Malawi. Bagnato dal Lago



Dalla dittatura alla democrazia

Breve storia del paese bagnato dal grande lago

Da colonia britannica a paese indipendente. Dal partito unico, con un presidente padrone, al percorso verso la democrazia. Fino alle ultime elezioni, ripetute per brogli.

È una calda domenica pomeriggio di inizio novembre. Da qualche minuto, ci siamo lasciati alle spalle le vie affollate e rumorose di Lilongwe, la capitale del Malawi. Abbiamo imboccato una larga strada dall’asfalto grigio e siamo saliti di qualche decina di metri rispetto al resto della città. Ai due lati della via che percorriamo, giardini dall’erba verde appena tagliata e grandi alberi creano delle isole d’ombra sotto il sole battente.

A un certo punto, a intervalli regolari, iniziano a diramarsi alcune vie secondarie, al fondo delle quali notiamo edifici bianchi, sobri e imponenti. Sono le sedi dei ministeri del governo malawiano. Passiamo accanto al ministero dell’Educazione. Poi a quello della Giustizia. Più avanti, ci sono le indicazioni per la Difesa e gli Affari esteri. E, infine, ecco gli uffici del Presidente, del suo vice e le strutture dove si riuniscono i membri del gabinetto.

Siamo appena saliti sulla Capital Hill, la collina capitale. Poco più in là, c’è la sede del potere legislativo, il Parlamento. Costruito grazie a finanziamenti cinesi, è anch’esso un edificio imponente. Vi si giunge percorrendo un lungo viale fiancheggiato da prati verdi, aiuole e alberi. La struttura bianca a semicerchio si eleva sopra una grande scalinata, e culmina con una cupola centrale.

Vicino al Parlamento si trova un mausoleo. È la tomba di Hastings Kamuzu Banda, presidente dittatore del Paese tra il 1963 e il 1994. Fu lui a fare di Lilongwe la nuova capitale del Malawi nel 1975 (al posto di Zomba). E proprio perché la città fosse pronta ad accogliere i vertici politici del Paese, fin dagli anni Sessanta, Banda aveva avviato la costruzione di Capital City, la città nuova. Ancora oggi cuore della vita politica nazionale, culmina proprio su Capital Hill.

L’ascesa di Banda

Banda fu una figura politica cruciale per il Malawi. Sostenitore delle lotte indipendentiste, divenne un personaggio politico di primo piano con l’approssimarsi della decolonizzazione, un leader a cui affidare i primi passi del nuovo Malawi indipendente. Appena giunto al potere, però, iniziò a mostrare i suoi tratti autoritari, fino a diventare a tutti gli effetti un dittatore.

Nato durante il periodo coloniale britannico (1891-1964), Banda lasciò il suo Paese in giovane età per lavorare nella vicina Rhodesia del Sud (l’attuale Zimbabwe). Si spostò poi in Sudafrica e, infine, negli Stati Uniti, dove conseguì una laurea in medicina.

Iniziò a essere direttamente coinvolto nelle vicende politiche del suo Paese solo alla fine degli anni Quaranta, quando un gruppo di coloni bianchi propose di creare una federazione che riunisse alcuni dei territori controllati dai britannici nell’area. Nel 1953, nonostante l’opposizione della popolazione africana e dei suoi leader, Rhodesia del Nord (l’odierno Zambia), Rhodesia del Sud e Nyasaland (il Malawi, da «nyasa», «lago» in chiyao) furono uniti nella Federazione della Rhodesia e del Nyasaland.

A quel punto, sotto le crescenti pressioni dei nazionalisti malawiani, Banda decise di rientrare nel suo Paese. Fu immediatamente posto alla guida del Nyasaland african congress (Nac), movimento nazionalista nato nel 1944. Ben presto, Banda iniziò a viaggiare per tutto il Malawi. I suoi discorsi contro quella che definiva la «stupid federation» (letteralmente, la «federazione stupida») infuocavano gli animi e stimolavano i sentimenti indipendentisti. Tanto che, nel marzo 1959, il governo coloniale lo incarcerò per un anno e dichiarò lo stato di emergenza.

Ma nell’agosto 1961, Banda si riprese la scena politica. Il suo movimento – denominato Malawi congress party (Mcp) – vinse le elezioni, ottenendo la maggioranza nel Consiglio legislativo. Due anni dopo, Banda divenne Primo ministro di un Paese che si stava avvicinando all’indipendenza.

Il Malawi, un «kwacha»

Il Nyasaland divenne indipendente il 6 luglio 1964 con il nome di Malawi. Pochi mesi prima, si era sciolta la Federazione della Rhodesia e del Nyasaland. Per Banda fu una vittoria politica di rilievo. Egli infatti sosteneva che, all’interno della Federazione, il Malawi fosse costantemente relegato in disparte, perché considerato l’«ultima ruota del carro», più povero e arretrato rispetto agli altri due Stati con i quali era federato.

Per Banda, invece, il Malawi era paragonabile a un «kwacha» («sole nascente» in chichewa, la lingua ufficiale del Paese insieme all’inglese). E, solo una volta liberatosi dall’ombra degli ingombranti vicini, sarebbe sorto, come un sole, consolidandosi sul piano politico, sociale ed economico.

Quattro erano i principi che, secondo Banda, avrebbero guidato il Paese in questo percorso: unità, disciplina, obbedienza e fedeltà. Ma se durante il suo governo si registrò qualche progresso in ambiti come istruzione e salute, molti altri furono i passi indietro sul piano della libertà di espressione, dei diritti umani e della democrazia.

Già nell’agosto 1964, Banda affrontò il malcontento di molti dei suoi ministri, irritati dalla sua attitudine autocratica e dalla tendenza a non consultarli prima di prendere delle decisioni. Anche l’orientamento del dittatore in politica estera era causa di tensioni: il Malawi fu uno dei pochi Paesi africani a mantenere relazioni diplomatiche con il Sudafrica dell’apartheid e con i coloni portoghesi in Mozambico. D’altronde, Banda divenne ben presto un fidato alleato degli Stati Uniti in un’area calda per le logiche della Guerra fredda. Dunque, tre ministri furono cacciati il 7 settembre. Altrettanti si dimisero nei giorni successivi. La maggior parte lasciò rapidamente il Malawi, temendo per la propria vita.

Il partito unico

Dal 1966, il Malawi divenne uno Stato a partito unico con l’Mcp unico movimento legale. Qualsiasi voce di dissenso era rapidamente incarcerata o messa a tacere per sempre. Nel 1970, Banda divenne il presidente a vita dell’Mcp e, un anno dopo, fu nominato capo di Stato a vita del Malawi. L’ala paramilitare del suo partito, gli Young pioneers, contribuì a creare un clima di terrore che persistette fino ai primi anni Novanta.

Fu instaurato un profondo culto della personalità del dittatore. Ogni edificio doveva esporre una fotografia di Banda sul muro e nessun’altra immagine poteva essere più grande della sua. Prima di una qualsiasi proiezione cinematografica, veniva trasmesso un video del presidente che salutava la popolazione. Poi iniziava il film, che doveva aver superato l’ispezione preventiva dell’organo di censura. Accadeva che alcune scene venissero rimosse perché politicamente inaccettabili. Ma era anche possibile che venissero eliminate alcune pagine da riviste come «Newsweek» e «Time». C’erano solo una stazione radio, un quotidiano e un settimanale. Tutti attentamente controllati dal governo e utilizzati per la sua propaganda.

Fu introdotto un rigido codice di abbigliamento per le donne, che non potevano indossare pantaloni o vestiti al di sopra del ginocchio. Mentre agli uomini era vietato lasciarsi crescere i capelli oltre il mento. Se uno straniero non rispettava questo requisito, la sua chioma era immediatamente tagliata, prima di uscire dall’aeroporto.

Ogni fede religiosa era attentamente controllata perché non costituisse una minaccia al culto della personalità del dittatore. Le Chiese dovevano essere approvate dal governo. Alcuni movimenti, come i Testimoni di Geova, furono duramente perseguitati e dovettero abbandonare il Paese.

Venti di democrazia

Nei primi anni Novanta, in tutto il Malawi iniziarono a crescere le voci di dissenso contro le politiche autoritarie di Banda. Sul piano internazionale, con la fine della Guerra fredda, l’Occidente cominciò a spingere affinché molti Paesi del Sud globale – fino a quel momento governati da regimi autoritari allineati con l’una o l’altra parte – avviassero una transizione democratica.

Dunque, sotto pressioni domestiche e internazionali, nel 1993, Banda legalizzò gli altri partiti politici. Le prime elezioni multipartitiche si tennero l’anno successivo e furono vinte dall’United democratic front (Udf). Il suo leader, Bakili Muluzi, formò un governo di coalizione con l’Alliance for democracy e divenne il primo presidente eletto democraticamente nel Paese dopo trent’anni. Cinque anni più tardi, Muluzi fu riconfermato.

L’Udf rimase primo partito anche nel 2004, seppure senza la maggioranza assoluta in Parlamento. Il suo candidato, Bingu wa Mutharika, fu quindi sostenuto da un governo comprendente diversi movimenti che fino a quel momento avevano fatto parte dell’opposizione. Riconfermato, in quanto candidato del Democratic progressive party (Dpp), Mutharika morì di infarto nel 2012. Il suo posto fu preso dalla vicepresidente ed esponente del People’s party Joyce Banda (senza legami di parentela con l’ex dittatore) che però uscì sconfitta dalle elezioni del 2014. A imporsi fu Peter Mutharika, fratello di Bingu e nuovo leader del Dpp.

La tornata del 2019, invece, fu duramente contestata. Inizialmente, la vittoria fu attribuita a Mutharika, anche se di poco. A febbraio 2020, però, la Corte costituzionale annullò il voto, denunciando irregolarità e frodi. Due mesi dopo, la sentenza fu confermata anche dalla Corte suprema che indisse nuove elezioni per il 2 luglio. Era la prima volta che un risultato elettorale veniva messo in discussione. E poi ribaltato, dato che a vincere fu un candidato dell’opposizione, Lazarus Chakwera,  esponente dell’Mcp e attuale presidente del Paese.

Aurora Guainazzi


Religioni che convivono

Protestanti, cattolici e musulmani

Il paesaggio scorre veloce fuori dal finestrino mentre ci dirigiamo verso sud. Superiamo una moschea e suor Ornella, madre superiora della missione sacramentina di Mtande (alla periferia di Lilongwe), commenta: «In passato, in questa zona, c’erano solo i musulmani. I cristiani sono arrivati da poco».

Stiamo attraversando il distretto di Mangochi, l’area del Paese dove, ancora oggi, c’è la maggiore presenza di seguaci dell’islam (il 73% della popolazione). Portata dai mercanti arabi intorno al XV-XVI secolo, la religione musulmana si è poi diffusa tra gli Yao, il maggiore gruppo etnico sulle sponde meridionali del lago Malawi. Gli Yao erano abili commercianti: scambiavano con i mercanti arabi della costa, ma anche con i portoghesi in Mozambico. A loro vendevano avorio e schiavi. «Proprio per sfuggire alla schiavitù – dice suor Ornella – molti abitanti del luogo si convertirono all’islam. La maggioranza dei mercanti, infatti, era musulmana e tendeva a non schiavizzare membri della stessa fede».

I primi missionari cristiani arrivarono alla fine dell’Ottocento, sulla scia delle esplorazioni di David Livingstone. Nel 1875, a Cape Maclear, sulla punta di una piccola penisola sul lago, nacque la prima missione che, però, in sei anni riuscì a convertire un solo musulmano. Anche negli anni successivi, in quest’area il cristianesimo faticò a diffondersi, mentre diventava la religione predominante nel resto del Paese. «La fede cristiana qui ha preso piede solo recentemente, anche grazie all’attivismo degli ultimi vescovi», dice suor Ornella.

Oggi, il pluralismo religioso è un valore cardine del Malawi. La Costituzione definisce il Paese come uno Stato laico, dove è proibita qualsiasi discriminazione su base religiosa e tutti sono liberi di professare il proprio culto. A garanzia di ciò si pongono soprattutto le istituzioni giudiziarie. Recentemente, ad esempio, una sentenza della Corte suprema ha imposto al ministero dell’Educazione di far sì che i bambini della comunità rastafariana possano frequentare la scuola senza dover tagliare i dreadlock, simbolo del movimento religioso. Il mondo musulmano invece sta attendendo che venga riconosciuto, alle bambine che lo desiderano, il diritto a indossare l’hijab negli istituti scolastici. È proprio per questa attenzione alla libertà di culto che Freedom house (un’organizzazione che studia democrazia e diritti umani nel mondo) ha attribuito al Malawi il massimo del punteggio nell’indice sulla libertà religiosa.

La tolleranza d’altronde è sempre più un valore intrinseco alla società locale. Lo testimonia anche un’indagine dell’agosto 2021 di Afrobarometer (una rete panafricana che svolge studi statistici sul continente). A oltre il 62% degli intervistati «piace molto» avere dei vicini appartenenti a un’altra fede, mentre un altro 16% ha dichiarato che gli «piace alquanto». Solo il 10% ha risposto negativamente.

Anche suor Leonia, madre superiora della missione delle Suore sacramentine a Monkey Bay, conferma: «Nella nostra zona (il distretto di Mangochi, ndr), ci sono tante fedi, ma di solito le persone convivono senza problemi. Abbiamo tanti protestanti, dei presbiteriani e qualche anglicano. Poi ci sono i cattolici. E ovviamente i musulmani».

In tutto il Paese, oggi, secondo il World religion database (un database sulla distribuzione delle religioni nel mondo), il cristianesimo è professato dall’80% della popolazione – con un’ampia fetta di protestanti (38%) e cattolici (33%) – mentre i musulmani sono il 14%. Ci sono poi piccole percentuali di rastafariani, indù, ebrei e sikh.

A.G.

Lo spettro della carestia

La siccità ha portato i prezzi degli alimenti alle stelle

La produzione agricola per l’esportazione resta un pilastro dell’economia. Con conseguente forte dipendenza dai mercati esteri e dal meteo. Come accaduto per la grande siccità del 2024.  Mentre il 90% della gente vive di agricoltura di sussistenza.

«Quello è tabacco», dice suor Leonia indicando – quasi imbarazzata – le coltivazioni di fronte a noi. «Non volevo coltivarlo – prosegue la religiosa sacramentina -, ma mi hanno convinta a farlo perché, se le piante crescono bene, poi il raccolto di solito è redditizio».

Produrre tabacco non è semplice e richiede molto lavoro manuale. Prima, viene seminato in grandi orti, dove gli agricoltori se ne prendono cura quotidianamente. «Vedi – suor Leonia indica dei lavoratori assiepati attorno a un punto del terreno – stanno bagnando le piantine. Lo fanno tutti i giorni». Poi, «verso fine novembre, con l’arrivo delle prime piogge, le spostano nei campi dove hanno maggiore spazio per crescere e irrobustirsi». Con la cimatura – l’eliminazione della testa di fiore – e la rimozione dei germogli secondari, viene facilitata la crescita di foglie forti, e si ottiene un tabacco di migliore qualità. È un lavoro lungo e minuzioso che si protrae fino al momento del raccolto, intorno al mese di febbraio.

Suor Leonia volge lo sguardo verso una struttura di legno che corre lungo un lato del campo e aggiunge: «Una volta raccolte, le piante sono disposte su quei bastoni e lasciate essiccare all’aria aperta». Generalmente per un paio di mesi, in attesa che inizino le procedure di vendita, tra marzo e aprile.

Il settore agricolo

Suor Leonia non ha deciso di coltivare il tabacco per caso. Il Malawi è il sesto esportatore mondiale di questa commodity, il secondo in Africa dopo lo Zimbabwe. Con guadagni pari a 435 milioni di dollari nel 2022, il tabacco – la cui esportazione è iniziata nel 1893 – è stabilmente il primo prodotto commerciato dal Paese, seguito da altre materie prime agricole come tè, arachidi e legumi secchi.

D’altra parte, il settore primario contribuisce al 30% del Pil e impiega oltre l’80% della forza lavoro. La produzione di commodities, introdotte in epoca coloniale, continua a essere ancora oggi un pilastro dell’economia nazionale. Sia che vengano coltivate nelle grandi piantagioni, sia che siano frutto del lavoro dei piccoli agricoltori. Infatti, se dalle prime deriva il 30% della produzione agricola del Paese, i secondi sono responsabili del restante 70%.

Ma – come in tanti altri Stati africani dipendenti dall’esportazione di materie prime – anche il Malawi spesso si trova in balìa delle fluttuazioni dei prezzi sul mercato internazionale e dei cicli di espansione e contrazione della domanda e dell’offerta. Allo stesso modo è sovente alla mercé di disastri naturali che possono causare la perdita della quasi totalità del raccolto. Ne sono un esempio le inondazioni del 2002, che devastarono il settore agricolo e spinsero il presidente a dichiarare lo stato di emergenza nazionale a causa della carestia.

Anno critico

Quello che è successo nel 2024 non è stato tanto diverso. «Quest’anno, la pioggia è finita troppo presto, a febbraio», racconta suor Leonia, mentre camminiamo per i suoi terreni. Volge lo sguardo tutt’intorno e continua: «Così abbiamo perso tutto il raccolto di grano. Se avessimo avuto dell’acqua di riserva, avremmo potuto bagnarlo. Ma non l’avevamo».

Dopo tre anni di precipitazioni troppo abbondanti dovute ai cicloni tropicali Ana, Gombe e Freddy, il Malawi ha iniziato a fare i conti con le conseguenze di El Niño. Un fenomeno climatico che tendenzialmente avviene ogni cinque anni e provoca il riscaldamento dell’acqua superficiale dell’Oceano Pacifico centrale. Quando si verifica, El Niño ha un impatto in tutto il mondo, ma soprattutto causa violente precipitazioni in America centro meridionale, uragani nel sud del Pacifico e prolungati periodi di siccità in Africa subsahariana.

Così tra marzo e aprile 2024, gli agricoltori malawiani – stima il governo – hanno raccolto il 45% in meno di mais rispetto alla media degli ultimi cinque anni. Si è quasi dimezzata la disponibilità di un cereale essenziale per la dieta locale, coltivato da nove famiglie su dieci. Sono proprio queste famiglie che vivono di agricoltura di sussistenza – oltre ai piccoli proprietari terrieri – ad aver risentito maggiormente della siccità a causa della mancanza di riserve idriche e impianti di irrigazione.

Persi grano e mais, anche il raccolto di riso è stato molto magro. «Appena ho capito che quest’anno non saremmo riusciti a raccogliere il grano, ho detto “vado vicino al lago a preparare il campo per il riso”», racconta suor Leonia. «Ma ci sono state delle alluvioni in Tanzania e il fiume Ruhuhu (immissario tanzaniano nel lago Malawi, ndr) ha portato tanta acqua nel lago che si è “gonfiato”, inondando le risaie». Proprio nel momento del raccolto che, così, è diventato impossibile.

Rischio carestia

In Malawi, il 90% della popolazione vive di agricoltura di sussistenza, coltivando mais, riso e legumi. Ma fino a marzo 2025 non ci saranno nuovi raccolti. Non a caso, l’Integrated food security phase classification (Ipc, uno strumento utilizzato a livello internazionale per identificare i livelli di insicurezza alimentare) ha stimato che, tra marzo e ottobre 2024, circa 4,2 milioni di persone (su una popolazione di 21 milioni) si trovavano in condizione di insicurezza alimentare acuta. Cioè erano incapaci di produrre autonomamente il cibo necessario per la sopravvivenza quotidiana. Tra ottobre 2024 e marzo 2025, il numero crescerà a 5,7 milioni.

D’altra parte, già a ottobre, suor Leonia parlava apertamente di carestia: «Tanti nelle campagne non hanno più niente da mangiare e hanno iniziato a rubare i manghi sugli alberi». Le scorte di grano – accumulate nei silos fuori dalla capitale – sono finite da tempo. «Una buona parte – dice suor Ornella – è stata venduta all’estero dal governo per ottenere la liquidità necessaria per rispettare le scadenze sul debito». Debito estero che attualmente ammonta a circa  3,39 miliardi di dollari.

Prezzi alle stelle

Quel poco di grano presente nel Paese costa moltissimo. La farina per il pane è introvabile. Al mercato ci sono solo pomodori, verze, manghi e banane.

È proprio la mancanza di generi alimentari di prima necessità la principale causa della crescita costante dell’inflazione, arrivata a toccare il 34% negli ultimi mesi del 2024.

E se i prezzi dei beni di base – soprattutto alimentari – continuano ad aumentare, lo stesso non si può dire dei salari. Con una paga giornaliera di 4mila kwacha (2 euro), la maggior parte dei malawiani, a fine giornata, non ha il denaro sufficiente per assicurare un pasto alla propria famiglia. Basti pensare che una piccola anguria al mercato costa 5mila kwacha (2,50 euro). Uguale è il prezzo di cinque limoni o di un casco di banane. Per non parlare del costo dei legumi o, ancor peggio, della carne e del pesce.

Ma anche il prezzo dei fertilizzanti è più che triplicato. «Fino all’anno scorso, un sacco da dieci chili costava 30mila kwacha (circa 15 euro). Ora è salito a 90mila (45 euro), ma può raggiungere tranquillamente anche i 120mila (60 euro)», spiega suor Leonia. Se si considera che «per un ettaro di terreno, di solito, utilizziamo quattro sacchi di fertilizzante», diventa subito evidente che i costi sono cospicui. Cifre, che per la maggior parte degli agricoltori locali, sono insostenibili già in una situazione di normalità. Figuriamoci l’anno dopo aver perso quasi la totalità del raccolto.

Aurora Guainazzi


Bambini a rischio: è emergenza

Visita a un centro per la lotta alla malnutrizione

È lunedì mattina quando entriamo nel piccolo centro per la lotta alla malnutrizione alla periferia di Monkey Bay. I suoi locali sono gremiti di mamme e bambini di ogni età. «Lunedì e martedì sono i giorni più affollati», ci spiega Patience, la responsabile dei magazzini e della pulizia della struttura. «C’è appena stato il weekend e il lavoro di due giorni si è accumulato. Poi domani (il 15 ottobre, ndr) siamo chiusi perché è la Festa della Mamma. Quindi in realtà tutta questa settimana sarà impegnativa». Mentre parliamo, ci avviciniamo a una giovane mamma, il cui bambino di pochi mesi dorme avvolto in un telo sulla sua schiena. Lo tengono monitorato perché a rischio malnutrizione. Azioni di questo genere sono la quotidianità nel piccolo centro ormai diventato un punto di riferimento per i villaggi del circondario. A maggior ragione negli ultimi mesi, quando la fame ha iniziato a diffondersi sempre di più.

Nel distretto di Mangochi, già a ottobre 2024, secondo l’Ipc, il 35% della popolazione si trovava in una condizione di «crisi» alimentare. Essendo in grande difficoltà nell’assicurarsi la quantità minima di cibo necessaria per la sopravvivenza quotidiana, si collocava al terzo livello (su cinque) del sistema di allerta utilizzato internazionalmente per identificare le situazioni di insicurezza alimentare. A marzo 2025, il 5% degli abitanti passerà alla fase successiva, quella di «emergenza», una condizione in cui la mancanza di cibo è talmente marcata da causare un elevato rischio di mortalità e consistenti livelli di malnutrizione.

Tra i più a rischio, ci sono i bambini. Soprattutto se vivono nelle aree rurali e non hanno la possibilità di raggiungere i villaggi più grandi, dove si trovano le strutture per la lotta alla malnutrizione. Perciò, in tutto il Paese, si sta diffondendo sempre di più la pratica di realizzare degli screening nei villaggi più isolati, così da identificare ed eventualmente prendere in carico le situazioni più gravi.

È con questo obiettivo che una mattina ci rechiamo nel villaggio di Matwi. Per raggiungerlo, abbandoniamo presto la strada asfaltata e percorriamo qualche chilometro di sterrato, tra buche e tanta polvere. Siamo circondati dai campi e ogni tanto ci imbattiamo in qualche casa isolata. Quando arriviamo al villaggio, mamme e bambini sono già radunati sotto il portico del piccolo asilo comunitario. Osservano attentamente il personale medico mentre scarica il materiale dal fuoristrada e prepara le postazioni per la misurazione del peso, dell’altezza e della circonferenza del braccio. Prima di iniziare, Diana, un’infermiera, spiega in chichewa il motivo dello screening e l’importanza di realizzarlo. Poi, invita le mamme a recarsi con i loro bambini verso la bilancia, appesa, poco più in là, a una trave del soffitto. Uno alla volta, i teli colorati che avvolgono i piccoli vengono appesi e il loro peso annotato. Pian piano, inizia a formarsi una piccola folla anche intorno ai punti adibiti alla misurazione dell’altezza e della circonferenza del braccio. Infine, bambino per bambino, i dati raccolti vengono incrociati, identificando eventuali situazioni critiche. Il sollievo sul volto di molte madri, quando viene comunicato loro che per il momento non ci sono problematiche, è evidente. D’altronde, a Matwi, i generi alimentari scarseggiano ormai da mesi e non è facile assicurare anche solo un pasto al giorno ai propri figli.

L’Unicef (l’agenzia delle Nazioni Unite per l’infanzia), già a maggio 2024 – quando era chiaro che il Malawi si preparava ad affrontare mesi duri – aveva avvertito che più di mezzo milione di bambini sotto i cinque anni era a rischio malnutrizione acuta. Mentre 3,3 milioni avrebbero avuto bisogno di assistenza alimentare di base.

A.G.


Missione scuola

Ricerca di un’istruzione di qualità

L’educazione è la loro vocazione. Le Suore sacramentine hanno cinque missioni nel Paese. Qui l’istruzione è limitata e i tassi di abbandono scolastico sono elevati. E le bambine sono le più penalizzate.

È un caldo e assolato sabato pomeriggio quando accompagniamo suor Teresa nella scuola primaria della missione di Monkey Bay. Ne è la direttrice e ce la mostra con orgoglio. Superiamo il grande cancello di ferro battuto che separa la missione dagli edifici scolastici. Alla nostra sinistra sorge un piccolo altare in ricordo di Geltrude Comensoli, la fondatrice delle Suore sacramentine. Alla nostra destra c’è la scuola. È composta da tre edifici lunghi e bassi, paralleli gli uni agli altri, dove trovano spazio le classi, gli uffici del personale, la direzione, alcuni laboratori e una biblioteca.

Entriamo nell’ufficio di suor Teresa. Sulla scrivania c’è un computer, circondato da libri e fogli. «È periodo di esami» dice, mentre cerca qualcosa in una pila. Ci porge un pezzo di carta e continua: «Questa, ad esempio, è la prova di inglese». Si guarda attorno, adocchia un altro plico in fondo alla stanza e ne pesca un altro foglio. «Questo invece è l’esame di chichewa». Fissiamo la pagina senza capire nulla, ma affascinati dal vedere per iscritto la lingua che da qualche settimana sentiamo continuamente intorno a noi. Suor Teresa, nel frattempo, ha recuperato altre prove: rapidamente, ci passa gli esami di matematica, arti espressive, scienze e life skills.

Queste ultime suscitano la nostra curiosità. Ma quando domandiamo cosa siano, suor Teresa resta quasi stupita. Guardiamo insieme gli esami e nel frattempo ci spiega: «Le life skills sono competenze trasversali che guardano allo sviluppo dei bambini in ogni ambito della vita. Ad esempio, insegniamo loro strategie per rafforzare l’autostima, li spingiamo a prendere autonomamente delle decisioni o a risolvere i problemi. Affrontiamo anche temi come lo sviluppo delle relazioni sociali e i rapporti di genere». L’obiettivo è che bambini e ragazzi siano in grado di interagire correttamente e attivamente con chi li circonda.

Usciamo dall’ufficio e continuiamo il nostro giro. Entriamo nelle classi. Sono sobrie, ma funzionali. Dietro alla cattedra c’è una grande lavagna nera, mentre i banchi di fronte sono disposti in modo ordinato. Arriviamo all’ultimo edificio. «Qui ci sono i laboratori», spiega suor Teresa. Apre la porta di una stanza piena di cartelloni e oggetti di ogni genere: «Questo, ad esempio, è quello di scienze». Poco oltre c’è il laboratorio di informatica: uno spazio spoglio con un vecchio computer addossato alla parete. «Abbiamo solo quello – dice – ma è già qualcosa».

Vocazione istruzione

Le Suore sacramentine (nate a fine Ottocento a Bergamo) operano in Malawi dagli anni Settanta. In questo piccolo Paese, hanno creato cinque missioni (a Balaka, Lilongwe, Monkey Bay, Namwera e Ntcheu), ognuna con le proprie peculiarità. Ma con un tratto comune: l’istruzione è diventata fin da subito la loro vocazione. In particolare, le suore pongono un’attenzione particolare alle ragazze, spesso più svantaggiate rispetto ai loro coetanei maschi nell’accesso alla scuola. Infatti, se il tasso di istruzione femminile, rilevato dalla Banca mondiale nel 2022, era pari al 65%, quello maschile era superiore di sei punti percentuali.

Da qui la decisione di alcune missioni – Monkey Bay nel caso della scuola primaria, Namwera per la secondaria – di concentrarsi esclusivamente su bambine e ragazze. Il motivo ce lo spiega bene suor Leonia durante una delle nostre conversazioni: «Educare la donna in questa zona (Monkey Bay, ndr) è molto importante, perché, se lo fai, vedi già una mentalità diversa. Adesso non ci sono tante donne che hanno studiato. Perciò, vogliamo dare loro questa possibilità, anche solo perché possano organizzare le loro case come si deve». Le piacerebbe avere delle classi miste: «Sarebbe normale. Ma non possiamo fare tutto, perciò abbiamo dovuto fare una scelta».

Far funzionare una scuola delle dimensioni di quella di Monkey Bay è complesso. «Abbiamo circa 700 bambine, suddivise negli otto anni previsti dal ciclo di istruzione primaria», dice suor Teresa. «Di queste bambine – racconta invece suor Leonia – 250 si fermano a mangiare e dormire qui».

Attorno a un cortile di terra battuta, poco oltre il convento, sorgono un refettorio, le cucine e i dormitori. Le stanze sono essenziali, ma funzionali, con letti a castello e cassapanche dove le allieve possono riporre i propri effetti personali. In fondo a ogni edificio, ci sono i bagni. E cosa non scontata: acqua corrente ed elettricità sono presenti in tutte le strutture.

«Non possiamo offrire tutto questo completamente gratis, perché sennò non riusciremmo a organizzare la scuola, pagare i maestri e comprare il materiale», sottolinea suor Leonia. Per questo si chiede una retta, tentando comunque di renderla il più accessibile possibile. «Vorrei che più bambine della zona venissero a scuola. Perciò, invece di aumentare le fees (la retta, ndr), sto pensando di far sì che possano pagare di meno, sostituendo il denaro con qualcosa di materiale». Tra l’altro, già «abbiamo dei gruppi di orfane che non pagano niente. Oppure ci sono quelle che hanno solo la mamma e non il papà. In quei casi valutiamo di volta in volta».

Trovare un equilibrio non è facile. Ma suor Leonia ci tiene ad assicurare un’istruzione di qualità perché «in molti istituti, finita la giornata, i bambini se ne vanno, ma hanno appreso poco. Poco più avanti, ad esempio, c’è una scuola dove nelle classi sono in 400. Così non si impara nulla». Quello di cui parla suor Leonia non è un caso isolato: il sovraffollamento delle aule è un problema diffuso in Malawi. Soprattutto nelle scuole pubbliche dove, in media, un docente si trova a gestire 130 studenti. Ad alimentare questa situazione è la cronica mancanza di insegnanti: la retribuzione molto bassa (spesso sui 120mila kwacha al mese, circa 60 euro), a fronte di un impegno considerevole nella gestione delle classi, scoraggia molti dall’intraprendere questo mestiere.

Scarsità di scuole

Anche a Namwera, sulle montagne al confine orientale con il Mozambico, molte delle ragazze che frequentano la scuola secondaria si fermano a dormire e mangiare nelle strutture della missione. «Abbiamo 262 ragazze che vivono qui», racconta suor Ornella, la responsabile della scuola. Indica una serie di edifici che servono da dormitori. «Siamo una delle poche scuole superiori della zona e siamo riconosciuti per la qualità dell’istruzione che offriamo», sottolinea con orgoglio.

«In Malawi, l’educazione secondaria è poco diffusa», ci ha anticipato suor Ornella, madre superiora della missione di Mtande, mentre qualche ora prima percorrevamo una serie di tornanti su per la montagna. «In tutto il Paese le scuole superiori sono poche, e quelle che ci sono generalmente costano molto, anche se pubbliche. Quindi, non sono tanti quelli che se le possono permettere. I più poveri riescono ad accedervi solo se sono ritenuti meritevoli di una borsa di studio governativa».

In effetti, dati alla mano, è evidente che in Malawi l’istruzione – sia primaria che secondaria – è ancora limitata, con tassi di abbandono scolastico elevati. L’ultimo rapporto dell’Unicef, ad esempio, evidenzia che nel 2023 solo il 33% dei bambini e delle bambine aveva completato il primo ciclo di istruzione. Mentre quelli che avevano proseguito con la secondaria erano ancora meno, il 12%.

Al crescere dell’età dei ragazzi, poi, la forbice tra maschi e femmine si allarga sempre di più. Infatti, se dopo un anno di primaria, il numero di bambini e bambine che lascia la scuola è pressoché simile (il 4%), nel corso della secondaria le percentuali sono ben diverse. Le ultime statistiche del ministero dell’Educazione, relative all’anno scolastico 2023/2024, mostrano che, durante i quattro anni di superiori, il 60% di coloro che hanno abbandonato in anticipo gli studi erano ragazze. Perlopiù a causa di responsabilità familiari, tasse troppo elevate, matrimoni e gravidanze precoci. Queste due ultime condizioni, in particolare, hanno un’incidenza elevata: il 50% delle ragazze si sposa a meno di 18 anni, mentre il 29% ha già avuto almeno un figlio prima della maggiore età.

Insegnamento di qualità

Dunque, in Malawi, combattere l’abbandono scolastico e garantire un’istruzione di qualità sono delle priorità. Per farlo, le Suore sacramentine accolgono allievi fin dai primi anni di età. Dice suor Teresa: «Iniziare dall’asilo e assicurare una continuità educativa con la primaria e la secondaria è fondamentale perché i bambini ricevano una buona istruzione».

«Siamo state noi a portare l’asilo vero e proprio in Malawi», racconta invece suor Ornella. «Prima non esisteva. C’erano dei luoghi dove i bambini si riunivano qualche ora al giorno senza che però seguissero un reale percorso educativo. La scuola iniziava a sei anni con la primaria. Dopo che noi abbiamo aperto l’asilo a Ntcheu, anche nel resto del Paese hanno iniziato a nascere delle vere scuole materne». Oggi, tutte le missioni hanno un asilo che accoglie sia maschi che femmine e cerca di creare le premesse affinché ricevano un’istruzione di qualità.

Il lavoro delle Suore sacramentine è iniziato qualche decennio fa, ma sta pagando. La scuola primaria di Monkey Bay è tra le dieci migliori del Paese. La secondaria di Namwera è una delle poche del circondario a fornire un’istruzione di qualità. A Ntcheu, l’asilo continua a essere un esempio per tutto il Malawi.

Aurora Guainazzi


Il Malawi in cifre

  • Superficie: 118.480 km2 (0,4 volte l’Italia)
  • Popolazione: 21 milioni (2023)
  • Indice di sviluppo umano (posto nella classifica): 172/191 (2024)
  • Pil: 13 miliardi di dollari (2023)
  • Pil procapite annuo [PPP$]: 1.800 (2023)
  • Crescita annua del Pil: +1,9% (2023)
  • Settore agricolo in % sul Pil: 30%
  • Popolazione al di sotto della soglia di povertà (2,15 dollari US al giorno): 70%
  • Tasso di alfabetizzazione: 65% (donne), 71% (uomini)
  • Accesso alla rete elettrica: 14%.

PPP$: dollari in parità di potere d’acquisto, tiene conto dei livelli dei prezzi nel Paese.


Idee e progetti in quantità

La missione di Monkey Bay

Per raggiungere Monkey Bay da Lilongwe impieghiamo cinque ore. La strada è asfaltata, ma le buche sono numerose e di grandi dimensioni. Guidare è uno slalom continuo. Quando poi cala il buio, procediamo solo alla luce dei nostri fari. A un certo punto, l’autista si ferma e scende a controllare le gomme: senza illuminazione è ancora più difficile scorgere ed evitare gli avvallamenti del terreno. Fortunatamente, non abbiamo riportato danni. Ripartiamo e dopo un’oretta arriviamo alla periferia di Monkey Bay. I fari dell’auto illuminano un cartello che indica la missione delle Suore sacramentine. Lo seguiamo e, superato il cancello, l’autista si ferma nel cortile. Davanti a noi sorge il convento. La struttura è abbastanza piccola, in confronto agli edifici di altre missioni. Ma al suo interno si nasconde una realtà estremamente dinamica, ricca di idee e progetti che spaziano dall’educazione, alla sicurezza alimentare, passando per il miglioramento delle condizioni di vita della comunità circostante.

Assicurare pasti adeguati alle bambine che frequentano la scuola e vivono nella missione non è sempre agevole, soprattutto ora che i prezzi sono cresciuti. «Abbiamo dei campi non lontano da qui – dice suor Leonia – se riusciamo a coltivarli bene, possiamo produrre grano, verdure e tante altre cose per le bambine senza doverli comprare». Ma non è facile. Un po’ per i costi di semi e fertilizzanti. Un po’ perché, mancando mezzi meccanici, «per preparare dieci ettari con la zappa ci abbiamo messo quattro mesi. Uno spreco di tempo, energia e soldi». Proprio per questo, suor Leonia sta cercando un trattore che renda più economico, rapido ed efficiente il lavoro e che le permetta anche di aiutare gli altri. Infatti immagina di metterlo a disposizione della comunità: «Ognuno potrebbe inserire la propria benzina e usarlo. Vorrei dare anche ai miei vicini la possibilità di produrre autonomamente una quantità sufficiente di cibo». Mentre per non correre, un’altra volta, il rischio di perdere il raccolto a causa della siccità, non appena avrà trovato dei finanziamenti, ha già pianificato di costruire un pozzo. Indica un bastone piantato nel terreno a poca distanza dai campi arati: lì è stata trovata l’acqua.

Suor Leonia vuole raggiungere l’autosufficienza alimentare il prima possibile perché le idee non le mancano ed è impaziente di realizzarle, una dopo l’altra. Prima di tutto, la scuola secondaria «aperta sia a ragazze che a ragazzi per dare a tutti la possibilità di ricevere un’educazione come si deve». Il terreno su cui costruirla è già stato trovato, ma è ancora da comprare: «Mi hanno chiesto 30 milioni di kwacha (15mila euro, ndr). Non li ho e spero che qualcuno mi possa aiutare a raccoglierli». Nel frattempo, sa già che «dopo la secondaria, ci sarà da pensare ai vocational training, ovvero corsi di formazione professionale, per insegnare specifici lavori. Non tutti vanno all’università e bisogna permettere a chi vuole fare qualcosa di più pratico di impararlo». Immagina qualche classe dove insegnare a cucire o a fare il muratore: «Sarebbe una cosa molto importante per chi dice che non ce la fa ad andare avanti con la scuola. Adesso, tanti non hanno un vero lavoro perché non hanno imparato nulla. Se facessimo questi corsi invece tutti saprebbero fare qualcosa».

A.G.

Ha firmato il dossier:

Aurora Guainazzi

Si occupa di Africa subsahariana sia nell’ambito della cooperazione internazionale che dell’informazione. La sua attenzione si rivolge in particolare alle dinamiche economiche, sociali e politiche della regione africana dei Grandi Laghi.

A cura di Marco Bello, giornalista, direttore editoriale di MC.




Taiwan. Una società plurale

 


C’è stato un tempo dell’oro per le religioni. Mentre oggi la situazione è stabile. La storia dell’isola ha portato a una società complessa e diversificata. Libertà e pluralità sono una grande ricchezza. Ma le sfide attuali non sono da sottovalutare. Reportage dall’isola di Formosa.

Hsinchu, 16 settembre. È sera e fa ancora caldo umido a Ximen street. Nel cortile della chiesa Sacro Cuore di Gesù c’è movimento. Ci sono persone indaffarate con scatole e pentole di cibo, altre montano piccole griglie per cuocere alla brace. Altre ancora portano strumenti musicali. Entrano ed escono dai locali della struttura. Sono i parrocchiani che stanno preparando la festa della luna o festa di metà autunno. È una ricorrenza importante a Taiwan e ha origini antiche, nata dal ringraziamento per il raccolto.

«Facciamo la festa con il barbecue», ci dicono. Molti di loro sono di mezza età, alcuni anziani ma molto dinamici. I giovani sono pochi. La parrocchia è gestita dai Missionari della Consolata dal 2017 ma è stata fondata dai Gesuiti nei primi anni Cinquanta. Questa era la base dei padri della Compagnia di Gesù per tutta la diocesi di Hsinchu (cfr. MC dicembre 2024).

Ma per capire la storia della Chiesa cattolica a Taiwan, occorre fare un passo indietro.

Taiwan. (Foto Marco Bello)

Invasione

Fino alla fine della Seconda guerra mondiale, i cattolici a Taiwan erano pochissimi, circa 25-30mila, molti concentrati nel Sud. Nel 1949, quando i nazionalisti di Chang Khai-shek (e del suo partito, il Kuomintang) persero la guerra civile contro i comunisti di Mao Tse-dong in Cina e decisero di riparare temporaneamente sull’isola. Taiwan era tornata in mani cinesi nell’ottobre del 1945, «restituita» dal Giappone sconfitto nella Seconda guerra mondiale.

Taiwan fu dunque «invasa» da funzionari dell’apparato statale, militari dell’esercito nazionalista, politici, famiglie di ricchi commercianti. Si parla di oltre un milione e mezzo di persone su circa 11 milioni di abitanti dell’isola. Anche molte infrastrutture, reperti dell’impero cinese e, ovviamente, le riserve aurifere, vi furono traslate. Chang Khai-shek stabilì il suo quartier generale a Taipei, in attesa di contrattaccare e recuperare territorio sul continente.

Gli abitanti, prima dell’invasione dei mainlander, erano costituiti dai diversi gruppi aborigeni (austronesiani, che parlavano lingue distinte ed erano spesso in contrasto tra loro), il popolo Hakka (originario del Nord della Cina) e quello Hokklo (giunto dal Sud, la regione dall’altra parte dello Stretto di Formosa). Questi ultimi sono gruppi etnici cinesi di antica migrazione, che parlavano lingue completamente diverse e non intellegibili. Il giapponese era utilizzato come lingua di comunicazione tra i gruppi, mentre il mandarino, la lingua comune cinese, era poco usato e solo dalle élite culturali.

Trasferimento in massa

Intanto, sul continente, il nuovo regime installatosi a Pechino iniziò una persecuzione di religiosi e fedeli delle varie religioni, in particolare cristiani e buddhisti,

I cattolici non fecero eccezione: «In quegli anni – ci racconta padre Edi Foschiatto, missionario saveriano a Taiwan da trent’anni – preti, religiosi e religiose lasciarono la Cina continentale e vennero sull’isola. Tant’è che il territorio fu suddiviso e affidato a diverse congregazioni. Anche i vescovi erano da “sistemare” e si costituirono sei diocesi e l’arcidiocesi di Taipei. Ai Gesuiti toccò proprio la diocesi di Hsinchu, che ha una parte di pianura e anche una zona montagnosa».

Padre Jeffrey Chang, gesuita delle Hawaii, professore di Teologia della Chiesa alla Fu Jen University di Taipei (l’università cattolica fondata a Pechino nel 1925 e trasferita a Taipei nel 1959 dalla Società del Verbo Divino e dalla Compagnia di Gesù), sviluppa il discorso: «In quegli anni ci fu un enorme flusso di risorse umane e finanziarie della Chiesa cattolica verso Taiwan. E questo avvenne in poco tempo. Inoltre, si pensava che sarebbe stato un passaggio temporaneo».

Gli anni Cinquanta e Sessanta furono un periodo di grandi investimenti da parte della Chiesa, grazie alla presenza di personale e ai fondi di entità ecclesiastiche in Europa e Stati Uniti. Il contesto taiwanese era quello di una società povera e poco sviluppata. Il numero dei fedeli aumentò, grazie ai cattolici in fuga dalla Cina comunista, ma soprattutto perché molti taiwanesi abbracciarono questa fede. Si arrivò a oltre 300mila, cifra che è rimasta stabile fino ad oggi.

«La Chiesa cattolica portò welfare, in termini di ospedali e scuole di ogni ordine e grado, comprese le università – continua padre Chang -, ma anche valori umani e cultura. Ad esempio, fu pioniera nel campo delle trasmissioni radio. Mentre nel periodo della crescita economica, sviluppò il sistema delle casse cooperative, per finanziarono le piccole imprese, partecipando attivamente, in quella fase, allo sviluppo economico e sociale (spinto proprio dalle microimprese famigliari negli anni 70 e 80, ndr). Sempre con l’obiettivo di trasmettere valori: moralità, rispetto della vita umana, cooperazione e armonia sociale».

Un percorso simile fu fatto anche dalle diverse confessioni protestanti, in particolare presbiteriani, anglicani e battisti.

Una realtà piccola

Oggi la Chiesa cattolica è una realtà piuttosto piccola nel panorama nazionale – conta circa 1,4% dei 23,5 milioni di taiwanesi -, ma ha un impatto sociale importante, grazie alle attività nei settori educativo, sanitario, aiuto ai migranti, che le è riconosciuto.

«Una delle sfide della chiesa taiwanese oggi – secondo padre Chang -, è che, terminata la generazione dei missionari degli anni tra i 50 e i 70 e vista l’esiguità dei numeri, occorre definire come saranno gestite tutte queste strutture, e trovare un nuovo equilibrio». L’invecchiamento della popolazione e la mancanza di vocazioni locali, apre anche il grande problema della gestione delle parrocchie.

La festa della luna al Sacro Cuore di Hsinchu ci fornisce qualche risposta. I missionari della Consolata, presenti nel Paese da 10 anni, hanno la gestione di questa e di altre due parrocchie della diocesi Xinpu e Xinfong (cfr. MC dicembre 2024). Sono originari di sei paesi di Africa, Sud America e Asia.

I parrocchiani paiono molto attivi: c’è chi cuoce salsicce e altre carni sulle griglie, chi distribuisce piatti di riso, chi organizza un concerto con tanto di chitarre elettriche, basso e amplificatori. Si respira aria di comunità, oltre che di festa.

Taiwan. (Foto Marco Bello)

Diversità

Non lontano da Ximen street ci inoltriamo in un grande mercato coperto. Si estende per l’intero isolato. Dentro vi si trova di tutto. Ogni merce e cibo, dai noodles (spaghetti di riso o soia) ai bao (fagotti di pastella ripieni di maiale o altro). C’è un teatrino, dove un gruppo di donne, in costume (alcune vestite da uomini con barba e baffi) esegue una rumorosa performance. Girovagando dentro il mercato accediamo a una grande sala con dei tavoli. Qui diverse persone sono intente a confezionare dei pacchi regalo. Più avanti scorgiamo degli altari, con grandi statue dorate, imbanditi come fosse una festa, e carichi di offerte di ogni tipo, dalla frutta, ai fiori, alle bottigliette d’acqua. Siamo entrati nel tempio Du Cheng Huang o del «Dio della città», che si sviluppa dentro il mercato, con diverse sale anche di una certa ampiezza. Assistiamo a un susseguirsi senza sosta di pellegrini che accendono le bacchette di incenso, fanno gesti rituali davanti alle diverse divinità, poi le piantano in bacili di svariata dimensione pieni di sabbia di fronte agli altari. Con nostro stupore assistiamo a un rito che inizia all’improvviso. La posizione strategica dentro al mercato, favorisce il via vai dei fedeli.

A Taiwan si trova una grande varietà di religioni. Le principali sono il buddhismo, che secondo un sondaggio di Academia sinica del 2021 sarebbe seguito da circa il 20% della popolazione, e il taoismo, circa il 19%. Altre indagini forniscono percentuali più elevate ma non ci sono dati ufficiali. Le chiese protestanti raccolgono circa il 5,5% dei fedeli, mentre il yiguandao (o ikuadao, una religione sincretica originaria della Cina) è al 2,2% e infine il cattolicesimo.

Taiwan. (Foto Marco Bello)

Le religioni popolari

Ma la religione, meglio le religioni, che hanno più seguito sono, senza dubbio, quelle popolari, o folk religions. Sarebbero seguite, sempre secondo i dati di Academia sinica, da circa il 28% dei taiwanesi. Si tratta di una religione che segue una moltitudine di divinità.

«È una religione degli spiriti – ci dice padre Edi -. Fa da collegamento con gli antenati e con i defunti. Non ha leader o regole particolari, ma alcune feste importanti, nel mese di agosto e il 5 aprile, il giorno dei morti. Ha alcune liturgie legate al taoismo e officiate da sacerdoti taoisti. Nei templi c’è mescolanza: si può trovare la statua di Buddha assieme a tante divinità popolari. C’è quella dei soldi, per la giustizia, dei bambini, per gli esami».

«Le folk religions – ci racconta Jeffrey Chang -, statisticamente sono quelle che hanno più seguaci, ma essi non hanno nessuna affiliazione tra loro. I luoghi di culto sono una moltitudine: templi, piccoli o grandi che si vedono ovunque per strada a Taiwan. Inoltre una persona può andare in un tempio e nell’altro, pregare diverse divinità, e cambiare negli anni, a seconda della necessità. È un senso di credenza multipla, da non confondere con sincretismo».

Continua il professore: «L’esclusività religiosa non è una caratteristica della società taiwanese. Non c’è mai stato un gruppo maggioritario che ha monopolizzato la società o il potere politico, né una religione di Stato o un culto obbligatorio. C’è sempre stata pluralismo e tutte le religioni sono minoranze, nessuna è dominante. Gli stessi buddhisti sono suddivisi in svariate correnti, diverse tra loro. Non ci sono molti paesi come questo. D’altronde anche prima che arrivassero popoli da fuori, qui vivevano i gruppi aborigeni, ognuno con la propria lingua e fede, e nessuno in grado di conquistare tutta l’isola».

Lo Stato e le religioni

Jeffrey Chang fa alcuni confronti: «Qui c’è un rapporto diverso tra Stato e religione rispetto a quello che si ha in Europa o negli Usa. A Taiwan non c’è, e non c’è mai stato, il controllo dello Stato sulla religione o viceversa. Da un lato c’è libertà di associazione, di espressione e di culto. Dall’altro un gruppo religioso non tenterà mai di influenzare il governo o il potere legislativo ai fini dei propri interessi, ad esempio per far passare leggi ad esso favorevoli».

E continua lo studioso: «I sociologi la chiamano twin toleration o accettazione mutua, e significa che la religione e la società e la politica hanno reciproco rispetto, dell’esistenza di una e dell’altra».

C’è, inoltre, una certa collaborazione: «Le strutture religiose sono le benvenute alla partecipazione, ad esempio quando ci sono disastri naturali. Le organizzazioni confessionali di emergenza e carità sono importanti per rispondere in questi casi».

La politica, comunque, tiene in considerazione le religioni: «Un altro aspetto interessante è che in tempo di elezioni, i politici visitano templi e chiese. Lo fanno per trovare supporto e devono farlo con molti, vista la diversità sul territorio».

Diversi interlocutori ci dicono che i rapporti tra le religioni sono buoni. C’è un certo livello di dialogo, ma i diversi gruppi collaborano tra loro più facilmente su tematiche sociali che su quelle teologiche. Non ci sono frizioni né particolari motivi di competizione.

A livello di ecumenismo tra cristiani ci sono molti scambi tra cattolici e protestanti. «La questione è che le istituzioni cattoliche sono molte, e anche le chiese protestanti sono diversificate, quindi c’è una certa dispersione».

Padre Edi, ad esempio, ci racconta dei buoni rapporti con la vicina chiesa presbiteriana, con la quale ci sono diverse iniziative e incontri ecumenici.

Taiwan. (Foto Marco Bello)

Contaminazioni positive

Visitiamo la cattedrale di Hsinchu costruita nel 1955. In una loggia c’è un altarino. Sopra un pannello con tante schedine ognuna delle quali riporta un nome. Di fronte il bacile con la sabbia per piantare i bastoncini di incenso fumanti. Se non fosse per il crocefisso al centro delle tessere, una statua della Madonna a destra e una di san Giuseppe a sinistra, si direbbe essere di fronte a un altare di una religione popolare. Invece no, i nomi cinesi sono quelli dei defunti della parrocchia e tutto l’insieme è l’altare degli antenati. Lo ritroviamo in ogni chiesa visitata, da quella di città, alla più piccola di montagna. È un elemento di collegamento con la cultura profonda locale.

Secondo padre Edi: «La sfida della Chiesa oggi a Taiwan è la missione. Si tratta di un popolo aperto a religioni ed esperienze. Le famiglie qui sono quasi tutte pluri religiose. Bisogna essere più missionari. L’impegno sociale della Chiesa verso chiunque aiuta l’azione missionaria. Ma occorre uscire dalla chiesa, essere in mezzo alla gente fare “carità” pratica. Così potremo avere più dinamismo e nuovi credenti. E non parlo solo dei giovani».

Jeffrey Chang insiste, nel suo perfetto inglese accademico: «Una delle caratteristiche distintive di Taiwan è la diversità etnica, culturale, religiosa. La maggior parte delle persone hanno una fede. Difficile dire quale. Affinché in una società plurale la gente stia insieme, lavori, cooperi, forse la democrazia non è la soluzione ideale, ma non ne abbiamo trovata una migliore finora. E funziona».

Marco Bello

Taiwan. (Foto Marco Bello)


Suor Maria Teresa Hu
una famiglia «pluri religiosa»

Maria Teresa Hu è taiwanese, è nata a Taipei nel 1960. Lei è una seconda generazione, perché suo padre è arrivato dalla Cina continentale nei primi anni Cinquanta, dopo la sconfitta dei nazionalisti nella guerra civile contro i comunisti. La incontriamo in una saletta dell’università cattolica Fu Jen di Taipei, alla facoltà di teologia St. Bellarmine, dove insegna teologia. Ci accoglie calorosamente e ci regala un ciondolo con il carattere cinese della felicità. «La mia famiglia non è cattolica, ma io ho studiato lingua e letteratura spagnola proprio qui, all’università dei gesuiti. Il mio background religioso sono le folk religions (religioni popolari), e solo grazie agli studi sono entrata in contatto con il cattolicesimo. Poco prima di laurearmi ho deciso di battezzarmi». È il 1982, dopo la laurea, Maria Teresa inizia a lavorare per aziende commerciali che hanno bisogno di personale con competenze linguistiche. Intanto matura la sua vocazione.

Taiwan. (Foto Marco Bello)

«Dopo cinque anni e mezzo ho preso la decisione di entrare nella congregazione delle Figlie di Gesù, di spiritualità ignaziana. Ho lasciato il lavoro e seguito la formazione di sette anni. Ho poi iniziato a lavorare in un collegio della nostra congregazione, in particolare nella scuola primaria».

Nel 1999 troviamo suor Maria Teresa a Roma per la professione e quindi per i voti un anno più tardi. Poi gli studi continuano con un master seguito da un dottorato, di nuovo alla Fu Jen university di Taipei.

«Posso dire che la mia famiglia di origine è pluri religiosa: ci sono buddhisti, taoisti, e io sono l’unica cattolica. Ma questo è molto comune in Taiwan e non ci sono problemi o attriti».

Chiediamo a suor Maria Teresa di spiegarci in cosa consistono le folk religions. «Si può dire una miscela di confucianesimo, buddhismo e taoismo. In un tempio a Taiwan puoi trovare gli dei delle tre religioni. Non è una religione pura».

Suor Maria Teresa ci ricorda una minoranza importante. Sono le popolazioni native, i cosiddetti aborigeni di origine austronesiana. Tra loro la percentuale di cristiani è molto elevata perché i missionari, sia cattolici che protestanti, dedicarono loro molte energie. A Taiwan sono attualmente riconosciute per legge sedici popolazioni indigene e altre dieci lottano per il riconoscimento, per un totale di poco più di 500mila individui.

Parlando con suor Maria Teresa, taiwanese, cattolica, affrontiamo il tema dell’identità sull’isola: «Tutti quelli che hanno più di 50 anni hanno ricevuto un’educazione gestita dal Kuomintang (Kmt, ex partito unico di Chang Khai-shek, oggi all’opposizione, ndr). Quindi si sentono più cinesi. Quelli nati dopo, quando il Dpp (Partito democratico progressista, fondato nel 1986, con posizioni più autonomiste, al potere dal 2000 al 2008 e dal 2016 a oggi, ndr) ha iniziato ad avere un peso, ha promosso una nuova interpretazione della storia e nuove ideologie, oggi hanno meno di 40 anni, hanno ricevuto un’educazione con impronta diversa, e dicono di essere taiwanesi. Culturalmente non c’è conflitto [con i cinesi del continente]. In Cina guardano le nostre serie tv e viceversa. Io parlo il mandarino e il taiwanese (lingua hokkienese o hokklo, parlata anche nel Sud della Cina, ndr). Non ci sono migliaia di anni di odio tra di noi. In passato la gente della Cina continentale e noi di Taiwan andavamo molto d’accordo. Adesso ci sono tensioni. Ma per me, è solo geopolitica».

Ma.Bel.




Mongolia. Gli eredi di Gengis Khan


Sommario

  1. Grattacieli, musei e gher
  2. L’Impero e la nuova Mongolia
  3. A misura di cavallo (e di moto)
  4. Monaci e sciamani, i sopravvissuti
  5. Libera come i suoi cavalli
  6. Ha firmato il dossier
  7. Il video reportage sul Paese

 


Grattacieli, musei e gher

La piazza Sükhbaatar con il palazzo dello Stato mongolo (congresso, governo, presidenza), nel centro di Ulaanbaatar. Foto Paolo Moiola.

La capitale mongola

Con i suoi record di freddo e d’inquinamento, la capitale mongola non pare un luogo attrattivo. Eppure, la Mongolia è anche Ulaanbaatar. Qui vive la metà della popolazione. Qui ci sono i musei che raccontano la storia del Paese, quella gloriosa di Gengis Khan, ma anche quella dolorosa della dominazione russa e del comunismo.

Ulaanbaatar, agosto. Il nome non poteva essere diverso: «Aeroporto internazionale Chinggis Khaan» (Gengis Khan, in italiano). Ulaanbaatar, la capitale mongola (chiamata Urga fino al 1924), si raggiunge tramite un’autostrada a più corsie che pare esagerata considerato il traffico inesistente.

Tutto cambia nel breve volgere di una cinquantina di chilometri. Il numero di auto aumenta rapidamente, le spianate con cavalli in libertà e le colline lasciano il posto ai primi grattacieli e a decine di cantieri edili, testimonianza di una città in piena espansione. In effetti, la popolazione della capitale mongola – stimata oggi in 1,6 milioni di persone – è aumentata enormemente negli ultimi decenni, creando – lo vedremo – non pochi problemi.

I russi e l’alfabeto cirillico

Una delle prime cose che si notano sono le scritte in alfabeto cirillico. Così sono i cartelli stradali e le insegne dei negozi. Detto che per uno straniero è relativamente facile leggere le parole (diverso è comprenderne il significato), la domanda che sorge immediata è: perché, in Mongolia, si utilizza questo alfabeto?

La risposta si trova nella storia del Paese. Il cirillico fu introdotto nel 1946 dal governo mongolo filosovietico. Dall’epoca di Gengis Khan fino a quell’anno, i mongoli avevano utilizzato ininterrottamente, per oltre 800 anni, il «bichig», l’alfabeto tradizionale derivato dalla lingua uigura e scritto in linee verticali dall’alto al basso.

Un buon cambio? «No – ci dirà in seguito lo scrittore mongolo Ayurzana Gun-Aajav -. Fu una violenza dello stalinismo. Quei politici cambiarono l’alfabetizzazione introdotta da Gengis Khan e distrussero gli intellettuali nazionali. Poi, gli storici sovietici riscrissero la nostra storia in stile marxista». All’opposto di quanto sta accadendo nella regione cinese della Mongolia Interna (nel Nord e Nordest della Cina, dove Pechino sta sostituendo il mongolo con il mandarino), a partire da quest’anno il governo di Ulaanbaatar spingerà per la graduale reintroduzione del bichig, secondo un progetto condivisibile e ambizioso. La Mongolia ha, inoltre, annunciato che l’inglese sarà ufficialmente designato come prima lingua straniera nell’istruzione secondaria. Si ritiene che promuovere l’inglese sia più facilmente accettato da tutte le parti, in quanto è privo del pesante bagaglio storico legato all’insegnamento del russo o del cinese.

In inglese sono le insegne della fabbrica di cashmere (la pregiata fibra ottenuta dal pelo della Capra hircus), che si descrive come «the largest cashmere factory store in the world». Impossibile non notarla, anche per il via vai di turisti che la visitano.

La fabbrica è a pochi metri dal Palazzo d’inverno del Bogd Khan, un complesso di edifici dotato di fascino se non fosse soffocato dai moderni palazzi che lo circondano su ogni lato. Le strutture ospitavano la residenza imperiale dell’ottavo Jebtsundamba Khutughtu (titolo del capo spirituale del buddhismo tibetano, terzo della gerarchia dopo il Dalai Lama e il Panchen Lama), che in seguito fu proclamato Bogd Khan, sovrano della Mongolia (dal 1911 al 1924), l’ultimo della sua storia. «Bogd» e «Khan» sono termini onnipresenti: il secondo – capo, sovrano – a causa della storia, il primo – santo, sacro – perché oggi è usato per indicare distretti, montagne, vulcani.

Ulaanbaatar, l’entrata del museo dedicato a Gensis Khan, eroe di ogni cittadino mongolo. Foto di Paolo Moiola.

Il monastero di Gandan

Nel Palazzo d’inverno si unirono potere spirituale (Bogd) e potere temporale (Khan). Tuttavia, la fede religiosa – all’inizio lo sciamanismo (sciamanesimo) e poi il buddhismo (tibetano) – ha svolto e svolge un ruolo fondamentale nella storia mongola.

Il monastero di Gandan, uno dei più importanti del Paese, è vicino al centro. Si tratta di una sorta di cittadina buddhista, un insieme di templi sopravvissuti alle distruzioni effettuate dal regime comunista filosovietico (1921-1989), in particolare durante l’epoca stalinista (1928-1953).

In questi giorni d’agosto, al Gandan viene celebrata la cosiddetta «iniziazione di Kalacakra», una cerimonia buddhista volta a promuovere la pace nel mondo e preparare gli individui alle pratiche di meditazione tantrica. L’evento – guidato da Jhado Rinpoche (nel buddhismo tibetano, Rinpoche è un titolo onorifico) – ha attirato monaci da vari luoghi e moltissimi fedeli. Seduti per terra sotto un grande tendone innalzato per l’occasione, i fedeli rivolgono sguardo e attenzione verso un palco sul quale si è sistemato il gruppo di monaci officianti.

La piazza della storia

Il Gondan è vicino al centro, ma evitare il traffico supercongestionato è impossibile. Gli ingorghi sono la normalità e le auto – quasi tutte Toyota Prius bianche importate di seconda mano dal Giappone – si muovono a passo d’uomo. Non esiste una metro (che è in progetto) e i pochi autobus pubblici rimangono imbottigliati al pari delle automobili. Probabilmente, il modo più rapido sarebbe quello di muoversi a piedi.

Finalmente arriviamo nel cuore della capitale, un centro che ruota attorno alla vasta piazza Sükhbaatar, dal nome del protagonista della rivoluzione comunista del 1921 in onore del quale l’antica capitale Urga venne ribattezzata Ulaanbaatar («eroe rosso»). Qui si può camminare con tranquillità e rivedere – in meglio – le proprie impressioni sulla città mongola, soprattutto oggi che il cielo è terso e l’aria fresca. Sia chiaro, la piazza non ha nulla che lasci a bocca aperta, essendo un (brutto) concentrato di stili disomogenei. Con l’aggravante di numerose gru che stanno innalzando nuovi condomini in spazi troppo ristretti.

Premesso questo, sul lato Nord della piazza si allunga, sorretto da massicce colonne, il palazzo dello Stato mongolo che ospita il parlamento (State great khural), la presidenza e il governo. Al culmine della sua scalinata centrale, un Gengis Khan seduto sul trono domina la piazza.

In mezzo alla stessa, proprio sotto la statua equestre dell’«eroe rosso» Sükhbaatar, notiamo un uomo seduto su una sedia pieghevole. «Diciamo no alla brutalità della polizia», dice in più lingue il cartello accanto a lui. La guida non è con noi e, dunque, risulta impossibile scambiare due parole con il solitario manifestante. Tuttavia, il solo fatto che sia possibile una protesta di questo tipo indica quanto la Mongolia odierna – quella cioè nata dalla pacifica rivoluzione del 1990 – sia lontana dai regimi dittatoriali che la circondano.

Sulle strade laterali della piazza, ci sono altri edifici di rilievo come il Teatro nazionale, il Palazzo della cultura, la Borsa valori. A poche centinaia di metri dalla statua equestre splendono anche i vetri della Blue Sky Tower, un grattacielo a forma di vela che ospita un hotel di lusso. Non può però essere questo l’attrattiva imperdibile del centro.

Lo sono, invece, su una strada a lato del Parlamento, due tra i più importanti musei della capitale: il Museo nazionale della storia mongola e il modernissimo Museo Chinggis Khaan. Nonostante sia vissuto in un’epoca lontana (1162-1227), rimane lui, Gengis Khan nato Temüĵin, il fondatore del Paese, l’indiscutibile protagonista, orgoglio di ogni singolo mongolo, cittadino o nomade che sia. A maggior ragione, dopo aver sperimentato le lunghe dominazioni – dirette e indirette – della Cina (dal 1691 al 1911 e dal 1916 al 1921) e della Russia (dal 1921 al 1989).

Una mappa del Paese, stretto tra Russia e Cina, da cui si differenzia anche per aver adottato, nel 1990, un sistema politico democratico.

Nelle gher della capitale

Stando all’Organizzazione mondiale della sanità, fino a qualche anno fa Ulaanbaatar era una delle capitali più inquinate al mondo. Oggi è stata superata da molte altre città asiatiche e africane. Certamente la sua aria non è pulita né salutare. Le ciminiere s’innalzano in piena città e il traffico automobilistico – lo abbiamo verificato di persona – è assurdo.

La capitale è anche il luogo con la più alta concentrazione di poveri. Arrivati dalle regioni interne del Paese, hanno occupato le zone periferiche costruendo le gher (yurte, in russo), le tradizionali tende dei nomadi mongoli.

Nei ger districts i servizi pubblici (acqua corrente, fognature, strade) sono inesistenti o molto limitati. Le stime parlano di almeno 800mila persone ovvero circa la metà della popolazione della città. Inquinamento e povertà sono fatti correlati.

A Ulaanbaatar, il carbone – quello grezzo (il più economico e il più inquinante) è stato giustamente vietato dalle autorità a maggio 2019 – è comunemente utilizzato per il riscaldamento domestico e per cucinare. Poiché la città è la capitale più fredda al mondo (nonostante il cambiamento climatico, per otto mesi all’anno la temperatura media è inferiore o prossima allo zero), questo combustibile è largamente utilizzato soprattutto dai poveri che abitano le gher. Bruciarlo significa, però, rilasciare nell’aria grandi quantità di inquinanti con pesanti conseguenze per la salute e la vita quotidiana.

Un problema di non facile soluzione considerato che la Mongolia è un grande produttore di carbone. Il giacimento di Tavan Tolgoi, nel Sud del Paese, è uno dei più vasti al mondo.

La storia di un paese in una città

Capita sovente che una capitale non offra un’immagine corretta del proprio paese. Ulaanbaatar non fa eccezione e, tuttavia, essa offre al visitatore la possibilità di avere sotto gli occhi tutta la storia mongola: quella gloriosa del condottiero e imperatore Gengis Khan nei musei, quella del dominio russo e della Mongolia comunista nei tristi casermoni di stampo sovietico, quella del libero mercato e della democrazia nei modernissimi grattacieli e, infine, quella della tradizione – millenaria; eppure, sempre viva – nelle gher. È proprio in queste ultime che si può incontrare il volto più vero e affascinante del popolo mongolo.

Paolo Moiola

La pagoda che introduce al Palazzo d’inverno del Bogd Khaan, complesso interessante, ma soffocato dai palazzi circostanti e dal traffico automobilistico. Foto Paolo Moiola.


Scheda storica. L’Impero e la nuova Mongolia

  • 1206 – Temüĵin-Gengis Khan (1162-1227) fonda l’Impero mongolo. Con i suoi discendenti esso diverrà presto uno dei più estesi della storia.
  • 1227-1241 – Dopo la morte di Gengis Khan, gli succedono per due soli anni il figlio più giovane Tului e poi il terzo, Ogodei.
  • 1245-1247 – Il frate Giovanni da Pian del Carpine pubblica la sua Historia Mongalorum, il primo trattato sul popolo mongolo.
  • 1271 – Kublai Khan (1215-1294), il nipote di Gengis Khan, trasferisce la capitale dell’Impero a Pechino e dà inizio alla dinastia Yuan.
  • 1271-1295 – Il mercante ed esploratore veneziano Marco Polo (1254-1324) viaggia verso la Cina. Rimarrà nell’impero di Kublai Khan per diciassette anni.
  • 1578 – Altan Khan (1507-1578) dichiara il buddhismo lamaista religione di Stato.
  • 1691-1910 – La Mongolia è sotto la dominazione cinese dei Manchu. Dopo una breve pausa, i cinesi tornano nel 1916.
  • 1921 (marzo) – Con l’aiuto dei sovietici, i mongoli sconfiggono i cinesi ed entrano nella capitale Urga (tre anni dopo ribattezzata Ulaanbaatar).
  • 1924 (agosto) – Nel suo terzo congresso il Partito rivoluzionario del popolo mongolo stabilisce che l’obiettivo è l’instaurazione del comunismo.
  • 1932 (aprile-ottobre) – Un vasto tentativo di rivolta viene represso duramente dalle forze armate.
  • 1937-1952  – Il maresciallo Choibalsan, l’uomo di Stalin in Mongolia,  governa il Paese con il terrore e le purghe.
  • 1941  – Il partito decide il passaggio all’alfabeto cirillico, ufficializzato dal governo nel 1946.
  • 1948-1955  – Nell’ideologia del governo filosovietico Gengis Khan passa da eroe nazionale a nemico.
  • 1989-1991 – Uno dopo l’altro crollano i governi dei paesi satelliti dell’Unione Sovietica. Questa si scioglie nel dicembre 1991.
  • 1990 (marzo) – Anche in Mongolia nascono nuovi partiti, tra cui il Partito democratico mongolo.
  • 1991 (luglio) – Si svolgono le prime elezioni libere.
  • 1992 (13 gennaio) – Viene approvata la nuova Costituzione mongola.
  • 2023 (31 agosto-4 settembre) – Papa Francesco visita la Mongolia, accompagnato dal cardinale Giorgio Marengo, prefetto apostolico di Ulaanbaatar (e missionario della Consolata). Missonari e missionarien della Consolata operano nel paese asiatico dal 2003.
  • 2024 (28 giugno) – Il Partito del popolo mongolo (Mpp) vince le elezioni parlamentari.
  • 2024 (2-3 settembre) – A Ulaanbaatar arriva Vladimir Putin.

Pa.Mo.


 A misura di cavallo (e di moto)

Un nomade a cavallo governa il proprio gregge di capre e pecore. Foto Paolo Moiola.

La popolazione nomade

Steppe infinite e tanti animali. È tra questi due elementi che si svolge l’esistenza dei pastori nomadi. Oggi, soprattutto per i più giovani, il dilemma è: rimanere o cercare il proprio futuro in città?

Tra Hovd, Olgiy e la catena dell’Altai. È quando lo Uaz – un diffusissimo fuoristrada russo tanto spartano quanto efficace – abbandona la sottile striscia d’asfalto, che si entra nella vera Mongolia, quella di Gengis Khan condottiero e conquistatore. Non tanto per la catena montuosa dell’Altai che caratterizza questa regione, quanto per la vastità dell’ambiente che ti circonda.

Tutto è immenso e spettacolare. Gli altopiani sono sterminati e bordati da cime innevate che possono superare i quattromila metri. Non ci sono strade né indicazioni né alberi. Ogni tanto s’incontrano greggi di pecore e capre. O s’intravvedono, sperduti in uno spazio che pare senza fine, dei puntini bianchi, le gher, le tipiche tende dei nomadi, le loro case mobili.

Siamo partiti da Hovd (Khovd) – circa 1.500 chilometri a Ovest di Ulaanbaatar -, cittadina in cui i Kazaki sono ancora una minoranza. Qui, nella provincia (aimag) di Bayan-Olgiy, la più montagnosa del Paese, sono invece la grande maggioranza (oltre il 90 per cento), quasi tutti di religione islamica.

Arriviamo nella valle di Namatjin, alle pendici del Tsambagarav innevato. Stanotte saremo ospitati nelle tende di un gruppo di nomadi kazaki. Preparata e simpatica, la nostra guida Ankhbayar (Ankhaa) Chimeddorj fa da interprete, anche se il kazako non è la sua lingua preferita.

Ci sono uomini, donne e bambini. I loro volti rubicondi paiono indicare un buono stato di salute. Ci viene spiegato che questo accampamento è abitato da tre famiglie tra loro imparentate. Vivono in tre gher, circondate da capre, pecore e una decina di mucche, con gli animali che si muovono in spazi amplissimi. Il luogo, inoltre, è favorito dalla presenza di un piccolo ruscello d’acqua fresca.

Essere nomadi significa che i pastori mongoli si spostano almeno un paio di volte durante l’anno a seconda delle condizioni del pascolo, dell’acqua, del tempo, e anche della scuola dei bambini. Di conseguenza, la gher è parte fondamentale di questa esistenza perché è una casa mobile, facilmente smontabile e trasportabile.

A parte lo straordinario scenario naturale, agli occhi di uno straniero sono proprio questi manufatti umani ad attrarre l’attenzione. Di forma circolare, costruite attorno a uno scheletro di legno, rivestite con spesse coperte di feltro tenute insieme da grosse corde, le gher sono strutture millenarie (ne scrisse già lo storico greco Erodoto) eppure insostituibili. Oltre a una piccola porta d’ingresso in legno intagliato e variamente dipinto, le tende mongole hanno un’apertura sul soffitto da cui esce la canna fumaria della stufa che si trova al centro e che, di norma, funziona con lo sterco essiccato degli animali (disponibile in quantità illimitata). La stufa serve sia per cucinare che per scaldare l’ambiente, considerato che l’escursione termica tra giorno e notte è notevole, anche nella stagione estiva.

Per tutto questo, entrare per la prima volta in una «nostra» gher è una sensazione unica. In quella che ci capita c’è una pentola con latte e odore di caglio, ma non manca lo spazio per allungare sul pavimento i sacchi a pelo.

Nell’accampamento dei nomadi kazaki non c’è acqua corrente, non c’è elettricità e non c’è un bagno. Per le necessità fisiologiche esiste una latrina un po’ defilata (ma neanche tanto) costituita da un muretto di sassi alto mezzo metro e una fossa sormontata da due assi.

Siamo in un ambiente islamico, ma le donne kazake non sono velate. Ci sono molti bambini e i più grandi tra essi che si occupano anche degli animali. Per esempio, le ragazze mungono le capre raggruppate in un recinto a poca distanza dalle gher. Per queste persone gli animali sono tutto. Forniscono le coperture e il combustibile per le gher. Forniscono i vestiti. Forniscono il cibo: la carne (immancabile) e i prodotti caseari (latte e formaggi) costituiscono, infatti, piatto essenziale dell’alimentazione dei nomadi.

Un accampamento di pastori nomadi con tre gher; in primo piano, un baldacchino su cui viene steso il formaggio. Foto Paolo Moiola.

Al cospetto del ghiacciaio

Il paesaggio è affascinante, ma il tragitto lungo e faticoso. È già buio quando raggiungiamo la meta di oggi, una sorta di campo base per il Tavan Bogd, il massiccio montuoso dei «cinque Santi». La maggiore delle cinque vette è lo Huiten con i suoi 4.374 metri d’altezza. I viaggiatori che passano da qui sono ancora pochi (per fortuna, verrebbe da pensare), ma comunque in lento e costante aumento. Per questo le gher – sempre appartenenti a gente kazaka – sono in numero maggiore del consueto.

Usciti dai sacchi a pelo e dalle gher, troviamo la luce del mattino, un cielo terso e un paesaggio magnifico. Per raggiungere il ghiacciaio un trekking sarebbe la soluzione migliore, ma non c’è tempo. Ci affidiamo, dunque, agli Uaz, probabilmente l’unico beneficio portato dalla Russia alla Mongolia. L’abilità degli autisti fa sì che i mezzi s’arrampichino come stambecchi lungo la montagna. Si fermano in prossimità di un altare sciamanico (ovoo), innalzato al cospetto del ghiacciaio.

Pochi metri più avanti, un chiassoso gruppo di soldatesse e soldati mongoli si fa notare mentre si danno il cambio per farsi una foto con un’aquila addestrata. Sono talmente entusiasti che, terminato lo schooting fotografico, si mettono a intonare canti e a ballare avendo il maestoso ghiacciaio a fare da sfondo.

Lo scheletro in legno di una gher; questa ha una base fissa, una tipologia utilizzata soltanto nei campi gher attrezzati per i turisti (che si stanno diffondendo). Foto Paolo Moiola.

Le aquile dei «burkitshi»

Siamo in ritardo o forse ci siamo persi. Ankhaa e gli autisti deviano gli Uaz verso un paio di gher su una collina che domina un’amplissima valle di greggi in libertà. Confabulano con i nomadi e trovano un accordo: questa notte ci si fermerà qui. Oltre alle tende, ci sono due strutture in legno, un recinto per gli animali, un vecchio camion con un carico di erba, un paio di moto, un baldacchino su cui sono state distese delle forme di formaggio.

Le gher che ci vengono offerte sono le abitazioni delle famiglie e, quindi, arredate con mobili e letti. Per questo le padrone di casa vengono a fare spazio, portando via vestiti e oggetti vari. Insomma, si potrebbe dire che si tratta di un bed and breakfast (b&b) alla mongola.

Prima di cena, Ankhaa e Ahkjol, la guida locale, si offrono di accompagnarci da alcuni kazaki, accampati non lontani dal luogo dove ci troviamo, che praticano la caccia con l’aquila (sono chiamati «burkitshi»).

La provincia di Bayan-Olgiy è famosa anche per le sue aquile. Lungo il tragitto, le abbiamo ammirate volare libere nel cielo. La caccia con le aquile – prese dal nido da piccole e addestrate nel corso di anni – è un’antica tradizione dei nomadi kazaki. Il cacciatore cavalca il suo cavallo nella steppa. Quando vede una possibile preda (volpi, lepri, lupi e altri piccoli mammiferi), libera l’aquila, la quale insegue e cattura l’animale. Il rapace torna quindi dal cacciatore che, a mo’ di ricompensa, gli offre un pezzo di carne.

Appena arrivati all’accampamento, Ankhaa e Ahkjol parlano con il padrone di casa. Dopo poco, questi si dirige verso una sorta di trespolo su cui è legata la sua aquila. Quindi, con fatica, visto il dimenarsi furioso dell’animale, la sistema su un braccio, precedentemente avvolto in uno spesso guanto protettivo. Non è piacevole vedere un uccello così maestoso e selvaggio legato con una corda. Tuttavia, si tratta di uno di quei casi in cui non bisogna giudicare ma semplicemente calarsi nel contesto. Non abbiamo l’opportunità di vedere animale e uomo all’opera. Tuttavia, ammirare l’apertura alare del rapace quando il pastore alza il braccio verso l’alto è impressionante.

Un cacciatore kazako mostra con orgoglio la propria aquila; prelevato dal nido da piccolo, il rapace viene addestrato e quindi utilizzato nella caccia. Foto Paolo Moiola.

Mongoli nomadi e mongoli stanziali

Al di là dell’attrazione che può suscitare per la sua vicinanza fisica con la natura e – se vogliamo – quella mentale con l’infinito, nella realtà, l’esistenza dei nomadi è dura a causa dell’isolamento, del clima e del lavoro faticoso. Volendo dare credito alle statistiche, oggi non più del 30 per cento della popolazione mongola è nomade.

Secondo Ankhaa, i mongoli che lasciano quella vita per la città sono soprattutto i giovani perché vogliono studiare e anche perché sono interessati «ad avere case in cui si possa fare una doccia con acqua calda».

Eppure, a conti fatti, per un mongolo quella nomade rimane la scelta migliore. «Oggi – ci spiegherà Batbayar Baabar, ex politico e ministro, autore di vari libri sulla storia del Paese -, quello dei pastori è il gruppo più ricco della società mongola. Vivono nelle gher per seguire i loro animali, ma hanno auto, camion, motociclette, case in città dove vivono i loro figli. La sfida più grande che devono affrontare è la manodopera. All’opposto, i più poveri sono i mongoli stanziali e, in particolare, quelli che vivono nelle gher attorno a Ulaanbaatar».

Paolo Moiola

Cammelli nel deserto del Gobi. Foto Paolo Moiola.


Monaci e sciamani, i sopravvissuti

Religione e spiritualità in Mongolia

I russi fecero piazza pulita senza pietà: vennero uccisi monaci e sciamani, e rasi al suolo centinaia di templi. Dal 1990, con il passaggio alla democrazia, buddhismo e sciamanesimo sono rinati.

Valle del fiume Orkhon (Mongolia centrale). C’è un gruppo di yak che pascola tranquillo. Alcuni di essi hanno una pelliccia talmente folta da toccare il terreno. Li incontriamo nel luogo da cui parte il sentiero che conduce a Tuvhken, il monastero sorto nella foresta dei monti Khangai, a un’altitudine di circa 2.400 metri. Per raggiungere Tuvhken, si cammina per tre chilometri tra larici, cedri e cavalli in libertà. Una piccola radura e alcune «ruote della preghiera» (i cilindri girevoli su cui sono impressi alcuni mantra, le parole sacre) indicano che siamo arrivati: il monastero è qualche decina di metri più in alto, incastonato proprio sotto uno sperone roccioso. Le piccole strutture che lo compongono sono trasandate o chiuse. Nell’unico tempio aperto, nella penombra notiamo un solo monaco seduto e assorto in meditazione.

Ci arrampichiamo sullo sperone per raggiungere la sua sommità che è piatta e tutta delimitata da coloratissime lung-ta, le «bandierine della preghiera» (semplici ritagli di stoffa legati a una corda con stampate immagini o mantra). Da qui si può ammirare la foresta sottostante e la vista è spettacolare.

A parte la bellezza del luogo, Tuvhken è importante perché fu fondato nel 1653 da Zanabazar (1635-1723), artista riconosciuto, ma soprattutto prima guida (chiamata Jebtsundamba Khutuktu) del buddhismo lamaista mongolo. Fino ad oggi se ne contano dieci. Infatti, dopo la scomparsa nel 2012 del nono leader, l’8 marzo 2023, dalla sua residenza a Dharamsala, in India, il Dalai Lama ha annunciato il decimo Jebtsundamba Khutuktu, individuato in un bambino mongolo nato negli Stati Uniti.

Monaco buddhista in raccoglimento all’interno di un tempio. Foto Paolo Moiola.

La rinascita dei monasteri

Dopo la visita a Tuvhken, rimaniamo nella valle dell’Orkhon (il fiume più lungo del Paese), per dirigerci verso Harhorin (Kharkhorin, la traslitterazione dei termini mongoli non è mai univoca). Qui sorgeva Karkhorum (Karakorum) che, per qualche decennio (1235-1260), fu la capitale dell’Impero. A suo ricordo è stato eretto un piccolo, prezioso museo. A poche centinaia di metri da questo si trova Erdene Zuu, il più grande monastero buddhista del Paese, fondato nel 1586 e anch’esso con una storia di distruzioni, ricostruzioni e riaperture.

Il monastero pare una cittadina fortificata essendo circondato da mura sulle quali sono stati eretti 108 (numero sacro del buddhismo) stupa (strutture funerarie con cupola emisferica). Gli spazi sono ampli, ma – è la prima volta che ci capita – c’è molta gente e non è facile distinguere tra fedeli e turisti, con i secondi spesso troppo invadenti. Entriamo nelle tre pagode dalle tegole verdi adibite a museo, dove il buddhismo ti sommerge con i suoi colori forti, le sue statue, le sue maschere. Il tempio aperto al culto (Lavrin) si trova più avanti, in una struttura bianca in stile tibetano. Un piccolo gruppo di monaci è seduto all’esterno a conversare.

Tra Terra e Cielo

In Mongolia, non ci sono, però, soltanto le vestigia del buddhismo. Nelle praterie del Paese, più spesso delle greggi e molto più spesso delle persone, s’incontrano gli «ovoo». Il termine indica dei luoghi di culto sciamanico, realizzati per ringraziare gli spiriti della natura e per la buona sorte dei viaggiatori. Si tratta di cumuli di pietre accattastate a mo’ di piramide in mezzo alle quali s’intravvedono i doni lasciati dai viandanti (caramelle, latte, vodka, qualche banconota in tögrög, la moneta mongola). Gli ovoo sono spesso resi più appariscenti dalle «khadag», le sciarpe rituali di seta azzurra che ricordano Tengri, il dio del cielo blu. Il fatto che essi vengano «alimentati» con le offerte, fa pensare che lo sciamanesimo – nella versione del tengrismo e magari in sincretismo con il buddhismo – sia ben più diffuso di quanto non raccontino le statistiche.

Lo sciamanesimo – termine nato in terra asiatica ma presto diffusosi mondialmente – è una credenza religiosa nata tra chi vive a diretto contatto con la natura e i suoi elementi: cacciatori, raccoglitori, pastori e agricoltori.

Se tutti gli esseri viventi (persone, animali, piante) hanno un’anima, allora occorre qualcuno che sia in grado di connettersi con essa. Questo qualcuno è lo sciamano, un intermediario tra il mondo degli uomini e degli animali e quello degli spiriti. Come qualcuno ha poeticamente sintetizzato, gli sciamani sono dei «nomadi tra Terra e Cielo».

Una bimba getta un’offerta sull’ovoo (con bandierine buddhiste), innalzato al cospetto del massiccio del Tavan Bogd, negli Altai. Foto Paolo Moiola.

La Pax mongolica e le fedi religiose

Nella famosa Storia segreta dei mongoli (scritta da un anonimo attorno al 1240), Temüĵin-Gengis Khan invoca spesso il Cielo e la Terra (in quest’ordine). Ai suoi tempi i nomadi seguivano lo sciamanesimo e il tengrismo, ma la successiva penetrazione del buddhismo (soprattutto nell’epoca di Kublai Khan, il nipote di Gengis Khan) invece di produrre contrasti diede origine a una sorta di sincretismo religioso.

In generale, gli storici sono concordi nel ritenere che, nell’Impero mongolo, quasi come corollario alla cosiddetta «Pax mongolica» (termine latino per indicare una relativa stabilità e sicurezza che favorivano i commerci), ci fu una grande tolleranza religiosa. Come poterono constatare anche alcuni esploratori e missionari cattolici: i francescani Giovanni da Pian del Carpine (1182-1252), Guglielmo di Rubruck (1220-1293) e Giovanni da Montecorvino (1247-1328).

Interessante notare che, sotto l’Impero mongolo, i religiosi di qualsiasi fede erano esentati dal pagamento delle tasse.

Le purghe dell’epoca comunista

Questa condizione di rispetto e – addirittura – di privilegio, venne spazzata via nelle epoche successive e, in particolare, durante quella comunista.

Si calcola che, nei settant’anni di regime filosovietico, furono spogliati e rasi al suolo oltre 600 monasteri ed eliminati almeno 20mila monaci, mentre altre migliaia di essi furono imprigionanti, costretti a lasciare o a fuggire. Identica sorte toccò agli sciamani (in generale, più difficili da riconoscere e, quindi, da perseguire).

Con la fine del regime comunista (nel 1989) si assistette a una rinascita sia del buddhismo che dello sciamanesimo. Si ritiene che oggi, nel Paese, ci siano cinquemila monaci e migliaia di sciamani (c’è chi dice siano addirittura ventimila).

Monaci buddhisti nel monastero di Gandan, nel centro di Ulaanbaatar. Foto Paolo Moiola.

Nella nuova Mongolia

Ovoo e monasteri, sciamanesimo e buddhismo, sciamani e monaci. Dare un «peso» alla religione nella nuova Mongolia democratica è complicato, forse impossibile. Il primo passo è stato, comunque, la Costituzione del 13 gennaio 1992 nella quale viene riconosciuta (articoli 9 e 16) la libertà religiosa.

Secondo le statistiche ufficiali, oggi oltre il quaranta percento della popolazione mongola non è credente. «Impossibile – ci dice Ayurzana Gun-Aajav, poeta e romanziere, conosciuto soprattutto per La leggenda dello sciamano (uscito in Mongolia nel 2010 e nel 2020 in Italia) -. Al contrario, io immagino che la maggior parte dei mongoli sia religiosa. Naturalmente, abbiamo ancora profonde impronte di comunismo in molte sfere della nostra società. Ma i mongoli avevano conservato molti rituali religiosi anche nell’era comunista. Ad esempio, non seppellivano mai i morti senza una cerimonia buddhista».

«Quando ero giovane – prosegue Ayurzana -, ero più o meno ateo. Crescendo, sono diventato religioso, il che è stato un processo sorprendente per me. Ecco perché non parlo ai giovani di buddhismo o sciamanesimo: perché so che loro non hanno bisogno di alcuna religione. Sono troppo giovani per comprendere le basi del mondo mentale. Quando saranno pronti, sarà la vita stessa a mostrare tutto. Buddha disse: “Verrà il tempo e la condizione sarà”. I buddhisti non hanno mai fretta, aspettano sempre. E lo sciamanesimo mongolo è molto simile al buddhismo. Alcuni sciamani eseguono rituali buddhisti, alcuni lama raccomandano alcuni metodi sciamanici ai loro credenti. Il buddhismo tibetano è molto influenzato dalla fede originale di Tengri, senza la quale sarebbe stato impossibile importare un intero sistema religioso nel mondo mentale dei nomadi».

«Ogni religione – spiega ancora lo scrittore – ha la sua teoria, ha persino delle leggi severe. Non c’è niente del genere nello sciamanesimo. Esso è nato semplicemente dalla visione di persone antiche che hanno imparato a conoscere il mondo non attraverso la conoscenza, ma attraverso sentimenti primitivi. Per loro, i sogni o l’intuizione sono più importanti della scienza, l’inconscio più importante della coscienza, il mondo più surreale di quanto si pensi. Lo sciamanesimo è più simile alla poesia che alla religione. E più simile a un percorso creativo che a un modello di pensiero».

Paolo Moiola

Matrimonio


Libera come i suoi cavalli

La Mongolia tra Russia e Cina

Senza sbocchi al mare, schiacciata tra due paesi retti da governi dittatoriali, la giovane democrazia mongola prova a seguire la propria strada. Compito non facile, considerata la sua dipendenza economica da Mosca e Pechino.

Dal Gobi a Ulaanbaatar. Nel Gobi – considerato il sesto deserto al mondo per estensione – la temperatura media annuale è di 8,5 gradi centigradi e le precipitazioni non superano i 50 millimetri all’anno. Tuttavia, il termine deserto può risultare fuorviante. Quando si passa dalle steppe al Gobi, una delle prime impressioni riguarda gli animali: è vero, ci sono più cammelli, ma cavalli e capre non mancano neppure qui. La seconda riguarda, invece, la morfologia: vi si possono incontrare colline rocciose e chilometri di dune di sabbia color ocra, ma anche oasi verdi e pascoli. In inverno, può addirittura comparire la neve.

Anche per questa sua varietà paesaggistica il Gobi è una regione frequentata dal turismo internazionale, come testimoniano i folti gruppi di viaggiatori sudcoreani incontrati. Né si può dimenticare che questo è il paradiso della paleontologia visto che qui sono stati trovati e si trovano fossili di dinosauri risalenti a milioni di anni fa. Anche noi possiamo averne un assaggio a Dalanzadgad, capoluogo dell’Omnogovi, nel locale e ricco museo di natura e storia.

Queste attrazioni non dovrebbero però far perdere di vista le problematiche. Il deserto del Gobi – come tutta la Mongolia – sta, infatti, subendo le conseguenze dei cambiamenti climatici. In particolare, l’aumento delle temperature e dei periodi di siccità stanno favorendo l’allargamento della desertificazione e con esso la perdita di biodiversità dell’ecosistema.

Cavalli in libertà nei vastissimi spazi della steppa mongola. Foto Paolo Moiola.

Quella strada ferrata tra Russia e Cina

Nella lunga traversata del Gobi, ci dirigiamo a Sud Est, verso la provincia di Dornogovi, poco toccata dal turismo e conosciuta soprattutto per le tempeste di sabbia e la ferrovia. È qui, nella cittadina di Saynshand, che lasceremo gli Uaz.

Il nostro treno è già in stazione. La linea è quella della Trans mongolian railway, che taglia in due la Mongolia centrale per 2.215 chilometri, dal confine russo a Nord fino a quello cinese a Sud. La possente locomotiva diesel è sovietica, come dimostra lo stemma di falce e martello incastonato accanto al finestrino laterale. Ci porterà fino a Ulaanbaatar, circa 420 chilometri verso Nord. Tuttavia, nonostante la relativa vicinanza, il viaggio durerà tutta la notte.

I vagoni sono vecchi ma non scomodi. E il servizio è adeguato. Nonostante la notte stellata, nelle prime ore dal finestrino si può scorgere poco, anche durante le fermate in stazioni sconosciute e poco illuminate. Poi, alle prime luci dell’alba, il deserto del Gobi è già alle spalle. Davanti a noi, rilievi verdi e le prime propaggini della capitale, la cui periferia è estesa e anonima come quella di tante altre città.

Poco prima delle sette del mattino, il treno entra nella stazione di Ulaanbaatar. Fuori è subito traffico e palazzoni uno addosso all’altro, un mondo opposto rispetto alla Mongolia degli Altai o del Gobi dove gli spazi sembravano senza confini.

All’interno di questa gher, un divano, un orologio e tappeti alle pareti. Foto Paolo Moiola.

Ai grandi magazzini di Stato

Siamo in centro e non si trova un parcheggio libero. Soprattutto qui, nei pressi dei grandi magazzini di Stato. «State department store», la scritta in inglese si allunga sul primo piano dell’edificio. Sul tetto svetta, invece, l’anno della fondazione: il 1921, oltre un secolo fa.

Scale mobili, luci a profusione, marchi internazionali: sembra uno shopping center di una qualsiasi grande città, un esempio di non-luogo come i duty free degli aeroporti internazionali. È il sesto piano che ospita qualcosa di più locale, come abbigliamento tradizionale e souvenir vari. Sugli ordinati scaffali della libreria troviamo anche i libri dei nostri interlocutori, Ayurzana Gun-Aajav e Batbayar Baabar: il romanzo (La leggenda dello sciamano) del primo e i libri di storia (Almanac. History of Mongolia) del secondo.

Usciamo dalla mecca dello shopping mongolo per reimmergerci nella vita reale.

Formaggio esposto al sole su un graticcio fuori dalla gher. Foto Paolo Moiola.

La democrazia e i suoi sabotatori

In prossimità di un incrocio, a poca distanza dalla piazza Sükhbaatar, resiste un modesto edificio di un solo piano. È dipinto di blu perché blu è il colore del Partito democratico della Mongolia (di centrodestra), la seconda forza politica del Paese che qui ha la propria sede.

Nelle elezioni del 28 giugno 2024 è arrivata seconda dietro il Partito del popolo mongolo, la formazione di centrosinistra (nata dallo scioglimento del Partito comunista) che oggi è alla guida del governo nazionale.

Senza sbocchi al mare, fisicamente schiacciata dalla Russia a Nord e la Cina a Sud, economicamente da esse dipendente, dal 1990 la Mongolia ha imboccato e difeso la strada della democrazia. A Ulaanbaatar, ci sono state proteste di piazza a luglio 2008, dicembre 2018 e dicembre 2022. Sempre contro la corruzione e per questioni economiche. Quando si è liberi di protestare, significa che la democrazia funziona.

Da ex ministro divenuto scrittore e storico, pur avendo studiato a Mosca, Batbayar Baabar non ha dubbi: «Dall’Artico all’Oceano Indiano, dal Pacifico al Mar Nero, la Mongolia è l’unico paese con una società aperta e un sistema libero e democratico». L’orgogliosa certezza del nostro interlocutore è ammirevole. Tuttavia, nemici e sabotatori della democrazia mongola sono dietro l’angolo.

La realtà lo mette subito in chiaro. «Molte strade sono bloccate perché sta per arrivare Putin», ci spiega Ankhaa, la guida, per giustificare un traffico peggiore del solito.

È vero: Vladimir Putin, lo zar russo inseguito da un mandato di cattura internazionale per crimini di guerra, sta per arrivare (2-3 settembre 2024) a Ulaanbaatar per incontrare le principali autorità mongole. E queste non lo faranno arrestare, anche perché Mosca fornisce al Paese la maggior parte del suo carburante e una notevole quantità di elettricità.

La limitata libertà d’azione del Paese si era vista anche nel novembre del 2016 quando il Dalai Lama venne a visitare il Gandan, il principale monastero della capitale mongola.

All’epoca, Pechino – che considera il leader tibetano un terrorista che attenta all’unità della Cina – si arrabbiò molto con il governo di Ulaanbaatar. Tanto che quest’ultimo si vide costretto a promettere: mai più il Dalai Lama in Mongolia.

Insomma, per gli orgogliosi eredi di Gengis Khan non sarà facile difendersi dalle ingerenze di vicini di casa per i quali la democrazia è soltanto una pericolosa invenzione dell’Occidente.

Ankhaa è, però, totalmente e orgogliosamente ottimista: «Nonostante la pandemia, le guerre, gli antagonismi geopolitici, la Mongolia continuerà a portare avanti la sua politica estera pacifica e aperta, indipendente ma anche pragmatica. Da oltre trent’anni lo stiamo dimostrando».

Paolo Moiola

Due donne kazake all’interno di una gher; al centro, la stufa per cucinare e riscaldare, quasi sempre alimentata con sterco essiccato. Foto Paolo Moiola.


Ha firmato il dossier:

PAOLO MOIOLA. Giornalista, redazione Missioni Consolata. Ha viaggiato in Mongolia nell’agosto 2024.

Hanno collaborato: Ayurzana Gun-Aajav, Ulaanbaatar, scrittore (poeta e romanziere); Batbayar Baabar, Ulaanbaatar, scrittore e storico, ex uomo politico e ministro; Ankhbayar (Ankhaa) Chimeddorj, Ulaanbaatar, guida turistica (Genghis Khan expedition tour Llc).

Il video reportage sul Paese

Una ragazza raccoglie il latte delle capre, uno degli animali più allevati tra i nomadi mongoli. Foto Paolo Moiola.

Un militare mongolo di stanza alla frontiera degli Altai suona il «khuuchir», strumento musicale tradizionale, alle sue spalle il ghiacciaio Potanin. Foto Paolo Moiola.

 




Taiwan. Modernità e missione


Hsinchu è una delle diocesi più giovani del Paese. I cattolici sono una minoranza, ma le opere sociali della Chiesa sono riconosciute. Come le attività di aiuto ai tanti migranti. Il suo pastore è attivo e lungimirante. Lo abbiamo incontrato.

Hsinchu. C’è una certa frenesia questa mattina in Ximen street, via centrale della città di Hsinchu, a un centinaio di chilometri a sud di Taipei, la capitale di Taiwan. Nonostante il caldo umido asfissiante – si toccano i 38 gradi nelle ore centrali del giorno -, fervono i preparativi nella bella chiesa del Sacro Cuore di Gesù per la celebrazione dei dieci anni di presenza dei Missionari della Consolata nel Paese. Costruita dai missionari gesuiti nei primi anni Cinquanta, la sua originale architettura ripropone tre pagode, una attaccata all’altra, rotonde, di diametro decrescente, con il tipico tetto orientale, che nulla ha da invidiare a quello del tempio alla dea Matzu (la signora del mare), che guarda la chiesa dall’altra parte della via.

Fin dalle prime ore di questo 21 settembre, i fedeli hanno iniziato ad arrivare nella pagoda principale della chiesa, mentre delegazioni di religiosi e amicim di svariate nazionalità, sono passate per un saluto ai padroni di casa.

La parrocchia è stata affidata ai Missionari della Consolata nel 2017, e vi lavorano padre Jasper Kirimi e padre Caius Moindi, entrambi keniani. Ma oggi la festa non è solo dei missionari di san Giuseppe Allamano (attualmente in sette a Taiwan, di cinque nazionalità), o della parrocchia ma, si può dire, è dell’intera diocesi di Hsinchu.

Il vescovo, John Baptist Lee Keh-mien, presiede la messa di anniversario, concelebrata da alcune decine di sacerdoti, di svariata provenienza. Molti vengono da Taipei per l’occasione, come padre Edi Foschiatto, saveriano, tra i primi ad aver aiutato i missionari della Consolata nelle loro iniziali perlustrazioni sull’isola.

Una diocesi giovane

Monsignor Lee, classe 1958, è vescovo di Hsinchu dal 2006. Dal 2020 è anche presidente della Conferenza episcopale regionale cinese, ovvero di Taiwan, ma il nome ufficiale è questo per non solleticare l’irritabilità dei dirigenti della Cina continentale. Le diocesi taiwanesi sono in tutto sei, più l’arcidiocesi di Taipei.

Alcuni giorni prima della festa, andiamo a incontrare monsignor Lee nel suo ufficio, nel palazzo a fianco alla bella cattedrale di Hsinchu. Disponibile e simpatico, durante la nostra chiacchierata intervalla il suo discorso con pacate risate.

«Taiwan è una società mediamente anziana. E tra i cattolici questa tendenza si accentua ancora di più. Nelle parrocchie i due terzi delle persone sono pensionati, e i ragazzi sono rari». La diocesi, per contro, è tra le più giovani del Paese, essendo stata eretta nel 1961: «L’evangelizzazione a Taiwan, iniziata da Sud, dalla città di Kaoshung dove arrivarono i primi missionari nel XVI secolo, è giunta fino al centro, a Taochung, da dove ha “saltato” la nostra zona, ed è passata a Nord, a Taipei. Possiamo dire che abbiamo due generazioni di cattolici qui, mentre in altre diocesi, già centenarie, le famiglie “cattoliche” sono più forti perché hanno una storia più lunga».

Bisogno di missionari

La diocesi di Hsinchu comprende la contea omonima, la contea di Miaoli e il comune speciale di Taoyuan (area dell’aeroporto internazionale), per un totale di 4.750 km2. I cattolici censiti sono circa 40mila.

«In questa zona – continua il prelato – fino a dopo la Seconda guerra mondiale non c’erano quasi cattolici. Poi, quando nel 1949 Chan Kai-shek, persa la guerra contro i comunisti di Mao, insieme al suo apparato militare e statale, ha invaso l’isola, in quest’area sono stati insediati alcuni accampamenti militari. Diversi soldati erano cattolici, da qui l’esigenza di avere dei sacerdoti. Le prime parrocchie nacquero proprio nei pressi degli accampamenti. Fino agli anni Settanta c’è stato un periodo di forte evangelizzazione, che poi si è stabilizzata». Era iniziata la crescita economica, e molti giovani andavano all’estero a studiare, «così il numero dei cattolici non è più aumentato. Oggi abbiamo dei battesimi, ma si equilibrano con i funerali».

Il vescovo mette poi l’accento sulle risorse umane a sua disposizione. Questa zona è stata, fino dai primi anni Cinquanta appannaggio dei gesuiti, come altre erano dei francescani, o di altre congregazioni. «Anni fa in diocesi c’erano in tutto duecento sacerdoti, dei quali cento erano gesuiti. Oggi posso contare su settanta preti in totale. Di questi poi, solo due sono taiwanesi, e sono professori all’università, per cui non seguono neppure una parrocchia». E continua: «I preti della diocesi sono stranieri, sia quelli missionari che quelli incardinati qui. Prevalgono i coreani, poi vietnamiti, filippini, e, più recentemente, africani di svariati paesi. Ma non abbiamo quasi vocazioni locali».

«Io sto invitando preti dall’estero e quelli che arrivano sono giovani. Questo, secondo me, ha l’effetto di attirare più ragazzi nelle parrocchie. Recentemente abbiamo due seminaristi taiwanesi. Forse riusciamo a innescare un circolo virtuoso».

Un altro tema che ha preoccupato monsignor Lee dall’inizio del suo episcopato è stato quello finanziario. Una legge di Taiwan, promulgata all’inizio del suo episcopato, aveva infatti ridotto alcune entrate economiche per la diocesi: «Ho dovuto lavorare per stabilizzare la parte finanziaria, ma adesso ci sono riuscito», dice con orgoglio.

Migranti asiatici

La Chiesa cattolica, pur essendo una minoranza tra le minoranze (vedi oltre), è riconosciuta nella società taiwanese, soprattutto grazie alle attività sociali: educazione, salute, lavoro con la disabilità e, recentemente, le attività con i migranti.

Negli ultimi anni stanno arrivando a Taiwan molti immigrati, in particolare da Indonesia, Vietnam, Filippine e Thailandia. Sono attratti dal lavoro nell’industria (in particolare quella per la produzione di semiconduttori, di cui il Paese è grande esportatore), nelle costruzioni (si vedono in città molti cantieri per nuovi palazzi), e nell’accudimento degli anziani.

La diocesi di Hsinchu gestisce tre centri per migranti, nei quali fornisce aiuto per abitazione, questioni legali, sanitarie, per imparare la lingua cinese e assistenza spirituale.

Tra chi arriva ci sono pure i migranti senza documenti in regola per stare a Taiwan. Monsignor Lee ci dice che «ce ne sarebbero più di 10mila. Talvolta la polizia viene a cercarli in chiesa durante le messe, ma noi chiediamo di non intervenire».

La maggioranza dei migranti filippini e vietnamiti sono cattolici, mentre gli indonesiani sono in prevalenza musulmani. «Anche dopo le funzioni della domenica cerchiamo di dare loro assistenza, in particolare grazie a molti volontari. Alcuni di questi sono migranti di più lunga data, che si mettono a disposizione per aiutare. Inoltre, con i sacerdoti loro connazionali (in particolare filippini e vietnamiti), riusciamo a seguirli più efficacemente».

Parlarsi tra religioni

Il vescovo ci racconta che esiste un buon rapporto con le altre religioni presenti nel Paese, abitato da 23 milioni di persone. Buddhismo e taoismo contano le percentuali più alte di fedeli, circa 20 e 19% rispettivamente, poi ci sono le religioni popolari, le cosiddette folk religions (28%), anch’esse molto diffuse e, infine, cristiani evangelici (5,5%) e cattolici (1,3%; dati Academia sinica 2021).

«Con i pastori protestanti abbiamo un incontro ogni mese, a cui partecipano alcuni nostri preti e laici. Siamo in comunicazione con loro a livello della contea di Hsinchu. Per quanto riguarda le altre religioni, durante le feste ci invitiamo vicendevolmente. Ad esempio, alla festa della luce, che noi cattolici facciamo a Natale, invitiamo tutti i leader. Inoltre, io vengo invitato da loro, in particolare ho frequentato alcune feste taoiste. Sia loro, sia i buddhisti, va ricordato, sono di tante correnti diverse».

Fede consapevole

Come presidente della conferenza episcopale, chiediamo a monsignor Lee un commento su come i fedeli taiwanesi vivono la loro fede. «Oggi a Taiwan tutti hanno la possibilità di andare all’università, almeno per il primo livello (bachelor, laurea breve, ndr), mentre un tempo era diverso. Quando ero giovane io, solo il 20% dei miei coetanei potevano seguire gli studi.

Allo stesso modo, adesso la formazione dei cattolici è diventata un fattore importante. Prima essi non conoscevano la Chiesa, non avevano i fondamenti della Bibbia, ma non c’era molta attenzione a questo. Dal 2012 abbiamo una scuola di Bibbia, frequentata da laici. La partecipazione è in crescita e da allora sono stati formati circa 4mila fedeli in tutto il Paese.

Adesso, posso dire, i cattolici conoscono la loro religione e le basi della loro fede. La situazione della diocesi di Hsinchu è simile a quella delle altre: anche qui i credenti iniziano ad avere maggiore conoscenza della dottrina cattolica e della Bibbia».

Questo vuole anche dire che adesso, per un parroco, è più facile trovare dei laici formati che possano aiutarlo. È un grosso cambiamento dell’ultimo decennio.

«In secondo luogo – riprende il vescovo – se la fede diventa più consapevole, ho speranze che nei prossimi anni crescano le vocazioni locali. Sia per i sacerdoti che per le suore».

Contatti cinesi

Chiediamo a monsignor Lee che contatti ha la chiesa di Taiwan con quella del continente, ovvero della Repubblica popolare di Cina (Rpc).

«Molti vescovi della precedente generazione erano originari della Cina continentale, per cui avevano lì parenti e molti conoscenti. Si può dire che erano come un ponte verso il continente e le relazioni erano buone. Ma adesso non è più così. Noi siamo nati e cresciuti a Taiwan e abbiamo meno legami. Inoltre ci sono difficoltà anche dovute alla situazione politica».

Il vescovo ci ricorda che preti e suore della Rpc possono venire a studiare teologia a Taiwan: «Noi forniamo una borsa di studio ogni anno a trenta persone della Cina continentale. Da qualche tempo però, è aumentato il controllo sui religiosi da parte del governo cinese, e ne vengono circa la metà».

Ci sono poi restrizioni del governo taiwanese per lavorare nel Paese: «Possono studiare qui ma non fermarsi. Ci sono cittadini della Rpc che hanno assunto altre nazionalità, in questo caso è loro consentito di integrare le nostre diocesi».

Approfittiamo per chiedere al vescovo un commento sulle tensioni tra Taiwan e Rpc, e anche se i taiwanesi temano un’invasione da parte dei comunisti: «Sono i militari a essere coinvolti ogni giorno su questo tema. Per ora la gente non ha ancora paura. Penso anche che alcuni uomini d’affari taiwanesi siano influenzati dalla situazione, diversi di loro stanno trasferendo le imprese e business dalla Cina ad altri paesi. Non tanto perché pensino a un’invasione, ma perché mentre prima era facile fare buoni affari con la Cina continentale, oggi sta diventando sempre più difficile».

«Lavorano bene»

Torniamo ai dieci anni di presenza dei missionari della Consolata a Hsinchu.

La parrocchia di Ximen street era la base dei gesuiti per tutta la diocesi. «Quando, nel 2017, visto il ridotto numero di sacerdoti, non sono più riusciti a gestirla mi hanno chiesto di mandarvi qualcuno con una buona esperienza. Alcuni missionari della Consolata erano già in diocesi dal 2014. Stavano studiando la lingua e la cultura. Io avevo sentito dire che lavorano molto bene, hanno buone vocazioni e gestiscono tante parrocchie, quindi sanno come prendersene cura. Per questo motivo ho proposto loro la gestione del Sacro Cuore di Gesù».

Monsignor Lee si alza in piedi e ci mostra un quadro della Madonna. Maria tiene tra le mani Gesù e sembra che lo porga a un bambino in piedi di fronte a lei: «È nostra Signora di Hsinchu», ci dice con il suo gran sorriso.

Marco Bello


A casa di Peter e Jennifer

Il cattolico buddhista

Peter e Jennifer sono due parrocchiani del Sacro Cuore di Gesù, in centro a Hsinchu. Mi invitano nel pomeriggio a casa loro per bere il tè. È una casa semplice e decorosa, al piano terra di un basso edificio. Nel cortiletto antistante, vi sono molte piante tra le quali diversi bonsai. Peter è un appassionato di tè e utilizza tutto un rituale preciso per consumare la bevanda, da solo o con amici. Ci sediamo uno di fronte all’altro, tra noi un tavolo ricolmo di dolci di ogni tipo. Davanti a lui, ha una tavoletta di legno sulla quale è appoggiata una piccola teiera. A destra, fuori dal tavolo, c’è un bollitore sempre pronto.

Peter, parla un po’ di inglese, e questo facilita la comunicazione. Mi racconta la sua storia.

Peter ha lavorato per trent’anni nell’esercito di Taiwan, poi, congedato, ha cercato un altro lavoro ed è attualmente alla Tsmc (Taiwan semiconductor manufacturing company, la maggiore società di produzione di circuiti integrati del Paese) nell’ambito della sicurezza.

«Ho 67 anni. Circa 15 anni fa, al mio capo, tornato da una permanenza nella Cina continentale, è venuto un tumore ed è morto in pochi mesi. Aveva due anni meno di me. È stato un duro colpo. Ho lasciato la fede cattolica e ho iniziato a seguire le pratiche buddhiste». Sua moglie Jennifer, invece, ha continuato a frequentare la parrocchia.

Alcuni anni dopo al Sacro Cuore arriva un nuovo prete, è un africano. Jennifer lo presenta a Peter. I due diventano amici e prendono spesso il tè insieme, come facciamo noi oggi. Finché qualcosa cambia in Peter: «Decisi di tornare alla Chiesa, e domandai al missionario di confessarmi. Penso che lui sia stato mandato dal Signore per salvarmi».

«La religione che seguiamo è una specie di destino – ci dice solennemente -. In famiglia siamo in sei, tra fratelli e sorelle, e solo una sorella è cattolica».

Gli chiediamo cosa gli è rimasto del buddhismo: «Ho praticato per dieci anni. Alcuni insegnamenti del Buddha mi sono entrati dentro, ma penso che la cosa più importante sia la misericordia del Signore. Ti aiuta a discernere cosa è meglio per te».

Peter fa un confronto: «Gesù ha avuto solo tre anni per insegnare il suo pensiero, il Buddha, invece, ne ha avuti 59. Gesù ci ha insegnato a sacrificarci per gli altri, e questo non è facile. Un insegnamento molto forte». E continua: «Il missionario africano mi ha dato l’esempio con il suo comportamento». Quel sacerdote era il kenyano padre Mathews Odhiambo.

«Quando ero nell’esercito ho subito alcuni incidenti e me la sono cavata: ho sentito la protezione di Dio. Quando cercavo un lavoro, ho pregato il Signore che mi aiutasse. Sovente, mentre prego sento la sua presenza». Dicendo queste parole, Peter, il cui viso ha tratti duri, che fanno intravedere il suo passato di militare, si commuove e i suoi occhi si inumidiscono.

Cerchiamo di toglierlo dall’imbarazzo chiedendo chi è raffigurato nella statua sullo scaffale alla sua destra. Pare un guerriero con una lunga barba, al cui collo è appeso un rosario. «È il generale Guan Ye, una figura della Cina antica. Rappresenta giustizia, coraggio e lealtà. Mi ricorda in particolare di essere leale e di non avere mai paura degli altri». Non lontano dal generale, si trova una statua della Madonna, e subito sopra un bel crocefisso di legno appeso al muro in posizione dominate.

«Lo stesso fatto che noi due ci siamo incontrati, pur abitando così lontani, è un disegno del Signore – sentenzia Peter -. Anche i missionari vengono da lontano e da culture distanti tra loro, ma hanno la stessa fede. Questo è un segno importante».

Ma.Bel.

 




Taiwan. Campagna elettorale visitando i templi

 

In tempi di campagna elettorale, a Taiwan ci sono dei luoghi che sono costantemente affollati: i templi buddhisti e taoisti. Può sembrare strano, ma da quando i partiti ufficializzano i loro candidati parte immancabile la «processione».

Ogni giorno, quando i team delle campagne elettorali rilasciano l’agenda del giorno successivo, è un fatto acclarato: i candidati si presentano almeno in un tempio. Tanto per avere un’idea: nella campagna per le elezioni presidenziali del gennaio 2020, la presidente uscente Tsai Ing-wen ha visitato circa 180 templi per ottenere la conferma a un secondo mandato. Lo stesso sta accadendo in questa occasione. Tutti e tre i candidati alle elezioni di sabato 13 gennaio sono apparsi in templi in tutti gli angoli dell’isola principale di Taiwan, persino a quelli delle isole minori.
Il motivo? L’influenza di questi luoghi, che non sono solo un posto dedicato alla preghiera ma anche un polo di attrazione sociale fondamentale per le città e i villaggi di Taiwan, sfocia da quella religiosa e spirituale a quella politica. Anche perché sono praticamente ovunque: 33mila su tutto il territorio, in media quasi uno per ogni chilometro quadrato.

I candidati arrivano e stringono decine, centinaia di mani. Fanno decine, centinaia di selfie. Accendono l’incenso e pregano per la salute, la sicurezza e la pace di Taiwan. Lasciano offerte sugli altari dedicati agli dei locali. Infatti, ce ne sono tanti diversi, nella tradizione taoista, che a Taiwan si è profondamente intrecciata con quella buddhista tanto che alle volte diventa complicato capire dove stanno i confini tra l’una e l’altra. In cambio ricevono spesso grandi mazzi di germogli d’aglio. In dialetto taiwanese questo dono suona come «venire eletto», slogan ripetuto a lungo durante tutti i comizi.
In candidati, in maniera implicita, mirano al favore dei leader dei templi. Si tratta di figure molto spesso coinvolte nella politica locale, ma hanno anche una rilevanza economica. I templi sono infatti un grande ricettacolo di donazioni, fondi e spesso anche interessi economici. Tutti ingredienti che fanno immancabilmente gola a una campagna elettorale e a un candidato che
punta a diventare presidente.
C’è anche una valenza simbolica: per la maggior parte dei taiwanesi recarsi al tempio è più una prassi sociale o un rituale, piuttosto che un modo per esprimere la propria fede. Mostrarsi nei templi, circondati dagli abitanti di quel villaggio o di quel quartiere di una città più grande, significa mostrarsi vicini alla gente comune.
Terry Gou, boss del colosso tecnologico Foxconn (principale fornitore di iPhone per Apple con enormi interessi anche in Cina continentale), ha visitato più volte i templi di Cihui e Jieyun a Banqiao, Nuova Taipei, per

I templi sono stati spesso considerati anche un canale di promozione dei rapporti con la Repubblica popolare. Le autorità continentali consentono e incoraggiano i gruppi religiosi taiwanesi a viaggiare oltre lo Stretto. Pechino ritiene infatti che mantenere legami sul fronte religioso e rituale possa contribuire a rallentare la recisione dei rapporti con Taiwan, rafforzando il senso di appartenenza della sua popolazione alla affari di Taiwan) ha chiesto di estendere gli scambi religiosi e ha incontrato Zheng Mingkun, presidente dell’associazione taiwanese dedicata a Mazu, la dea dei mari della mitologia cinese amata soprattutto tra Fujian (Repubblica popolare), Kinmen e Matsu (isole di Taiwan).
Secondo alcune indiscrezioni, diversi templi e organizzazioni religiose riceverebbero fondi da Pechino. Accuse difficili da dimostrare, vista l’opacità dei rendiconti finanziari di questi luoghi, coi partiti che raramente osano sollevare il problema, temendo di mettersi contro una fetta non trascurabile di cittadini, dunque elettori. In passato ci sono state alcune controversie anche sulla Fo Guang Shan, grande organizzazione buddhista con un immenso centro nei pressi della città meridionale di Kaohsiung. Quando lo scorso febbraio il suo fondatore, Hsing Yun, è morto, diverse autorità continentali hanno espresso il desiderio di recarsi in visita a Taiwan.
Verrebbe da pensare che il candidato del Partito progressista democratico (Dpp), inviso a Pechino, si tenga alla larga dai templi. Non è così. Lai Ching-te ne ha visitati a decine, tanto quanto i rivali Hou Yu-ih del Kuomintang e Ko Wen-je del Partito popolare. Nessuno fa lo schizzinoso, quando si tratta d’imbracciare qualche mazzo di germogli d’aglio.

Leggi il nostro approfondimento su Taiwan qui.

Lorenzo Lamperti, da Taipei




India. Un turbante sikh è per sempre

Tra Canada e India c’è tensione a causa dell’assassinio di un esponente della comunità sikh, molto numerosa nel paese nordamericano. Proviamo a spiegare i termini della questione.

L’assassinio di connazionali ritenuti «scomodi» da parte dei governi di alcuni paesi non è una pratica nuova. Lo ha fatto (più volte) Vladimir Putin. Ad esempio, con l’agente Alexander Litvinenko nel 2006, a Londra. Lo ha fatto il principe saudita Mohammad bin Salman con il giornalista Jamal Khashoggi, ucciso a Istambul, nella propria ambasciata, nel 2018. Potrebbe averlo fatto anche Narendra Modi – il primo ministro indiano protagonista del recente G20 – con il leader sikh Hardeep Singh Nijjar, ucciso vicino a Vancouver, in Canada, lo scorso giugno da due sicari incappucciati.

Il sikhismo è una religione fondata nel XVI secolo nel Punjab, una regione divisa tra India e Pakistan dopo il 1947, alla fine del dominio britannico. Esso nacque con una nobile ambizione: unire indù (maggioritari in India) e musulmani (maggioritari in Pakistan) nella fede in un Dio unico. Gran parte delle credenze dei sikh (come il karma e la reincarnazione) deriva dall’induismo, ma i sikh sono monoteisti e rifiutano ogni distinzione di casta.

Nella mappa la regione del Panjab indiano, cuore della comunità sikh.

Ci sono circa 25 milioni di sikh in tutto il mondo. La stragrande maggioranza vive in India, dove costituisce circa il 2% degli 1,4 miliardi di abitanti del paese. Ma esistono comunità sikh numericamente consistenti anche in altri paesi. Il Canada ospita la popolazione più numerosa al di fuori dell’India, con circa 780mila sikh – più del 2% della popolazione del paese -, mentre sia gli Stati Uniti che il Regno Unito ne ospitano circa 500mila, l’Australia circa 200mila (come l’Italia). È importante ricordare che la comunità sikh canadese riveste un ruolo importante anche per il governo di Justin Trudeau. Il sikh Jagmeet Singh Dhaliwal, nato in Canada nel 1979 da genitori del Punjab, è parlamentare e leader del Nuovo partito democratico (Ndp), formazione politica di centro sinistra che appoggia l’attuale governo canadese. Nuova Delhi considerava Hardeep Singh Nijjar un «terrorista» in quanto esponente del Khalistan (Khalistan liberation force, Klf), movimento che si batte per la creazione di uno stato sikh indipendente nel Punjab. In India, i separatisti del Klf furono attivi soprattutto negli anni Ottanta. L’azione storicamente più eclatante avvenne il 31 ottobre 1984 quando due guardie del corpo sikh uccisero l’allora prima ministra Indira Gandhi.

Nijjar è il terzo leader sikh scomparso in pochi mesi, una sequenza questa che pare ricalcare quanto avvenuto con vari avversari di Putin.

Jagmeet Singh Dhaliwal, sikh canadese, parlamentare e leader del Nuovo partito democratico. (Immagine tratta da sikhnet.net)

Il governo Trudeau ha accusato l’India di aver ucciso Nijjar, immigrato in Canada nel 1997 e divenuto nel frattempo cittadino canadese, sul proprio territorio violando così la sovranità nazionale. Sono seguiti inevitabili scambi di accuse e proteste. La questione è delicata non soltanto per il fatto in sé, ma anche perché coinvolge l’India, nazione emergente che sta cercando di ritagliarsi un posto di rilievo sulla scena internazionale. L’assassinio del leader sikh può, infatti, compromettere le ambizioni indiane e, soprattutto, la credibilità democratica del governo nazionalista di Narendra Modi.

Paolo Moiola




Centrafrica. Religioni contro la guerra


La crisi nel paese inizia a fine 2012. Subito viene propagandata come guerra di religione. Ma i responsabili delle maggiori confessioni non ci stanno. E la visita di papa Francesco sarà determinante. Incontro con il cardinale Dieudonné Nzapalainga.

La Repubblica Centrafricana è un paese ricco (di diamanti, oro, altri minerali e legname), abitato da gente povera o molto povera che non ha accesso ai servizi primari. Situato nel cuore del continente, non ha sbocchi sul mare, e poche strade, mal messe, lo collegano al Golfo di Guinea, attraverso il Camerun.

Il Centrafrica, come viene anche chiamato, ha vissuto anni di guerra intensa, solo recentemente trasformatasi in una «pace precaria».

Gli inizi della crisi

È il dicembre 2012 quando gruppi armati dei paesi confinanti, Sudan e Ciad, attaccano città e villaggi del Nord. Si dicono di fede islamica e si fanno chiamare Seleka.

Nella capitale, Bangui, tre leader religiosi stringono un patto. Creano una piattaforma per la pace. Sono l’arcivescovo cattolico, Diedonné Nzapalainga, il pastore capo Nicolas Guerekoyame-Gbangou e il presidente degli imam Omar Kobine Layama. Tre uomini, tre appartenenze religiose, un unico obiettivo: non fare precipitare il paese in un bagno di sangue.

«Chiarimmo fin da subito che non ci trovavamo assieme per discutere di dogmi o delle nostre divisioni. Il paese era in pericolo, volevamo unire le nostre competenze e intelligenze per salvare delle vite umane». Ci dice mons. Nzapalainga, già intervistato varie volte da MC (cfr. MC maggio 2021), che incontriamo durante una visita in Italia nel mese di maggio.

Il cardinale sta presentando la sua autobiografia, fresca di stampa: «La mia lotta per la pace. A mani nude contro la guerra in Centrafrica», scritto con la giornalista Laurence Desjoyaux, e pubblicato dalla Libreria editrice vaticana.

Il 15 dicembre 2012 i tre capi religiosi fanno una dichiarazione congiunta: «Il nostro paese è uno e indivisibile. È un paese laico. Nella sua storia non ci sono mai state guerre di religione. Siamo sempre vissuti in simbiosi, in armonia. Ci ha sempre caratterizzato l’ospitalità. Ora noi veniamo a sapere che ci si accanisce su esseri umani per ragioni religiose. Noi, leader religiosi, diciamo no! Che nessuno dica che questa è una guerra di religione!». Nasce quel giorno la Piattaforma delle confessioni religiose del Centrafrica, che avrà un ruolo importante per evitare conseguenze del conflitto ancora più disastrose.

Il gruppo inizia subito un lavoro di sensibilizzazione, utilizzando versetti del Corano e della Bibbia, per dimostrare ai fedeli che i libri sacri non vogliono la guerra e ripudiano la violenza.

Ci racconta il cardinale: «L’imam ha cercato nel Corano cosa si dice su pace, perdono e riconciliazione. Il pastore e io stesso lo abbiamo fatto con la Bibbia. Trovati i versetti, ci siamo messi intorno a un tavolo e li abbiamo messi insieme, per proporli ai nostri fedeli. Sono religioni monoteiste rivelate, e ci sono delle parole che ci uniscono. Questo l’ho vissuto sul terreno, nel cuore della crisi».

Una spirale perversa

I gruppi di Seleka, inizialmente, venivano da Sudan e Ciad, non parlavano la lingua locale, il sango, ma l’arabo. Nei territori che occupavano andavano dai musulmani, con i quali riuscivano a capirsi, e si facevano ospitare. Allo stesso tempo depredavano e compivano violazioni e massacri. In primo luogo, contro i non musulmani, ma non solo. Nel frattempo, giovani musulmani centrafricani, si univano ai guerriglieri per motivi di convenienza.

Cristiani e animisti si vedevano perseguitati. I musulmani locali, spesso costretti a ospitare gli invasori, venivano considerati collaborazionisti. Si stava innescando così la spirale della contrapposizione di religione. L’equilibrio tra le comunità di fede diversa in Centrafrica era saltato. Si trattava, nella realtà, di una strumentalizzazione da parte di gruppi, il cui unico obiettivo era prendere il potere. E così avrebbero fatto.

«Se ci siamo levati contro la visione confessionale del conflitto, è perché avevamo l’impressione che ci venisse imposta una narrazione che non corrispondeva alla sociologia religiosa del nostro paese. Da noi le famiglie di religione mista sono numerose, e fino a quel momento ciò non aveva mai posto problema», scrive il cardinale nella sua biografia.

Miliziani anti-Balaka davanti a casa distrutta dai Seleka a circa 300 km a Nord di Bangui, il 25 aprile 2014. AFP PHOTO / ISSOUF SANOGO

Riconciliazione sul campo

Ma il terzetto non si è limitato a questo. È andato a parlare con il presidente, all’epoca François Bozizé, e poi ha ideato e sperimentato una vera metodologia di riconciliazione.

«Andavamo insieme a parlare con i responsabili di istituzioni, con chi governa, per chiedere loro di disarmare i loro cuori dal desiderio di uccidere», ci racconta il cardinale.

La metodologia di riconciliazione è la seguente. Quando una città o una zona veniva presa d’assalto, vi si recavano fisicamente. Qui si dividevano e ognuno incontrava la propria comunità confessionale. L’obiettivo era ascoltare le ragioni e le recriminazioni di ogni gruppo.

In un momento successivo, si chiedeva a ogni comunità di mandare dieci rappresentanti e si organizzava un incontro delle tre delegazioni con la mediazione dei tre responsabili religiosi. Era la seconda tappa, chiamata ascolto e dialogo, la più delicata.

Nella città di Mobaye, nel Sud del paese, ad esempio, da mesi gli abitanti della città non si parlavano più e si consideravano nemici. Si trattava di mettere a confronto le diverse verità. «Noi responsabili religiosi abbiamo dovuto spingere i relatori a riportare tutto quello che era stato detto nei rispettivi gruppi – dice il cardinale -. Avevano paura». Cardinale, imam e pastore, infatti, dopo l’incontro, sarebbero andati via, e i rappresentanti dei diversi gruppi temevano ritorsioni. «Noi abbiamo insistito, si dovevano superare le parole di circostanza, in modo che la verità fosse manifesta».

Una mediazione di questo tipo è stata efficace a Mobaye, e anche ad Alindao, nel centro.

La terza fase del metodo si realizzava in un grande incontro al mercato, con tutti, in particolare con la presenza dei ribelli. E qui i tre capi religiosi parlavano, cercando di riportare al centro i valori etici di base, come non rubare, non uccidere. «A tutti mostravamo che c’è un’autorità sopra di loro, un’autorità che si chiama Dio. Loro erano potenti signori della guerra. L’avessero voluto avrebbero potuto ucciderci». In effetti nei territori occupati la legge la facevano loro. Era fondamentale incontrarli per il processo di riconciliazione.

In una fase successiva della guerra, quando altri miliziani, gli anti-Balaka, sedicenti cristiani, perseguitavano la popolazione, il terzetto ha potuto parlare direttamente anche con loro. «Nel nostro paese, dove tutti sono credenti, la nostra autorità di capi religiosi è più forte di quella degli uomini in armi».

«Lo scopo delle nostre trasferte era di creare uno spazio di parola perché venissero accolte tutte le sofferenze, si ricostituisse una memoria comune e una comunità, là dov’erano rimasti solo il comunitarismo e le divisioni. Le parole pronunciate e ascoltate in un contesto favorevole permettevano di interrompere il ciclo della vendetta».

Guerra civile

La guerra è continuata con la presa della capitale da parte dei gruppi Seleka, il 24 marzo 2013. Questi hanno proseguito le loro devastazioni, soprattutto a danno dei cristiani. In quel periodo il cardinale Dieudonné interveniva nei vari quartieri di Bangui, quando veniva a conoscenza di qualche attacco a chiese e strutture religiose: «Andavo soprattutto allo scopo di confortare, consolare e rassicurare. Erano i miei preti, i miei operatori pastorali, i miei fedeli, a essere più in pericolo». L’arcivescovo di Bangui si è preso in questo modo molti rischi, ma oggi ci dice: «Quando si fa una scelta, si va fino in fondo. La mia scelta di essere vescovo coincideva con quella di restare con il popolo tutto. Non volevo abbandonare gli altri per salvare la mia vita».

E sono venuti poi gli anti-Balaka, le milizie costituitesi in tutto il paese in reazione ai Seleka, ma anche queste frammentate e prive di ogni controllo. Hanno attaccato la capitale il 5 dicembre 2013 e volevano vendicarsi dei soprusi perpetrati dai Seleka. Monsignor Nzapalainga, sapendo che l’imam Kobin era in forte pericolo, perché i musulmani a quel punto erano i primi a essere nel mirino, è andato a prelevare lui e la famiglia e li ha ospitati per mesi nell’arcidiocesi. «Anche la nostra vicinanza si traduceva in una testimonianza».

Intanto, gruppi di Seleka erano presenti, e la guerra civile è dilagata, in capitale e nel resto del paese.

Papa Francesco a Bangui. (Photo by GIANLUIGI GUERCIA / AFP)

Il Papa a Bangui

Monsignor Nzapalainga ha organizzato una visita della Piattaforma delle confessioni religiose a Roma da papa Francesco. Lui, insieme all’imam Kobin e al pastore Nicolas, in udienza dal papa gli hanno chiesto di recarsi a Bangui, per portare la pace.

Papa Francesco ha deciso di aprire il Giubileo della Misericordia in Centrafrica. La data della visita è stata fissata per fine novembre 2015.

Fino a pochi giorni prima, checkpoint erano presenti sul percorso previsto per la papamobile. In città si sparava, in particolare nel quartiere Pk5, una specie di ghetto dove si erano isolati i musulmani della capitale.

Per Nzapalainga e i suoi, l’organizzazione della visita è stata complicatissima.

Il papa è arrivato il 29 novembre. Ha visitato prima i fratelli protestanti, poi ha aperto la porta Santa della Misericordia, alla cattedrale di Bangui, e infine ha compiuto una memorabile visita ai musulmani, al quartiere Pk5. Qui ha pregato con l’imam in moschea. Per il cardinale, è stato l’inizio della pacificazione del paese.

Monsignor Nzapalainga ricorda: «Umanamente, militarmente e diplomaticamente, non era possibile che il papa aprisse un giubileo a Bangui. Quello che ha fatto è stato un atto di fede. È venuto in un paese in guerra, dove alla vigilia si uccideva. La sua venuta ha avuto l’effetto di unire tutte le comunità. È andato dai protestanti, dai musulmani. Molti musulmani hanno preso coraggio e sono usciti dal loro quartiere.

L’apertura della porta della cattedrale è stata simbolica del fatto che eravamo chiusi in noi stessi, non volevamo accogliere, non volevamo ricevere, ascoltare l’altro. Era la guerra che ci paralizzava, ci chiudeva in una prigione. Il papa è venuto ad aprire la porta del nostro cuore, della fraternità e del perdono verso gli altri. Questo gesto è rimasto in noi, e oserei dire che Bangui è diventata capitale spirituale del mondo.

Noi, musulmani, protestanti e cattolici, ci siamo detti: “Questo è il messaggio di un uomo di Dio che ci invita a vivere la nostra spiritualità”. È stata l’inizio della salvezza per il popolo centrafricano».

Papa Francesco con l’Imam Nehedid Tidjani a Bangui il 30 Novembre 2015. (Photo by GIUSEPPE CACACE / AFP)

Ucraina, un’altra guerra

Chiediamo a monsignor Nzapalainga cosa pensa della guerra in Ucraina.

«Non auguro una guerra a nessuno e a nessun popolo. Quando arriva è la distruzione, la sofferenza, la morte. Dio ci ha creati per la vita e per vivere insieme. Ma ascolto sovente alla televisione dire che bisogna dare più armi agli ucraini perché si possano difendere; invece, non sento dire che bisogna toccare i cuori degli uomini e delle donne che hanno preso le armi affinché possano vedere gli altri come fratelli e sorelle.

Si dice, dopo la guerra ci sarà la pace, ma non possiamo invece economizzare vite e distruzioni, evitando la guerra? Uomini e donne di pace usano un linguaggio diverso da quello delle armi.

È fondamentale che i protagonisti possano vedersi in faccia, possano discutere, negoziare, trovare un compromesso. È così che avremo un inizio di soluzione». Nzapalainga porta a confronto la sua esperienza: «Io sono andato a discutere con i ribelli, con i nemici, per dire loro di deporre le armi. Bisogna trattare con i nemici. Mi auguro che succeda anche per questo conflitto, che si vada verso una situazione di pace».

Russi e rwandesi

Dopo un breve periodo di calma, a inizio 2016, durante il quale sono state realizzate le elezioni che hanno portato alla presidenza Faustin-Archange Touadera, i gruppi ribelli, riorganizzati sotto altre forme, hanno ripreso a combattersi. A fine 2016 il contingente francese dell’operazione Sangaris, presente dall’inizio della crisi, è stato ritirato.

A loro sono subentrati mercenari russi, come il gruppo Wagner e, infine, il Rwanda, con il suo esercito, sempre interessato a estendere la propria influenza nei paesi ricchi di minerali preziosi. Entrambi gli interventi sono stati sollecitati da Touadera, nel 2020 (cfr. MC maggio 2021, pag. 57). Il presidente è stato poi rieletto a gennaio 2021 per un secondo mandato. Nel frattempo la guerra è continuata, ma l’intervento di questi due attori esterni in appoggio all’esercito regolare ha ribaltato la situazione. Oggi il governo controlla l’80% del territorio, e il restante 20% è in mano ai ribelli. Prima era l’esatto contrario.

Il cardinale vede oggi qualche segno di speranza nel paese, ma ci conferma che si tratta di una situazione molto precaria.

Marco Bello

Archivio MC

Ribelli, mercenari ed eserciti, Marco Bello, maggio 2021.
Solo Dio può salvare il Centrafrica, Federico Trinchero, agosto 2018.




Come il fisico, così lo spirito

Testo e foto di Luca Salvatore Pistone |


Wat Tham Krabok è un monastero che si è specializzato in recupero di tossicodipendenti. Offre una terapia d’urto, fisica e spirituale. Molto rigorosa ma efficace. E così è frequentato da thailandesi e stranieri. E qualcuno finisce per fermarsi.

A 150 chilometri da Bangkok, nella provincia di Saraburi, poco distante dalla trafficatissima Phahonyothin Road, nascosto tra le montagne, si trova il tempio buddhista di Wat Tham Krabok. Dalla sua fondazione, avvenuta sessant’anni fa, quando la Thailandia era in pieno boom di consumatori di oppiacei, il santuario funge da centro di riabilitazione per tossicodipendenze. La terapia cui i pazienti vengono sottoposti dai monaci include trattamenti poco ortodossi, primo tra tutti la «cerimonia del vomito».

All’ingresso del tempio si trova un piccolo altare votivo pieno di fiori e piccole luci, un omaggio alla fondatrice dell’ordine monastico Tudong, una principessa thai vissuta il secolo scorso che dedicò tutta la sua vita alle opere caritatevoli. A Wat Tham Krabok tutto è perfettamente organizzato. Coloro che vogliono essere ammessi al sacro recinto devono compilare a penna un modulo dettagliato dichiarando il loro stato di dipendenza da sostanze nocive e, quindi, impegnandosi ad accettare ogni regola imposta. Lo stesso atto di abbandono degli abiti civili ha un significato simbolico e religioso: spogliandosi, si rinuncia a quanto arriva dal mondo esterno per entrare in una differente dimensione psichica prima che fisica.

Altrettanto significativo e simbolico è il fatto di mettersi a gattoni sulla grata di una fognatura, con un secchio pieno d’acqua accanto e un misurino contenente un miscuglio dal fetore insopportabile, per rigettare tutto ciò che si ha in corpo. Eee è al suo quarto giorno e ancora non si è abituato a tutto ciò. Nei primi cinque giorni di riabilitazione a Wat Tham Krabok, alle tre in punto del pomeriggio, i pazienti devono prendere parte alla cosiddetta «cerimonia del vomito»: vomitare a oltranza espellendo tutte le tossine dopo aver ingerito un intruglio di erbe amare e semi locali fatto dai monaci la cui ricetta è segretissima. Se il beverone non è sufficiente a indurre il rigetto, il soggetto si infila due dita in gola o beve acqua fino a esplodere. Il tutto, alla presenza di un vasto pubblico di monaci e pazienti che applaude alla fine del rituale.

Thailandia, monastero disintossicazione. Foto Luca Salvatore Pistone

La storia di Eee

Ventiquattrenne, dipendente dalle metanfetamine, Eee è uno degli ultimi arrivati a Wat Tham Krabok. «Lavoravo al mercato dei fiori di Bangkok – racconta mentre pulisce dalle foglie uno dei cortili del tempio – e le cose non mi andavano male. Poi ho cominciato a fare uso di metanfetamine e di conseguenza ad avere allucinazioni durante l’orario lavorativo. Sono stato licenziato ed è stato allora che mi sono deciso a venire qui. Non mi sono ancora abituato a tutte queste strane pratiche».

«Il miscuglio della cerimonia del vomito – spiega Richard, un monaco neozelandese da diversi anni a Wat Tham Krabok – scatena fortissime e incontrollabili contrazioni dei muscoli intercostali e addominali, provocando una sensazione di dolore e di soffocamento. I muscoli della parete dello stomaco si contraggono spasmodicamente e i contenuti vengono espulsi in una irrefrenabile crisi di vomito. Questa crisi dolorosa e provocata non è tesa solo alla liberazione fisica da ogni impurità residua dovuta agli stupefacenti, ma anche a un rifiuto psichico della dipendenza. Attraverso l’espulsione violenta, il paziente raggiunge annullamento fisico e psichico cadendo in uno stato di prostrazione che gli dona una sensazione liberatoria». La permanenza a Wat Tham Krabok è di almeno due settimane, senza la possibilità di ricoveri successivi. «Questa non è una clinica a porte girevoli» sono soliti ripetere i monaci. Alloggi e trattamenti sono gratuiti. Di tasca loro i pazienti devono esclusivamente pagarsi il vitto, che può essere consumato solo una volta al giorno alle sette di mattina. La sveglia è alle quattro e mezza mentre alle otto di sera si spengono le luci. Nel complesso del tempio è vietato fare entrare sostanze stupefacenti e alcol, come sono vietate le visite di parenti e amici. Ogni paziente deve indossare l’uniforme fornita dai monaci, un camicione di colore bordeaux con la scritta «vincitore» sulla schiena. Niente telefoni cellulare né tablet. Gli unici svaghi concessi sono un pallone da calcio sgonfio, un tavolo da ping pong malconcio, qualche chitarra scordata e un televisore sintonizzato su uno dei canali nazionali thailandesi. È proibito mettere piede fuori dal perimetro del tempio: in più occasioni i monaci hanno scovato piccoli spacciatori, nascosti tra i cespugli, intenti a offrire droghe ai pazienti.

Thailandia, monastero disintossicazione. Foto Luca Salvatore Pistone

Spiritualità e terapie

Nella cura delle tossicodipendenze, Wat Tham Krabok racchiude un misto di spiritualità e terapie fisiche di forte impatto. Quello del vomito è il trattamento più invasivo, ma la terapia dei monaci buddhisti non si limita a esso. Il primo giorno il nuovo arrivato viene sottoposto alla cerimonia del sajta, il sacro voto di astinenza. Alla presenza di un monaco anziano, i pazienti giurano solennemente di rinunciare a ogni sostanza stupefacente. Il religioso scrive su dei foglietti il nome e la promessa dei novizi e li inserisce in un braciere che accende con dei lunghi fiammiferi. Al temine di una nenia tra il canto e la preghiera, il monaco porge il braciere a una statua del Buddha. È così che il voto diventa sacro – chi lo infrange non potrà più mettere piede a Wat Tham Krabok – e il sajta si conclude.

Ancora, la «cerimonia della sauna». Seguiti a vista dai monaci, i pazienti escono dall’area dormitorio e si recano all’area sauna che è composta da due stanzini che hanno una tenda nera in cotone pesante come porta. Il calore al loro interno è prodotto da un forno a legna situato sul retro della struttura. Ammassati l’uno contro l’altro, i pazienti devono realizzare tre sessioni di sauna di cinque minuti l’una, intervallati da pause di due minuti durante le quali è possibile trovare sollievo con dell’acqua gelata.

«La temperatura all’interno degli stanzini – dice stremato Peter, svedese al penultimo giorno di ricovero – sfiora i cento gradi e non sono rari i casi di mancamenti. Io stesso la prima volta sono svenuto. I monaci mi hanno rianimato con dei sali. Gran brutta storia… Bisogna fare dei sacrifici per rimettersi in forma e io sento di essere ormai a buon punto. Non avrei mai detto che uno stile di vita così spartano avrebbe risolto i miei problemi».

Non molto distante dalla zona sauna c’è un rudimentale laboratorio di artigianato. «Questa officina – racconta Phra Kru Vichit, uno dei monaci anziani – è un altro dei nostri fiori all’occhiello. Insegniamo ai nostri pazienti a creare opere d’arte servendosi di oggetti riciclati».

Thailandia, monastero disintossicazione. Foto Luca Salvatore Pistone

Storia e numeri

Wat Tham Krabok nacque nel 1959. L’idea di rendere un tempio buddhista un luogo di disintossicazione fu – precisa Phra Kru Vichit – «una scelta dettata dal fatto che a quei tempi il maresciallo Sarit Thanarat (primo ministro della Thailandia dal 1957 al 1963 in seguito ad un colpo di stato da lui attuato, nda) aveva lanciato una feroce campagna contro le coltivazioni di oppio. Migliaia di oppiomani ed eroinomani vennero giustiziati e così i monaci si sentirono in dovere di aiutare queste persone».

Il centro raggiunse una grande popolarità nel 1997, quando la Thailandia assistette a un boom della dipendenza da metanfetamine. La terapia prevede anche mezzora al giorno di meditazione guidata da un monaco. Di norma presso Wat Tham Krabok ci sono in cura una trentina di persone alla volta, ma è capitato spesso di superare quota cinquanta. Il tempio non riceve sovvenzioni statali e va avanti solo grazie agli sforzi dei suoi quasi duecento monaci.

I numeri di Wat Tham Krabok sono davvero impressionanti. Dalla sua fondazione, oltre 110mila tossicodipendenti sono stati presi in cura. Continua Phra Kru Vichit: «Oggi il novanta per cento dei nostri assistiti completa il programma e il sessanta per cento per tutto l’anno successivo alla terapia rimane lontano dalle droghe. Per noi il tossicodipendente non è un semplice malato che necessita di cure fisiche ma è essenzialmente un uomo che deve ritornare alla pace attraverso la rinuncia, la purificazione e il sacrificio. Abbiamo avuto molti pazienti che dopo avere seguito il trattamento hanno deciso di farsi monaci, circa il venti per cento del totale. Il fatto che molti nostri monaci siano ex pazienti crea una certa empatia con i nuovi arrivati».

A tal proposito, Phra Kru Vichit convoca un altro monaco anziano con braccia e petto coperti da tatuaggi. Il religioso chiede di celare il suo nome. «Sono qui da trent’anni – dice – e posso dire che Wat Tham Krabok mi ha salvato la vita. Da ragazzo non ho mai lavorato e mi facevo di ogni cosa. Una notte, durante una violentissima retata della polizia, mi salvai per un pelo. Fu allora che mia madre mi supplicò di venire al tempio. Mai scelta fu più giusta. La nuova dimensione conosciuta grazie ai monaci mi ha fatto capire che un nuovo corso era possibile. Da allora non ho mai lasciato i miei confratelli. Oggi, oltre a occuparmi della mensa, aiuto i nuovi arrivati ad ambientarsi al meglio. Capisco perfettamente cosa hanno passato».

Il monastero tratta un numero sempre maggiore di pazienti dipendenti dallo ya-ba, un mix potentissimo di metanfetamine e caffeina. Lo ya-ba, il cui significato in lingua thai è «droga della follia», ha incontrato larga diffusione non solo in Thailandia ma anche al di fuori del territorio asiatico.

Thailandia, monastero disintossicazione. Foto Luca Salvatore Pistone

Pazienti dall’estero

I portentosi risultati del tempio attirano ormai da anni anche pazienti dall’estero, soprattutto da Stati Uniti, Australia ed Europa settentrionale. Danielle, inglese, è all’ultimo giorno di ricovero a Wat Tham Krabok per alcolismo, dice: «Ho scoperto questo posto meraviglioso perché avevo letto in rete che Pete Doherty (il noto musicista britannico leader della band punk Libertines, nda) ci era stato tempo fa senza però resistere alla terapia oltre il terzo giorno. Mi sono informata e alla fine ho trovato molte critiche positive. All’inizio è stata davvero dura ma, trascorsi i primissimi giorni, ho cominciato ad abituarmi. È stato solo dopo aver espulso tutto il marcio che avevo dentro attraverso le sessioni di vomito e sauna che ho davvero apprezzato questo luogo di pace. Ho potuto riscoprire me stessa, rinascere, ma senza un reale sforzo personale non si va da nessuna parte. Adesso voglio solo rimanere pulita e proseguire il mio percorso interiore».

«Ci si prospetta una nuova vita – le fa eco Andrew, statunitense, al tempio per la sua dipendenza da metanfetamine e cocaina -. Devo ringraziare mia moglie che ha trovato questo centro navigando su internet e mi ha convinto a venirci. È stata un’esperienza meravigliosa, più intensa di quelle provate nei centri di disintossicazione conosciuti prima nel mio paese. Ho imparato molto, ho visto molto. Sono stato in grado di capire chi sono davvero. Non sono buddhista, ma ritengo che la meditazione, la disciplina e la semplicità del tempio mi abbiano fatto elevare a uno stato superiore».

A contribuire alla straordinarietà di Wat Tham Krabok è il complesso di statue del Buddha all’ingresso del santuario. Sculture fatte di un composto di ossidiana e altri minerali meno nobili, che vanno dai venti ai quaranta metri di altezza e che sono state interamente fabbricate dai monaci. «Lasciano senza fiato, vero? – riprende la parola Danielle – Io rimango estasiata ogni volta che le osservo. Pensare che delle persone così pacate possano arrivare a fare tanto è strabiliante. Sono uomini unici questi monaci. Sono stati in grado di aiutarmi, riuscendo a fare qualcosa in cui molte cliniche pubbliche e private europee avevano fallito».

Luca Salvatore Pistone

Thailandia, monastero disintossicazione. Foto Luca Salvatore Pistone




La Cina e la religione dell’occidente


Indice

Pechino e il dipartimento «Affari religiosi».
Da Mao a Xi Jinping: dalle campagne alle città.
La potenza cinese nel 2019.
Partire dai proverbi
Anno 2018: sulle orme del viaggio del 1605 da Kaifeng a Pechino.
L’imperatore Wanli e l’incarico ad Ai Tian.

I protagonisti

Religione, un termine senza ideogramma.
Incomprensioni e conflitti
Una questione non solo «romana».
Dal colonialismo occidentale all’invasione nipponica.
L’ospite non gradito.
L’incontro e il dialogo.

Note culturali

Cina e religione.
Dalla controversia sui riti alla Chiesa patriottica.
Vescovi «illegittimi e controrivoluzionari»?.

La Cina in Italia.

Appendice.

 


Testi di Vittoria Pollini, dossier a cura di Paolo Moiola


Il cielo sopra Pechino

Cristianesimo e fede nel Paese di mezzo

Chinese President Xi Jinping (C) – (Xinhua/Wang Ye)

La religione, dall’Impero al Partito

Cina e Santa Sede sono a un crocevia dove si decide il futuro del cattolicesimo nell’«ex Impero celeste» e dell’umanità cinese con i suoi legami sociali, politici, pedagogici. Il 22 settembre 2018 è stato firmato un «Accordo provvisorio» (e non pubblico) per introdurre elementi stabili di collaborazione e per il riconoscimento dei vescovi. Un cammino iniziato più di 400 anni fa su vie di conciliazione tentate da alcuni uomini di pace come il missionario gesuita Matteo Ricci (Li Madou) e il mandarino ebreo Ai Tian. Il loro messaggio parla all’oggi partendo da un passato che non va dimenticato. Anche dagli stessi cinesi emigrati in Italia.

Il tema al centro di questo dossier è il dialogo tra Occidente (in particolare, la Santa Sede) e Cina. Dialogo che, nei secoli XVI e XVII, sarebbe potuto essere fruttuoso se non fosse scivolato su fraintendimenti e interruzioni a causa di reciproche diffidenze.

Matteo Ricci, missionario gesuita del 1600, durante il suo viaggio in Cina incontrò a Pechino il funzionario mandarino Ai Tian, di religione ebraica, che aveva l’incarico di verificare l’identità monoteista di Li Madou (nome cinese del Ricci), soprattutto la sua non appartenenza a religioni allora bandite dall’Impero. Con intelligenza e umiltà entrambi compresero che la via per il riconoscimento della reciproca identità religiosa avrebbe facilitato l’amicizia fra Oriente e Occidente.

Nota per i lettori: per completezza, per desiderio dell’autrice, ma anche per motivi di mera curiosità intellettuale, in questo dossier abbiamo utilizzato gli ideogrammi cinesi; accanto a essi il lettore trova la traslitterazione in pinyin e, infine, la traduzione in lingua italiana. Facciamo notare che, al contrario delle nostre parole, tra gli ideogrammi cinesi non si utilizzano spazi.

Pechino e il dipartimento «Affari religiosi»

Va poi ricordato che i rapporti tra Santa Sede e Cina, dall’Ottocento a oggi, hanno attraversato alterne vicende: dalle guerre dell’oppio al protettorato francese delle missioni, dall’invasione giapponese della Manciuria al massacro di Nanchino, dalla Rivoluzione culturale di Mao alla rivoluzione della soft power dell’attuale presidente Xi Jinping.

In alcuni proverbi di saggezza orientale (chengyu, in cinese) si legge che la pace è possibile solo se si tiene conto delle difficoltà, delle possibilità di scambio e di intesa culturale e linguistica fra le istituzioni religiose e governative e anche fra le persone comuni. È in questa prospettiva di apertura alla lingua dell’altro che la gente, le comunità, le persone tengono vivo il valore della diversità nel dialogo.

In Cina, oggi più che mai, è vivo il dibattito fra autorità cinesi – responsabili dell’«Associazione patriottica cattolica cinese», fondata nel 1958, che non riconosceva l’autorità del papa e controllata dall’ufficio degli «Affari religiosi» gestiti dal «Dipartimento di lavoro del Fronte unito», a sua volta dipendente dal «Comitato centrale del Partito comunista» – e chiesa cattolica «sotterranea» fedele al papa, non riconosciuta dallo stato e quindi clandestina.

Il 22 settembre 2018 è stato firmato un «Accordo provvisorio sulla nomina dei vescovi». «Con questo atto […] le parti hanno concordato il metodo di una soluzione condivisa: la Santa Sede accetta che il processo di designazione dei candidati all’episcopato avvenga dal basso, dai rappresentanti della diocesi anche con il coinvolgimento dell’Associazione patriottica, mentre il governo cinese da parte sua accetta che la decisione finale, con l’ultima parola sulla nomina, spetti al Pontefice e che la lettera di nomina dei vescovi sia rilasciata dal Successore di Pietro»1. L’accordo pone le basi per risolvere l’annosa questione delle nomine episcopali delle circa 150 diocesi cinesi e sana la situazione di sette vescovi non ancora riconosciuti da Roma, anche se la garanzia di una vera libertà religiosa in Cina è ancora molto lontana.

Ma c’è anche un altro soggetto da considerare in questa storia. Si tratta della società cinese e anche della stessa umanità ( = rén, termine polisemantico: umanità, persone, gente, popolo, società) cinese oggi descritta dagli antropologi come amante del cambiamento, obbediente al Partito, ma anche profondamente e radicalmente operativa sul piano religioso: al proverbiale senso pratico della rén, oggi, si unisce un nuovo ed inaspettato desiderio di sognare e di ricerca di libertà spirituale.

Quella cinese è una società, una politica, un’economia non senza contraddizioni. È una società complessa, fortemente centralizzata, organizzata in uno stato che si estende su una superficie di oltre nove milioni di chilometri quadrati: il terzo più grande al mondo. Uno stato grande come un continente. E compatto. Anche quando si tratta di pensare, ascoltare, parlare. E di scrivere.

Da Mao a Xi Jinping: dalle campagne alle città

L’attuale presidente Xi Jinping ha intrapreso una riforma di apertura e sviluppo economico fondato sulle kāifāqū zone di sviluppo2.

Si tratta di città come Tianjin e Shanghai dove sono state introdotte imprese di proprietà straniera, istituzioni scientifiche, zone di base per sviluppare la collaborazione con i paesi esteri. Un elemento della riforma è infatti la strategia del soft power e del trasferimento tecnologico nelle aree di sviluppo: più che l’investimento nella sicurezza e nella forza militare, la diplomazia pubblica, la cultura popolare ed economica. Un secondo elemento è la percezione della povertà: chi è povero, oggi, in Cina è considerato sostanzialmente «un tale che non ha saputo riscattarsi, colui che non ce l’ha fatta ad ottenere l’assistenza sanitaria (che è a pagamento), colui che non ha accesso alla tecnologia»3 e che non può permettersi di entrare nei «grandi quartieri supermercato», che improvvisamente sono aperti nelle metropoli. Quando un uomo chiede l’elemosina per pagare l’operazione al cuore della moglie attaccata ai tubi della flebo, riceve indifferenza. Gli abitanti di questo ventunesimo secolo, infatti, non sono solo i nativi digitali che marciano verso il domani scintillante della robotica con lo smartphone in mano. Sono anche questi poveri, i quandilong, che provengono della campagna che oggi chiedono rifugio alla città4, rovesciando il mito dell’era maoista che incoraggiava invece esodo verso le campagne. Durante la «Rivoluzione culturale», il trasferimento forzato degli intellettuali verso le campagne fu imposto da Mao con un duplice scopo: da un lato modernizzare l’attività agricola – la Cina era un paese rurale – all’interno di un progetto per il quale la classe contadina doveva diventare indiscusso motore della rivoluzione, e dall’altro conformare sempre di più l’intellighenzia borghese all’ideologia del Pcc – Partito comunista cinese -, un’intellighenzia dotata fino ad allora solo di un’istruzione libresca che si doveva attrezzare con l’esperienza del lavoro fisico nei campi. Gli intellettuali erano concepiti esclusivamente in questo modo e solo così potevano diventare lo strumento di diffusione della filosofia dell’educazione secondo Mao5. Le campagne erano al cuore della propaganda maoista. Oggi i poveri che necessitano di «una rivoluzione», non sono più in campagna. Oggi sono gli anziani esiliati dal sentimento della pietà filiale di cui la società post-moderna si vergogna; sono coloro che sono scappati dai villaggi e che vivono ai bordi delle metropoli.

Per strada, oggi, è difficile resistere alla smemoratezza. L’individuo cinese, uomo o donna che sia, considerato innanzitutto un’unità lavorativa nella Cina comunista, catapultato poi nella frenesia dell’apertura economica inaugurata da Deng Xiaoping negli anni Ottanta, si dimentica della storia e «come il bambino è destinato a prendere la forma spirituale e intellettuale che gli darà l’ambiente e l’educazione. Tutto lo sforzo del Partito comunista cinese è stato quello di creare una totale smemoratezza nei cinesi»6.

Religioni in Cina

La potenza cinese nel 2019

La Cina di oggi è un paese con cui l’Italia (grande come la sola provincia di Zhejiang, luogo da cui – come vedremo – provengono molti migranti cinesi), deve imparare ad interfacciarsi.

È una nazione sempre più simile – per abitudini sociali – all’Europa e all’America: è il paese in cui non si ha più fretta di sposarsi e di avere figli; in cui, dal 2016, si decide di investire nelle riserve auree e in altri metalli preziosi più che nei titoli di stato e nelle valute estere (troppo soggette a fluttuazioni commerciali repentine). Addio, quindi, al trattato di Bretton Woods7, ed anche addio allo strapotere del dollaro e di altre monete estere. Sono la Bank of China e l’Hsbc Bank che decidono giorno per giorno il tasso di interesse nel cambio. Ed è consigliabile, per chi volesse fare il turista in Cina, imparare a utilizzare «We-chatPay», un’applicazione dello smartphone, con cui si effettuano i pagamenti mediante ricarica,  anche solo per affondare i kuaizi (le bacchette cinesi) nella fumante ciotola di jiaozi (ravioli) da acquistare in rosticceria.

La Cina è oggi economia, impresa, turismo (si prevede che, entro il 2030, diventerà il primo paese al mondo per frequentazioni turistiche). È il paese in cui il partito unico resta il Pcc, ma in cui tra la gente si respira una vena spontanea di democrazia: persone sempre disposte all’autocritica, che non giudicano in base a categorie professionali e individualistiche il valore del lavoro, ma in base alla qualità della tecnologia e al livello di cooperazione; il paese dell’educazione secondo i principi confuciani, non della religione trascendentale. In Cina le università si inseriscono nella normalità delle strade, davanti ai parchi, nei pressi degli enormi parcheggi dei supermercati, come parte dell’habitat urbano: 34 sono i campus cinesi che si posizionano tra le prime 500 università al mondo per qualità di certificazioni e rapporto laurea-occupazione.

È il paese dove la società matriarcale delle etnie Moso e Na non solo sopravvive tra lo Yunnan e il Sichuan8, ma vive serenamente come depositaria di tradizioni. Qui la donna è legittima ereditaria di tutti i beni di famiglia. È una società, in queste due regioni della Cina, nella quale la Natura è intesa al femminile e dove non esiste una parola per la violenza di genere. Le donne godono di particolari diritti nella sfera sentimentale, sono svincolate dagli obblighi del matrimonio, vengono valorizzate come madri e sono guida della società; anche durante la politica del figlio unico che imponeva per legge l’aborto soprattutto nel caso di figlie femmine.

Ad oggi la Cina è la più grande produttrice di giochi online, ma anche il primo paese che sta studiando un sistema per limitare ad 1-2 ore l’uso-abuso di videogiochi per minori. È il paese che sta tentando una coesistenza imprenditoriale con l’acerrimo nemico, il Giappone. A ottobre 2018 la visita ufficiale di Shinzo Abe nella Repubblica Popolare, dopo quasi tredici anni, ha evidenziato che l’interdipendenza commerciale e di impresa fra i due paesi è di altissimo livello, anche se manca la fiducia politica reciproca.

È giunta l’ora, ormai, in cui anche l’Europa, l’Italia, l’Occidente distratto imparino a farsi delle domande sui protagonisti di questo scenario Cina-Giappone, in una prospettiva tutt’altro che lineare, attenti all’attualità dei processi, e non semplicemente alla cronologia di fatti. Perché l’Occidente possa pensare il futuro delle relazioni con la Cina, però, occorre che ripensi a quelle passate.

Partire dai proverbi

Il chengyu è un’espressione proverbiale idiomatica composta di quattro ideogrammi. Nel chengyu, che usa la metafora e che può apparire linguaggio criptico, c’è sempre un significato pratico.

Il chengyu cinese 安不忘危 (Ān bù wàng wéi) «Vi può essere pace solo se non ci si dimentica dei pericoli»,può essere una utile chiave di lettura degli scenari che si aprono nel 2019 per le relazioni tra Cina ed Occidente. La pace va conquistata. Non è scontata, non è un regalo dell’Impero Celeste o una concessione dell’Occidente: per custodirla è necessario mettersi in gioco da entrambe le parti, tenendo conto dei rischi.

La costruzione di un legame fra Cina e Occidente, la 关系, la guānxì, richiede un interlocutore dell’ex Impero Celeste che non sia solo la Santa Sede. Per cogliere i segni dell’epoca che stiamo vivendo, può essere utile un viaggio indietro nel tempo per ritrovare così quell’incontro fra il gesuita Matteo Ricci e il mandarino Ai Tian, vissuti oltre quattrocento anni fa. Un incontro gravido d’insegnamenti utili per noi oggi.

Anno 2018: sulle orme del viaggio del 1605 da Kaifeng a Pechino

Allo scalo nella capitale Pechino devi scendere con i bagagli, fare il controllo, compilare il cartoncino giallo senape dove dichiari – come straniero – i tuoi dati, la tua nazionalità, il motivo della tua permanenza, il luogo in cui alloggerai.

Non è diretto l’imbarco dei bagagli da Pechino per qualsiasi altra città cinese. Figuriamoci se questa si trova nello Henan, estremo Nord Est del Paese di mezzo. E fin qui nulla di nuovo.

Sul retro del cartoncino, si trovano invece le «important notices», gli avvisi importanti. Come straniero (= 外国人 = Wàiguó rén) nella traduzione in inglese si diventa un «alien». A Pechino gli «aliens» devono registrarsi entro 24 ore (al massimo 72 ore, se si è in zone rurali). Se gli aliens non alloggiano in hotels, bed and breakfast o altro devono al più presto registrarsi alla stazione di polizia. Non possono viaggiare o muoversi (si intende anche a piedi) sprovvisti di passaporto e permesso.

Zhengzhou è la città più importante dello Henan. È qui che, all’ingresso della chiesa, si può leggere: «È vietato garantire l’educazione religiosa cattolica ai minori di 18 anni». Il giorno di Pasqua del 2018 la polizia ha fatto irruzione durante la celebrazione e ha ordinato ai bambini di uscire dalla chiesa. Il vescovo di Zhengzhou era allora riconosciuto ufficialmente solo dalla Santa Sede ma non dal governo. E tantomeno dal Pcc.

Da Zhengzhou, poi, si prende il treno per Kaifeng: sessanta chilometri di ferrovia ad alta velocità. Kaifeng, situata nello Henan, la provincia attraversata dal Fiume Giallo, è una cittadina postmoderna di oltre quattro milioni di abitanti. Fu capitale durante la dinastia Song. All’epoca, Kaifeng era una splendida città fortificata con una forte presenza ebraica.

A Kaifeng, nel 1605, iniziò la storia di incontro e dialogo fra il cinese ebreo Ai Tian, funzionario mandarino dell’impero e il cattolico italiano Matteo Ricci, teologo, cartografo che difese i riti degli antenati seguendo l’insegnamento di Confucio.

Per recuperare una riflessione sul dialogo Cina-Occidente, iniziamo dalla loro storia.

L’imperatore Wanli e l’incarico ad Ai Tian

La ragione per la quale, nel 1605, Ai Tian, ebreo cinese di Kaifeng e funzionario amministrativo, intraprese il viaggio fu l’incarico istituzionale di verificare l’identità religiosa di Matteo Ricci. Un incarico che nessuno prima – all’interno della comunità di Kaifeng – si sarebbe mai sognato di ricevere dall’Impero Centrale.

A quell’epoca, 中国 (pronuncia secondo pinyin: zhōngguó = Paese di mezzo)9, lo «stare in mezzo»  (termine composto di = zhōng = centro, mezzo e di = guó = paese, nazione) della Cina imperiale era anche «uno stare amministrativo», non ancora repubblicano-popolare.

L’autorizzazione a risiedere in Cina era concessa solo ai membri di religioni dell’Occidente riconosciute dall’Impero, quali erano cristianesimo, ebraismo, islam. Ai Tian doveva incontrare Matteo Ricci per conto dell’imperatore Wanli (1563-1620) e verificare l’effettiva appartenenza ad una delle religioni ufficialmente riconosciute come forestiere e autorizzate a convivere con il confucianesimo. Il viaggio fu da «ordalia»10 poiché non esistevano indizi sull’identità di Ricci. Occorreva «affidarsi» alle sorti, occorreva rischiare. L’unico modo per verificare che Ricci non fosse legato a religioni malviste dall’impero era quello di incontrarlo e vagliare la sua fede monoteista. Matteo Ricci (Li Madou) era, prima di tutto, per Ai Tian, un uomo europeo: girovago, forse monoteista, non confuciano.


I protagonisti

Le dinastie imperiali

  • L’imperatore Kangxi, al potere dal 1661 al 1722

    221-207 a.C. QIN SHI HUANGDI – L’imperatore che pose fine al periodo degli Stati combattenti e che realizzò il sogno di fondare il primo Impero Celeste.

  • 618-907 d.C. Dinastia TANG – È la dinastia per la quale assunse maggior rilievo il ruolo dei mandarini (questo termine ha un’origine portoghese). I mandarini sono ufficiali, consiglieri, capi amministrativi addetti al controllo del potere centrale su una vastità territoriale che è continentale. Per diventare mandarino, occorreva superare degli esami.
  • 960-1279 Dinastia SONG – I Song istituzionalizzarono il sistema degli esami e il meccanismo di selezione di tutti i funzionari amministrativi. Istituirono anche la fasciatura dei piedi. Furono anni di grande prosperità in cui fiorì l’arte, la cultura, la tecnologia. L’epoca della dinastia Song fu caratterizzata anche dalla guerra. Per brevi periodi, Kaifeng fu capitale in modo intermittente a causa di questi conflitti. Nel 1126 Kaifeng cadde nelle mani dei Jurchen (Mongoli), prima identificati come nemici invasori non cinesi che spinsero i Song a stanziarsi a Sud, con capitale Linan, attuale Hangzhou.
  • 1264-1368 Dinastia YUAN – Nel 1258 Gengis Khan invase il territorio dei Song Meridionali, occupò Hangzhou e distrusse definitivamente i Song.
  • 1368-1644 Dinastia MING – Nel 1555 un esploratore portoghese, Duarte Barbosa, iniziò a pubblicare in Occidente alcuni documenti in cui appariva per la prima volta il termine Cina. Ufficialmente nel Trattato di Nerchinsk (1689) viene utilizzato questo termine dalla sua derivazione persiana o sanscrita. Fu alla corte dell’imperatore Wanli della dinastia Ming che Matteo Ricci rimase ammirato dalla sapienza dei mandarini ed anche dal sistema degli esami che era meritocratico. Ricci proveniva infatti da un’Europa dove i titoli dei principi venivano ereditati di padre in figlio, e non certamente seguendo il criterio di sensibilità per la scienza e di rispetto dell’intelligenza. Dell’incontro avvenuto nel 1605 a Pechino fra Ai Tian e Matteo Ricci non rimasero molte tracce anche a causa dell’alluvione del Fiume Giallo nell’anno 1642.
  • 1636-1912 Dinastia QING – Fu l’ultima dinastia della Cina imperiale. Il più noto tra i suoi imperatori fu Kangxi che governò dal 1661 al 1722.

Ai Tian, l’ebreo

Ai Tian (艾田), mandarino di Kaifeng. Poco si conosce di questo funzionario amministrativo dell’Impero Celeste. Era ebreo e il suo compito era di verificare l’identità monoteista di Matteo Ricci, la sua non appartenenza agli «adoratori della Croce» (*), una setta che aveva sostenuto l’invasione mongola nei secoli precedenti. L’incontro istituzionale fu un dialogo fra persone e la fiducia che ne sortì permise a Ricci di ottenere la stanzialità come missionario straniero nell’Impero. Fu Ai Tian, fu lui che avvisò il padre missionario gesuita della presenza degli ebrei a Kaifeng, nello Henan. Nei suoi appunti Matteo Ricci lo descrisse così: «Un giudeo di Natione e professione» che avrebbe dovuto verificare qual era la legge di provenienza di Li Madou. Ai Tian non si dovette augurare l’appartenenza di Ricci alla legge del popolo invasore. Piuttosto, dal suo primo incontro, si convinse che questo missionario scienziato venuto da lontano doveva proprio essere della stessa legge mosaica.

Quando – era il 1605 – Ai Tian fece visita a Matteo Ricci, nella capitale che era stata trasferita a Pechino almeno trecento anni prima anche a causa dell’invasione dei Jurchen, gli disse che a Kaifeng c’erano degli «adoratori della Croce». Il segno della Croce proteggeva i bambini, benediceva le bevande e il cibo. Un rito di protezione diffuso soprattutto nel Sichuan e nel Sud della Cina. Furono i Jurchen, i Mongoli che invasero Kaifeng e che avevano conosciuto il cristianesimo di Nestorio, a portare il culto degli adoratori della Croce.

La storia di Ai Tian – funzionario sconosciuto, mai citato nei libri di storia occidentale – è raccontata nel Prologo di «Mandarins, Jews and Missionaries – The Jewish experience in the Chinese empire» di Michael Pollak, con i contributi di Timoteus Pokora (Repubblica Ceca) e di René Goldman (Canada).

(*) Il loro culto è il cristianesimo nestoriano. I Nestoriani credono che Gesù Cristo sia due persone; credono che Maria sia solo Madre della Persona Cristo (Christotókos), negano che sia Madre del Figlio di Dio (Theotókos). Tale religione era pertanto «straniera» per i cinesi altrettanto quanto l’ebraismo e l’islam. Tuttavia gli adoratori della Croce furono avvertiti con timore perché furono i Mongoli a trasportare dalla Persia il culto nestoriano. Il pericolo di un ritorno degli invasori mongoli non era sparito durante i Ming. Da non dimenticare che, quando in Cina c’erano i Mongoli della dinastia Yuan (1264- 1368), il papa tentò più volte di usarli per un’alleanza con i crociati e vincere sui musulmani. Senza risultato.

Matteo Ricci, il gesuita

Matteo Ricci (玛窦 = Li Madou) nacque nel 1552 a Macerata. Iniziò la scuola dei gesuiti all’età di nove anni. I primi cristiani ad arrivare in Cina furono i nestoriani che, tra il 365-980 d.C., avevano fondato alcune comunità. Poi arrivarono i francescani dal 1245 -1368, periodo in cui la Cina subì l’invasione dei Tartari. Non restano però tracce significative di questi passaggi. La Compagnia di Gesù fece il suo primo ingresso in Cina nel 1552, con il suo fondatore, Francesco Saverio.

Ricci iniziò il suo viaggio nel 1598 verso Pechino ma non vi arrivò subito. Rimase a Nanchino fino al 1601. Fu in quell’anno che venne invitato a Pechino, alla corte dell’imperatore Wanli, dinastia Ming.

Matteo Ricci non entrò in Cina con un visto a scopo missionario. Sin dall’inizio comprese che, per introdurre il cristianesimo nel grande «Paese di mezzo», non bastava evangelizzare secondo i metodi tradizionali di missione.

Ben presto avrebbe dovuto imparare a «stare» dentro l’impero celeste, conoscere le tradizioni, i riti. Solo risiedendo stabilmente in Cina, sarebbe stato possibile il dialogo con una tradizione di simboli e di ideogrammi che non si possono semplicemente scomporre, ma che si devono comprendere per aprire il pensiero di volta in volta a sintesi più alte, nella traduzione. Matteo Ricci morì a Pechino nel 1610.

 

Martino Martini, un altro missionario gesuita in Cina

Gesuita, storico, scienziato, cartografo, Martino Martini (匡国 = Wèi Kuāng Guó), nato a Trento nel 1614, fu un volto di pace, consapevole del rischio che una mancata

conciliazione tra Cina e Occidente avrebbe potuto avere. Dopo gli studi nella sua città natale, entrò nella Compagnia di Gesù. Fu lui stesso che chiese ai suoi superiori di essere inviato come missionario in Cina. Nel 1640 avvenne il suo primo ingresso in Cina, a Macao. Successivamente fu a Nanchino e ad Hangzhou. Fu il primo che compilò una grammatica cinese secondo canoni occidentali. Il suo ingresso nell’Impero Celeste coincise con il passaggio fra le due dinastie, Ming e Qing. Al suo arrivo in Cina, trovò una situazione complessa. La capitale della dinastia Ming, Pechino, era caduta nelle mani dei ribelli di Li Zecheng. Il malcontento era causato dalle malattie (tra cui il vaiolo) e altre piaghe economiche (aumento delle tasse) di cui soffriva il mondo delle campagne.

Ci furono poi i Manciù che invasero il paese fino alla provincia di Zhejiang. Martini venne riconosciuto come «dottore della Legge divina, proveniente dal Grande Occidente» anche durante l’assedio della futura dinastia Qing.

L’opera di Martini che difese la pratica dei riti e il culto degli antenati fu la Brevis Relatio de Numero et Qualítate Christianorum apud Sinas (Bruxelles 1654), indirizzata alla Sacra Congregazione De Propaganda Fide.

Il missionario fu richiamato a Roma nel 1651 nella veste di delegato delle missioni superiori cinesi. Il suo viaggio fu lungo: attraversò le Filippine, presentò le sue informazioni all’imperatore del Sacro Romano Impero Ferdinando III d’Asburgo prima di giungere a Roma, nel 1655.

Nella storia della Chiesa, il 1645 fu l’anno che segnò l’inizio della «controversia dei riti», il cui esito fu l’immediata condanna del papa Innocenzo X, dopo la denuncia di Juan Bautista Morales, domenicano. L’ordine di Sant’Ignazio, cui Martini apparteneva, cercò di porre riparo a questa controversia sortita con una denuncia proprio con il lavoro missionario di Martini che convinse il successore di Innocenzo X, Alessandro VII, della giustezza delle tesi e dei percorsi di missione in Cina da parte dell’ordine dei gesuiti. Purtroppo la testimonianza di Martini che ritornò poi in Cina, ad Hangzhou (dove nel 1661 morì) non bastò a spegnere la controversia che divenne una diatriba per interessi di fede, tecnico-scientifici, economici. Ancora cinquant’anni dopo la questione divise l’imperatore cinese Kangxi (1654-1722) e il papa Clemente XI (1649-1721) che continuò a sostenere la linea dura dei domenicani e dei suoi predecessori. A questa situazione, si aggiunse come aggravante l’interesse del re francese Luigi XIV alla questione dei riti. Il re inviò missionari gesuiti francesi fra cui il vicario apostolico Maigrot del Fujian. La Francia aveva colto la decadenza del Portogallo nelle rotte commerciali e la controversia teologica potè facilmente diventare espediente per la disputa pubblica che si allargò anche alle missioni straniere.

All’interno dello stesso ordine, i gesuiti dovettero difendersi dall’accusa di eresia e di idolatria poiché sostenevano il dialogo con il confucianesimo cinese.


Religione, un termine senza ideogramma

Almeno fino alle guerre dell’oppio (1839-1842 e 1856-1860), la Cina resterà l’Impero Celeste. All’interno di esso, la parola «religione» non trovava ancora una traduzione ideografica: non aveva cittadinanza culturale nella lingua scritta.

Occorrerà attendere il passaggio tra Ottocento e Novecento per arrivare all’introduzione di un termine: 宗教 (zōng jiào composto di = zōng = antenato e di = jiào = insegnamento). Dove l’ideogramma jiào è polisemico: insegnamento, trasmissione di conoscenze e abilità, addestramento, culto.

L’esito fallimentare dell’incontro fra Cina e Occidente fra il Seicento e il Settecento produsse una frattura gravida di conseguenze. Una frattura che si sarebbe potuta evitare se si fosse tenuto conto delle tradizioni e delle fatiche, dei tentativi di comunicazione fra Ricci e Ai Tian. Il loro dialogare di fronte all’icona di Maria e Gesù con gli apostoli e gli evangelisti portò infatti a prospettive di conciliazione e al completamento della stesura del trattato Dell’Amicitia (iniziato a Nanchino nel 1595) di Matteo Ricci. Tuttavia, questo non bastò ai successivi imperatori e rappresentanti della Santa Sede che si abbandonarono alla disputa e alle ragioni della guerra, piuttosto che alle motivazioni della pace.

Un secolo dopo l’incontro tra Ricci e Ai Tian, fu l’illusione epocale dell’imperatore Kangxi che portò al fallimento del dialogo. Nel 1700, all’inizio della sua ascesa politica, Kangxi aveva celebrato e promosso l’apertura delle frontiere dell’Impero Celeste: una sfida al futuro che trovava la sua condizione di base nello scambio culturale fra istituzioni e gesuiti che abitavano la capitale. Questo obiettivo non aveva trovato, tuttavia, risonanza e sintonia nel mondo cattolico e a Roma. La crisi europea post Riforma e Controriforma aveva assopito l’interesse per la cultura e la conoscenza del Paese di mezzo, nonostante la positiva riflessione del Concilio di Trento e lo sforzo da parte di alcune istituzioni ecclesiastiche di uscire dal contrasto tra diritto canonico e diritto positivo della società secolarizzata11.

Incomprensioni e conflitti

Nel 1692, l’imperatore Kangxi aveva invitato alla sua corte studiosi e missionari; aveva concesso loro la libertà di culto e il permesso di praticare i riti cristiani. Questa concessione di «pax augustea» fra culti e riti in una versione orientale non fu accettata da tutti nel mondo cattolico.

In Cina e a Roma iniziarono una serie di dispute fra le congregazioni e, in particolare, fra i gesuiti presenti in Cina e gli altri ordini. I riti che venivano contestati erano soprattutto i riti funebri che, in Cina, venivano officiati seguendo pratiche come l’offerta di cibo, di beni materiali (ad esempio, il denaro che veniva fuso o comunque incenerito). L’invocazione dei defunti attraverso le tavolette su cui era incisa la genealogia familiare non era considerata degna di valore spirituale. Ciò che veniva contestato era l’ambiguità del termine 天主 = tiānzhŭ = Signore del Cielǒ, che compariva nelle iscrizioni proprio come segno di compatibilità fra la religione cristiana e rito confuciano: il Signore del Cielo venne malamente interpretato come il capo supremo di cielo e terra dall’interlocutore occidentale che lo identificò come un pericoloso Imperatore avido e invadente nei confronti della religione cattolica, minoritaria in Cina. Furono soprattutto gli ordini di domenicani e francescani e alcuni missionari sotto il protettorato francese che evidenziarono la seduzione spirituale dei riti12.

Il vicario apostolico del Fujian nel 1693 scrisse il primo decreto che proibiva l’uso dei nomi Tiān (Cielo) e Shàngdi (Signore supremo). Nel 1704 la Commissione del Sant’Uffizio di Roma inviò la costituzione apostolica Cum Deus Optimus in cui si decise che le tavolette in pietra dove venivano ritratti gli avi defunti adottate dai cattolici dovevano omettere gli ideogrammi finali di «luogo dell’anima». Gli ideogrammi erano stati interpretati dagli avversari dei riti come 迷信 (= míxìn = credenza superstiziosa), quasi che l’anima fosse presente sulla tavoletta. Di qui la reazione di Kangxi che nel 1706, sostenuto dai gesuiti a corte, emise a sua volta un decreto che regolava rigidamente la presenza dei missionari cattolici.

Ci furono poi diversi tentativi di dialogo, ma papa Clemente XI nel 1715 emise la bolla Ex Illa Die che ribadiva e confermava tutte le proibizioni ed esigeva un giuramento dai missionari, abolendo di fatto una prima apertura tollerante di papa Clemente IX nel 1669. L’ultima parola da Roma fu nel 1742 quando con la bolla Ex quo singulari papa Benedetto XIV impose l’obbedienza e proibì ulteriori discussioni. La soppressione della Compagnia di Gesù voluta dai re europei nel 1747 tolse poi di mezzo i paladini del dialogo.

Una questione non solo «romana»

Questa concezione fraintesa di («cielo») non solo vedeva contrari i gesuiti (che a corte avevano a che fare con la parte più colta e istruita della società cinese), ma anche la comunità ebraica di Kaifeng che fino ad allora aveva convissuto in modo pacifico con la comunità dei cattolici, pur rispettando i tre insegnamenti (buddhismo, taoismo, confucianesimo). Questa rifiutò l’interpretazione che equiparava il termine 天主 (= tiānzhŭ = Signore del Cielo) al significato di «signore-capo». Per loro il Signore del Cielo non era da identificare con un Imperatore supremo, capo del Cielo su una terra ridotta ad uno squallido materialismo. E si poteva essere fedeli al Cielo, pur rispettando le autorizzazioni imposte dall’imperatore e dal potere centrale di Pechino.

L’attribuzione del Signore-Capo del Cielo era una lettura occidentale che non teneva conto della storia di Kaifeng. Ed era proprio la religione straniera che presumeva di interpretare i riti senza conoscere le persone.

Tale visione del mondo negava la storia della comunità che, fino a quel momento, aveva trovato sintesi coerenti di vita e di prassi fra l’ebraismo e l’insegnamento di Confucio. Si confinava, così, il confucianesimo sul precipizio di un’illusione, di un paganesimo che non riconosceva possibilità di dialogo e di rapporto fra società cinese e religioni monoteiste. Venivano così frantumati i valori della pietà filiale.

I protagonisti di questa controversia non furono solo l’Impero Celeste di Kangxi e la Santa Sede con i suoi vescovi. C’erano comunità, persone, valori, tradizioni, economie, legami (关系, guānxì) che si erano instaurati nella diversità̀ dei tre Sanjiào (= i tre insegnamenti cioè confucianesimo, taoismo, buddhismo) e delle tre religioni monoteiste che avevano imparato a stare insieme. Purtroppo, furono esse che si trovarono travolte dall’effetto valanga di questa disputa.

Lo scontro di civiltà che ne derivò, ancora una volta, non venne previsto. Ma arrivò nel 1938. A Kaifeng. Fu infatti nel Novecento, durante il conflitto sino-giapponese, che il Giappone, alleato dei nazifascisti europei, invase l’ex capitale della dinastia Song, defraudando la storia della sua cultura e approfittando della debolezza interna dell’imperatore cinese Po Yi. Attraverso un censimento, e quindi attraverso un controllo militare delle persone residenti a Kaifeng, i giapponesi presero il controllo degli abitanti e della loro religione. Kaifeng morì spiritualmente, poiché molti ebrei si trasferirono e furono costretti dalle circostanze a vendere la loro Torah e le suppellettili della sinagoga.

(Photo by GREG BAKER / AFP)

Dal colonialismo occidentale all’invasione nipponica

Kaifeng, 8 dicembre 1938. Siamo alla fine dell’anno in cui l’armata giapponese ha fatto la sua marcia verso la città. In quello stesso anno Sogabe e Mikami, membri dell’intelligence giapponese, stanno violentando l’intera Cina. Iniziano il loro dominio a livello giuridico e amministrativo con l’imposizione di un controllo sugli abitanti di Kaifeng per verificare quanti ebrei ci fossero nella comunità con un censimento giustificato da «ragioni di sicurezza» nei confronti di un popolo che, in Occidente, era stato designato come «pericoloso nemico» dal nazismo. Quale occasione migliore di seduttiva complicità con la Germania per la politica giapponese: la sicurezza diviene il pretesto per legittimare l’invasione del «Paese di mezzo».

Fino ad allora, gli ebrei non erano mai stati perseguitati in Cina. L’antisemitismo era sconosciuto anche al Giappone. Furono i nazisti a disprezzare gli asiatici perché inferiori alla razza ariana. Il progetto nipponico aveva il principale obiettivo di impadronirsi delle risorse naturali cinesi, necessarie per lo sviluppo della propria industria. Il panasiatismo nipponico fu un progetto alternativo al colonialismo occidentale in Cina.

Dal versante occidentale si aggiunse la real politik nazista che imponeva agli stati amici l’applicazione delle leggi razziali e le pratiche di sterminio. La scommessa con l’hate speech panasiatico del Giappone, complice della Germania di Hitler, divenne la base più sicura, il tavolo su cui negoziare la posta in gioco: dare legittimità al potere del Mănzhōuguó, lo stato fantoccio della Manciuria, per deporre definitivamente la dinastia Qing e distruggere la Repubblica popolare nascente. Proprio non si poteva immaginare nulla di più facile per i nipponici.

Nel 1938 era passato un solo anno dal massacro di Nanchino. Nel ’37, oltre 300mila civili erano stati trucidati, oltre 20mila donne violentate. Non bastò la «zona di sicurezza» di John Rabe, imprenditore filonazista della Siemens, a favorire il salvataggio di migliaia di civili. Rabe decise di aprire la fabbrica per accogliere donne e bambini, abitanti della città in quella notte del 13 dicembre 1937. I morti di Nanchino sono rimasti nel silenzio e nell’anonimato per troppi anni nei cicli di una storia senza pace, come quegli ideogrammi finali di «luoghi dell’anima» cancellati dalle tavolette degli antenati.

Solo recentemente, a ottant’anni di distanza, nelle librerie di Nanchino si trovano testi, lettere e scritti che documentano lo stupro. Ad oggi le autorità giapponesi non hanno dato segnale ufficiale di riprendersi dalla «dimenticanza». L’olocausto asiatico continua a rimanere nell’oblio.

A Kaifeng, nel 1938, le autorità giapponesi, oltre ad assicurarsi il riconoscimento dell’alleanza con la Germania, intendevano anche «dare ragioni oggettive» di sicurezza alla guerra e di legittimazione alla politica di invasione della Manciuria. Già dal 1895, i militari giapponesi avevano iniziato a costruire una propria identità nazionale, fondata su un’idea di straniero, opposto all’autoctono del Sol Levante. Ciò che caratterizzava lo straniero non poteva definire ciò che era giapponese: in questo contesto, la Cina fu vista come «società di banditi», barbara che avrebbe infestato «la civiltà mondiale». Obiettivo del progetto panasiatico nipponico era seguire il colonialismo occidentale e sabotare l’immagine della civiltà cinese, anche dall’interno (approfittando del clima di guerra interna fra esercito del Guomindang ed esercito comunista).

Allargandoci a uno sguardo antropologico, comprenderemo ben presto che la posizione di quell’invasore fu molto distante da quella dell’ospite «non ancora autorizzato» quale fu Matteo Ricci: qualitativamente lontano dalle mire espansionistiche dell’invasore giapponese, qualitativamente diverso il suo volto, orientato alla via dell’inculturazione e non al colonialismo. Quando ancora a Kaifeng si poteva respirare un clima che metteva in circolo la cultura, i linguaggi, le religioni, per custodire il futuro. Senza usurparlo.

L’ospite non gradito

Nel 1600 Ai Tian fu animato, prima di tutto, da una ragione13: quella di controllare ciò che l’arrivo di Matteo Ricci avrebbe potuto provocare come impatto nell’ordinata capitale. Ma fu mosso anche da un sogno. Un sogno che aveva iniziato a realizzarsi già prima della partenza: un desiderio di successo e visibilità verso il servizio civile dell’Impero Centrale e l’ambizione di controllo su un fenomeno inaspettato. Li Madou: un cristiano, non un ebreo, un monoteista ma non un confuciano, un missionario e non un funzionario; per Ai Tian, rappresentava un uomo che probabilmente era stato costretto ad allontanarsi dall’Europa e a errare per la Cina fino a giungere alla capitale.

Un passaporto identitario, quello di Matteo Ricci tracciato da Ai Tian, molto diverso da quello proposto nei libri della storia italiana, europea ed occidentale.

Matteo Ricci: teologo e cartografo, fu il pioniere che entrò in conflitto col «Vaticano» per difendere le pratiche degli antenati, tipiche del confucianesimo. Ricci fu il primo anello di congiunzione tra la cultura europea rinascimentale e quella cinese: resta comunque tra i pochi stranieri a figurare nell’«Enciclopedia nazionale» della Cina.

Fu il primo missionario che ottenne dall’Imperatore l’autorizzazione a fondare una chiesa a spese dell’erario: resta il primo europeo che si vestì da mandarino perché aveva colto che la trasmissione del suo messaggio cristiano sarebbe stato poi diffuso dalla classe dirigente agli ultimi della storia non solo con le lettere e le parole.

Per Ai Tian il viaggio fu un passaggio da una periferia come Kaifeng alla capitale dell’impero dove sopravviveva una colonia monoteista (la piccola chiesa di San Giovanni Battista nella quale viveva Ricci): una comunità ecclesiale avvertita «come una bizzarra intrusa», all’interno della capitale dell’Impero Celeste e che, dal punto di vista dell’ordine amministrativo, doveva essere autorizzata alla stanzialità.

Prima dell’incontro, lo stesso Ricci non avrebbe mai immaginato la presenza di ebrei in Cina. Viceversa, Ai Tian avrebbe potuso solo ipotizzare che quel cristiano europeo fosse un esponente di una setta: Ricci era un monoteista, non un cinese, non confuciano e neppure ebreo. Per Ai Tian, l’aver ottenuto il permesso di sostare nella capitale dell’Impero Celeste era l’unico punto di privilegio riconoscibile nel volto del suo interlocutore extracontinentale.

Un funzionario ambizioso incrocia, dunque, la sua noiosa vita di burocrate con quella di un reietto, uno dei tanti ospiti indesiderati, un letterato giunto a Pechino dopo un lungo percorso da Occidente ad Oriente. Non un esiliato, non un rifugiato, non un naufrago. L’espressione riferita a Ricci è di ospite non gradito, «uno degli ospiti indesiderati»14.

Il lettore non può, a questo punto, dimenticare un altro chengyu cinese: jiē fēng xĭ chén15

che significa «far entrare il vento per lavare la polvere». Esso chiarisce bene il gioco delle parti: l’espressione di benvenuto rivolta all’ospite, ricorda anche al padrone della dimora che occorre «fare entrare il vento» affinchè la casa si possa lavare dalla sua stessa polvere. L’ospite, seppure indesiderato, porta qualcosa di nuovo. Fu forse questa ispirazione che aprì il dialogo fra i due.

L’incontro e il dialogo

L’incontro fra Matteo Ricci e Ai Tian avviene così: davanti al dipinti della Madonna con Bambino e di san Giovanni Battista, disposti ai lati dell’altare della piccola chiesa di San Giovanni Battista, a Pechino.

L’interpretazione di quei dipinti è la prima occasione di traduzione. Mancata, sospesa, fraintesa e infine aggiustata. Non è costume del popolo di Kaifeng venerare le immagini. Quando Ai Tian vede Matteo Ricci-Li Madou che si genuflette davanti alla maternità, lo imita «assumendo che i due individui rappresentati fossero Rebecca e i suoi figli Jacob ed Esaù, con cortesia seguiì il costume»16.

È il culto degli antenati della tradizione confuciana che induce Ai Tian, ebreo, a vedere i suoi patriarchi e a compiere il gesto di genuflettersi. Si trattava della maternità cristiana, ma ma lui vi scorse Rebecca con Giacobbe e, nell’altro dipinto, Esau. Rebecca resta comunque un’antenata di Maria. Matteo Ricci non vede un’incongruenza nell’interpretazione dei simboli e delle immagini. Poi Ai Tian osserva i quattro evangelisti e si domanda se quelle figure possano essere quattro dei dodici figli del bambino ritratto sull’altare. Li Madou non lo corregge, pensa solo che c’è stata una confusione fra evangelisti ed apostoli: in fondo i dodici apostoli possono essere interpretati simbolicamente come i figli spirituali di Cristo.

Fu questo il primo incontro, la prima mediazione culturale che seppe realizzarsi tramite il fascino suscitato dall’arte in ciascuno dei due interlocutori. Uomini esploratori, liberi di entrare nei significati della traduzione e capaci di disvelare strade nuove attraverso la curiosità, capaci di mantenere il respiro davanti a ciò che «non è ancora» compiuto e di conservare il timore, quel timore che ciò che si attende dalla storia, in un attimo può scomparire e diventare «un non più».

Cosa rimane, nella nostra normale quotidianità, dopo aver rispolverato questa vicenda attraverso il libro di Michael Pollak Mandarins, Jews, and Missionaries, dedicato alla testimonianza del passaggio e della stanzialità della comunità ebraica nell’impero cinese? Una testimonianza che ha conservato il sapore della dimensione esperienziale, di vita. Posso tentare di rispondere che cosa ha significato per me, nel mio lavoro di mediatrice culturale e lo faccio partendo da un altro chengyu. Dal linguaggio metaforico dei proverbi, da parole che parlano all’anima popolare, si può infatti imparare a tradurre l’inesauribile ricchezza di umanità, presente nella nostra esistenza, in azione concreta.


Note culturali

La Cina e il culto degli antenati

Dal suo inizio, la dinastia Shang (XVI-XII secolo a.C.) praticava la divinazione con le iscrizioni incise sulle ossa dei buoi o sui carapaci che venivano fatte screpolare nel fuoco. I segni dell’ignipuntura venivano poi interpretati a seconda della preghiera che veniva realizzata durante la loro invocazione. Li si pregava, ad esempio, di far scendere la pioggia, di far cessare un’epidemia, di allontanare i nemici. L’equilibrio fra i vivi discendenti e i defunti avi è di natura omeostatica: il debito dei posteri nei confronti dei predecessori viene sciolto nel momento in cui si mantiene la promessa di comportarsi bene sulla terra, senza farli arrabbiare e il mantenimento in vita sulla terra avviene attraverso la generazione della prole. Il debito con gli antenati si contrae e si riscatta periodicamente con offerte e sacrifici, soprattutto durante la festa. Le tavolette funerarie sono racchiuse in urne di pietra. In passato, in occasione di tutti i grandi eventi del regno e di tutte le solennità della vita di palazzo, un lettore veniva a renderne conto, con voce possente. Delle gocce di sangue, venivano versate nei punti delle tavolette dove si presupponeva ci fossero le orecchie e la bocca del defunto. Ancora oggi, secondo la tradizione, le famiglie preparano per la notte di Capodanno (cade sempre tra la seconda metà di gennaio e la prima metà di febbraio) un altare con l’incenso e le offerte sul quale mettono i ritratti degli antenati, e le «tavolette degli antenati» con i nomi della genealogia della propria famiglia. Dopo aver bruciato tre fasci di incenso ci si inchina davanti agli antenati, vengono recitate le preghiere e si fanno le offerte per un raccolto proficuo nel prossimo anno. Infine, le immagini di carta e il denaro offerto vengono bruciati: il fumo trasporta le preghiere della famiglia al Cielo.

Nella stele di Kaifeng, anno 1489 – oggi conservata nel Kaifeng Museum of Jewish History – si trova l’iscrizione in ideogrammi da cui si deduce che l’insegnamento delle Sacre Scritture è compatibile con l’insegnamento confuciano. Evidentemente già da allora la traduzione dell’iscrizione espose gli israeliti ad una sinizzazione. Un’iscrizione su pietra, un segno ideografico, una scrittura che non doveva morire. Il culto degli antenati dialoga con la religione delle Sacre Scritture partendo dal mito. Il patriarca Abramo viene da Pangu, creatore, all’inizio di Tutto. È da un uovo che contiene il Caos che Pangu viene creato. Ma è necessaria una rottura del guscio, da parte del gigante Pangu dall’interno: una volta divenuto adulto dalla rottura dell’involucro, il tuorlo diviene la Terra e l’albume il Cielo. Il corpo del gigante ha continuato ad allungarsi generando montagne e fiumi finchè è sparito interamente come corpo ed è divenuto creato. Si comprende bene da questo mito che, all’origine, l’universo e il modo di percepirlo da parte dell’umanità ha come punto di contatto il riconoscimento di un’osmosi di rapporto fra Cielo e Terra. Anche il ruolo del sacrificio e degli antenati risente di questa concezione immanente della realtà.

«Servire i morti come si servono i vivi, non usare la scusa della scomparsa dei capostipi antenati sulla terra che vedi per smettere di pregare… continuare a servire i dimenticati come se fossero gli ultimi sopravvissuti… offrire buoi, offrire capre a seconda della stagione, in legame con te». Così si legge nella stele.

La scelta dell’immanenza del pensiero fra mito e cosmogonia cinese trova qui la sua radice culturale e nella pratica rituale comunitaria dello sciamanesimo. Ma non entra in collisione con le religioni della Bibbia.

Il Signore del cielo

Il carattere Tiān significa «cielo», ma è polisemico e quindi suscettibile di possibili interpretazioni. Nella controversia sui riti che si accese nel settecento, venne frainteso come «paradiso terrestre»: una terra del cielo potenzialmente seduttiva e spiritualizzata, in cui i riti sono interpretati secondo un principio di realtà che gioca al ribasso nella traduzione poiché non considera la possibilità di una conciliazione fra le tradizioni e le identità culturali. L’ideogramma 主 zhǔ si traduce con «signore, padrone, capo». La combinazione polisemantica dei due ideogrammi può dare luogo ad una traduzione deviante: il «signore del cielo» era diventato il «capo del cielo» secondo la Congregazione dei riti e l’espressione era scomoda sia per l’orecchio di alcuni ordini religiosi e per Clemente XI sia per lo stesso imperatore Kangxi. Si liquidò, per una scelta semplicistica ed anche per interessi economici, la traduzione facendo coincidere il signore del cielo con il capo-sovrano del cielo, l’Imperatore. C’era infatti il re Luigi XIV di Francia che in quegl’anni, a seguito del declino del Portogallo, aveva intuito la possibilità di allargare il proprio dominio commerciale in Estremo Oriente. Il re comprese bene che inviare missionari della Società delle missioni estere di Parigi avrebbe facilitato questo percorso. Il vicario apostolico che fece guerra ai gesuiti e alla tolleranza nei confronti del culto degli antenati, adottata dai successori di Matteo Ricci, fu il francese Charles Maigrot. Nella sua interpretazione imprecisa di 天主 Tiānzhǔ, l’imperatore celeste, il titolo non poteva essere applicato a Dio e, allo stesso tempo, all’imperatore, «capo» di un «cielo-paradiso» un po’ troppo edonistico e terrestre per poter essere annoverato fra le categorie dello Spirito delle religione cristiana monoteista.

Poco importò ai custodi della purità del linguaggio religioso il significato epocale che quei due ideogrammi avrebbero potuto aprire alla comunicazione fra Occidente ed Oriente. Poco importò loro il percorso storico delle comunità cristiane, ebraiche, confuciane, taoiste, buddhiste che fino ad allora avevano convissuto insieme secondo pratiche, liturgie e socialità. Chi condannò i riti, rifiutando a priori lo scontro-incontro culturale con la traduzione, fece un‘operazione molto simile a quella illusoria di liquidare una tradizione culturale un po’ troppo lontana per essere presa sul serio. E non tenne conto di aver derubato due civiltà.


Cina e religione

Dalla controversia sui riti alla Chiesa patriottica

Papa Clemente XI

Kangxi (1654-1722) è l’imperatore della «controversia sui riti» con la Santa Sede. Nel 1692 promulga l’«Editto di Tolleranza religiosa» che autorizza la conversione al cristianesimo e concede il diritto di costruire chiese e predicare pubblicamente. Un missionario gesuita, Martino Martini (riquadro a pagina 38, ndr), fa discendere il nome Cina dalla dinastia 秦 (= Qin) la stessa dinastia che nel 220 a.C aveva realizzato il sogno di unificare il regno degli Stati Combattenti. A differenza dei missionari francescani e domenicani che volevano vietare il culto degli antenati, i gesuiti hanno un approccio di comprensione. È proprio Martino Martini ad essere inviato a Roma per chiarire la controversia dei riti e della traduzione di «Signore del Cielo». Questa azione viene pesantemente contestata da altri missionari presenti in Cina e il vicario apostolico della provincia di Fujian (Sud Est del paese), Charles Maigrot della Società per le Missioni estere di Parigi, proibisce di iscrivere ed incidere sulle tavolette dei defunti l’espressione «sede dell’Anima». Questo divieto viene poi ufficializzato da papa Clemente XI con la costituzione apostolica Cum Deus Optimus del 1704. Nel 1742 papa Benedetto XIV conferma questa proibizione.

La grande paura di Kangxi è quella di venire sopraffatto dalla superiorità tecnica europea: in breve tempo, l’imperatore cambia la sua politica di tolleranza nei confronti dei missionari cristiani presenti in Cina, demarcando in modo molto netto il rifiuto del cristianesimo. L’identità cristiana viene fatta coincidere con quella dell’intruso occidentale, imperialista, assetato di colonialismo.

  • 1839-1842 e 1856-1860 – Con i Trattati Ineguali delle Guerre dell’Oppio, le missioni cattoliche finiscono sotto il protettorato della Francia, con i loro cristiani stranieri e da autoctoni. Il papa Leone XIII non osa inviare il suo nunzio apostolico in Cina.
  • 1900 – Odio xenofobo verso i cattolici. La rivolta dei Boxer uccide missionari e semplici cristiani. Cristo è identificato come un uomo con la pancia piena nei manifesti dei rivoluzionari, simbolo del capitalismo e dell’occidente che avanza.
  • 1912 – Repubblica cinese di Sun Yat Sen: abolizione della legge che impone alle donne la fasciatura dei piedi.
  • 4 maggio 1919 – Rivoluzione degli studenti che si ribellano alla politica imperialista e all’imposizione del Trattato di Versailles: gli studenti sono contro la risposta del governo cinese che cedeva lo Shandong alle potenze coloniali, in primis al Giappone.
  • 1937 – Nanchino, la capitale del nazionalismo cinese, cade davanti ai giapponesi. È un massacro. Solo il 13 dicembre di quell’anno, nella sola Nanchino si stima che siano stuprate tra le 20.000 – 80.000 donne. Era già cominciato il progetto di panasianesimo imperiale del Giappone che trovava nella Germania nazista il suo principale alleato.
  • 1938 – Dopo il massacro di Nanchino, i giapponesi arrivano a Kaifeng già da giugno. L’esercito nazionalista cinese del Guomingdang, guidato da Chiang-Kai-Shek, deve allearsi con l’acerrimo nemico interno, il Partito comunista cinese, per fermare i giapponesi.
  • 1939 – Papa Pio XII dichiara compatibili fede cristiana e riti confuciani e autorizza la traduzione in cinese della liturgia.
  • 1949 – Fondazione della Repubblica popolare cinese (Rpc). Negli anni Sessanta la direzione del partito era assolutamente contraria alla Chiesa cattolica. Il partito sfrutta la lotta contro la «superstizione religiosa» per potersi rafforzare.
  • 1957 – Fondazione dell’«Associazione patriottica dei Cattolici cinesi» con l’appoggio dell’«Ufficio governativo degli Affari religiosi» della Rpc. Circa tre milioni di cattolici cinesi aderiscono. Desiderano l’indipendenza della Cina. Lottano contro l’imperialismo, contro la miseria, contro il capitalismo. Sono per la fine di tutte le superstizioni, per l’uguaglianza fra gli uomini, per il presidente Mao. Sono sotto la guida del Pcc.
  • 1976 – Fino al 1976, anno della morte di Mao e della fine della «Banda dei quattro», per il Pcc i vescovi «controrivoluzionari» e «illegittimi» sono quelli che hanno relazioni con gli imperialisti americani e che tentano di restaurare «la dominazione reazionaria del Vaticano».
  • 1978 – È l’anno di Deng Xiaoping e della politica di 开发展 apertura allo sviluppo economico. Le cose cambiano con la liberalizzazione delle attività commerciali. Anche da parte del popolo cinese nei confronti delle comunità cattoliche. Innanzitutto sono tollerate le chiese.
  • 1981 – Giovanni Paolo II rivolge a Manila un saluto a tutti i cattolici della Cina. In quello stesso anno, il Vaticano viene accusato di interferire sul riconoscimento dell’arcivescovo di Canton. A seguito ci sono consacrazioni di vescovi della Chiesa patriottica senza la consultazione della Santa Sede. Questa situazione porta il cardinal Rossi, prefetto della Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli, ad autorizzare i vescovi cinesi «legittimi e fedeli alla Santa Sede» a ordinare altri vescovi, se necessario, senza previa intesa con Roma. Questo privilegio (già concesso in passato per i paesi europei sotto il regime comunista) porta però all’inasprimento dei rapporti fra vescovi «clandestini», «ufficiali» e «patriottici».
  • 22 settembre 2018 – Tra Vaticano e Pechino viene firmato un accordo provvisorio.

Vescovi «illegittimi e controrivoluzionari»?

«I cittadini della Repubblica popolare cinese godono della libertà di credo religioso. Nessun organo dello Stato, organizzazione pubblica o individuo può costringere i cittadini a credere o non credere in qualsiasi religione, né possono discriminare i cittadini che credono, o non credono, in qualsiasi religione. Lo Stato protegge le normali attività religiose. Nessuno può fare uso della religione per impegnarsi in attività che disturbano l’ordine pubblico, mettere in pericolo la salute dei cittadini e interferire con il sistema educativo dello Stato. Enti religiosi e dei culti non sono soggetti ad alcuna dominazione straniera».

Così recita l’articolo 36 della Costituzione cinese. Le religioni ufficialmente riconosciute sono: buddhismo, taoismo, islamismo, protestantesimo, cattolicesimo.

Nel 2008, anno delle Olimpiadi cinesi, molti vescovi e sacerdoti della Chiesa clandestina sono posti agli arresti domiciliari o costretti «all’ozio forzato» prendendosi delle vacanze ed è loro proibito di incontrarsi anche con membri provenienti dall’estero in occasione dei giochi olimpici. Trattamento diverso per chi ha visitato il villaggio olimpico di Pechino dove sono stati costruiti appositi spazi di «spiritualità e preghiera» con rigorosa attenzione al cibo offerto secondo le fedi: cristiana, buddhista, musulmana, ebraica, indù. Trattamento di privilegio per gli ospiti stranieri. Evidente che, una volta, terminati i giochi olimpici, questa «liberalità di facciata» è finita.

Si arriva così al 22 settembre 2018 con la firma dell’Accordo provvisorio fra Cina e Santa Sede sulla nomina dei vescovi. Nella Nota informativa si legge: «Al fine di sostenere l’annuncio del Vangelo in Cina, il Santo Padre Francesco ha deciso di riammettere nella piena comunione ecclesiale i rimanenti Vescovi «ufficiali» ordinati senza mandato pontificio: (segue il nome di sette vescovi)» (vedi nota 1).

I vescovi definiti «ufficiali» fino a quel momento sono quelli scelti dalle autorità cinesi senza o in opposizione al consenso della Sede apostolica. In realtà molto pochi – sette -, perché di fatto molti dei vescovi «ufficiali» avevano già chiesto in segreto l’approvazione papale. Tale accordo va ora tradotto nella realtà storica che è ricca di sfaccettature.

Per ora, stando all’accordo, i candidati dell’episcopato verranno scelti dal basso, cioè dai rappresentanti delle diocesi e con il coinvolgimento dell’Associazione patriottica. Alcune linee guida cominciano a dischiudersi, ma occorre poi la pazienza di stare dentro le contraddizioni della quotidianità e della storia.

Infatti, l’identità dei vescovi non è sempre categorizzabile secondo questo binomio: legittimo-illegittimo. E l’altro interlocutore è il Pcc che, secondo ragioni di convenienza, ha – in un passato recentissimo – chiamato i vescovi legittimi (approvati da Roma) come «controrivoluzionari» (in epoca maoista) o «clandestini» ed alcune comunità cristiane come «eretiche».

Ancora lungo e difficile è il cammino verso la libertà di professione dell’insegnamento cristiano e della fede nel Paese di mezzo. Non può sfuggire che ad oggi nelle diocesi di Luoyang e Xinxiang le chiese cattoliche sono state demolite, che a Puyang i presidenti dei Consigli Pastorali sono stati forzati dal governo ad indicare identità e professione, unità lavorativa e certificato di famiglia dei membri della comunità. Ed ancora che nella diocesi di Kaifeng, come a Zhengzhou, si legge all’entrata lo slogan: «Avvertimento contro il culto – Campagna di educazione nella Chiesa cattolica: nei luoghi di attività religiose non si deve predicare ai minori».

La questione della croce. In un paese grande e variegato come la Cina non c’è uniformità sul tema. Di norma (ma non sempre), è possibile l’esistenza di croci – anche esterne – in edifici autorizzati. Rispetto al segno della croce è proibito sia privatamente che pubblicamente, perché in Cina non è concesso a nessuno di vivere la propria fede (forestiera, cioè estranea ai tre insegnamenti originali che restano confucianesimo, taoismo e buddhismo, in particolare il primo) se non in chiese ufficialmente riconosciute dal Partito.

Confucius (551BC – 479BC) Bronze Statue – Locke, CA


La Cina in Italia

I ragazzi della provincia di Zhejiang

安不忘危 Ān bù wàng wéi:
non dimenticare il pericolo; non c’è pace se c’è
dimenticanza. La pace è nelle dinamiche
della storia, non è statica.

A Rimini, quando chiedo ai ragazzi della provincia di Zhejiang17 se hanno mai letto di Li Madou e Ai Tian sui loro banchi di scuola mi rispondono che la storia si studia dalla seconda media. E si parte da Mao: 1949. E poi si ritorna frettolosamente alle dinastie imperiali. Ma il percorso che va dalla caduta degli Han orientali alla dinastia Tang e poi anche oltre fino ai Qing, è sospeso dai banchi di scuola. Non perché proibita, quella storia, ma perché ormai è l’idolo della tecnologia liquida che impone i programmi di studio. Facili, veloci, efficienti. Semplificativi. Non c’è il tempo di attraversare le cause, i processi, le dinamiche e non c’è spazio per entrare nei significati, per interpretare i simboli in unità di senso. La storia diventa una materia sconosciuta. Aliena.

Chen Jūn Yŏng arriva in una scuola del riminese all’età di dodici anni nell’anno 2009. Il suo nome Jūn Yŏng corrisponde ai due ideogrammi di 君勇 cioè valoroso e coraggioso. Secondo la legge italiana (Dpr 394/99), Yŏng viene inserito in una classe seconda media: spiego alla famiglia che in Italia non è possibile che i ragazzi frequentino una classe troppo bassa. È questo, invece, che la famiglia chiede.

Secondo loro Yŏng deve prima apprendere tutti i segni alfabetici della lingua italiana e le loro combinazioni. Solo più tardi potrà frequentare la scuola dove si studiano le discipline: storia, geografia, scienze. Spiego che, in Italia, la normativa tutela lo sviluppo psicofisico degli alunni che devono studiare con i pari, i propri coetanei. Inoltre, considerata l’affluenza di numerosi alunni non madrelingua italiana, sono previsti nella scuola, piani di studio personalizzati e corsi di lingua base di italiano.

«Io non ho religione»

Al momento dell’iscrizione, mi accorgo che non basta alla mamma di Yŏng leggere la traduzione del modulo alla domanda sulla scelta della religione cattolica. «Religione cattolica» è tradotto con 天主教 tiānzhŭ jiào in cui 天主 tiānzhŭ è il «signore del Cielo». In alcuni moduli viene tradotto semplicemente 宗教 Zōngjiào, religione (= Zōng = antenato + jiào = insegnamento), mentre in realtà dovrebbe essere 基督教 jīdūjiào l’insegnamento di Cristo, la religione cristiana.

La madre di Yŏng è mia coetanea, ha frequentato le medie in Cina. Quando le chiedo se è religiosa, lei mi risponde: 我没有教 Wŏméiyŏu jiào («Io non ho religione»).

La generazione dei genitori di Yŏng migra anche perché porta con sé il desiderio di migliorare la propria condizione con i guadagni all’estero e poi reinvestire in patria: passaggio questo, che svela anche le contraddizioni «fra un nuovo coraggioso mondo generato dalle riforme di mercato operate da Deng Xiaoping con l’apertura al capitale, alle idee, alle immagini»18 ma che – come tutti i progressi troppo rapidi – celano fallimenti sul piano sociale ed educativo. Hanno vissuto quegli anni Ottanta lì, gli anni Ottanta della loro infanzia. Ne vedono la fallimentare illusione quando si accorgono che il loro lavoro sottopagato e sancito dalla guānxì da fratello maggiore a fratello, da cinese a cinese, si riconsegna alla logica del profitto passando per classi dirigenti italocinesi di commercialisti e avvocati, medici e magistrati, disposti a coprire facilmente «il paradiso fiscale» di denaro liquido proveniente dal lavoro del capitale umano sfruttato.

Un sabato pomeriggio dai carabinieri

Il sabato pomeriggio di un novembre malinconico del 2013, poche settimane dopo la fiera di San Martino di Santarcangelo di Romagna, la madre di Yŏng mi chiama per chiedere di accompagnare lei e suo figlio a fare una denuncia di aggressione avvenuta davanti alla scuola.

Non è per il lavoro di mediazione nella scuola che mi chiama. Avrebbe potuto mantenere la riservatezza di fronte a me, ai professori, ai banchi dei bianchi «che olezzano di formaggio» e che sono sempre pronti ad etichettare «sì… ma voi cinesi, il commercio, l’illegalità, la contraffazione». Avrebbe potuto trovare facilmente aiuti dai suoi connazionali, «i giovani generazione-banana». Figli di migranti, gialli fuori e bianchi dentro, che parlano bene italiano… bene nel senso che sono molto veloci nell’esposizione, che non parlano per monosillabi, che centrano tutte le erre…  perfetti nella traduzione. La donna però, non fa questa scelta.

Le dico che non posso fare quel genere di mediazione, perché è al di fuori di quelli che sono «i miei mandati istituzionali» (le autorizzazioni di Ai Tian non sono poi del tutto passate, anche sul versante occidentale). Ma poi lei mi dice: «安不忘危 Ān bù wàng wéi. Non c’è pace senza previsione di guerra, non c’è pace se manca il coraggio per la verità. E non c’è coraggio se non si osa sognarla, la pace. Ogni giorno. Non c’è pace nella misura in cui ti dimentichi di quali siano i rischi».

Per lei, come madre che deve accompagnare suo figlio aggredito da compagni di scuola davanti ai carabinieri. Rischi forse molto diversi dai dubbi di ieri, quelli che avranno attraversato il pensiero e la decisione di Li Madou davanti ad Ai Tian: restare senza scappare; ascoltare; i dubbi e i timori, ma restare; avere il coraggio di stare in mezzo.

La madre di Yŏng teme che, se non c’è una persona italiana, non verrà creduta e nemmeno ascoltata. Non teme solo questo. Alcuni suoi connazionali residenti nella comunità della nostra civilissima Italia sono stati insultati e maltrattati. A Roma, Prato, Reggio Emilia.

Il sistema di 关系 guānxì (ovvero – come già abbiamo spiegato – i legami che si stabiliscono nelle comunità cinesi) accorcia le distanze in un territorio. Si sa, fra i migranti cinesi per i quali le guānxì, le relazioni, i legami sono il principale e più attendibile modo di comunicare. Si sa che in Italia è così: quando si denuncia qualcuno che non è un tuo connazionale rischi di non essere creduto. E magari anche pestato. Alcuni membri della comunità sono stati picchiati da «certe forze dell’ordine» che avrebbero dovuto solo raccogliere la testimonianza e verificare «le autorizzazioni a stare»: oggi quell’autorizzazione è il documento di permesso soggiorno.

«Certi carabinieri funzionari dell’ordine pubblico – ribadisce la madre di Yŏng – 没有教 Méiyŏu jiào, non hanno insegnamento».

Anche se hanno più possibilità di trasporto e comunicazione, certi detentori che abusano del loro potere non si metterebbero mai in viaggio come fece invece Ai Tian davanti a «un ospite indesiderato», stanziatosi nella capitale, quale era stato Matteo Ricci. E nemmeno quei carabinieri sarebbero stati capaci di rimanere fermi davanti al dubbio, per giungere ad una verità più profonda. Non abbastanza fermi davanti al dubbio, come rimase fermo Matteo Ricci, accettando il rischio di essere espulso dall’impero per un mancato permesso.

Il viaggio e il valore della diversità

Entrambi, Ai Tian e Li Madou, l’ebreo cinese di Kaifeng e il gesuita italiano di Macerata, seppero restare custodi di un’insufficienza di fronte alla traduzione e resero possibile l’incontro di due mondi proprio perché mantennero viva la curiosità per «l’assolutamente diverso», l’uno dell’altro, che veniva incontro. Nel dialogo, non cedettero alle lusinghe di preconcetti e di linguaggi tecnicisti che avrebbero facilmente creato distanze interpretative, con inimicizia e diffidenza. Seppero, pur nei loro silenzi, guardare alle analogie, alle immagini; seppero cercare la traduzione, pur non conoscendo bene l’uno la lingua dell’altro. Seppero rimanere aperti al futuro, anche se mancavano le parole del passato poiché quell’incontro fu il primo inedito, storico. Fra un funzionario mandarino confuciano ebreo e un missionario, gesuita, cattolico, italiano. Oggi si è più vicini grazie alle connessioni internet, si viaggia con più rapidità, si può disporre in pochi secondi di tutte le traduzioni negli spazi virtuali del web, tuttavia con più facilità si edificano prigioni di comunicazione davanti allo schermo di un computer. Manca il coraggio di intraprendere un viaggio, il coraggio di vivere il valore della diversità nel dialogo, di incontrare l’identità «assolutamente altra» assumendosi tutti i rischi che una mancata tensione verso una cultura di pace può causare.

La guerra è già oggi scontro di civiltà. E la pace richiede responsabilità e risposte da parte di tutti.

Tempi inediti ci attendono per vivere il coraggio «in quel punto zero in cui si apre a sorpresa il Cielo»19. Non serve, come mi ha insegnato Jun Yŏng, essere degli eroi per «stare dentro» a una cultura di pace, viverla in una dimensione esperienziale, in un gesto, in una parola, in un rapporto umano nella normalità che ciascuno di noi è, con tutti i limiti del nostro «essere persone».

A volte, forse, basta solo avere il coraggio di sorprenderci davanti alle nostre mancanze, e cambiare sguardo: sorprenderci al punto da uscire da noi stessi per diventare partecipi della bellezza del Cielo e anche su questa nostra amata Terra – direbbe l’ebreo di Kaifeng – mettersi in viaggio per amare l’«emèt», cioè la verità (in lingua ebraica).

Vittoria Pollini


Appendice

Storia degli ideogrammi cinesi

Le tre più antiche forme di scrittura del mondo sono: i caratteri cuneiformi dei Sumeri, i geroglifici degli egiziani e gli ideogrammi dei cinesi. Fra le tre, solo gli ideogrammi sono ancora in vita ed in uso. Gli ideogrammi sono anche caratterizzati da uno stretto legame con i pittogrammi. Ogni forma di scrittura ha avuto origine da forme pittografiche. La scrittura cinese conserva la sua peculiare originalità perché non si è mai diretta verso una trascrizione fonetica come invece è accaduto con le lingue occidentali.

Il 1949 è l’anno di fondazione della Repubblica popolare cinese. Solo nel 1956 fu ufficialmente stabilito che il 普通话 (pǔtōnghuà = lingua comune) sarebbe stato l’idioma nazionale. Nell’epoca delle dinastie, la «lingua comune» era patrimonio esclusivo di chi possedeva gradi di istruzione elevata ed apparteneva alle classi privilegiate. Nel 1911, anno di fondazione della Repubblica Nazionalista di Sun Yat-Sen, la lingua nazionale era ancora solo il 国语 (guóyǔ= lingua nazionale, cinese mandarino meno classicheggiante rispetto alla lingua 官话 guānhuà = la lingua dei funzionari amministrativi dell’epoca imperiale), una lingua più vicina al 白话 báihuà = il vernacolare, la lingua colloquiale dialogica dell’epoca imperiale che veniva trascritta nelle opere minori, non nella stesura dei 经 jìng, i libri dei classici.

Questa lingua 白话(= báihuà), la lingua chiara (白 = bái = chiaro, bianco), era la lingua del dialogo «caratterizzato dalla bianca chiarezza», non rappresentava ancora la lingua parlata dalla popolazione, che – per la maggior parte – si esprimeva in forme dialettali.

Occorre dunque attendere il 1956 per assistere alla riforma della lingua che prevede l’adozione di un sistema di traslitterazione fondato sull’alfabeto latino detto 拼音 (= pinyin, letteralmente significa «annotazione piana di suoni»). Il pinyin è attuale sistema di traslitterazione degli ideogrammi, si compone di 26 lettere che vanno combinate e danno vita a circa 400 sillabe.

Le 400 sillabe del pinyin sono la base per la lettura fonetica degli oltre 40.000 ideogrammi cinesi attualmente presenti nel Dizionario Kangxi. Oggi, la soglia di alfabetizzazione minima della popolazione cinese si posiziona sulla conoscenza di almeno 2000 caratteri/ideogrammi. Si può chiaramente comprendere che le 400 sillabe tonali del pinyin non trovano corrispondenza univoca negli oltre 40.000 ideogrammi e nelle loro combinazioni: si tratta appunto, di un sistema convenzionale di note fonetiche che «si appoggiano» sugli ideogrammi per supportare l’occhio occidentale nella lettura. Ma la conoscenza degli ideogrammi e la loro memorizzazione, il loro inscindibile legame con la scrittura, ha un’altra storia.

Note

(1) Il comunicato ufficiale: Nota informativa sulla chiesa cattolica in Cina del 22/09/2018, reperibile su press.vatican.va.  Il commento su avvenire.it: Stefania Falasca, Santa Sede e Cina, firmata la storica intesa, 22 settembre 2018.

(2) Si veda il glossario sul sito della rivista.

(3) Così la professoressa Zhang di Scienze Giuridiche, che insegna cinese agli studenti stranieri a Nanchino.

(4) È l’espressione che – negli anni Sessanta – indicava coloro che abitavano nei rifugi di paglia. Si veda Dentro la Cina rossa di Virgilio Lilli, Mondadori editore 1961, cap. 3 pp. 76-103.

(5) A partire dagli anni Cinquanta, ci fu nella Rpc una massiccia espansione dell’istruzione di base. Il governo si interessò attivamente alla condizione educativa in un contesto in cui i contadini, quasi del tutto incapaci di leggere e scrivere, cominciavano a formare le prime cooperative rurali. Gli intellettuali divennero il principale strumento di diffusione della filosofia dell’educazione e prassi maoista: non dovevano solo alfabetizzare, ma dovevano imparare dalla popolazione rurale il valore del lavoro fisico. Furono nel contempo strumenti e vittime della Rivoluzione Culturale. Molti intellettuali vennero anche uccisi dalle Guardie Rosse.

(6) Ibidem, Virgilio Lilli, pag. 16.

(7) Il trattato di Bretton Woods del 1944.

(8) Sono due province cinesi, rispettivamente a Sud Ovest e centro del paese.

(9) Il pinyin (拼音) è l’attuale sistema di traslitterazione degli ideogrammi, si compone di 26 lettere dell’alfabeto latino che vanno combinate e danno vita a circa 400 sillabe. Fu Mao Tse Dong a ufficializzare questo sistema nel 1956. C’era stato già nel 1859 un tentativo di «romanizzare» la lingua cinese attraverso il sistema Wade-Giles che fallì poiché risultava troppo pressapochista. Più dettagli nel riquadro di pag. 46 e sul sito.

(10) «Ordalia»: Giudizio di Dio, verifica – attraverso dure prove – dell’innocenza o colpevolezza altrimenti non regolabili con mezzi umani. È chiamato anche duello di Dio.

(11) Si veda in proposito Paolo Prodi, Una storia della giustizia, Bologna, Il Mulino, 2000, pp.279-288. «La scienza canonista perse la sua funzione fondamentale di generatrice di diritto». Le istituzioni ecclesiastiche subirono un’accelerazione verso due direzioni: imitazione della società statale da un lato e, all’opposto, sforzo di creare una dimensione normativa che si potesse sottrarre alla dimensione positiva dello stato.

(12) Sul significato di seduzione spirituale si legga Pavel Florenskij, Le porte regali, nell’edizione italiana Adelphi, gennaio 2012. Si veda anche il glossario.

(13) Si veda il prologo in Mandarins, Jews and Missionaries- The Jewish experience in the Chinese empire, di Michael Pollak, ed. Society of America, 1980.

(14) Ibidem, pag.4: «Eppure Ai Tian stava pianificando una visita alla piccola colonia (di Kaifeng) da parte di un contingente di ospiti (venuti dalla lontana Europa), un contingente di ospiti che si era stabilito recentemente a Pechino». Da queste poche righe si intende che – almeno nella fase preliminare all’incontro con Matteo Ricci – Ai Tian considerava l’arrivo degli stranieri d’Occidente in Cina come un rifiuto degli stessi nel loro paese d’origine. Ai Tian sapeva che Matteo Ricci non era stato invitato dall’imperatore ed aveva inizialmente immaginato che i viaggiatori forestieri fossero stati allontanati dalla madrepatria per una qualche ragione «non autorizzati» più a stare. Da questo punto di vista, il compito di Ai Tian non sarebbe stato solo quello di verificare l’identità dell’ospite sgradito ma anche quello di cercare di capire perché fosse indesiderato in patria. Fu quindi il dialogo fra i due che chiarì la sorte di Matteo Ricci. Una volta riconosciutane l’identità religiosa (era comunque un fedele della religione dei patriarchi), Ai Tian pensò di pianificare una visita alla colonia ebraica di Kaifeng.

(15) La traduzione del chengyu è «accompagnare il vento» (si sottintende: «facendolo entrare nella propria casa») per lavare la polvere (della propria dimora). È un chengyu, un’espressione a quattro ideogrammi con significato particolare. Proverbiali gocce di saggezza che sciolgono importanti nodi conflittuali nella comunicazione. Chi padroneggia bene i chengyu, oltre ad essere un grande saggio, è capace di elevare il pensiero alla metafora e di concretizzare il pensiero in situazioni di vita.

(16) Ibidem, Mandarins, Jews and Missionaries.

(17) Provincia a Sud Est della Cina, una provincia grande come l’Italia. Sono del distretto di 青田 Qīngtián, i genitori di Yŏng. Mi spiegano che, oggi, Qīngtián è diventata una colonia commerciale, una metropoli grazie anche agli investimenti degli attuali postmoderni 华侨 = huáqiáo, i cinesi d’oltremare che ritornano a casa a fare le ferie ad agosto. Quando le fabbriche a Forlí, Cesena e Rimini chiudono, sono finalmente liberi di andare «a rinfrescare lo spirito
(神经 = shénjīng). Si dirigono velocemente a Bologna con i loro Suv o Wuling per acquistare l’ultimo biglietto last minute AirChina. Lo 神经 (shénjīng) è da ritrovare nella loro Zhejiang. Lo shénjīng non è solo il sistema nervoso: è prima di tutto il respiro che alita sulla parola affinché il pensiero scorra meglio. In un’intervista-dialogo fra generazioni a suo figlio Zhenyu, scrive Ai Cui, signora che esce dalla strada «quando vai in Cina, le parole scorrono meglio, ti porti indietro quello spirito, di nuovo, poi finalmente ti rialzi. Quello spirito combattivo che ti porti, di nuovo ti fa rialzare».

(18) Secondo Jonathan Noble, la politica di Deng Xiaoping di liberalizzazione economica e commerciale, la politica del 开放 kāifàng, non bastò però al progresso di civile economia perché non fu supportata dalla trasmissione e traduzione dei valori estetici, etici, culturali che fanno la storia di un paese.

(19) Scrive il teologo Herbert Lauenroth: «È nel punto zero che si apre a sorpresa il Cielo [ …] Solo l’esperienza umana della paura, come perdita di un tipo d’immagine di Dio, dell’essere umano e del mondo, un tempo in voga, sprigiona ciò che Tillich ha chiamato, appunto il coraggio di esistere». Pag. 164-165 del suo articolo Nell’era della paura, in Gen’s, rivista di vita ecclesiale n°4 ed. 2016.


Hanno firmato questo dossier:

  • Vittoria Pollini, 朵朵波林老 (Duǒduǒ Bōlín lǎoshī) Laureata in filosofia presso l’Università di Bologna e in lingua e letteratura cinese presso l’Università di Kunming, Yunnan (Cina), è mediatrice culturale. Frequenta la Cina dal 2008. Il suo ultimo viaggio risale a gennaio 2019. Lavora nella progettazione di piani di comunicazione interculturale e facilitazione linguistica; collabora nelle scuole per servizi di traduzione e interpretariato cinese-italiano. Vive e lavora tra Cesena e Rimini.
  • A cura di: Paolo Moiola, giornalista redazione MC,
    墨流拉期刊, MC 编辑(Bǎoluó Mòliúlā – qíkān jìzhě, MC biānjí bù).



Arabia Saudita. Cristiani, ospiti tollerati (ma speranzosi)

Nella veste di responsabile del vicariato apostolico dell’Arabia meridionale, monsignor Paul Hinder conosce le difficoltà di vivere in paesi dove l’islam è religione di stato e la sharia fonte del diritto. Emirati Arabi, Oman e Yemen, quest’ultimo devastato dalla guerra civile, sono i paesi dove il vescovo svizzero si muove. Paesi nei quali l’Arabia Saudita, nazione egemone dell’area, non fa mancare la propria influenza. Con i soldi o con le armi.

Islam, sharia, petrolio, immigrati. Sono alcuni degli elementi che hanno in comune i sette paesi che compongono la penisola arabica. Tutti a parte lo Yemen, che non ha né petrolio né immigrati e che, per di più, da oltre quattro anni è devastato da una cruenta quanto misconosciuta guerra civile.

In quest’area domina l’Arabia Saudita, monarchia oscura (e oscurantista) verso la quale quasi tutti i paesi – in primis, gli Stati Uniti di Donald Trump – mostrano una deferenza spiegabile soltanto con le enormi ricchezze di cui essa può disporre. È Riad che guida la coalizione che combatte in Yemen. È Riad che ha imposto un duro embargo contro il riottoso (ma altrettanto ricco) Qatar. È Riad che ha fatto assassinare il giornalista dissidente Jamal Khashoggi. È Riad che, dietro le quinte, trama nella guerra di Siria e per l’isolamento dell’Iran sciita. Nella penisola arabica, dal 2011 opera monsignor Paul Hinder, vescovo svizzero di 76 anni. Il suo ruolo è quello di vicario apostolico dell’Arabia meridionale, che comprende Emirati Arabi, Oman e Yemen. Lo abbiamo incontrato prima dell’annuncio della visita di papa Francesco negli Emirati (3-5 febbraio 2019).

© Paolo Moiola

Convivere con la sharia

Monsignor Hinder, in quali paesi della penisola arabica lei sta operando?

«Oggi sono vicario apostolico degli Emirati Arabi Uniti (nella cui capitale, Abu Dhabi, risiedo), del sultanato di Oman e della repubblica dello Yemen. Dal 2005 al 2011 ero vicario anche di Arabia Saudita, Bahrein e Qatar. Poi la Santa Sede ha fatto una riorganizzazione territoriale di tutta la penisola per avere una suddivisione più ragionevole».

Come si vive in paesi dove la sharia è la principale fonte del diritto?

«Tutto dipende da come essa è applicata nella pratica. È chiaro che ci sono vari modi di interpretarla e applicarla. La sharia non è soltanto tagliare le mani o la testa. Anche se capita ancora. Per esempio, in Arabia Saudita».

Non si tratta quindi di una esagerazione giornalistica?

«Non lo è, ma questo non significa che sia l’atteggiamento generale. La sharia è tutto quello che noi consideriamo diritto civile, quello che regola le cose della famiglia, della proprietà, eccetera. Anche io sono andato alla “Corte della sharia” per delle firme. Non è una cosa di cui avere paura: è il modo per regolare i rapporti in una società musulmana. Chiaro che, per noi cristiani, ci sono dei limiti nella libertà religiosa che, in questi paesi, non è riconosciuta come una libertà propria della persona. E poi la libertà del culto, di svolgere cioè le liturgie, è limitata. Come in Arabia Saudita dove non esistono chiese, che invece esistono in tutti gli altri stati».

Intende dire che, a tutt’oggi, in?Arabia Saudita non esistono strutture adibite a chiese?

«No, anche dopo la visita del cardinale maronita (nel novembre 2017 il cardinale Bechara Rai, patriarca dei maroniti, ha incontrato re Salman a Riad, ndr). Forse un domani, ma personalmente nutro ancora dubbi. Ci sono – va precisato – delle comunità, formalmente rette dal vescovo incaricato. Informalmente esistevano anche quando ero ancora vescovo io. Ci sono messe celebrate in case private in modo discreto. Questo è tollerato in quanto non disturba altri».

Oman, Emirati Arabi, Yemen sono paesi in cui esistono le chiese intese come costruzioni?

«Esistono ma per esempio senza campanili, senza croci esterne visibili dalla strada. Poi all’interno sono come le chiese di qui, anche se non della stessa qualità estetica e culturale. La chiesa di St. Mary di Dubai ha posto per 2mila fedeli ed è ancora troppo piccola. Quella in Qatar, che avevo costruito io quando ero vescovo, può ospitare 2.700 persone sedute. Nello Yemen, a causa della guerra, le chiese sono in gran parte o parzialmente distrutte. In questo momento inoltre non ci sono sacerdoti, e comunque non sono posti sicuri per i fedeli. Quindi, la vita comunitaria dei pochi cristiani che stanno nello Yemen è sospesa. C’è una comunità di suore di Madre Teresa che continua a lavorare, a dare testimonianza a Sanaa in un modo veramente ammirevole».

Monsignore lei ha accennato allo Yemen, un paese dove è in atto una guerra molto cruenta, anche se ignorata dai media internazionali. Dal suo punto di vista, come può descrivere la situazione del paese?
Il presidente dello Yemen © UN Photo / Cia Pak

«Anch’io non so tutto perché è molto difficile avere delle informazioni affidabili di quella zona. Ovviamente la gente al telefono non parla e anche quelli che vivono nel paese non conoscono bene la realtà. Da una parte c’è la guerra e dall’altra una pace relativa o almeno senza guerra. Dobbiamo considerare che lo Yemen è sempre stato un paese in conflitto in questi ultimi decenni. Ricordo che se ne parlava già quando io ero ragazzo. Il conflitto attuale si è complicato dopo l’intervento del 2015 da parte dell’Arabia Saudita e dei suoi alleati. Un intervento che ha esteso la guerra e che ha fatto cadere sulle spalle della popolazione yemenita questa contrapposizione con l’Iran, anche se quest’ultimo non è coinvolto nello stesso modo, cioè in maniera diretta.

Cosa fare? Io credo che il problema basilare, a parte i conflitti interni, manca la capacità di arrivare a un compromesso: nella cultura del mondo arabo, o vinci o hai perso. Questa mentalità impedisce molto spesso di incontrarsi a metà strada e così si continua pensando di avere la meglio. Nel caso dello Yemen penso che nessuna delle parti arriverà alla vittoria. Credo che sia necessaria una soluzione che si elabori a livello di Nazioni Unite, se i grandi poteri vogliono. Il problema è che finora è mancata la volontà. Lasciano proseguire la guerra. Mancano le informazioni. I belligeranti non vogliono sia conosciuto troppo bene ciò che capita nel paese. A questo scopo non è consentita l’entrata dei giornalisti. Anche se sappiamo che oggi circa 5 milioni di bambini sono a rischio di morte per fame. Se capitasse che il porto di Al-Hudaydah (il principale porto sul Mar Rosso, ndr) dovesse essere chiuso, questa sarebbe la conseguenza. Poi non possiamo dimenticare le malattie. Le strutture sanitarie sono in parte distrutte. Ci sono rifugiati all’interno del paese, mentre sono relativamente pochi gli yemeniti che riescono a espatriare. Una “fortuna” per l’Europa che di certo non vuole questa gente».

Parliamo di una guerra che riguarda milioni di persone.

«Certo. Lo Yemen non è un piccolo paese: conta circa gli stessi abitanti dell’Arabia Saudita (circa 28 milioni, ndr) che però è molto più grande come superficie».

Monsignore, come mai si parla tantissimo della guerra in Siria e, al contrario, si parla pochissimo di quella in Yemen? C’è una ragione particolare?

«Particolare non lo so. Di sicuro la Siria è culturalmente più vicina a noi. Molti l’hanno conosciuta come turisti. Anch’io, quando ero consigliere generale dei cappuccini, ho frequentato molto la Siria. I poteri inoltre vedono la Siria come una zona di conflitto più importante. Anche se, a lunga scadenza, lo Yemen non sarà da meno».

(Photo by Bandar AL-JALOUD / Saudi Royal Palace / AFP)
Monsignore, torniamo sull’Arabia Saudita, il paese più potente della regione. Ci può dire qualcosa sulla situazione attuale di quel paese? Le aperture democratiche di cui si è parlato sono reali oppure sono soltanto un maquillage pensato dai reali?

«Democratiche non è il termine giusto, perché questa è una monarchia che prende le decisioni in modo assoluto. Ora stanno avvenendo dei cambiamenti, ma – questo è un mio giudizio – sono per la facciata, anche per dare l’impressione, a livello internazionale, di una relativa apertura. Il fatto che le donne possano guidare l’auto è stato considerato in Occidente come un miracolo. E lo è, ma non cambia la vita della società. Ci sono delle donne saudite che lottano per una società più aperta che sono messe in prigione. Una cosa che non possiamo dimenticare è che c’è un matrimonio tra il wahhabismo (che è l’interpretazione più severa dell’islam) e la famiglia Saud. È quasi impossibile che arrivino a un divorzio altrimenti l’Arabia Saudita, nelle forme attuali, avrà grandi problemi. Per questo non penso che il principe ereditario Mohammad bin Salman, che sembra essere l’uomo forte, possa andare avanti troppo veloce. Vedremo cosa capiterà. Piccoli cambiamenti ci sono, che riguardano anche i cristiani. Il potere della polizia religiosa è stato limitato. Non sono più frequenti le sanzioni che c’erano prima. Piccoli passi che rendono un po’ meno problematica la vita dei cristiani. Sarebbe però sbagliato che l’Occidente pensasse che i cambiamenti avverranno presto. Come accaduto ai tempi della primavera araba quando si pensò che, nel giro di qualche mese, ci sarebbe stata la democrazia per tutti. Non è possibile. Diamo il tempo a queste realtà della penisola arabica (come di altre parti del mondo musulmano) di sviluppare a modo loro il sistema politico».

Monarchie inamovibili

La benevolenza degli Stati Uniti di Trump verso l’Arabia Saudita deriva da questioni di business, da questioni geopolitiche, o da che altro secondo lei?

«Alla radice secondo me ci sono due cose principali, una è sicuramente l’economia. Chiaro che essendo il petrolio sotto il suolo dell’Arabia Saudita (e degli altri stati vicini), c’è un interesse economico. D’altra parte, gli Stati Uniti hanno sempre visto nell’Arabia Saudita un fattore di stabilità, non guardando se il regime garantisce o meno i diritti umani. Quando ci sono di mezzo politica e business, gli stati occidentali non guardano molto alla morale. Non voglio dare un giudizio ma fare una constatazione che vale non soltanto per gli?Stati Uniti ma anche per i paesi europei».

A suo personale giudizio, in questi paesi, il concetto di democrazia nell’accezione che se ne dà in Occidente potrà mai esistere?

«Non direi mai, ma sicuramente non in tempo breve. In questi paesi tutta la struttura, anche tribale, è un impedimento. Senza dimenticare che queste monarchie non vogliono perdere il potere. Ci saranno dei passi verso elementi democratici della Shura, il parlamento islamico, che comunque non rappresenta tutta la popolazione (i migranti ad esempio sono esclusi). Io mi aspetto una condivisione più grande da parte della popolazione indigena e cittadina, questo sì. Non a breve comunque, e come lo faranno non lo so. Non sarà una democrazia come la conosciamo noi. C’è poi un altro elemento da non dimenticare: loro guardano quello che succede negli Stati Uniti e in Europa o in altri posti e non sono necessariamente entusiasti di ripetere quello che ci sta capitando. Forse anche noi in Occidente dobbiamo riscoprire cosa vuol dire essere democratici con responsabilità».

Questo discorso che ha fatto vale per tutti i paesi dell’area arabica o soprattutto per l’Arabia Saudita?

«Direi per tutti gli stati, ricordando che lo Yemen formalmente è una repubblica e non una monarchia. Però abbiamo visto che non funziona se non rispettano certi elementi della tradizione. Dovrebbero trovare il modo di combinare tradizioni antiche con una modernizzazione nella condivisione del potere».

© Werner Bayer

Prove di dialogo con l’islam

Monsignore lei crede che con l’islam sia possibile dialogare?

«Penso di sì e comunque non c’è altra scelta. Quando si arriva ai contenuti delle nostre fedi diverse sicuramente si hanno dei problemi enormi da superare, perché un dialogo comporta le competenze che io per esempio non ho, dato che non sono esperto in islamologia. Sono capace di fare un dialogo umano perché vivo in questa situazione, ho delle persone che conosco che possono discutere su questo, ma non è un approfondimento delle posizioni ideologiche che posso fare. Ci sono dei tentativi. Prima di tutto ci vuole la conoscenza propria e dell’altro.?E poi trovare dei campi dove andare avanti insieme, come la pacificazione in questi paesi che è una preoccupazione di tutti. Ci saranno possibilità sul campo caritativo dove c’è una certa collaborazione e dialogo. Poi c’è la questione di avere rispetto per l’altro, rispettare l’altra religione nella sua qualità malgrado le debolezze che noi notiamo o pensiamo di notare. Sono 15 anni che sono qui e il vedere come vivono, come si forma la vita, mi ha fatto crescere il rispetto verso gli altri, e spero sia viceversa, quando loro vedono come noi viviamo. Ciò può aiutare a superare pregiudizi e anche elementi di conflittualità. Quando io conosco qualcuno nella sua diversità e lo rispetto, c’è meno rischio che ci attacchiamo fisicamente come è successo nel passato».

Sono migranti (non immigrati)

© Andreas Gebert / DPA / dpa Picture-Alliance / AFP

Risponde al vero che la maggioranza dei fedeli cattolici proviene dalle larghissime fila degli immigrati in questi paesi?

«Dobbiamo essere chiari nella terminologia: non sono immigrati nel senso stretto, ma migranti. Ci hanno detto questo gli stessi governi. Non siamo immigrati perché non possiamo rimanere e non possiamo diventare cittadini. Non esiste possibilità di naturalizzazione, neppure per quelli che parlano arabo. Pertanto, si parla di migranti che stanno in questi paesi per un tempo limitato. Tra essi ci sono alcuni di classe media che potranno rimanere praticamente per la vita, ma che non saranno naturalizzati. Possono restare se sono in grado di pagarsi il soggiorno che è concesso per 2 o 3 anni. Se poi qualcuno perde il lavoro, deve andarsene. Anche la Chiesa deve essere molto cauta perché non può promettere ai propri preti di farli restare per tutta la vita. Essere migranti rimane la nostra sorte. Come ho detto tante volte, siamo “una Chiesa di migranti per migranti”. Dal vescovo, fino all’ultimo arrivato a Dubai o ad Abu Dhabi».

Migranti, dunque. Ma da dove provengono?

«Per quanto riguarda gli Emirati, vengono soprattutto dalle Filippine e dall’India, ma anche da altri paesi arabi (Siria, Libano, Palestina) e dall’Africa, sempre di più. E poi dalla Corea e dall’America Latina. Insomma, dal mondo intero. Nella nostra chiesa abbiamo più di 100 nazionalità diverse».

Queste persone che tipo di professionalità hanno?

«C’è un po’ di tutto, ma in particolare si tratta di lavoratori del settore delle costruzioni. Nel 2020 a Dubai ci sarà l’esposizione mondiale, nel 2022 nel Qatar il campionato mondiale di calcio: c’è e ci sarà bisogno di tanti operai per due progetti mastodontici. Vivono in zone residenziali a parte. La mattina sono trasportati con il bus al lavoro per tornare alla sera. Questi non possono partecipare pienamente alla vita parrocchiale anche se facciamo degli sforzi per aiutarli un po’. Per esempio, organizzando il venerdì il trasporto alla chiesa. Poi ci sono le impiegate domestiche che sono legalmente più deboli e meno protette, anche se dipende molto dal datore di lavoro. Ci sono alcuni che portano i loro impiegati alla messa, e poi aspettano per riportarli indietro. Altri invece le trattano come vere e proprie schiave».

Per esempio, un lavoratore dell’edilizia ha uno stipendio adeguato?

«Cosa vuol dire adeguato? Anche qui ci sono leggi sul salario minimo. Sicuramente rispetto a quello che guadagnano o potrebbero guadagnare a casa loro è molto di più. Il grande problema è cosa fare quando non sono pagati o lo sono ma in ritardo di mesi. Qui iniziano i problemi e un giro legale. Un governo dovrebbe controllare di più affinché queste cose non capitino. In questi ultimi 15 anni hanno fatto dei grandi progressi, ma questo rimane un problema serio. Può così accadere che alcuni partano poveri e ritornino ancora più poveri. Altri che hanno visto la loro situazione sbloccarsi quando erano già tornati al loro paese lasciando indietro gli stipendi che per legge gli spettavano. Alle nazioni che esportano manodopera nei paesi del golfo dovremmo dire: non aspettatevi di arrivare in un paradiso. Molto spesso è una vita dura o durissima, anche quando le cose vanno normalmente. Qui si guadagna di più ma questo ha un prezzo umano. Molte famiglie si sfasciano. Per questo cerchiamo di aiutare i nostri fedeli con la pastorale».

Se io sono un migrante, in questi paesi ho diritto all’istruzione, alla sanità, insomma a usufruire dei servizi pubblici?

«Dipende dove sono. Ad esempio, ad Abu Dhabi l’assicurazione sanitaria è obbligatoria. Quindi, un datore di lavoro non può fare un contratto di lavoro senza. Anche noi come Chiesa siamo obbligati. L’accesso alle strutture sanitarie c’è, anche se alcune strutture sono soltanto per i locali. Spesso gli indiani preferiscono andare a casa propria dove la sanità è meno cara ed è buona. Quanto alla scuola, è essenzialmente privata ed è un problema per le famiglie meno abbienti a causa delle rette. Come Vicariato abbiamo scuole aperte a tutti (anche ai musulmani) e a prezzi accessibili. Questa è la nostra missione, perché per i ricchi ci sono scuole sufficienti».

Monsignore, dopo quasi 15 anni nella Penisola Arabica, come giudica questa sua esperienza?

«Io sono andato in?Arabia con una certa reticenza. Avevo paura ad accettare la nomina. Una volta arrivato mi sono dato completamente a questo compito, nonostante tutti i problemi. I fedeli mi hanno dato gioia, vedendo una Chiesa non perfetta ma molto attiva, impegnata, motivata, che mi ha aiutato ad approfondire me stesso e la mia fede. Mi sento felice qui anche se è un mondo diverso che mi rimarrà sempre un po’ straniero, ma ho imparato molto da questa cultura e non vorrei mi mancasse. Forse vent’anni fa avrei risposto diversamente a una simile domanda».

Paolo Moiola

La guerra nello Yemen

(Photo by – / AFP)

Un’arma chiamata indifferenza

Ci sono paesi dove si combattono guerre evidenti e cruente eppure dimenticate da tutti (comunità internazionale, media, opinione pubblica). Lo Yemen è uno di essi.

Sono sempre esistite le cosiddette «guerre dimenticate», conflitti evidenti e cruenti ma che, per una serie di ragioni, non arrivano o arrivano sporadicamente e parzialmente all’attenzione dell’opinione pubblica mondiale. In questa situazione l’indifferenza diventa un’arma micidiale. La guerra civile nello Yemen, paese tra i più poveri del Medio Oriente, rientra a pieno titolo nella categoria. Una guerra civile iniziata sulla fine del 2014 quando gli Huthi – un gruppo islamico sciita (di una variante nota come zaydismo) – prendono gran parte della capitale Sanaa. Nel marzo del 2015 l’Arabia Saudita, a capo di una coalizione di 10 paesi (9 dopo il ritiro del Qatar), interviene nel conflitto a fianco del deposto presidente Hadi, nel frattempo fuggito. Il paese è smembrato: una parte (quella ad Ovest) in mano agli Huthi, una parte nelle mani della coalizione saudita e una parte divisa tra al-Qaeda e Stato islamico. A dicembre 2018 le Nazioni Unite sono finalmente riuscite ad aprire colloqui di pace a Stoccolma.

A oggi la guerra avrebbe già fatto oltre 12mila morti e milioni di profughi, come milioni sarebbero le persone a rischio carestia. In tutto questo s’inserisce anche una storia nella storia che riguarda l’Italia e in generale l’Unione europea. Secondo il New York Times, la Rheinmetall Defence, una industria d’armi di passaporto tedesco ma con stabilimento in Italia (a Domusnovas, in Sardegna), è tra i fornitori di bombe dell’Arabia Saudita. La cosa sarebbe però vietata dalla legge italiana n. 185 del 1990 che vieta l’esportazione di armi verso paesi in conflitto. Senza dire che, nel settembre 2013, l’Italia ha sottoscritto il Trattato internazionale sul commercio delle armi (Arms Trade Treaty, Att) che limita fortemente la compravendita di armi. Nel frattempo, lo scorso 25 ottobre 2018 l’Europarlamento ha approvato una risoluzione che chiede agli stati membri di imporre un embargo sulla fornitura di armi a Riad, dopo l’omicidio del giornalista Jamal Khashoggi (un critico dell’intervento saudita in Yemen). La risoluzione comunitaria non è però vincolante, probabilmente perché Francia e soprattutto la Gran Bretagna sono importanti fornitori d’armi di Riad. Proprio come gli Stati Uniti, di gran lunga in testa nelle vendite all’Arabia Saudita (fonte: Sipri).

Nessun conflitto meriterebbe indifferenza. Visto il coinvolgimento di molti paesi occidentali, la guerra civile in Yemen la merita ancora meno. 

Paolo Moiola

L’assassinio del giornalista saudita

© al-Jazeera

L’affaire Jamal Khashoggi

Forse il coinvolgimento del principe ereditario non sarà mai provato. Tuttavia, l’assassinio del dissidente ha messo in grande imbarazzo Riad. E il presidente Trump.

Il 2 ottobre 2018 il giornalista saudita Jamal Khashoggi entra nel consolato del suo paese a Istanbul per sbrigare una questione burocratica relativa al matrimonio con la sua fidanzata turca. Da quel momento si perdono le sue tracce. Qualche giorno dopo la sua scomparsa si scopre che è stato ucciso da funzionari sauditi e – pare – smembrato. Tutto sembra indicare Mohammed bin Salman (Mbs) come mandante dell’omicidio.

Nato a Medina nel 1958, Khashoggi era un giornalista moderato ma critico verso il proprio paese e in particolare verso il principe ereditario Mbs, da molti (frettolosamente) eletto al ruolo di riformatore della monarchia saudita. Costretto al silenzio, nel 2017 Khashoggi aveva deciso di trasferirsi negli Stati Uniti, dove collaborava come opinionista al Washington Post.

Qualsiasi sarà l’evoluzione della vicenda (le accuse della Turchia, della Cia, del senato Usa, ecc.) per il principe ereditario saudita non ci dovrebbero essere conseguenze. Lo si è visto anche al summit del G20 di Buenos Aires, all’inizio di dicembre, quando Mbs?ha stretto mani e dispensato sorrisi. L’assassinio di Khashoggi non potrà certo fermare l’ascesa del giovane e ambizioso rampollo di re Salman.

Paolo Moiola

© al-Jazeera

I sette paesi islamici

La penisola dell’Arabia Saudita

Nella penisola arabica la Chiesa cattolica è presente con due Vicariati, uno retto da mons. Camillo Ballin e uno da mons. Paul Hinder.

Vicariato Apostolico dell’Arabia Settentrionale: vicario  mons. Camillo Ballin

Arabia Saudita:  monarchia assoluta, dal 1926 governata dalla famiglia al-Saud, il paese più importante della penisola arabica è al centro dell’interesse mondiale per le ricchezze petrolifere, le ambiguità sul terrorismo islamista e l’alleanza con gli Stati Uniti. Da giugno 2017 è attraversata da faide familiari a causa della nomina del giovane Muhammad bin Salman (Mbs) come successore di re Salman. Attualmente capeggia la rivolta contro il Qatar e la guerra in Yemen.

Kuwait: è una monarchia della famiglia al-Sabah; la maggioranza della sua popolazione è immigrata. 

Bahrein: il piccolo arcipelago è una monarchia retta dalla famiglia sunnita al-Khalifa. Da 2011 è teatro di proteste della maggioranza sciita, il cui leader, lo sceicco Ali Salman, è in prigione, condannato a vita nel novembre 2018.

Qatar: monarchia ereditaria della famiglia al-Thani, è una penisola vasta quanto metà della Lombardia, paese ricchissimo e molto attivo sulla scena internazionale (anche con il network mediatico al-Jazeera), dal giugno 2017 subisce l’embargo diplomatico ed economico da parte di Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Bahrein ed Egitto. Il 3 dicembre 2018 ha annunciato l’uscita dall’Opec, l’Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio di cui era membro dal 1961.

Vicariato Apostolico dell’Arabia Meridionale: vicario mons. Paul Hinder

Emirati Arabi: è uno stato federale composto da 7 emirati; i 2 più importanti sono Abu Dhabi e Dubai.

Oman: con meno risorse petrolifere degli altri (Yemen escluso) il sultanato dell’Oman è il più tranquillo tra i paesi della penisola arabica; il sultano Qabus è al potere dal 1970.

Yemen: il paese più povero della regione è in guerra dal settembre del 2014; si fronteggiano i ribelli conosciuti come Huthi (musulmani sciiti legati all’Iran) e una coalizione islamista guidata dall’Arabia Saudita.