alcuna diminuzione dei flussi migratori. Inoltre, al tempo stesso in cui avveniva la firma del protocollo, i quotidiani di tutto il mondo riportavano le foto di migranti ricacciati nel deserto dalla polizia tunisina, morti per mancanza d’acqua.
L’Ue è impegnata nella lotta contro i migranti anche su un altro fronte. Quello di protezione e controllo dei confini nazionali, anche se i protagonisti principali di questa attività rimangono i singoli governi che arrivano a costruire muri e recinzioni, pur di impedire l’ingresso ai migranti.
Stati Uniti (ma anche India)
Una strategia che non riguarda solo l’Europa, ma il mondo intero. Basti dire che lungo il confine con il Bangladesh, l’India ha costruito una fortificazione metallica lunga 3.200 chilometri, la più lunga degli oltre 15mila chilometri di sbarramenti costruiti a livello mondiale. Nelle Americhe, gli Stati Uniti sono separati dal Messico da mille chilometri di muro alto dieci metri, parte in cemento, parte in metallo. E poiché in alcuni tratti è il Rio Grande a fare da confine, nel luglio 2023 il governatore repubblicano del Texas ha pensato di sbarrare l’attraversamento ai migranti con una serie di boe tenute insieme da filo spinato. E pensare che gli attuali Stati Uniti sono nati per iniziativa di immigrati che si fecero spazio trucidando gli abitanti originari.
Venendo all’Europa, i primi sbarramenti ai confini vennero costruiti negli anni Novanta del secolo scorso attorno a Ceuta e Melilla, due possedimenti spagnoli incastonati sulle coste marocchine che si affacciano sul Mar Mediterraneo.
In seguito altre fortificazioni sono state costruite lungo i confini europei per un totale di duemila chilometri, non solo sulle frontiere esterne, ma addirittura fra nazioni aderenti all’Unione europea. Lo testimoniano i 350 chilometri di rete metallica stesa fra Austria e Slovenia, Ungheria e Croazia, Slovenia e Croazia.
Intanto, in Europa
A partire dal 2015 con l’aggravarsi della situazione in Medioriente, un numero crescente di fuggiaschi ha cercato di raggiungere l’Unione europea via terra, lungo la cosiddetta «rotta balcanica». Ma stati come Bulgaria, Romania, Ungheria, perfino Grecia, venivano temuti perché tristemente famosi per i loro respingimenti.
Ancora oggi migliaia di migranti cercano di entrare in Croazia, ma sono ripetutamente respinti, spesso in maniera brutale.
Le testimonianze raccolte da Amnesty international, e molte altre associazioni umanitarie, parlano di migranti che non appena attraversano il confine croato in mezzo ai boschi, sono catturati da persone armate e incappucciate ma con divise della polizia. Quindi, sono picchiati, derubati, sottoposti a sevizie e poi consegnati alle guardie di frontiera che li respingono in Bosnia.
Fra il gennaio 2020 e il dicembre 2022, l’organizzazione danese Drc ha registrato quasi 30mila respingimenti dalla Croazia, molti dei quali accompagnati da trattamenti violenti e degradanti.
A rendere ancora più drammatica la situazione c’è che il rischio di essere respinti in Bosnia può riguardare anche chi è riuscito a raggiungere l’Italia.
In nome di un accordo bilaterale stipulato nel 1996 con la Slovenia, nel 2020 l’Italia ha respinto in quel paese 1.300 migranti che verosimilmente sono poi stati respinti in Croazia e quindi in Bosnia, secondo il fenomeno del cosiddetto respingimento a catena.
Fortunatamente, nel 2021, una sentenza del tribunale di Roma ha dichiarato l’inapplicabilità dell’accordo del 1996 e i respingimenti verso la Slovenia si sono arrestati. Con l’avvento del governo Meloni si rischia, però, di tornare al passato perché, nel dicembre del 2022, il ministero dell’Interno ha emanato una circolare rivolta ai prefetti di Trieste, Udine e Gorizia nonché al Commissario di governo per la provincia di Bolzano, per sollecitarli «ad adottare iniziative volte a dare ulteriore impulso all’attività di vigilanza sulla fascia di confine, al fine di assicurare la più efficace attuazione degli accordi stipulati con la Slovenia e l’Austria».
Parole in burocratese con effetti reali sui migranti anche perché, come vedremo nella prossima puntata, l’Europa intera, al di là delle parole, si sta organizzando per destinare sempre più risorse alle politiche di respingimento.
Francesco Gesualdi (prima parte – continua)
Ventimiglia. A qualsiasi costo
La Corte di giustizia dell’Unione europea ha denunciato, dietro ricorso di varie associazioni tra cui Avocats pour la défense des droits des étrangers (Adde), la forma in cui vengono svolti i respingimenti dalla Francia che contravverrebbe la direttiva europea sui rimpatri. In teoria, un cittadino irregolare dovrebbe beneficiare di un certo tempo per lasciare volontariamente il territorio, invece di essere allontanato in maniera forzata come avviene adesso.
Al mattino, le persone fermate e identificate dagli agenti francesi vengono espulse e, camminando attraverso il ponte San Luigi, arrivano alla frontiera italiana che ne notifica l’espulsione e le lascia andare. Da lì si torna a Ventimiglia a piedi, o con un bus di linea.
Da Grimaldi, ultima frazione di Ventimiglia arroccata sul mare, è possibile intercettare il passo della Morte, un cammino di tre ore che, tra sentieri mal segnalati, sterpaglie, rovi e salite che si riescono a fare solo con l’aiuto di una corda, permette di superare la frontiera in montagna. Il passo è pericoloso. Basta mettere un piede fuori sentiero per scivolare in dirupi, soprattutto se si percorre di notte o con la pioggia. Si scende tra le prime ville di Mentone per poi arrivare al centro. Spesso la gendarmerie controlla la strada e capita che, dopo una camminata estenuante, le persone vengano fermate su questa rotta e respinte in Italia.
«I controlli in frontiera non fanno che aumentare i rischi e i costi in termini di vite umane ed economici. Non c’è decreto, non c’è gendarme che possa fermare le persone. La gente passa anche a costo della vita. A volte arrivano da noi persone con traumi provocati nel tentativo di superare la frontiera in montagna o in autostrada», spiega Serena Regazzoni, referente area immigrazione di Caritas Intemelia.
La militarizzazione e le politiche securitarie, che in Francia si manifestano nei respingimenti e in Italia in proclami di apertura di nuovi centri di permanenza per il rimpatrio, si scontrano con le motivazioni delle persone che spesso sono più forti e le spingono a viaggiare a qualsiasi costo.
Ad umanizzare la frontiera ci pensano organizzazioni comela Caritas, la Diaconia valdese e volontari che forniscono vestiti, cibo, cure mediche, orientamento legale, ascolto e, a volte, amicizia. Una piccola umanità laboriosa, che si sostituisce all’assenza della politica locale nelle attività di accoglienza.
A Ventimiglia ci sono circa 17 posti letto per donne e famiglie in accoglienza diffusa della Caritas e uno rifugio di circa 12 posti per minori gestito da Diaconia e Save the Children. Gli altri dormono nei sottopassaggi o lungo il fiume Roya dove, tra acquitrini e sporcizia, scabbia, infezioni e punture di insetti sono all’ordine del giorno.
c’è sempre qualcuno che ce la fa, nonostante l’aumento dei controlli.
Come Hamza che, nel suo ultimo messaggio di mercoledì notte, scrive: «Sono arrivato. Thanks God». «E cosa farai ora?», gli chiediamo. «Mi riposo perché son troppo stanco. Poi cercherò un lavoro. Sono un barbiere».
Ventimiglia. Hamza Alami, 17 anni del Marocco, è seduto nel dehor del bar Anthony di fronte alla stazione di Ventimiglia. È appena arrivato con un treno da Torino insieme a un amico. Scorrono gli orari del treno sul cellulare e ogni tanto danno uno sguardo al grande orologio della stazione. Poi provano ad avvicinarsi all’ingresso presidiato da un’agente della polizia e due militari dell’esercito italiano che controllano i documenti. Con fare preoccupato si allontanano e si siedono su un muretto, in attesa del momento propizio perattraversare il confine in treno, così come decine di altre persone migranti sedute tra i bar e i gradini della stazione. Hamza sa che, per arrivare in Francia, la sua meta definitiva, mancano solamente 17 minuti di treno e 3,50 euro di biglietto. Troppo poco per desistere ora. Soprattutto se alle spalle si ha un viaggio di oltre un mese. Partiti da Fez, in Marocco, il 17 agosto, con il loro passaporto hanno viaggiato in aereo fino in Turchia. Da lì è iniziata la risalita lungola rotta balcanica, attraverso la Bulgaria, Serbia, Ungheria, Austria per poi arrivare in Friuli da cui hanno preso diversi treni fino a Ventimiglia. Una via inusuale in questo periodo in cui la maggioranza di persone, principalmente di origine sudanese, eritrea, e dell’Africa francofona, arriva nella città ligure dalla rotta del Mediterraneo centrale via Lampedusa.
«Abbiamo camminato notte e giorno per un mese. Siamo esausti e feriti. Passando la frontiera tra Bulgaria e Serbia mi sono squarciato la mano con il filo spinato. Ora siamo determinati a passare e ci proveremo in tutti i modi anche se sappiamo che la gendarmerie è ovunque e proverà a respingerci in Italia», spiega Hamza, prima di tornare verso la stazione e salire sul primo treno per Mentone, dopo averci dato il suo numero di WhatsApp. «Vi farò sapere se arrivo dall’altra parte», dice con sorriso convinto.
E la gendarmerie effettivamente c’è, più agguerrita che mai. Durante la sua visita a Mentone del 13 settembre scorso, il primo ministro dell’Interno francese, Gérald Darmanin, aveva annunciato una chiusura pressoché totale della frontiera con Ventimiglia, in seguito all’aumento esponenziale degli arrivi a Lampedusa nei mesi di agosto e settembre.
«Abbiamo visto in queste ore un maggior dispiegamento delle forze francesi sulla linea ferroviaria e sui valichi di frontiera di ponte San Luigi e ponte San Ludovico. Inoltre, sono stati impiegati reparti dell’esercito per intercettare i migranti sui sentieri di montagna sulla parte della frontiera della val Roja verso Sospel e Breil, cosa che non avevamo mai visto» spiega Jacopo Colomba, project manager di We World che, insieme a Diaconia Valdese, fornisce orientamento legale ai migranti a Ventimiglia.
La Francia, che ha sospeso gli accordi di Schengen e ripristinato le frontiere interne dal 2015 dopo l’attentato del Bataclan, ufficialmente per ragioni di sicurezza, ufficiosamente per limitare l’accesso dei migranti, in realtà è da otto anni che prova a respingere tutti, anche i minorenni, che, secondo la Convenzione di Ginevra, hanno il diritto di essere presi in carico in qualsiasi paese di arrivo.
In queste ore però i controlli sono a tappeto, e se fino a giugno si verificavano circa 80 respingimenti quotidiani, secondo il recente report «Vietato passare» di Medici senza Frontiere, ora vengono «rimbalzate» a Ventimiglia tra le 100 e le 150 persone ogni giorno. La gendarmerie ferma qualsiasi auto in arrivo dall’Italia. Controlla gli abitacoli e ne apre i bagagliai. Alla frontiera marina di San Ludovico sono presenti decine di mezzi e verrà costruito un nuovo centro di identificazione, oltre a quello esistente alla frontiera di San Luigi. Il punto più inespugnabile però è la ferrovia. La stazione di Menton Garavan, prima fermata dopo Ventimiglia, è un posto di blocco quasi invalicabile. La gran maggioranza dei treni provenienti dall’Italia vengono setacciati in lungo e in largo da circa sette agenti della gendarmerie. Seduti in stazione, aspettano il treno, si mettono i guanti e il gilet antiproiettile ed entrano. Dopo pochi minuti, ne escono con tutti coloro che non hanno i documenti.
Lo sa bene Isaac. Si copre la testa con il cappuccio della felpa e si stringe nelle spalle seduto sul muretto sul lato italiano della frontiera di ponte San Luigi. Guarda il mare e pensa al da farsi insieme ad altri ragazzi che, come lui, sono stati fermati sul treno e respinti dalla Paf, la polizia di frontiera francese.
fine prima puntata, continua)
di Simona Carnino
Confine turco-bulgaro. Violenze e respingimenti
Un report denuncia le violenze sistematiche della polizia di frontiera contro i migranti sul confine bulgaro-turco.
«Hanno camminato per due giorni fino ad arrivare a Drachevo, nei pressi di Sredets (Bulgaria sud orientale a circa 40 km dal confine turco, nda). Poco più avanti […] hanno trovato una macchina della polizia di frontiera bulgara, e sono stati arrestati da due poliziotti in uniforme verde che gli hanno rubato i telefoni e li hanno portati alla centrale di polizia di Sredets.
Alla discesa dall’auto gli hanno tirato pugni in faccia, dopodiché sono stati fatti sdraiare pancia a terra e sono stati presi a calci per un’ora».
Una volta terminato il pestaggio, prosegue il racconto, la border police ha requisito le scarpe ai migranti e li ha fatti entrare in una gabbia, la stessa ripresa in un video di Lighthouse Report datato 22 dicembre 2022.
«Alla richiesta di un po’ d’acqua da bere, la polizia ha risposto “Zitti! Oppure vi picchiamo!”. Sono stati lasciati dentro a questa gabbia, doloranti, senz’acqua, senza cibo. Ad un certo punto, passate cinque ore, la polizia è arrivata con un altro gruppo di 50 persone. Li ha caricati tutti e 75 su un camion militare per riportarli in Turchia. Prima di arrivare al confine hanno dovuto camminare due ore – ricordiamo che erano scalzi. Arrivati alla rete hanno trovato cinque soldati fermi ad aspettarli, i quali vestivano l’uniforme dell’esercito e i passamontagna neri.
I soldati hanno aperto un varco nella rete e hanno fatto passare le 75 persone una a una, picchiando senza pietà ognuna mentre varcava il confine. Quando sono passati tutti hanno sparato proiettili in aria per spaventarli».
Secondo i dati del ministero dell’Interno bulgaro, negli ultimi due anni si è registrato un aumento notevole degli attraversamenti illegali del confine Turchia-Bulgaria: 55mila persone nel 2021 sono diventate 168mila nel 2022 per aumentare ancora nel 2023: quasi 109mila «tentativi di attraversamento illegale fermati» dal 1 gennaio al 7 agosto, di cui 47mila nei soli mesi giugno e luglio.
«Tentativi di attraversamento illegale fermati», si traduce con «respingimenti» e, in particolare, respingimenti violenti, stando a quanto denunciato dal Collettivo rotte balcaniche e da diverse altre organizzazioni, tra cui la nota Human Right watch, e il Bulgarian Helsinki Committee.
La violenza della polizia di frontiera, dice il report, non è una violenza episodica, ma sistematica. Gli attivisti, che promettono la pubblicazione futura di altri rapporti e analisi, hanno infatti avuto modo di condurre ricerche e raccogliere testimonianze sul campo, in particolare tra le città di Harmanli e di Svilengrad, constatando la ripetitività dello schema di respingimento violento raccontato sopra.
Vale la pena scaricare e leggere il report per farsi un’idea più precisa di quello che avviene quotidianamente lungo uno dei confini della fortezza Europa: dopo un primo paragrafo che descrive il contesto bulgaro e un secondo che descrive uno dei centri di detenzione, gli altri due raccontano, anche tramite testimonianze di migranti, i respingimenti sui due confini che separano la Bulgaria dalla Turchia e dalla Serbia.
«Nonostante questo breve scritto si focalizzi sulla situazione bulgara – è scritto nell’introduzione del report -, ci preme sottolineare come le pratiche che qui osserviamo si iscrivano con coerenza e continuità nel disegno europeo “sulla migrazione e l’asilo”: il confine bulgaro-turco rappresenta in questo momento la porta terrestre d’Europa».
I diritti che l’Ue dovrebbe difendere e promuovere vengono violati scientemente e nel silenzio generale dei media. Per questo il Collettivo rotte balcaniche, oltre a «supportare attivamente le persone in transito», raccoglie testimonianze per produrre documentazione sulle violenze della polizia ai confini dell’Europa e per mobilitare la società civile.
Dalla Bosnia. La porta è chiusa
Rispetto a quella del Mediterraneo, la rotta dei Balcani è meno nota ma sempre più frequentata. Qualunque sia la strada seguita, la questione delle migrazioni verso l’Europa rimane irrisolta. Reportage dai campi profughi della vicina Bosnia.
Silvia Maraone è la responsabile del progetto di Ipsia (Istituto pace sviluppo innovazione, la Ong delle Acli) a Bihać e a Lipa, in Bosnia. Schietta e cordiale, Silvia si muove con autorevolezza e determinazione con istituzioni locali, poliziotti, cittadini, volontari, operatori di varie organizzazioni e con i profughi.
Ci accompagna all’interno del campo di Lipa, raccontando come funzionano le cose, come sta evolvendo la situazione, quanto siano preziosi gli aiuti che arrivano dall’Italia.
Siamo nel distretto bosniaco di Una Sana, una terra ricca di fiumi e di boschi, con paesini caratterizzati da piccoli minareti. In questi luoghi, che trent’anni fa videro il conflitto dell’ex Jugoslavia, negli ultimi due anni si è creata un’emergenza straordinaria.
La cittadina di Bihać, che conta circa 30mila abitanti, ha visto arrivare seimila profughi, in maggioranza provenienti dal Medio Oriente e diretti in Europa. Persone che, nonostante il diritto di chiedere asilo, vengono bloccate proprio sul confine tra Bosnia e Croazia, dove si fa di tutto per non farle proseguire.
La strategia di Frontex
È la «fortezza» Europa che non li vuole e che, come spesso accade, li ferma per interposta persona. In questo caso, è la Croazia – paese dell’Unione europea – che respinge i profughi, mentre la Bosnia prende il posto della Turchia o della Libia nel trattenerli. L’agenzia europea Frontex trova conveniente utilizzare la vicinanza geografica dei Balcani e la collaborazione di diversi governi desiderosi di entrare nella Ue (come la Bosnia Erzegovina), per rendere il contenimento dei migranti più semplice e, soprattutto, meno costoso.
Nel 2021, con un aumento del 125% di passaggi irregolari su questa rotta rispetto all’anno precedente, Frontex ha perseguito una logica securitaria fatta di fili spinati, campi di confinamento e militarizzazione dell’area. Ciliegina sulla torta, l’uso di moderne tecnologie, dai droni allo studio di sistemi di sorveglianza e controlli di tipo biometrico, come le impronte digitali, il riconoscimento facciale, ecc. (vedi Luca Rondi su Altreconomia n. 245). Pratiche che già molte organizzazioni contestano, considerandole illegali e pericolosissime dal punto di vista dei diritti umani e della privacy in campo digitale (lo si fa con i migranti, ma anche con i cittadini di molti paesi).
Il «non luogo» di Lipa
Così la zona è divenuta una sorta di collo di bottiglia, e la radura di Lipa, a 20 chilometri da Bihać e da qualsiasi altro centro abitato, si è trasformata inizialmente in una tendopoli di quasi duemila profughi, mentre altri venivano ospitati in città, in due campi provvisori. Dopo l’incendio di un anno e mezzo fa, le organizzazioni internazionali e la municipalità di Bihać hanno deciso di attrezzare l’area, che ora si presenta più funzionale e dove in maggio è stata inaugurata una nuova zona per le attività dedicate ai bambini (grazie ai fondi inviati direttamente da papa Francesco). Ma non cambia il fatto che questo campo tra i boschi della Bosnia resti un «non luogo» in mezzo al nulla, con millecinquecento posti – fino a giugno, occupati da circa 400 ospiti – con ben poche possibilità di interazione con il territorio. Oltre alla distanza fisica, infatti, esiste anche una differenza culturale importante: la maggioranza di queste persone provengono da Afghanistan e Pakistan, ma ci sono anche siriani, iraniani e diversi africani. Oltre a un centinaio di cubani, la cui storia è davvero originale, nella sua drammaticità. Andare negli Usa può costare troppo, e allora si ripiega sull’Europa, e la Russia – non distante dal sogno europeo – è uno dei pochi paesi in cui un cubano può sbarcare senza visto (ma dove non può restare né chiedere asilo). Di respingimento in respingimento, anche i cubani sono finiti a Lipa, luogo nel quale tutti (maschi e femmine, famiglie, giovani e meno giovani, di qualsiasi provenienza) hanno un unico scopo: varcare il confine.
La struttura
Lipa è la tappa principale per chi prova e riprova «the game», il cammino verso l’Europa, ed è disposto a tutto per realizzare il proprio progetto migratorio. Un percorso sempre più ostacolato – anche con metodi brutali – dalle autorità croate che hanno persino «rasato» una striscia di bosco a ridosso del confine per individuare meglio con i droni coloro che provano ad emigrare – come cantava Ivano Fossati – «da una terra che ci odia ad un’altra che non ci vuole».
Ipsia è un’organizzazione particolarmente attiva a Bihać e nel campo, dove ha promosso alcune iniziative innovative, sostenute da molti donatori italiani, come il servizio di lavanderia, le cucine collettive, i social cafè. Il primo si era reso necessario per urgenti problemi igienico sanitari, in quanto molti migranti indossavano per giorni gli stessi vestiti senza poterli lavare e cambiare, cosa che aveva provocato diversi casi di scabbia. Le cucine – una decina di grandi bracieri a legna – sono invece una felice intuizione che permette a molti ospiti di sentirsi protagonisti nel cucinare i loro pasti, secondo la loro tradizione e le loro capacità. I social cafè sono infine una modalità per favorire le relazioni all’interno del campo, tramite un tè o un caffè, alcune attività ludico ricreative e culturali, con il supporto di operatori e volontari.
«Ora i posti a disposizione sono sufficienti e l’essenziale c’è – ci dice Silvia -, ma per proseguire con le cucine (cibo e legna costano 3/4mila euro al mese) e la lavanderia (altri 5mila) serviranno altri fondi, oppure dovremo ridurre il numero di beneficiari. Inoltre, oggi i profughi in tutta la Bosnia sono meno di duemila, ma se i numeri aumenteranno – come potrebbe accadere – rischieremo nuovamente di trovarci in difficoltà».
Oltre a Ipsia, il campo – ma anche la città di Bihać – vede la presenza di una decina di realtà internazionali e locali che hanno costruito efficaci sinergie finalizzate a rispondere alle innumerevoli esigenze portate dai migranti. Caritas Italiana (con l’appoggio di numerose Caritas diocesane), Caritas Banja Luka, Ipsia, Croce Rossa (sia internazionale che locale), l’agenzia delle Nazioni Unite per le migrazioni (Iom), alcune Ong di Danimarca e Austria e pure l’ambasciata italiana, hanno permesso di gestire la situazione in modo tutto sommato efficace, per quanto sempre emergenziale.
«All’inizio dell’emergenza – racconta il responsabile della Caritas di Banja Luka che a Bihać ha aperto un ufficio appositamente per far fronte alla complessa situazione – erano presenti una cinquantina di associazioni, che poi sono scomparse. Chi è rimasto ha capito che, perché le cose funzionassero, era necessario collaborare, facendo ognuno la propria parte».
Così il progetto lavanderia funziona grazie ai volontari e operatori Ipsia (tra cui alcune ragazze italiane in servizio civile) che raccolgono gli indumenti al campo, mentre la Croce Rossa di Bihać provvede al lavaggio e alla consegna, grazie a lavatrici industriali e furgoni finanziati dall’Italia. La Croce Rossa poi – autorizzata dal governo bosniaco a monitorare quanti si accampano nei dintorni (nei cosiddetti «jungle camp», vedi riquadro pp. 20-21) – condivide le informazioni con Caritas Bihać che, tramite tre suore di Madre Teresa, due infermiere e due psicologi, raggiunge questi dimenticati portando loro viveri, vestiti e assistenza sanitaria. Inoltre, per evitare uno sbilanciamento di risorse verso i profughi, si interviene anche sulle povertà della comunità locale. Similmente per la scuola: le attività e le risorse messe in campo per favorire l’inserimento dei bambini stranieri (in verità non molti), sono nei fatti destinate a tutti i minori, senza distinzioni.
Sotto la cenere
Nonostante una situazione che al momento appare più tranquilla, restano impressionanti alcuni numeri forniti da Caritas Bihać, che opera grazie all’aiuto di varie Caritas in Italia e di altri donatori, nonché al supporto degli operatori Ipsia con cui collabora da tempo. Grazie ai fondi Caritas, in questi ultimi mesi la Croce Rossa locale ha distribuito 120mila pasti per il campo, a cui se ne aggiungono altri 40mila per quanti vivono accampati nei boschi e nei ruderi, mentre altri 16mila pasti vengono distribuiti in altre realtà. Allo stesso tempo si sostengono circa 400 famiglie bosniache bisognose di Bihać con aiuti di prima necessità.
Purtroppo, la questione migratoria non è l’unica preoccupazione. Daniele Bombardi, operatore di Caritas Italiana, che da anni viaggia tra Serbia, Bosnia e Kossovo, ammonisce: «Non è solo la questione migratoria a preoccupare. I compromessi su cui si è costruito il governo bosniaco dopo la guerra, appaiono sempre più fragili (riquadro a pag. 22). A livello governativo vi sono state alcune provocazioni, con richieste di autonomie che risultano divisive. E se non si presidia la situazione, basta una scintilla per riaccendere un fuoco che cova sotto la cenere».
Ogni tanto un paio di ragazzi escono dal campo con lo zaino in spalla. A loro non interessano i discorsi delle autorità venute a inaugurare il nuovo padiglione, né le beghe politiche nel governo bosniaco. Partono per «the game», alla ricerca di un futuro. Dovessero fallire e tornare indietro, Lipa probabilmente sarà ancora lì: un letto, un pasto e centinaia di compagni di sventura con cui condividere informazioni, fatiche e speranze. E qualche persona amica pronta a regalare un sorriso e a provare a salvaguardare la loro dignità.
Roberto Calza*
(*) Già direttore della Caritas diocesana di Trento per dieci anni, attualmente referente per la pastorale Migrantes della stessa diocesi. Coordinatore della campagna «Cambiamo Rotta», promossa nel maggio 2021 da alcune realtà trentine a sostegno dei progetti di Ipsia a Bihać e Lipa in Bosnia.
Storie di altri migranti
Ancora, ancora e ancora
Sopravvivono fuori dai campi ufficiali, ma resistono e non demordono: continueranno a provare il passaggio in Europa. Assistiti dai volontari del Jrs.
I boschi della Bosnia non sono la giungla tropicale, ma «jungle camp» è il modo in cui vengono indicati gli accampamenti nei boschi, fuori dai campi profughi autorizzati («squat» invece è il termine usato in area urbana). In mezzo agli alberi o appoggiandosi a qualche rudere nelle campagne piuttosto che a qualche capannone dismesso in una periferia urbana, alcune centinaia di persone stazionano nei pressi del confine, pronte all’ennesimo giro di giostra, per attraversare quella linea che li separa da un’Europa che, in questi anni, è divenuta una sorta di nuovo Eldorado.
All’interno delle attività del Jesuit refugee service (Jrs, in Italia rappresentato dal Centro Astalli), che ha un presidio nel campo di Lipa, c’è quella di «outreach», la ricerca di questi campi informali, con conseguenti visite a chi li popola, in particolare nella zona di Bihać e di Velika Kladuša. È un lavoro particolare, fatto di relazioni, di contatti, di condivisione di informazioni con altre organizzazioni e anche di un’attenta lettura del territorio. Se infatti alcuni luoghi sono ormai divenuti punti fermi di transito di molte persone, altre volte è necessario intuire – da un sentiero accennato in un prato, dalla presenza di volti nuovi in città, da qualche rifiuto lasciato nei boschi – dove si formano nuovi insediamenti.
Il sostegno che viene fornito da Jrs a chi vive nei jungle camp è principalmente di due livelli: quello materiale, che consiste nel rifornire i profughi di quanto può servire ad affrontare «the game» (es. vestiti e powerbank per i cellulari), e quello sanitario con visite mediche per accertare le condizioni di salute e, in caso di necessità, inviare le persone a professionisti (dentisti, oculisti, medici) convenzionati con l’associazione che paga il conto. Non è concesso consegnare viveri.
L’altra faccia della rotta balcanica
Chi vive nei jungle camp? Per lo più si tratta di uomini, soprattutto pachistani e afghani, anche se non manca qualche famiglia (nei nostri giri abbiamo incontrato un paio di nuclei nepalesi e una famiglia iraniana) che decide di attendere in ripari di fortuna il momento buono per partire.
Sono luoghi che rappresentano l’altra faccia della rotta balcanica, che raccontano vicende che vale la pena far conoscere.
Nei pressi di una casa abbandonata alla periferia di Velika Kladuša incontriamo John, giovane camerunense che necessita di cure mediche. Ha infatti un labbro enorme, tumefatto da un pestaggio da parte delle guardie di frontiera, confermato dai segni di uno stivale sulla guancia. Gli operatori di Drc (Danish refugee council), la grande organizzazione danese che – tra i vari interventi – si occupa di fornire cure sul campo, esaminano il volto di John e sostengono che loro possono fare ben poco, meglio sarebbe se fosse sotto controllo medico per qualche giorno, per evitare complicazioni. Gli viene suggerito di farsi portare al campo di Lipa (è possibile chiamare il dipartimento per l’immigrazione bosniaco che fa questo servizio) dove l’assistenza medica è più strutturata e h24. John tentenna, non gli piace troppo dover tornare al campo, ma alla fine accetta, ponendo però una condizione: si farà trovare sulla strada principale, non vuole che il dipartimento immigrazione conosca esattamente l’ubicazione di quel rifugio né chi ci abita. Forse una sorta di rispetto per i suoi compagni di campo. Quando starà meglio, sicuramente farà tappa qui e poi, come tutti, proseguirà per fare un altro tentativo.
Dal Pakistan
Ci sono poi le storie di Sajad e Ibrahim, che troviamo insieme ad altri ragazzi pachistani in una vecchia fabbrica. Sajad, che compirà 18 anni quest’anno, ci racconta che, dopo diversi tentativi, era riuscito a passare – con un gruppo di quaranta connazionali – sia il confine croato che quello sloveno. A Novo Mosto, in Slovenia, la comitiva è stata fermata dalla polizia che ha chiesto chi fosse il capo del gruppo. Qualcuno ha indicato Sajad che – senza alcuna accusa precisa, senza una intermediazione né un traduttore e nemmeno una comunicazione formale – è stato arrestato e tenuto in carcere per sei mesi, prassi ormai piuttosto frequente. Una volta rilasciato – senza alcun processo – è stato rispedito in Bosnia.
Quella di Ibrahim, sui trent’anni, è invece una vicenda più complessa. Lui conosce quasi tutte le frontiere dell’Est Europa, avendo provato a passare da ogni pertugio possibile. Partito anche lui dal Pakistan, ha attraversato Iran, Turchia, Grecia, Kosovo, Albania, Serbia, Ungheria (passando il tristemente noto muro tra questi due paesi).
Arrivato finalmente in Austria, è stato fermato e riportato in Serbia e da qui in Bosnia. Tuttavia, Sajad e Ibrahim non demordono.
Proprio pochi giorni prima di incontrarli avevano riprovato «the game», insieme. Ma stavolta la reazione delle pattuglie che controllano il confine croato è stata particolarmente severa. Hanno preso loro i telefoni a cui hanno sparato, dando poi fuoco ai pochi soldi che avevano, ricacciandoli indietro ancora una volta.
La partita infinita
Dopo alcuni giorni passati tra queste persone diventa inevitabile chiedersi il senso di questo «gioco», che di ludico ha ben poco, e se non ci siano modi meno rischiosi e più dignitosi per arrivare in Europa. Ma il semplice fatto che qualcuno ce la faccia (e la cosa rimbalza velocemente di smartphone in smartphone) motiva tutti quelli che ancora – magari dopo aver provato 30 o 40 volte – sono in attesa. Perché qualcuno il confine lo passa comunque ogni giorno. In stazione a Zagabria, mentre torno in Italia, incrocio casualmente alcuni volti noti, sfiniti ma sorridenti. Sono ragazzi incontrati a Lipa alcuni giorni prima. Dopo tre giorni di cammino ora sono lì, forse a un passo dalla conclusione del loro progetto migratorio. Offro loro quel poco che ho, sperando arrivino alla loro meta.
Stefano Calza*
(*) Laureando in sociologia, attualmente in tirocinio presso il Centro Astalli (Jesuit refugee service, Jrs) di Trento, da due anni vive un’esperienza di condivisione abitativa con alcuni migranti presso i padri comboniani del capoluogo trentino.
Bosnia-Erzegovina, venti di secessione
Superficie: 51mila Km2;
Popolazione: 3,8 milioni;
Sistema politico: dal 1995, Repubblica parlamentare federale composta da due entità: la Federazione di Bosnia ed Erzegovina (croato-musulmana) e la Repubblica Serba (Republika Srpska);
Presidenza: tripartita, con un rappresentante per ogni gruppo etnico: Milorad Dodik (serbo), Šefik Džaferović (bosgnacco), Željko Komšić (croato);
Capitali: Sarajevo, con circa 300mila abitanti; Banja Luka, capoluogo della Repubblica Serba;
Date essenziali: secessione dalla Jugoslavia nell’aprile 1992; guerra civile (1992-1995) con 38.697 civili uccisi; accordi di pace di Dayton (Ohio, Usa) del novembre 1995;
Principali gruppi etnici: bosgnacchi 48% (musulmani), serbi 37,1% (ortodossi), croati 14,3% (cattolici);
Religioni principali: islam, cattolicesimo, Chiesa cristiana ortodossa;
Economia: a 27 anni dalla fine della guerra, l’economia del paese rimane di sussistenza; lo stipendio mensile medio è di 500 euro; in crescita il turismo internazionale;
Gas: le forniture di gas provengono dalla Russia;
Situazione politica: la Repubblica Serba spinge per la secessione dalla Federazione bosniaca; come il governo di Belgrado, il leader Milorad Dodik è vicino alle posizioni di Vladimir Putin;
Bosniaci in Italia: 21.500 persone (dati Istat al 31 dicembre 2020);
Rotta balcanica: è il percorso dei migranti attraverso Grecia, Macedonia del Nord, Bulgaria, Serbia, Bosnia Erzegovina, Croazia e Slovenia.
(a cura di Paolo Moiola)
Gli ultimi articoli su migranti e rotta balcanica:
Tra i migranti che attraversano il mediterraneo o la rotta balcanica, diversi sono ragazzi soli, minori non accompagnati. Come gli adulti, anche loro hanno un progetto migratorio, un sogno. Fuggiti da contesti pericolosi per la loro vita, viaggiano in cerca di un luogo sicuro in Europa. Ma l’Europa li respinge, e lo fa talvolta con violenza. Quella fisica, e quella psicologica dell’indifferenza istituzionale che li rende invisibili.
testi e foto di Daniele Biella; dossier a cura di Luca Lorusso |
I minori migranti senza famiglia in cerca di un approdo
Tra i migranti che attraversano il mediterraneo o la rotta balcanica, diversi sono ragazzi soli, minori non accompagnati. Come gli adulti, anche loro hanno un progetto migratorio, un sogno. Fuggiti da contesti pericolosi per la loro vita, viaggiano in cerca di un luogo sicuro in Europa. Ma l’Europa li respinge, e lo fa talvolta con violenza. Quella fisica, e quella psicologica dell’indifferenza istituzionale che li rende invisibili.
«Ogni giorno e ogni notte attraversano i confini degli stati membri dell’Unione europea, premio Nobel per la pace, che continua a chiudere gli occhi di fronte alle violenze che sono costretti a subire». Raffaela Milano, direttrice dei programmi Italia-Europa di Save the Children Italia non parla di fantasmi, ma di persone, di minorenni stranieri non accompagnati.
Sono ragazzi soli, che lasciano l’inospitale madrepatria muovendosi, senza documenti validi, per mesi o anni, lungo rotte precarie e malsane. Si fermano ogni tanto per svolgere lavori di fortuna utili a guadagnare il pezzo successivo del viaggio. Magari hanno in testa una meta precisa: Inghilterra, Germania, Belgio, Francia, Olanda, ma il loro futuro è incerto. La loro condizione di migranti e di minori lontani dalla famiglia originaria, li espone alle leggi spesso anacronistiche degli stati che attraversano, e a persone senza scrupoli che lucrano sulle loro speranze.
Un disastro umanitario nero su bianco
Save the Children Italia, che ha come mission la salvaguardia dei minori e delle loro famiglie, ha compiuto di recente un passo importante per far uscire allo scoperto il tema della condizione dei migranti minori non accompagnati, portandolo sui tavoli del potere in Italia e in Europa: ha chiesto a due giornalisti – a chi scrive, e al fotoreporter Alessio Romenzi – di seguire le rotte percorse a piedi dai minori non accompagnati lungo le frontiere Nord dell’Italia, oggi più interessate dalle migrazioni forzate, ovvero quelle di Trieste e Udine in entrata e di Ventimiglia e Oulx/Claviere in uscita. Ad accompagnare i due giornalisti, per quasi due mesi di ricerca sul campo, Antonella Inverno, responsabile infanzia e adolescenza dell’Ong fondata a Londra nel 1919 da Eglantyne Jebb.
Lo scopo? Realizzare un report che mettesse nero su bianco il disastro umanitario in atto nelle strade e dentro i confini d’Europa – dove i riflettori accesi sono pochi -, che avesse come protagonisti i più vulnerabili, i ragazzini soli.
«Nascosti in piena vista» è il titolo del report, uscito il 17 giugno 2021, tre giorni prima della Giornata mondiale del rifugiato e alle porte del Consiglio d’Europa. Una cinquantina di pagine (consultabili e scaricabili dal sito: www.savethechildren.it/storie-di-minori-migranti) con un forte j’accuse verso le istituzioni europee che, appunto, lasciano diventare fantasmi persone che invece hanno diritto a un’accoglienza immediata e a una vita dignitosa.
Nascosti in piena vista
Sono 9.131 i minori stranieri non accompagnati censiti in strutture di accoglienza in Italia a fine agosto 2021 (in forte aumento rispetto al 2020 quando sono stati 7.080 quelli registrati nell’intero anno). Per il 97% sono maschi, l’87% ha 16-17 anni. Le nazionalità più frequenti sono Bangladesh, Tunisia, Egitto, Albania, Pakistan, Costa d’Avorio, Guinea Conakry e Afghanistan. Uno su tre si allontana dalla struttura dopo pochi giorni, con punte del 70% in alcune zone.
Altri dati interessanti emergono dall’analisi sul campo sulle frontiere meno monitorabili, quelle cui arrivano i migranti dalla cosiddetta «rotta balcanica», ossia quelle oggetto del report di Save the Children: i boschi tra Slovenia e Friuli Venezia Giulia, e i valichi e le montagne tra Liguria, Piemonte e Francia (come il «Passo della morte» tra Ventimiglia e Mentone): quasi nessuno si ferma in Italia, che siano minori soli o adulti e famiglie.
Nonostante la possibilità di fare domanda di asilo nel nostro paese, o, nel caso del minore, quella di venire accolto subito in comunità protette (come accade ai minori italiani, possibilità introdotta dalla Legge Zampa n. 47/2017, unica del suo genere in Europa), essi non si fermano, perché il loro progetto migratorio prevede di arrivare dove si trovano i loro famigliari, o comunque un numero maggiore di connazionali.
Tanti ragazzi afghani e pachistani, ad esempio, privilegiano l’Inghilterra o la Germania. Chi proviene dall’Africa subsahariana ed è francofono, vuole andare in Francia. Mentre iracheni e iraniani – nazionalità in crescita lungo le frontiere, anche famiglie con bimbi piccoli al seguito – puntano a diverse zone del Nord Europa.
L’aspetto più sconcertante che la ricerca mette in evidenza è che questi ragazzi in viaggio sono in balia di loro stessi. Se non fosse per il terzo settore (Ong, fondazioni, associazioni di volontariato, cooperative sociali, parrocchie) e per semplici cittadini che li intercettano rendendosi disponibili anche solo a dare loro un pasto caldo, un cambio di vestiti, o suggerire dove trovare un giaciglio per la notte, i rischi per loro aumenterebbero a dismisura.
Muri anacronistici e illegali
Il rifugio di Oulx, gestito dalla Fondazione Talità Kum; il presidio di Ventimiglia, nella sede di Caritas Intemelia, dove operano anche Save the Children, Diaconia Valdese e WeWorld; la postazione mobile della Croce Rossa Italiana a Claviere; i volontari dell’associazione Linea d’Ombra, con le associazioni Ics e StradaSiCura, nella piazza della stazione di Trieste dove i migranti arrivano con piedi e gambe devastati da settimane di cammino lungo la rotta balcanica, dopo privazioni e botte subite dalle forze dell’ordine di confine, soprattutto tra Croazia e Bosnia (si veda La dignità sotto i piedi, MC marzo 2021, ndr.). Ecco alcuni capisaldi di solidarietà in mezzo a un’indifferenza istituzionale che è capace di tramutarsi in un muro anacronistico, se non illegale.
Il muro di cui parliamo non è fatto dalle sole violenze fisiche subite dai migranti lungo alcuni confini d’Europa, come, appunto, quello croato o quello bulgaro, ma anche di atti illegittimi all’interno dei confini dell’Ue: diversi minori incontrati durante la ricerca hanno raccontato, ad esempio, di respingimenti subiti dalla polizia francese senza ricevere alcun documento in merito. Trattati come fantasmi, appunto. Altri si sono visti la propria data di nascita modificata dagli ufficiali di frontiera perché risultassero maggiorenni e quindi espellibili. Ci si chiede il motivo di questo accanimento, ma la risposta non arriva. Save the Children e tanti altri enti chiedono all’Unione europea per quale motivo non adotti leggi comuni per i minori, come per esempio un «lasciapassare» che permetta loro di chiedere aiuto dove si sentono più al sicuro.
I ragazzi migranti, invece, sono costretti a passare notti nei boschi o in mezzo alla neve delle montagne, vengono respinti e costretti a ritentare il passaggio. Nessuno di loro torna indietro. Tentano e ritentano non appena recuperate le forze, finché non ci riescono.
L’immagine è quella di un gioco dell’oca in cui tutti perdono: i migranti in termini di serenità mentale (quanto peserà dentro di loro la sensazione di essere considerati numeri e non persone?), le autorità che spendono milioni di euro in personale e attività di monitoraggio utili solo a tardare l’ineluttabile passaggio di frontiera, l’umanità stessa che vede quanto sia facile vanificare il messaggio ecumenico di papa Francesco sulla fratellanza tra i popoli.
L’ingresso in Italia: la fine del «game»
«Quando sbuchi dai boschi della Slovenia, ti può capitare di vederla all’improvviso. L’Italia. Trieste, il suo mare. La fine della rotta balcanica, il game over di settimane di cammino e mesi di attesa, preoccupazione, paura. Puoi ritrovarti nel paesino di Dolina, lungo la ciclabile della Val Rosandra, a Basovizza, o nella miriade di altri luoghi del Carso da cui puoi immetterti su una strada italiana e da lì proseguire il tuo viaggio migratorio nell’Europa che fa finta di non vederti o, quando ti trova, ti trattiene valutando se e quando può respingerti». Inizia così la parte del report di Save the Children dedicato all’ingresso in territorio italiano dal confine sloveno: in tutto, 232 chilometri impossibili da monitorare. Da qui passa almeno il 50% dei minorenni non accompagnati che transitano sul territorio italiano.
Nei boschi si trovano gli oggetti del passaggio delle persone: pettini, dentifrici, documenti, vestiti. Tutto viene lasciato nel bosco perché ora inizia una nuova vita nella quale si può e si deve lasciare il passato alle spalle.
Mauro Caputo, videomaker che abita proprio dalle parti di Dolina, ha realizzato su questi oggetti un intenso docufilm, No Borders. Flusso di coscienza. Lui, come molte altre persone, tentano di capire le esigenze dei profughi in cammino che arrivano a piedi alla stazione di Trieste, dove cercano di prendere treni per attraversare il Nord Italia.
Violenze impunite
Fino a un anno fa, come raccontano testimoni diretti, anche l’Italia si macchiava delle riammissioni di persone in Slovenia, a volte anche minori che raccontano di non avere avuto la possibilità di dire la propria l’età. Queste riammissioni sono state poi interrotte anche grazie all’opera di pressione legale di Asgi, Associazione studi giuridici sull’immigrazione.
Ora, chi viene intercettato, per esempio dai militari dell’Operazione strade sicure che pattugliano le vie tra i boschi, viene ospitato in un centro di quarantena, a Trieste come a Udine.
Adulti e minori non accompagnati vanno in strutture diverse tra loro. A gestire le strutture per minori, ci sono enti del privato sociale come la cooperativa Aedis a Udine, Casa dello studente sloveno e Duemilauno agenzia sociale a Trieste.
Dopo il periodo di isolamento, per i minori c’è l’ingresso in una comunità, ma i ragazzi, a questo punto, spesso fuggono per altre destinazioni.
«Voglio diventare informatico in Inghilterra, dove ho un cugino. Mi piacerebbe avere i miei genitori vicini, ma in Afghanistan non si può vivere bene e non è possibile studiare (già prima del ritorno al potere dei talebani, ndr.)», racconta Nadir, 16 anni. «Ai miei fratelli però dico di non fare il viaggio che ho fatto, perché in Bulgaria sono rimasto in prigione tre mesi, sono stato picchiato. Se dici che sei un minorenne, non ascoltano. Quando sono arrabbiati, picchiano e basta».
Testimonianze come la sua si moltiplicano, in particolare su quanto accade lungo il confine croato in ingresso dalla Bosnia. A metà ottobre, un video dell’equipe d’indagine giornalistica Lighthouse Reports ha mostrato scene di violenza ai danni di migranti anche molto giovani.
Svariati appelli all’Unione europea arrivano da più parti, ma finora sono rimasti inefficaci, dato che le autorità croate non hanno fatto nulla di più dell’avvio di una «commissione di monitoraggio» che avrebbe lo scopo di verificare i fatti, più che di processare i responsabili.
Nel frattempo, i «game» («giochi», come vengono chiamati dagli stessi migranti i tentativi di superamento delle frontiere) continuano, e ragazzi e adulti provano il passaggio di confine anche 10-15 volte prima di riuscire.
La psicologa Lorena Fornasir e il marito filosofo, Gian Andrea Franchi, fondatori dell’associazione Linea d’Ombra – a cui Missioni Consolata ha dedicato un reportage nel numero di marzo 2021 – molto attivi alla stazione di Trieste nel medicare le ferite dei migranti procurate dal viaggio, a metà ottobre sono ritornati a Velika Kladusa e Bihac, in Bosnia, dove hanno documentato con foto e racconti le condizioni di bambini, famiglie, adulti, anche in difficoltà psicofisiche, che rischiano la vita per superare la frontiera.
Ventimiglia, respingimenti dalla Francia
«Ho una ferita nella gamba di una pallottola che mi ha sparato un poliziotto libico quando sono scappato dal centro di detenzione», ci ha raccontato Gyasi, 17enne ciadiano. Durante l’intervista che gli abbiamo fatto, si trovava davanti alla struttura della Caritas Intemelia a Ventimiglia, di fianco ai binari della stazione ferroviaria da cui partono ogni giorno treni per la Francia.
Quei treni, Gyasi e tanti altri come lui, non li possono prendere, perché, seppure si trovino già sul suolo europeo, per effetto della sospensione dell’accordo di Schengen, non passerebbero al controllo: sono considerati irregolari.
Lui era arrivato un mese prima dalla Libia, dove era stato trattenuto e schiavizzato per venti mesi dalla malavita che sfrutta i migranti, e in quel momento voleva andare a Parigi. La notte prima era stato respinto dalla polizia francese: «Ho detto la mia data di nascita, 2004, quella con cui sono stato registrato allo sbarco in Sicilia. Ma non mi hanno creduto e mi hanno riportato in Italia scrivendo sul refus d’entrée una data che mi fa risultare maggiorenne». Sul suo certificato di nascita, che aveva con sé, era scritta la data del 2004. Ma non è bastato. La notte successiva, Gyasi ha ritentato, e non ha fatto ritorno. Qualche tempo dopo sul suo profilo Facebook ha messo la geolocalizzazione su Parigi: ce l’ha fatta, perlomeno ad arrivare alla meta.
Altri, invece, non ce la fanno, e sono messi a dura prova, rimanendo come «fantasmi» sospesi tra un luogo e l’altro.
A Ventimiglia, del resto, per tutto il 2021 non c’è stato nessun centro di accoglienza temporanea (prima della pandemia anche i minori soli potevano accedere temporaneamente all’hub della Croce Rossa), e questo ha significato una vita complicata all’addiaccio.
Ragazzi soli e allo sbando
Gli arrivi sono giornalieri, così come, del resto, le «ripartenze». Sono svariati, infatti, i modi in cui le persone cercano di passare a Mentone: a piedi via ferrovia o autostrada, o via sentiero, attraverso il temibile Passo della morte, sulla montagna a ridosso del mare. Per il Passo della morte si parte dal paesino di Grimaldi superiore. Lì vive Enzo Barnabà, storico e saggista che ha scritto, nel 2019, assieme a Viviana Trentin, un libro intitolato proprio così: Il Passo della Morte. Storie e immagini di passaggio lungo la frontiera tra Italia e Francia, nel quale narra la storia di questo passaggio attraverso i tentativi dell’ultimo secolo di superare la rete di confine.
I minori che arrivano a Ventimiglia sono reduci sia degli sbarchi in Sicilia sia del viaggio lungo la rotta balcanica. Vi arrivano in proporzioni simili, che variano a seconda del periodo: durante la ricerca erano maggiori gli arrivi dal «game». Ad aprile 2021, per esempio, dei 453 minori non accompagnati passati dal centro Caritas in cui Save the Children ha un Child friendly space (Spazio a misura di bambino), 149 erano stati registrati agli sbarchi. Il resto, 304 ragazzi, erano arrivati nella cittadina ligure dopo essere entrati in Italia in Friuli Venezia Giulia.
È un colpo al cuore incontrarli lungo il fiume Roja, alla periferia Nord della città. Lì vanno di sera per la distribuzione di viveri e per ricaricare i cellulari. Questi servizi sono offerti da attivisti di associazioni italiane e internazionali (per esempio 20K, Medecins du Monde e Kesha Nyia, che ha anche una cucina presidio vicino al punto di confine di Ponte San Luigi).
Li si può incontrare anche sui binari morti della stazione: spesso sono molto stanchi, alcuni in preda all’alcol che, in qualche modo, «lenisce le ferite» di quello che stanno vivendo, incalzati dai trafficanti che, nonostante i controlli, imperversano offrendo modi costosi e sempre più pericolosi per passare il confine.
Questi ragazzini sono davvero allo sbando: la loro presa in carico istituzionale, a livello europeo, ancor prima che italiano, dovrebbe avvenire al momento del primo ingresso in Europa. Invece sono qui, perché al posto dell’accoglienza hanno ricevuto dinieghi, e, in alcune frontiere, percosse.
La speranza supera il Monginevro
«C’è un pullman di linea che parte tutte le sere alle 19.45 da Oulx, operosa cittadina piemontese di montagna a pochi chilometri dal colle del Monginevro, confine tra Italia e Francia. Ogni persona che sale paga i 2,20 euro del biglietto che la porterà in 20 minuti al massimo a Claviere, ultimo centro italiano a quota 1.760 metri, meta sciistica incuneata nella Francia per tre dei suoi quattro lati. Dalla piazza Europa, nomen omen, dopo quattro chilometri di cammino su un piacevole sentiero senza troppo dislivello, si arriva a Mongénevre, territorio francese nel dipartimento Hautes-Alpes. Ma non tutte le persone che salgono sul pullman per Claviere potranno percorrere liberamente quel sentiero. Non ne hanno diritto, dice la Paf, la polizia di frontiera francese: devono chiedere asilo politico in Italia, non in Francia, se vogliono rimanere in Europa». A differenza di Ventimiglia, qui può succedere che un ragazzo minorenne venga respinto e riconsegnato alla polizia italiana senza alcun foglio di via, come se non fosse mai passato di lì. Non gli viene chiesta l’età – perché altrimenti dovrebbe essere preso in carico dalle istituzioni – e non gli viene consegnato nessun refus d’entree così che le associazioni francesi non abbiano prove per fare ricorso contro il respingimento.
Ancora una volta, quindi, ci troviamo di fronte a giovani vite sospese nel mezzo della Fortezza Europa, la quale, seppure sia tutt’altro che inespugnabile (anche in queste montagne, dopo qualche tentativo, si passa, spesso anche perché a fronte di poliziotti transalpini più duri, se ne possono trovare in altre notti di più «solidali») erige muri anche fra gli stati fondatori dell’Unione. E questo non accade solo alle frontiere orientali, dove la reticenza ad accogliere è maggiore, come in Ungheria, Polonia e, appunto, Bulgaria, oltre alla già citata Croazia. Meno male che da queste parti, nell’alta Val Susa, nota per la tenacia della sua gente, l’aiuto non manca: sono tanti i volontari che danno una mano, offrono un pasto o un alloggio, chiedono conto alle autorità (che, a volte, vedi il Comune di Oulx con l’attuale sindaco Andrea Terzolo, si dimostrano attente alle necessità dei profughi e collaborano con la società civile). L’antropologo Piero Gorza, ad esempio, in un momento di emergenza, ha accolto diversi migranti in casa propria. Il parroco don Luigi Chiampo e la fondazione che ha creato, Talità Kum, gestisce una casa rifugio modello a Oulx dove le persone sostano, si rifocillano e si preparano per il viaggio notturno sulle montagne. Proprio qui, nel Rifugio Massi, le persone che capiscono di trovarsi, forse per la prima volta dopo mesi, in un ambiente in cui si riceve rispetto e si può dare fiducia, si aprono e raccontano di sé.
Esemplare la vicenda di Ahmad, 16enne afghano, da tre anni in viaggio, passato attraverso lo sfruttamento lavorativo in Turchia, l’approdo sulle isole greche e la rotta balcanica: il giorno dell’arrivo al rifugio è carico di vita, sente vicina la meta, dato che, una volta in Francia, vuole raggiungere la Germania.
Accade che la notte viene respinto, senza alcun foglio di via. La Croce Rossa italiana, meritevole nel suo servizio da queste parti anche attraverso il progetto Migralp, lo intercetta a lo riporta al rifugio la mattina dopo.
Ahmad ha perso completamente la serenità, è arrabbiato perché molti compagni di strada ce l’hanno fatta, e lui no.
Ci riprova la sera dopo, questa volta il tentativo va a buon fine.
Chissà dove sarà ora. Di lui ci rimangono nella memoria parole d’oro: «Come il diamante diventa forte grazie alla durezza, si può crescere solo grazie alle difficoltà. Ho viaggiato per tanti paesi, ho avuto un percorso difficile per poter arrivare fin qui, però non mi sono mai arreso. Vorrei dire alla mia mamma che le voglio bene, mi manca tanto e andrò a trovarla».
Daniele Biella
Abdel, 19 anni
Pachistano, incontrato a Trieste a maggio 2021, ne aveva 17 all’epoca dei fatti*.
«Siamo scesi dalla montagna in Croazia e abbiamo viaggiato per due giorni e ci siamo seduti, sdraiati tutti, il trafficante ci ha fatto riprendere fiato. Eravamo all’incirca cento persone. Ed è arrivata la polizia. Quindici, venti persone sono scappate e anche il trafficante è stato catturato con noi. Loro prima ci hanno spruzzato lo spray negli occhi. Sai? Lo spray per gli occhi. Poi sono arrivati due furgoni. Ci hanno fatto salire su quelli e ci hanno portati verso la frontiera della Bosnia. Lì c’era un fiume, una specie di fiume, ci hanno portati lì, picchiati molto e hanno bruciato i nostri zaini, ci hanno fatto togliere i vestiti e hanno bruciato anche quelli e ci hanno fatto tornare indietro in mutande.
[…] Poi dopo quindici giorni ci abbiamo riprovato. Abbiamo proseguito, siamo arrivati in Slovenia. Gli sloveni ci hanno presi e tenuti in prigione e da lì ci hanno riportati indietro: gli sloveni ci hanno consegnati ai croati. I croati sono arrivati e ci hanno riportati indietro. E ci hanno portati di nuovo al fiume dove ci hanno fatto ritogliere i vestiti. Tolti i vestiti, ci hanno picchiati, uno ci teneva le braccia e uno le gambe, e ci buttavano nel fiume. L’acqua era fredda, faceva freddo, avevano un bastone nero, era tipo così, e picchiavano con quello uno ad uno e lo buttavano nell’acqua. L’acqua scorreva veloce, tanto che la persona non riusciva ad uscire, e le pietre ci ferivano i piedi
[…]. I poliziotti ci hanno circondati da tutti e quattro i lati. I ragazzi che avevano cercato di scappare li hanno presi e picchiati. Poi ci hanno riportati indietro, dove c’è una montagna molto alta. C’era un “billa” [inteso come un uomo con gli occhi chiari], era il loro capo, era cattivo, era molto violento, ci picchiava, dava calci. Tra loro c’era un brav’uomo, gli diceva di non picchiare, lo diceva in inglese, e l’altro si arrabbiava anche con lui, e lui allora rimaneva zitto. […] Era arrivato un tagliaboschi, stava facendo la legna nei boschi. Il trafficante è andato a chiedergli se poteva andarci a prendere del cibo se gli avessimo dato i soldi. Lui ha preso i soldi e non si sa se lui o qualcun altro ha chiamato la polizia, e la polizia è arrivata. I piedi erano feriti e non siamo riusciti a scappare, avevano i cani. Quando abbiamo riprovato di nuovo a scappare, uno di noi è stato bastonato dalla polizia alla testa ed è morto sul colpo. L’hanno preso e buttato nel fiume, l’hanno buttato nel fiume, la polizia, il suo corpo non l’abbiamo ritrovato neanche noi».
D.B.
* Abel e Nadir, interviste raccolte nel report di Save the Children, Nascosti in piena vista, giugno 2021.
Nadir, 16 anni
Afghano, incontrato a Trieste nel maggio 2021.
«Ho trascorso due mesi in Turchia, sei, sette mesi in Bulgaria, dove sono arrivato a inizio 2021, poi in Moldavia, e quattro mesi in Serbia. Non ho incontrato la polizia croata né la polizia slovena. Non ho avuto problemi di cibo o acqua. Avevamo cibo e cose da bere nelle borse nei boschi. Sono entrato direttamente in Italia. La parte più difficile del viaggio è stata in Bulgaria. Non si comportano bene con i migranti. Non importa se uno ha 15-16 anni, se è un bambino o un adulto, comunque lo portano in prigione e lo picchiano. Non ero stato mai in prigione prima della Bulgaria. Sono rimasto in prigione per tre mesi. Per quindici giorni non ho visto l’aria aperta, il cielo, solo la cella. E poi alla fine mi hanno dato un foglio e mi hanno detto: “Vai!”. Mi hanno chiesto “Quanti anni hai?”, ma non ascoltano niente. Ci hanno picchiato. Non guardano dove ti picchiano: la testa, le gambe, la schiena, gli occhi. Non guardano neanche, picchiano e basta, i migranti e i rifugiati. Dicevano: “Perché sei venuto? Perché sei venuto qui?”. E poi ci picchiavano. […] Eravamo dodici amici, ma non so adesso dove sono gli altri. […] Sai, in Afghanistan, c’è la guerra. Ci sono i talebani, picchiano la gente e la uccidono. La situazione è molto brutta in Afghanistan. Tutti vogliono venire in Europa, vogliono una vita, vogliono studiare, e in Afghanistan non è possibile. Va tutto male là. Ma in Italia le persone sono buone, hanno cura di noi, ci danno tutto. Ho un cugino in Gran Bretagna, a Birmingham. Lui studia lì. A me piace l’informatica. Per imparare l’inglese prima di tutto ho guardato film, ho imparato le parole e poi le frasi. Poi ho iniziato a parlare alle persone in inglese e molto lentamente ho imparato. Ora prima di tutto vorrei studiare e poi trovare un lavoro legato ai miei studi. Mi piacerebbe avere i miei familiari vicino. Tutti desiderano avere il loro papà o la mamma con sé e trascorrere una vita felice. Ma la situazione è critica là. […] Ai miei fratelli direi: “Non venite in questo modo, è troppo pericoloso”. Non lo rifarei, mai nella vita».
D.B.
Famiglie, speranza cercasi
Le condizioni dei giovani genitori e dei loro bambini
Sui confini italiani, accade d’incontrare famiglie con bimbi anche molto piccoli, in fuga da contesti pericolosi. Giovani genitori, pieni di speranza per un futuro migliore, e di amarezza per un presente lacerante, fatto di muri e di botte, di dignità negata.
«Di chi avete paura? Di me e mio figlio?», urla un giovane padre iraniano, con un bimbo in braccio, avvolto in un giaccone più grande di lui. Lo fa puntando lo sguardo verso la montagna, rivolgendosi a due punti neri a lato di un pilone della seggiovia. Lì è già territorio francese.
Quei due punti neri sono poliziotti – della Paf, polizia di frontiera francese – che pattugliano a piedi i sentieri attorno a Claviere.
Oltre alla realtà dei minori soli, c’è quella di centinaia di famiglie con figli, anche molto piccoli, al seguito. Giovani genitori e bambini che passano anni lungo le rotte migratorie in condizioni a dir poco devastanti.
Con un rapido calcolo sulla base delle osservazioni fatte dal vivo a Trieste, Ventimiglia e soprattutto Oulx, Save the Children stima il passaggio di sessanta nuclei familiari al mese, ovvero almeno 240 persone, dato che i figli al seguito sono quasi sempre due o più. Le provenienze sono soprattutto Iraq, Iran, Afghanistan, Pakistan, qualcuna dal Nepal e, ancora, ma più di rado rispetto al passato, qualche famiglia siriana. Tutte risolute ad arrivare a destinazione, nonostante le difficoltà: colpisce la loro forza di volontà, la determinazione di portare i loro figli in un luogo dove possano crescere con più speranza rispetto alla patria lasciata alle spalle.
Un rifugio sul confine
Il rifugio Massi a Oulx è un luogo neutro nel quale si incontrano famiglie migranti che riposano qualche ora. Queste famiglie vengono accolte dagli operatori della fondazione Talità Kum e da volontari che si alternano portando scarponi, vestiti, viveri, fermandosi spesso a condividere un po’ di tempo con le persone, riconoscendo loro quella dignità che era stata cancellata dal «game» lungo la rotta balcanica, negli hotspot sulle isole greche, sui gommoni, nei camion e in tutte le altre situazioni di privazioni e violenze che sono costretti a vivere, loro malgrado, molti migranti.
«Le indegne esperienze traumatiche vissute dai bambini in questi viaggi si affiancano a un altro aspetto: spesso sono i figli, soprattutto nella fascia d’età dagli 11 ai 16 anni, a diventare portavoce delle famiglie. Parlano più lingue, sanno usare gli smartphone e la tecnologia, si orientano bene e capiscono al volo chi può essere più utile tra le persone che si trovano davanti. Allo stesso modo, a volte, le autorità sono meno vessatorie nei respingimenti quando hanno davanti dei bambini», spiega il rapporto. «Tutte queste ragioni fanno sì che i bambini siano un elemento strategico per la famiglia, una sorta di salvavita. Come nelle favole settecentesche», specifica Piero Gorza, antropologo e ricercatore di On Borders che vive proprio a Oulx e studia da decenni i flussi migratori.
Solidarietà sulla strada
Il sorriso dei più piccoli dà forza ai più grandi, anche se i più grandi vedono quanto è pesante il fardello dell’esperienza migratoria sulle spalle dei bimbi. Al rifugio, ad esempio, due sorelline afghane giocano a guardie e ladri e raccontano a mamma e papà: «Stiamo giocando al poliziotto che picchia il migrante» (vedi box a pag. 47, ndr.).
Ci vorranno mesi, se non anni, per superare i traumi del viaggio una volta giunti – si spera – a una destinazione sicura.
Tra famiglie che si incontrano e si conoscono lungo il viaggio, succede che scatti la solidarietà: si uniscono, fanno un tratto di viaggio assieme, si aspettano e, in alcuni casi, se per qualche motivo un nucleo viene diviso a una frontiera, si prendono cura di chi ha bisogno.
Questo accade anche per i minori non accompagnati: nel loro viaggiare «soli», spesso percorrono tratti di strada con nuclei familiari ai quali si affezionano e con cui poi rimarranno in contatto.
Anche per la situazione delle famiglie in viaggio, una soluzione dovrebbe essere cercata con un accordo interfrontaliero tra paesi europei, per capire dove i migranti hanno familiari, così da metterli in contatto e garantire un ricongiungimento sicuro, al riparo dai rischi del viaggio e dal traffico di esseri umani.
Daniele Biella
Lampedusa, frontiera Sud
Due giorni nell’Isola. sbarchi e memoria del 3 ottobre 2013
Quarantatrè sbarchi in 48 ore. Adulti, ragazzi, bambini accolti e trasferiti dal molo ai centri di accoglienza. Senza turbare i turisti. Mentre decine di migrant arrivano con piccole barche, a otto anni dal naufragio del 3 ottobre 2013, alcuni sopravvissuti e parenti delle vittime ricordano i loro morti e l’urgenza della ricerca di verità e giustizia.
Se nel Nord Italia il movimento tra frontiere è continuo, altrettanto succede al Sud, dove ogni giorno nuove persone, compresi minori stranieri non accompagnati, sbarcano sulle coste.
Molti ragazzini, proprio come gli adulti, una volta arrivati in Italia in una regione meridionale, prendono la via del Nord. Spesso hanno Ventimiglia come tappa successiva.
La frontiera Sud, il mare di mezzo, il Mediterraneo, vede nelle sue acque centinaia di migranti che provano a raggiungere l’Europa per iniziare da zero una vita con più prospettive. Loro malgrado lo fanno nel modo più pericoloso.
Sbarchi, trasbordi e quarantene
Missioni Consolata ha potuto riscontrare, direttamente a Lampedusa, ben 43 sbarchi in 48 ore, almeno mille persone in tutto nelle sole due giornate del 2 e 3 ottobre 2021. Erano soprattutto «barchini» provenienti dalla Tunisia, ciascuno con una ventina di persone a bordo, ma anche dalla Libia con 50-60 migranti ognuna.
La settimana prima era arrivato un peschereccio con 600 persone. Tra esse, numerosi minori soli, in gran parte, come è logico geograficamente, provenienti dai paesi del Nord Africa e dell’Africa subsahariana.
I ragazzi non accompagnati, quando arrivano, normalmente vengono condotti dal porto di sbarco, il molo Favaloro, all’hotspot. Dato, però, che per legge non potrebbero stare in strutture per adulti, nel giro di pochi giorni vengono portati in Sicilia. Trasferiti su navi di linea, separati dai passeggeri, devono fare 7-10 giorni di quarantena.
Nei due giorni di visita a Lampedusa, abbiamo assistito alle operazioni di salvataggio e poi di trasbordo. Queste venivano effettuate dalle autorità competenti – Guardia costiera, Guardia di Finanza, Carabinieri, Polizia, ministero della Salute per le pratiche mediche – con contingenti tali che, di fatto, creavano una sorta di militarizzazione dell’isola.
Soccorrere ricordando il 3 ottobre 2013
Durante la nostra visita, Lampedusa stava vivendo un boom del turismo: l’estate 2021 è durata fino a fine ottobre, con strutture pressoché piene. I turisti non vedevano alcun migrante. Le persone sbarcate, infatti, venivano portate con pulmini dal porto all’hotspot, senza mettere piede nelle vie cittadine.
Save the Children, Diaconia Valdese, Fcei (Federazione delle chiese evangeliche in Italia) sono presenti agli sbarchi, assieme alle agenzie dell’Onu, Unhcr (l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati) e Oim (l’Organizzazione internazionale per le migrazioni), per controllare la giusta presa in carico dei minori e delle famiglie.
L’alto numero di arrivi sull’isola è coinciso con la commemorazione del naufragio del 3 ottobre 2013, in cui avevano perso la vita 368 persone, in gran parte eritree, al quale era seguito quello dell’11 ottobre, con 268 vittime – di cui 60 bambini – in gran parte siriani.
La commemorazione è stata molto sentita. Il Comitato 3 ottobre ha organizzato eventi per un gran numero di studenti arrivati sull’isola da tutta Europa allo scopo di capire le migrazioni forzate raccontate dalla voce dei protagonisti, compresi diversi dei 47 superstiti e dei familiari delle vittime delle due stragi citate.
Alcuni superstiti, salvati con le loro mani da alcuni pescatori isolani, tra cui Vito Fiorino e Costantino Baratta, insediatisi nel frattempo soprattutto in Germania e Svezia, si sono sposati e hanno avuto figli.
Erano presenti anche madri di giovani tunisini dispersi durante il viaggio, accompagnate dai volontari di Carovane migranti e di altre associazioni che cercano verità e giustizia per le vittime. Dopo otto anni, infatti, non sono ancora state fugate le ombre sui ritardi e sulle omissioni di soccorso delle autorità in quelle circostanze.
Daniele Biella
Famiglia afgana
Zalmai e Jamila, marito e moglie di30 anni, con due bimbe di sei e quattro anni. Incontrati a Oulx a maggio 2021, hanno provato il «game» dieci volte.
«Lasciai l’Afghanistan perché mia moglie era stata promessa a qualcun altro. Lei fuggì con me. Fummo poi minacciati. Arrivammo in Iran, ma quegli uomini riuscivano a mandarmi minacce perché avevano soldi. […] Dalla stazione di polizia mi fecero rimanere e mi presero quattro volte il telefono, i croati. Mi presero i soldi. Mi inflissero tanta sofferenza. Mi picchiarono. Mentre mi stavano respingendo mi chiedevano “maani”, cioè chiedevano soldi, “money”. Ci perquisivano, cercavano soldi e prendevano tutti i soldi che trovavano. Ci trattennero, ci misero una maschera sulla faccia mentre ci espellevano. Presero i soldi da qualunque famiglia che conoscessi. Avevano questi bastoni di plastica: ci colpirono con quelli. In qualunque paese tu dicessi loro che saresti andato, Francia, Germania, ti avrebbero picchiato. Menzionavano un paese e poi ci colpivano. Uno, due, tre… a loro non importava quanto ci picchiassero. Ci sedemmo e basta. Quindi ci diedero un calcio o ci dissero: “Alzati!”, e ci tolsero tutti i vestiti e ci picchiarono. Ci arrestavano sempre. Ecco perché abbiamo così sofferto. Mia moglie era malata, ma era riuscita ad arrivare. Fu colpita dal freddo. Aveva nevicato e il corpo le faceva male ovunque. Era stata arrestata e aveva le sue figlie con lei. Alla fine arrivarono due poliziotti. La trascinarono come un cadavere. Continuavano a trascinarla e a trascinarla. […] Quando partimmo con il gruppo di 35 persone verso la Croazia, la bambina aveva paura della polizia e avrebbe avuto paura ogni volta che la polizia sarebbe comparsa. E l’altro problema è che quando diventa ansiosa, si colpisce, sul muro, sul terreno, su qualsiasi cosa. Si colpisce molto duramente, che sia la testa o altro. Si fa male da sola. Non capisce nulla in quei momenti. Una volta che si riprende, ovvero quando si sente meglio, allora piange da quel momento in poi. Ma il fatto è che rimane a disagio. Si rattrista per 5, 10, 15, o 20 minuti, tutto qui. Abbiamo sofferto lungo la strada e speravamo che tutto il ricordo della sofferenza venisse cancellato rapidamente dalla sua memoria, altrimenti sarebbe rimasto nel suo cervello. Sai, è una bambina e le piace giocare. Così quando si siede con la sorella, assegnano a ciascuno ruoli come “Io sono un rifugiato” e l’altra dice “Io sono la polizia”. Poi si alzano e quella che fa il poliziotto viene colpita dall’altra, si inseguono a vicenda e poi combattono. È così che si ricordano. Quindi, non stanno dimenticando quelle cose. Tutti i ricordi, le cose nella loro mente, quelle cose sono ancora nella loro mente».
D.B.
Con gli occhi dei minorenni
Raccomandazioni di Save the Children all’Unione europea.
Un minore è, prima di tutto e sopra ogni cosa, un minore, e i suoi diritti vanno protetti e promossi indipendentemente da ogni altra circostanza relativa alla sua condizione o status suoi personali o dei suoi genitori, ad esempio l’origine nazionale, etnica o sociale o, ancora, lo status legale.
Il principio di non discriminazione è un valore fondante della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza (Crc), stella polare in tema di diritti dei minori che, applicandosi a tutti i minori in ogni circostanza, è centrale anche quando si parla di bambine, bambini e adolescenti coinvolti nella migrazione. Come recentemente riconfermato dal Comitato delle Nazioni Unite sui diritti dell’Infanzia, in nessun caso un minore straniero non accompagnato può essere espulso o respinto alla frontiera, in base alle norme di diritto internazionale poste a tutela dei diritti umani, dal diritto umanitario e sui rifugiati, e, in particolare, all’articolo 33 della Convenzione sullo status di rifugiato del 1951 e dall’articolo 3 della Convenzione Onu contro la tortura.
Ciascuno degli stati alla cui frontiera e nel cui territorio arriva un minore, coinvolto più o meno consapevolmente in un percorso migratorio, ha la responsabilità di prendersene cura, in base a una serie di norme vincolanti volte ad assicurarne la protezione e il riconoscimento di uno status legale.
L’articolo 24 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea conferma la centralità del superiore interesse dei minori in tutte le azioni o decisioni che li riguardano intraprese dalle autorità pubbliche o da istituzioni private.
[…] Come è evidente dalla lettura delle testimonianze, di fronte alla mancanza di un sistema di protezione e accoglienza europeo per i minori migranti, all’assenza di procedimenti rapidi e ben funzionanti di ricongiungimento familiare, alla necessità sinora disattesa di riforma del
Regolamento di Dublino e al quasi totale abbandono dell’esperienza della relocation fra stati membri, fatte salve sporadiche e quanto mai limitate iniziative su base volontaria, ai minori e alle loro famiglie non rimangono alternative che affidarsi ai passeur per proseguire nel proprio percorso migratorio attraverso le frontiere interne dell’Unione. Una scelta obbligata che si accompagna alla necessità di essere invisibili, con il rischio di restare intrappolati nelle maglie del traffico di esseri umani a scopo di sfruttamento sessuale o lavorativo e di subire violenze e vessazioni o di esserne testimoni.
In questo quadro, le violazioni dei diritti dei minori migranti continuano a consumarsi all’interno e all’esterno dei confini dell’Ue, con uno specifico allarme per le zone di confine, sia lungo il perimetro delle cosiddette «frontiere esterne» dell’Unione europea, sia in corrispondenza delle frontiere tra stati membri, luoghi di particolare criticità e pericolo per i minori, nonostante l’Allegato VII del Codice Schengen preveda che sia prestata particolare attenzione nei confronti del minore che attraversa la frontiera e che siano adottate particolari modalità nei confronti dei minori accompagnati o non accompagnati.
I minorenni in particolare – come ci ricorda il Comitato sui diritti dell’infanzia – non dovrebbero mai essere respinti verso un paese dove vi siano fondate ragioni di ritenere che essi siano a rischio di danni irreparabili o verso un altro paese dal quale essi potrebbero essere lì respinti, anche in considerazione delle loro esigenze primarie di sopravvivenza e sviluppo, tenuto conto dell’età e del sesso.
[…] Il caso delle frontiere Nord dell’Italia è, per alcuni versi, emblematico del vuoto politico e giuridico lasciato dalle istituzioni dell’Unione europea e dagli stessi stati membri in tema di movimenti migratori: prassi delle forze di polizia impegnate nella gestione dei confini diverse da territorio a territorio, mancanza di un coordinamento locale e tra i territori dove insistono le diverse frontiere, mancanza di un’indicazione strategica che tenga conto della necessità di gestire i flussi in arrivo dalle diverse frontiere – Sud e Nord – e di distribuire l’accoglienza sull’intero territorio, assenza di mediatori che possano veicolare informazioni ai valichi di frontiera, le principali criticità riscontrate.
Di fronte alla situazione attuale serve guardare alle politiche europee, compresa la riforma degli atti legislativi nell’ambito del Patto europeo sull’immigrazione e l’asilo emanato a settembre 2020, e a quelle nazionali, con gli occhi dei minorenni che ogni giorno provano ad attraversare i nostri confini.
Save the Children Italia
Messico-Stati Uniti. «Bienvenidos a Tijuana»
testi Federica Mirto e Paolo Moiola |
È in Messico, a due passi dalla California. Da tempo le statistiche la pongono ai primissimi posti tra le città più violente del mondo. Eppure, a dispetto di tutti i problemi, Tijuana accoglie migranti da molti paesi. Come dimostra la presenza di varie associazioni d’aiuto, laiche e religiose. Due di esse sono raccontate in queste pagine.
1/ La «Casa del migrante» degli Scalabriniani sui Sentieri del sogno.
Il centro di accoglienza dei missionari scalabriniani è più di un rifugio. È una casa. Piena di umanità e di sorprese.
Tijuana, la città più popolata del Messico (escludendo la capitale), è nota per essere la città di frontiera per eccellenza. È situata nello stato della Baja California e solo trenta chilometri la separano dalla ricca San Diego. L’influenza degli Stati Uniti è parte della storia di questa metropoli. Lo si percepisce dalla crescita del settore edilizio che cerca di imitare uno stile gringo, pur mantenendo forte l’identità messicana. Fino a una decina di anni fa, la città, grazie alla sua posizione strategica, era un luogo di passaggio, la gente arrivava e attraversava la frontiera, in tempi più o meno brevi.
Tutti a Tijuana
Negli ultimi anni l’attrazione verso l’agognato sogno americano ha preso una piega più drammatica. A ricordarlo sono le croci bianche poste vicino al famoso muro a Las playas e non ultima la morte di un ragazzo cubano a fine marzo, affogato nell’intento di raggiungere la spiaggia di San Diego.
La complessità del fenomeno migratorio è aumentata e, negli ultimi anni, la città si è ritrovata a essere il punto di arrivo per tanti migranti e il luogo di rimpatrio per i deportati dagli Stati Uniti. I flussi migratori verso gli Usa non vengono coordinati da strutture pubbliche, statali o federali, ma da associazioni benefiche, la maggioranza religiose, che cercano di mettere ordine in un sistema d’accoglienza tanto generoso quanto caotico e inefficiente. Queste strutture, chiamate albergues, formano una rete solidale pronta ad accogliere famiglie, ragazze madri e migranti Lgbtq. Oltre a dare un posto letto e un pasto caldo, offrono servizi per aiutare gli ospiti migranti a integrarsi nella società. Gli albergues sono distribuiti soprattutto nella zona Nord della città, vicino al confine. Lavorano autonomamente mantenendo il contatto in caso di iniziative comuni di formazione o di protesta, come nei casi di marce organizzate contro la chiusura del confine o l’inasprimento delle politiche per i richiedenti asilo.
La grandezza di Tijuana sta nell’accogliere tutti. Ne sono testimoni le comunità di haitiani perfettamente integrate in un contesto linguistico e culturale diverso dalle proprie origini. Dopo il tragico terremoto che colpì Haiti nel 2010, gli haitiani erano la maggioranza dei migranti ospitati nei centri di accoglienza e, grazie al virtuoso lavoro dei volontari e degli operatori umanitari presenti nel territorio, sono riusciti a crearsi una comunità che dà vita anche a diverse iniziative culturali, inclusa una stazione radiofonica in lingua francese e creola (Radio haitiano en Tijuana).
Emergenza su emergenza
L’emergenza sanitaria causata dal Covid-19 ha, inevitabilmente, messo a dura prova le strutture di accoglienza che hanno dovuto reggersi quasi esclusivamente sulle capacità interne di sostentamento.
La Casa del migrante è uno dei centri di accoglienza più grandi della città. Aperta nel 1987 e gestita dalla congregazione degli Scalabrini, dispone di 140 posti letto che, prima dell’emergenza sanitaria del Covid-19, sono sempre stati occupati da migranti di sesso maschile. La Casa è un luogo accogliente e offre molti servizi, tra cui quello legale, psicologico e un percorso per l’inserimento al lavoro. Nell’arco del soggiorno, che, in media (ma ci sono eccezioni), è di trenta giorni, gli ospiti possono seguire dei corsi di formazione, usufruire del servizio medico, avere tre pasti giornalieri, oltre al posto letto. Le regole per l’ingresso sono chiare: ogni ospite deve collaborare nella pulizia giornaliera, in cucina e in altre attività richieste. Nel centro il tempo sembra immobile. A causa del Covid si può uscire solo per andare al lavoro, mentre tutte le altre uscite devono essere autorizzate dal personale. La routine è scandita da orari rigidi, la maggior parte dei residenti esce presto per andare a lavorare e torna la sera in tempo per la cena nella mensa. L’obiettivo del personale della Casa è quello di aiutare gli ospiti con le pratiche burocratiche e di fornire supporto nella ricerca attiva del lavoro affinché possano sostenere le spese per l’affitto una volta finito il soggiorno nella struttura.
Nonostante le chiusure per la pandemia, il lavoro a Tijuana non è mai mancato: i migranti trovano occupazione nell’edilizia, nelle lavanderie degli hotel, come addetti alla sicurezza o alle pulizie nei centri commerciali. Il problema principale rimane quello degli stipendi bassi, non proporzionati al costo degli affitti, molto alto, in aggiunta alla scarsa disponibilità di trasporto pubblico che costringe a non abitare troppo lontani dal luogo di lavoro.
Il Covid-19 ha colpito anche la Casa del migrante dove ci sono stati casi di positivi, prontamente individuati e isolati nelle stanze attrezzate per la quarantena e con bombole di ossigeno. Sono stati mesi duri. La regione della Baja California è stata tra le più colpite in Messico, ma la consapevolezza del collasso del sistema sanitario pubblico non ha sconfortato il direttore della Casa, padre Murphy (vedi sotto) che, con gli altri collaboratori, ha deciso di dimezzare gli ingressi e aprire le porte alle famiglie.
Storia di Doris e Gerson
I migranti che viaggiano con i bambini sono in costante aumento. Non sono solo i nuclei familiari a mettersi in viaggio, ma anche giovani padri soli con figli piccoli e ragazze in stato di gravidanza avanzato, che portando con sé i figli sperano di avere più possibilità di cruzar (attraversare) il confine e non essere respinti.
Gli effetti a lungo termine della pandemia colpiranno soprattutto i ragazzi in età scolare perché le scuole pubbliche messicane sono chiuse da un anno e, anche se il centro fornisce una sala per giocare, educatori e aule con il computer, non tutti possono seguire le lezioni online. Senza dimenticare che molti minori arrivano analfabeti presentando disturbi del linguaggio e dell’apprendimento.
Per fortuna, i bambini si abituano facilmente a tutto. Per loro la Casa del migrante è un luogo sicuro dove ci sono attività quotidiane e persone che provano a colmare le loro lacune scolastiche. Per mesi, nella sala giochi, a insegnare a leggere e scrivere c’è stata Doris, honduregna di 35 anni con un master in finanzia e uno in pedagogia. Doris, con suo marito Gerson e i loro due bambini di 3 e 6 anni, sono stati ospitati nella casa per 5 mesi (da ottobre 2020 a febbraio 2021), sono scappati da San Pedro Sula nell’estate del 2019 a causa delle continue minacce ricevute dalla criminalità locale. In Honduras stavano bene, entrambi avevano studiato all’università e Gerson lavorava come ingegnere in una famosa compagnia di bevande, ma ultimamente anche le famiglie «normali» sono diventate un target per le gangs locali.
Le cause che spingono i migranti provenienti da Guatemala, Honduras ed El Salvador sono di origine politica, economica e ambientale, ma soprattutto sociale: le persone fuggono dalla violenza e da stati inadeguati e corrotti. Per molte famiglie la fuga rappresenta l’unica soluzione. Al tempo stesso, la pressione della minaccia comporta lo sviluppo di una resilienza naturale della quale sono portatrici soprattutto le donne. Infatti, più che il sogno di una vita negli Stati Uniti, esse cercano un luogo lontano dalla violenza che molto spesso subiscono sui loro corpi.
La sofferenza composta di Doris mi ha colpito più di altre: non si è lasciata mai andare, neppure quando ha saputo di aver perso la madre in Honduras e non poterle dare neppure l’ultimo saluto. Eppure, il giorno dopo era di nuovo pronta a dedicarsi ai bambini.
Novelli Caronte
Prima di Tijuana, la famiglia di Doris è stata in viaggio per un anno. Gerson, suo marito, mi ha spiegato che non puoi più tornare indietro, una volta che sei riuscito a resistere a violenze di ogni sorta. La meta iniziale era Tamaulipas, lo stato messicano al confine con il Texas, ma anche lì sono stati vittime di estorsione e sequestro. Hanno provato due volte ad attraversare il confine mettendosi in contatto con i coyotes, i trafficanti di uomini che si fanno pagare fino a 12mila dollari per superare il confine.
I coyotes vengono trovati tramite passa parola, anche all’interno degli stessi centri di accoglienza, dove a volte riescono a entrare fingendosi dei migranti bisognosi, per reclutare persone promettendo passaggi sicuri di sola andata per gli Stati Uniti. I coyotes, chiamati anche polleros, sono dei moderni Caronte: traghettano le «anime» per denaro. Non solo per attraversare il confine Nord, ma per l’intera rotta migratoria che incomincia a Tapachula, nello stato del Chiapas, al confine con il Guatemala. La rotta dei migranti costituisce uno dei business più proficui per la criminalità locale.
A spiegarmi come funziona il lavoro dei coyotes è Gerson, che mi mostra i messaggi con cui si accordava sul pagamento: una parte viene pagata in anticipo e la seconda una volta arrivati sull’altro lato. Come prova della presunta affidabilità vengono mandati dei video di chi è riuscito a farcela. Anche loro, qualche mese prima, con un piccolo gommone di fortuna, hanno attraversato il Rio Grande riuscendo a entrare nello stato del Texas, per poi essere respinti dalla polizia di frontiera. Dopo l’elezione del nuovo presidente Joe Biden, fiduciosi in un repentino cambio di politiche migratorie, Gerson e Doris hanno ritentato. Questa volta via terra, senza paura di sfidare l’area desertica che separa il confine. Anche il secondo tentativo della famiglia è però fallito. Così, tornati alla Casa del migrante, hanno aspettato e sperato. All’inizio di marzo 2021, dagli Stati Uniti la loro richiesta di asilo è stata sbloccata e, finalmente, in aprile hanno avuto la possibilità di raggiungere dei familiari in Minnesota. Qui ha avuto inizio la loro nuova vita.
Storia di Moses
A tutt’oggi (almeno fino al 21 giugno 2021, ndr), il confine rimane chiuso. È da marzo 2020 che, in nome della sicurezza nazionale, non è più possibile entrare negli Stati Uniti. Inoltre, l’amministrazione Trump aveva strumentalizzato l’emergenza sanitaria per sospendere le richieste di asilo in corso, ma un cambio di rotta si sta avvertendo con la presidenza di Joe Biden.
La storia di Moses, forse più di altre, rappresenta la concretizzazione del sogno americano e della speranza di chi non ha mai perso la fede nel ritorno a politiche migratorie più umane. Il giorno dei risultati delle elezioni americane (a novembre 2020), tra lo scetticismo generale, era l’unico che saltava di gioia e mostrava orgoglioso la foto sul cellulare del neoeletto presidente Joe Biden e della sua vice Kamala Harris. Moses è un ragazzo di 32 anni originario del Ghana, unico ospite africano della Casa dove è rimasto per sei mesi. Era uno dei pochissimi che non parlava spagnolo e non aveva interesse a impararlo: dopo il lavoro preferiva leggere gli ultimi articoli sulla situazione politica e la legislazione americana in materia d’immigrazione. Ha lasciato il suo paese e suo figlio per inseguire il suo american dream e poter raggiungere il fratello nel Minnesota. Per lui gli Stati Uniti «sono un paese dalle illimitate possibilità sotto tutti gli aspetti della vita». Lo dice chiaramente: non è scappato perché il Ghana non sia un paese sicuro, ma perché vuole utilizzare i suoi studi in marketing, crescere a livello professionale e mandare i soldi alla famiglia. Nel 2017, con un biglietto aereo di sola andata, è arrivato a San Paolo in Brasile, dove ha lavorato per una compagnia per due anni. Ha poi intrapreso il lungo viaggio che lo ha portato fino a Tijuana. Moses ha seguito la rotta «tradizionale»: con un pullman è entrato in Nicaragua, poi in Guatemala tramite un coyote, una volta giunto a Tapachula, in Messico, è stato ospitato in un centro di accoglienza. L’attesa dei documenti per poter rimanere nel paese si è prolungata, ma senza demordere Moses è rimasto sei mesi nella città di frontiera del Sud per poi volare fino a Tijuana. Ci tiene a ripetere che non è stato facile, che ha studiato le leggi, che ha pregato e, soprattutto, che è stato perseverante. Uscito dalla Casa, il 27 gennaio 2021 con altri migranti che già avevano effettuato quel percorso, Moses ha attraversato il Rio Grande ed è entrato nel perimetro americano. Quando l’agente della polizia di frontiera gli ha chiesto di tornare indietro, ha continuato ad avanzare finché non sono stati costretti a portarlo alla stazione di frontiera dove è rimasto tre giorni per poi essere trasferito al South Texas detention complex di Pearsall, un centro di detenzione vicino a San Antonio. Dopo due mesi, si è presentato davanti alla corte senza essere rappresentato da un legale: il giudice gli ha approvato un visto temporaneo fino al 12 ottobre 2021, rinnovabile fino a quando si valuterà la sua domanda di asilo. Mentre al cellulare parliamo della sua nuova vita americana, mi manda una foto, quasi a dimostrarmi che bisogna sempre avere fede e non demordere. Come ha fatto lui che, al quarto giorno dal suo arrivo a Minneapolis, nel Minnesota, ha trovato lavoro presso la Smith Medicals, una compagnia che produce dispositivi medici, grazie alla segnalazione dei vicini di casa.
Doña Ricarda
Dentro la Casa, i vissuti e le storie vengono raccontate soprattutto nei momenti conviviali, come in cucina, quando le madri aiutano la cuoca della casa, doña Ricarda che, con lo sguardo, controlla come preparano i tamales e soprattutto, con il suo atteggiamento materno, ascolta, consola, consiglia e cerca di proteggere le sue niñas, come le piace chiamarle.
Federica Mirto*
Padre Pat Murphy
La soluzione? Una vita migliore
Il newyorkese padre Pat Murphy è direttore della Casa del migrante di Tijuana dal 2013. «La maggioranza delle persone arriva dal Sud del Messico e dall’Honduras. Con un desiderio in comune: scappare dalla violenza e dalla povertà».
Da tempo, sul fenomeno migratorio ha messo le mani la criminalità. «Sì – conferma padre Murphy -, perché questo è veramente un grosso affare. Il governo messicano non controlla e la corruzione è dilagante. Tutto ruota attorno al denaro». Gli chiediamo se, come missionari scalabriniani, collaborano con altri. «Naturalmente. Noi collaboriamo con la Chiesa locale e le altre chiese, anche se non tutti capiscono pienamente la sfida dell’emigrazione». Una sfida che, invece, è stata colta dal nuovo presidente statunitense. «Ma è presto per dire se con Biden la situazione sia cambiata. Noi però siamo pieni di speranza che le cose miglioreranno».
«Da anni io ripeto che la soluzione è molto semplice. Abbiamo necessità di sistemare le cose nei paesi di provenienza dei migranti affinché essi non abbiano necessità di emigrare. In altri termini, se si riuscirà a migliorare la vita al Sud, le persone non lasceranno le loro case».
Pa.Mo.
2/ Il «Proyecto salesiano» di Tijuana e i migranti
Tempi di resistenza
La pandemia ha complicato tutto: più bisognosi, meno donazioni, meno volontari. Anche per
i Salesiani della città di frontiera sono mesi duri. Ne parliamo con padre Leyva e Claudia Portela.
«A causa della pandemia abbiamo iniziato a offrire il cibo in scatole di polistirolo poiché le persone non possono mangiare nelle nostre strutture. Abbiamo realizzato una sorta di circuito che gli utenti sono obbligati a seguire prima di ricevere il cibo: si lavano le mani e si disinfettano con alcol. Soltanto dopo questa procedura preparatoria, ricevono una scatola con il cibo (bilanciato), la loro merenda (un pane o dei biscotti) e la loro bevanda (generalmente il caffè). Durante la pandemia abbiamo interrotto solamente il servizio di parrucchiere, ma adesso abbiamo ripreso anche quello. Come offriamo di nuovo le chiamate nazionali e internazionali gratuite».
Così raccontano padre Agustín Novoa Leyva, direttore del progetto salesiano di Tijuana, e Claudia Portela, amministratrice generale e coordinatrice del refettorio («desayunador salesiano padre Chava»).
Alle strutture dei Salesiani di Tijuana si presentano bisognosi di ogni tipo: persone senza fissa dimora (personas en situación de calle), migranti, deportati dagli Stati Uniti. «Nelle file per entrare nel refettorio – conferma Claudia – si possono incontrare uomini e donne di ogni età, bambini e adolescenti. Quelli che arrivano qui sono accettati indipendentemente dall’appartenenza, dall’età o dal sesso».
Nascita e servizi offerti
I Salesiani operano a Tijuana da 34 anni, ma il refettorio è nato 21 anni fa per merito del padre Salvador Romo Gutiérrez («padre Chava») coadiuvato dalla signora Margarita María Andonaegui Padilla. Ha iniziato a operare il 30 gennaio 1999 con 17 commensali che divennero presto 400 per due volte a settimana. Poi, 700 a fine 2001 e mille nel 2007 nella sede attuale. Dal 2010 il refettorio opera dal lunedì al sabato e serve tra le 1.200 e 1.500 persone al giorno. Numeri importanti, dunque.
«A chi bussa alla nostra porta offriamo da mangiare, servizio medico e psicologico, tagli di capelli, cambi d’abito, consulenza legale. Prima della pandemia, offrivamo seminari e avevamo accordi con le istituzioni locali affinché le persone potessero terminare gli studi o iniziare una carriera tecnica. Abbiamo anche un ostello maschile (albergue temporal), che attualmente ospita una trentina di uomini».
Tutti i servizi offerti dalle strutture salesiane sono gratuiti, anche per l’aiuto fondamentale dei volontari. «La maggior parte di quelli che lavorano alla mensa – spiega Claudia – sono volontari. Non abbiamo un numero esatto visto che ruotano sovente. Oggi, a causa della pandemia, il loro numero è diminuito, ma potremmo dire che ci sono circa 30 volontari permanenti».
I minori
Anche a Tijuana come altrove, il problema dei minori non accompagnati è una questione delicata. Padre Agustín e Claudia spiegano che, al centro, sono pochi i minori che si presentano da soli: la maggioranza arriva con un familiare o un altro accompagnatore. Quando accade che arrivino degli adolescenti, la cosa è problematica perché l’ostello salesiano è soltanto per adulti. Aperto nel 2010, l’ostello ha limiti di capienza e di permanenza. E regole precise: «Per essere ammessi è obbligatorio seguire alcune norme di convivenza. Tra queste, ci sono il non consumare droghe e alcol, aiutare nei lavori domestici e nel refettorio, attenersi agli orari di entrata e uscita».
Biden e Kamala
Chiediamo un parere sul vicino di casa, sogno di tutti i migranti che arrivano a Tijuana. Il cambio alla Casa Bianca è visto con speranza. «A differenza della passata amministrazione – spiegano – , il governo di Joe Biden vede la questione dell’immigrazione come un problema delicato da affrontare quindi con molta attenzione. In primis, ha adottato politiche pubbliche più flessibili e umane». Approcci diversi da quelli di Trump, ma da verificare alla prova dei fatti.
Rispetto poi alle norme di protezione domestica, gli Stati Uniti – osservano i due interlocutori – dovrebbero addestrare i loro agenti a trattare con dignità e giustizia i migranti ma anche i criminali. Quanto ai migranti minori, entrati negli Stati Uniti al seguito di genitori privi di documenti, non hanno dubbi: «Non sono colpevoli. Dovrebbero avere la possibilità di legalizzare la loro posizione», spiegano.
In questi mesi i numeri ufficiali della migrazione verso gli Usa sono passati di record in record.
A inizio giugno, Kamala Harris ha compiuto il suo primo viaggio internazionale come vicepresidente Usa visitando il Guatemala (che, con Honduras e El Salvador, forma il «Northern triangle») e il Messico per promettere aiuti allo sviluppo che fermino il crescente esodo migratorio. Ma, soprattutto, per ripetere: «Do not come» (non venite!).
«Esiste una soluzione?», domandiamo a padre Agustín e Claudia. «La soluzione arriverà quando i governi dei paesi d’emigrazione miglioreranno le loro politiche, prendendosi cura dei propri cittadini e proteggendo i loro diritti. La maggior parte delle persone fugge per migliorare la qualità della vita, perché in patria non ha un lavoro o perché è minacciata o è costretta a far parte di bande criminali come nel Salvador. Solamente quando i governi affronteranno seriamente questi problemi, la migrazione potrebbe diminuire».
Sembra il classico uovo di Colombo, ma – volendo essere molto realisti -, questa soluzione richiede volontà politica, soldi e tempo. Avere tutto questo non pare né facile né immediato.
Paolo Moiola
Turisti per forza
testo e foto di Alberto Sachero |
Reportage dalle isole Canarie, dove la Spagna e l’Europa parcheggiano a forza i migranti africani, trasformando i grandi alberghi per turisti in domicili coatti per migliaia di persone in fuga da guerre e povertà.
La rotta migratoria atlantica è quella che dal Nord Ovest dell’Africa conduce all’arcipelago delle isole Canarie, territorio spagnolo.
È una rotta marittima solcata dagli africani in cerca di una vita migliore dall’inizio degli anni ‘90 ed è ritenuta molto pericolosa in quanto attraversa le acque insidiose dell’Oceano Atlantico. È stata la prima via d’acqua verso l’Europa a essere percorsa ben prima di quella mediterranea, ma a causa della sua difficoltà e delle valide alternative, solamente nel 2020 è tornata in auge con ingenti arrivi.
Una rotta più sicura
La rotta mediterranea difatti, o meglio le tre rotte mediterranee (Libia/Tunisia-Italia, Marocco-Spagna e Turchia-Grecia), sono più brevi e meno pericolose. Negli ultimi anni, però, sono diventate sempre più difficili da percorrere.
In Italia il decreto Minniti prima e i decreti sicurezza Salvini poi, criminalizzando le Ong e ostacolando l’assistenza e soccorso nel Sud del Mediterraneo, hanno ridotto le partenze da Libia e Tunisia. Anche il secondo governo Conte, per mano della ministra dell’Interno Luciana Lamorgese, ha stretto patti e sovvenzionato il governo libico e quello tunisino per limitare il più possibile il flusso migratorio. Inoltre, le umiliazioni e le atroci torture inflitte nelle carceri libiche scoraggiano i migranti a percorrere questa via.
Più a Ovest, sulla rotta mediterranea occidentale tra Marocco e Spagna, sono state costruite, nelle enclavi spagnole di Ceuta e Melilla, chilometri di reti per arginare il passaggio. Il governo spagnolo ha pagato quello marocchino per disincentivare le partenze.
Idem nel Mediterraneo orientale, dove i pattugliamenti greci, scaduto il patto miliardario con il dittatore turco Erdogan, si sono intensificati aumentando di fatto i respingimenti.
Un altro motivo che ha spinto le persone verso le Canarie, è il costo del viaggio. Fuerteventura, l’isola più vicina alla terraferma, dista solo 70 km dal Marocco, le altre poco più. Mentre nel Mediterraneo si arriva a spendere fino a 5mila euro, oltre al denaro per raggiungere il posto di imbarco (in Marocco, Libia o Tunisia), nell’Atlantico il costo è decisamente inferiore: tra i 400mila e i 700mila franchi Cfa, moneta utilizzata da 14 paesi africani ex colonie francesi, equivalenti a 600-1.000 euro.
No options
La storia insegna che le migrazioni non si possono fermare, si possono solo temporaneamente limitare. Per tanti non ci sono alternative. No options, come mi hanno sempre ripetuto i migranti incontrati. Rese più difficilmente praticabili le rotte mediterranee a suon di euro e motovedette, le attenzioni di chi cerca miglior futuro si sono rivolte, nonostante l’elevata pericolosità, alla rotta atlantica, porta d’ingresso occidentale dell’Europa.
Al 20 dicembre, data del mio arrivo sulle isole, si calcola che nel 2020 siano sbarcati circa 23mila migranti, molti dei quali tra ottobre e dicembre, nove volte in più rispetto al 2019. Provengono da paesi nei quali è difficile vivere e lavorare come Marocco e Senegal, o dove vi è una grossa crisi politico-sociale come Mali, Mauritania, Costa d’Avorio, Guinea Conakry, Guinea Bissau e Gambia.
Da pescatori a profughi
La maggior parte dei migranti sono ragazzi molto giovani che lasciano i propri paesi per disperazione e mancanza di futuro. Il loro sogno è quello di arrivare in Europa e costruirsi una nuova vita aiutando così la famiglia rimasta nel paese di origine.
Per arrivare alle Canarie partono dalle località di mare di Marocco, Sahara Occidentale, Mauritania e Senegal. Il viaggio può durare da 4 a 20 giorni, a seconda della distanza e delle condizioni dell’oceano. Si stima che sui 25mila partiti, più di 2mila non siano mai arrivati, ma finiti in fondo al mare in quella grande tomba che, come il Mediterraneo, non sappiamo esattamente quanti corpi accolga.
Le imbarcazioni utilizzate sono quelle in legno variopinte dei pescatori locali. Possono ospitare da 10 a 40 persone, a seconda della grandezza dello scafo.
Parcheggiati sul molo
Negli ultimi mesi, la maggior parte degli arrivi sono avvenuti nel Sud dell’isola Gran Canaria, nella zona delle località turistiche comprese tra Maspalomas e Puerto Rico. Di norma le imbarcazioni vengono avvistate dagli elicotteri, che danno l’allarme alle vedette di salvataggio spagnole ormeggiate nel porto di Arguineguin. Queste salpano per recuperare i migranti che vengono portati sul molo, identificati e smistati nei centri di accoglienza dell’isola.
I barconi, chiamati patera in spagnolo, vengono poi trainati e ormeggiati in fondo al molo.
Tra ottobre e dicembre 2020 il numero degli arrivi si è impennato. Le autorità spagnole si sono fatte trovare completamente impreparate e hanno deciso di parcheggiare 2.300 persone sul molo stesso, trattandole di fatto come bestiame. In condizioni igienico-sanitarie precarie, buttate a terra senza possibilità di lavarsi, sono state ospitate in questa sorta di campo gestito dalla Cruz Roja, la Croce Rossa spagnola, per circa 15 giorni.
Il Covid-19 per loro non conta, si è scelto di non far rispettare le distanze di sicurezza. Giornalisti e fotografi sono stati tenuti alla larga, con le buone o le cattive maniere, ufficialmente per proteggere la privacy dei migranti. In realtà, per tentare di occultare le pessime condizioni dei campi e il mancato rispetto delle regole sul diritto internazionale.
La popolazione locale si è divisa su questo tema: alcuni portavano aiuti alimentari, altri inveivano contro i ragazzi. Ci sono state manifestazioni pro e contro, come sulla vicina isola di Tenerife.
Dopo due settimane, le autorità hanno finalmente trasferito i migranti: una parte in un campo tendato nella periferia di Las Palmas, capitale di Gran Canaria, e l’altra, dopo una lunga trattativa con gli albergatori dell’isola, nelle stanze solitamente occupate dai turisti europei, ma ora vuote a causa del Covid-19.
Incontri
Il giorno del mio arrivo nella capitale Las Palmas, incontro Kamal, un ragazzo marocchino ospite nella Fabrica, un hotel gestito da Cruz Blanca, che ospita circa 150 migranti. Ha 28 anni e un figlio che vive con la nonna a Safi, la citta marocchina da cui proviene, affacciata all’Oceano Atlantico. Per imbarcarsi è sceso fino a Dakhla, una località nel Sud del Marocco. In tutto ha viaggiato per sette giorni.
Mi dice che la vita nel suo paese è impossibile. Non si trova lavoro e le condizioni sono sempre più difficili.
Vuole andare in Spagna, trovare lavoro e aiutare il figlio e la madre. Il padre e il fratello sono annegati in un naufragio nel 2019 poco distanti da Lanzarote, isola nel Nord Est dell’arcipelago. In pochi anni ha perso 21 amici della sua stessa città, annegati. Mi mostra il lungomare di Las Palmas, dove alcuni migranti vivono, preferendo la strada all’accoglienza. Si sentono meno comodi, ma più liberi. Bivaccano in tende sulla spiaggia, rifugi di fortuna dietro al porto, angoli desolati sotto i cavalcavia.
Il giorno successivo mi reco ad Arguineguin. Fortunatamente i migranti non ci sono più, ma trovo una ventina di barconi ormeggiati in fondo al molo, tra le barche a vela e i catamarani dei turisti. Con qualche difficoltà riesco a salire a bordo.
Sembra di entrare in una casa dove è appena passato un uragano e da cui la gente è fuggita in fretta e furia. Sul fondo dello scafo trovo di tutto. Bidoni di benzina, alcuni vuoti altri ancora pieni, teloni di plastica, giubbotti salvagente, guanti, stivali di gomma, mantelle e pantaloni antipioggia, crema solare, fusti da cinque litri di acqua da bere, cartoni ancora pieni di latte, tantissima frutta secca, barrette energetiche, chili di pane. Tutto ciò che serviva per sopravvivere alla traversata. Quel che più mi colpisce è la presenza di oggetti personali. Probabilmente nella fretta di scendere dai barconi, i migranti li hanno lasciati a bordo, o forse il personale addetto al salvataggio li ha obbligati ad abbandonarli.
Trovo vestiti, zainetti pieni, beauty case, giochi per bimbi, mappe geografiche, persino un paio di mutandine colorate nuove con l’etichetta ancora attaccata.
Due abitanti del paese salgono a bordo e recuperano tele cerate, giacche antipioggia e salvagenti che possono servire. Mi chiedono di non essere fotografati. Trovo giusto recuperare indumenti che possono essere ancora utilizzati. Alcuni turisti si fanno selfie con i barconi come sfondo, altri ancora strappano una luce di emergenza e se la portano via. Intorno, barche a vela ancorate, turisti che pagaiano sulla tavola da surf, moto d’acqua che solcano le onde e gente che prende il sole in topless sulla spiaggia.
«Turisti» per forza
Mi reco poi a Puerto Rico, il penultimo paesino al termine dell’autopista GC1, unica grande strada che unisce la capitale Las Palmas con il Sud dell’isola.
Questa località turistica in mezzo al nulla è costituita da grandi alberghi e casette a schiera per turisti, con relativi servizi come negozi, bar e ristoranti. Quest’anno 2020, l’alta stagione invernale è partita male e prosegue peggio. Solo i pochi turisti europei residenti sulle isole, o che vi lavorano, sono giunti alle Canarie. Gli alberghi sono vuoti, quindi il governo iberico, vista l’emergenza di Arguineguin, ha deciso di riempirli di migranti. Gli hotel Servator, Holiday Club e Canema concedono loro le stanze ma non l’accesso a sala da pranzo, piscina e spazi comuni.
La spiaggia di Puerto Rico sembra un’arena, circondata sui tre lati da immensi alberghi e strutture ricettive di colore bianco. Il quarto lato è il mare.
Quattro senegalesi fanno ginnastica sul bagnasciuga per tenersi in forma, mentre alcuni turisti sovrappeso li osservano meravigliati. Chiacchiero mentre faccio un po’ di ginnastica con loro.
Aliou mi racconta che in Senegal facevano i pescatori e lavoravano sulle stesse barche utilizzate per arrivare alle Canarie. Un milione e mezzo di persone vivono di pesca, in uno dei mari più ricchi del mondo. Negli ultimi dieci anni la quantità pescata dai locali è diminuita di circa l’80%. I grandi pescherecci provenienti da mezzo mondo svuotano con le loro reti il mare, dopo aver stipulato accordi vantaggiosi con i governanti locali. Ai senegalesi restano le briciole.
L’ultima volta sono stati in mare tre giorni pescando cinque cassette di pesce, mentre pochi anni prima ne pescavano fino a otto volte di più. Hanno quindi deciso di arrivare in Europa per tentare un futuro migliore. Così non potevano sopravvivere.
Braccialetti gialli
Conosco poi Mussa, un ragazzo del Gambia, mentre attraversa col semaforo rosso. Un turista italiano gli urla dall’auto: «Cannibale! Guarda cosa fai!». Lui mi spiega che non sa cosa sono i semafori: nel suo villaggio in riva al fiume Gambia non ne ha mai visti.
A 15 km da Puerto Rico sorge il villaggio di Maspalomas, la meta turistica più frequentata dell’isola, nota per le bellissime dune di sabbia sulla spiaggia. Una distesa di negozietti discoteche e bar costeggia la bella «Playa des Ingles».
Qui alcuni migranti vivono stabilmente da alcuni anni, visto che i controlli della polizia sono molto più rari che a Las Palmas. Vendono ricordini e gadget ai turisti, che però ora scarseggiano. I migranti arrivati recentemente occupano invece anche qui i mega hotel svuotati dal Covid-19.
Nella piazzetta centrale conosco una ragazza senegalese che fa treccine ai capelli per 10 euro, e un ragazzo della Guinea che vorrebbe trovare una donna bianca un po’ «più grande» di lui e sposarla, per rimanere a vivere a Maspalomas. Parlo con quattro ragazzi del Mali, dove una guerra interna dura da anni. Ci scambiamo i numeri di telefono. Vorrebbero venire in Italia e incontrarmi al loro arrivo. Come tutti i migranti ospitati negli hotel dell’isola, hanno al polso un braccialetto giallo con un codice identificativo.
Campo o prigione?
Altri migranti purtroppo sono stati meno fortunati, e sono stati rinchiusi a Barranco Seco, un campo costruito velocemente alla periferia sud della capitale Las Palmas, nei pressi dello stabilimento della birra «Tropical», la «cerveza» prodotta in Gran Canaria. Il campo è costruito in un sito militare dismesso e può contenere circa mille persone. Qui sono stati portati la maggior parte dei migranti rimasti due settimane sul molo di Arguineguin. Dormono nelle tende, non possono uscire e sono sorvegliati da un ingente numero di poliziotti.
La situazione creatasi di recente alle Gran Canarie risulta piuttosto complessa. Il 2020 passerà alla storia come l’hanno del Covid-19 e dei migranti. Mentre a causa delle restrizioni sui viaggi all’estero sono presenti pochissimi turisti, circa 23mila migranti sono sbarcati sulle isole, 7mila dei quali sono stati sistemati proprio nei grandi hotel occupati fino al marzo scorso dai turisti. Una volta terminata l’emergenza Covid-19 e riaperte le porte al turismo, i migranti dovranno «sparire» dalla circolazione e verranno probabilmente rinchiusi nei nuovi campi che l’esercito sta costruendo. La Spagna (e quindi l’Europa) sta di fatto utilizzando le isole Canarie come parcheggio, come le isole di Lesbo e Kios in Grecia. Nel frattempo, sta cercando di firmare accordi con Marocco e Senegal, per limitare le partenze e aumentare i rimpatri, che per il momento faticano a essere stipulati. Dei 23mila migranti arrivati nel 2020, pochissimi riusciranno ad arrivare dove vorrebbero: Spagna continentale, Francia, Germania, Nord Europa. La maggior parte continuerà a essere trattenuta in queste isole, senza futuro. In un limbo: senza tornare indietro e senza poter andare avanti.
Strategia discutibile
La strategia anti migratoria europea è chiara: sigillare le frontiere e non concedere, se non in pochi casi eccezionali, il diritto di asilo politico. Una strategia sbagliata che mostra come i governi europei non hanno alcuna intenzione di aiutare le popolazioni in difficoltà. Ritengono più giusto bloccare i migranti, spesso provenienti da luoghi impoveriti da politiche economiche succubi degli interessi di multinazionali e paesi ricchi, invece di permettere loro la ricerca di una vita migliore lontano dal proprio paese.