Noi e Voi, lettori e missionari in dialogo


La sola vera religione

Re.mo padre direttore,
desidero da lei un consiglio spirituale. Sono abbonato alla rivista Missioni Consolata e leggo con piacere sulle sue riviste le notizie delle grandi religioni del mondo trasmesse dai Missionari della Consolata nelle diverse parti del mondo.

Le chiedo con precisione e in breve come possiamo noi cristiani confermare che la religione cristiana è l’unica e sola religione [dove] si adora e crediamo in un unico solo Dio e non come le altre religioni che adorano altri dei. Qual è la differenza? A quale religione dobbiamo credere?

In attesa di una sua cortese risposta, ringrazio vivamente e invio cordiali saluti di pace e bene.

Giuseppe, 11/02/2024

Caro signor Giuseppe,
grazie della lettera che ha scritto (a mano). Perdoni se l’ho tagliata un po’  per evidenziare la questione centrale: il cristianesimo è l’unica vera religione?

Credo dobbiamo partire da un principio fondamentale del nostro credo: tutti gli esseri umani sono creati da Dio a sua immagine e somiglianza, che essi lo sappiano o no. La conseguenza è che ogni uomo ha, consciamente o inconsciamente, nostalgia della sua origine. Quindi tutti gli uomini, di tutte le culture e di tutti i tempi, hanno trovato una loro via (legittima e doverosa) per arrivare a Dio e, soprattutto, per rispondere alle domande più profonde che ciascuno porta in sé: il senso della vita, le ragioni del dolore, il futuro dell’universo, le relazioni con gli altri, il perché della morte e tante altre.

Le religioni sono la risposta concreta a questo bisogno interiore degli uomini che hanno cercato a tentoni di dare un volto a un Dio (l’unico Dio di tutti) che non conoscono, spesso facendosi degli dèi a loro immagine e somiglianza. C’è chi ha fatto questo con malizia, usando Dio per dominare gli altri, c’è chi l’ha fatto con fede sincera per dare un volto a quella nostalgia profonda di Dio che sentivano.

Di questa ricerca è stato partecipe anche il popolo di Dio, Israele. La storia di Abramo è emblematica in proposito. Israele lo ha cercato sì, ed è uscito dall’idolatria solo grazie all’autorivelazione di Dio attraverso la parola dei profeti. Ma quanta fatica ha fatto per rimanere fedele e non ricadere nelle forme religiose dei popoli vicini e dominanti. Dio si è, però, rivelato a Israele non per fare di lui un popolo privilegiato e separato dagli altri, ma per realizzare una duplice missione: quella di far conoscere il vero volto di Dio a tutti gli uomini e diventare un «popolo di sacerdoti» che intercede e loda a nome di ogni creatura nel mondo.

Tutti i popoli del mondo sono coscienti che Dio è il creatore del mondo, ma spesso lo ritengono troppo alto e irraggiungibile per quelle povere e cattive persone che possono essere gli uomini; quindi, hanno preferito rivolgersi a intermediari più vicini e simili a noi, come gli spiriti o altri dei.

In questo contesto, perché diciamo che la religione cristiana è l’unica vera, anzi, meglio, che è l’unica che ci fa conoscere e amare il vero Dio?

Perché questa verità ci è stata trasmessa da Dio stesso attraverso Gesù Cristo, suo figlio, che si è incarnato, ha vissuto in mezzo a noi, ci ha comunicato la sua parola di Verità e per questo è stato ucciso e poi è risorto. Di questo sono diventati testimoni i suoi discepoli dopo aver ricevuto lo Spirito Santo.

Gesù, nella sua persona, ha portato a compimento le promesse e le profezie fatte da Dio ad Abramo e ai suoi discendenti, Mosè compreso. Gesù è la testimonianza viva che Dio è uno solo e non esistono altri dei. Solo attraverso Gesù noi possiamo vedere il vero volto di Dio. «Chi vede me, vede il Padre», ha detto.

Tutto bello, mi può dire, ma sono passati duemila anni da quando Gesù è venuto. Come possiamo dimostrare oggi che il Cristianesimo è l’unica vera religione?

Ecco, probabilmente l’unico modo per provarlo davvero è mettere in pratica i principi fondanti di questa religione: vivere cioè secondo l’esempio di Gesù, amando Dio e il prossimo come lui ha fatto. Una vita da santi, cioè da persone che davvero vivono sullo stile di Gesù la loro umanità come immagine di Dio è la prova migliore della verità di Gesù e della religione da lui trasmessa. Forse la prova più bella della verità della fede cristiana sono i martiri, anche e soprattutto quelli di oggi: persone che rispondono alla violenza con il perdono, all’odio con l’amore, all’avidità con la gratuità del dono, alla logica di morte con scelte di vita.

Si possono fare tutte le discussioni possibili sulle varie religioni, ognuna delle quali porta in sé un germe della verità di Dio, ma non c’è prova migliore di una vita d’amore per garantire che il Cristianesimo è la vera religione e che Gesù non è morto e risorto invano.


Beato Allamano, grazie

Vorrei condividere con voi una cosa bella successa proprio oggi, 16 febbraio 2024, festa del beato Giuseppe Allamano.

Il 13 novembre del 2022 hanno diagnosticato un tumore ad un ragazzo che conosco: Simone (nome di fantasia), 30 anni. Era un tumore molto brutto con due metastasi, una sulla spalla e l’altra sulla schiena, e inoperabile in quanto molto grande e troppo vicino alla colonna vertebrale. Pochi giorni dopo è stato operato con urgenza per asportare la metastasi sulla spalla. L’operazione è riuscita bene, ma l’istologico ha confermato la gravità della massa non operabile.

I medici purtroppo non hanno dato molte speranze perché sostenevano che, trattandosi di un ragazzo così giovane, il tumore sarebbe stato galoppante. Decisero comunque di iniziare la chemioterapia. All’inizio di gennaio 2023 era comparsa un’altra metastasi sulla spalla. Altra operazione d’urgenza con poche speranze di miglioramento. La situazione era sempre più critica. Sembrava non reagire alle cure.

La settimana successiva abbiamo accompagnato padre Francesco Peyron a Torino (da Fossano) per il terzo sabato del mese. Prima della messa ci ha accompagnati nella cappella del beato Allamano. Prima di entrare aveva detto: «Quando si visita per la prima volta una chiesa con la tomba di un santo o di un beato si può chiedere una grazia».

Abbiamo sostato un po’ sulla tomba dell’Allamano. Ho pensato a Simone. Non ho chiesto niente, ho soltanto detto: «Stai con lui e la sua famiglia». Poi qualche settimana dopo, a febbraio dell’anno scorso, il primo giorno del triduo dell’Allamano nella casa dei missionari a Fossano, all’inizio della messa, padre Francesco ha detto: «Il triduo è un momento di grazia. Ora faremo un momento di silenzio nel quale ognuno di voi può presentare al Signore, con l’intercessione del beato Allamano quello che sente più vero nel cuore». Io ho di nuovo pensato a Simone. Non ho chiesto nulla. Ho solo detto: «L’affido a Te, Tu hai guarito l’Allamano». E ho detto un’Ave Maria.

Nel frattempo Simone proseguiva con la chemioterapia, senza miglioramenti ma neanche peggioramenti. Il 5 aprile (mercoledì santo) i medici gli hanno comunicato che avrebbero sospeso la chemioterapia due settimane prima del previsto perché inaspettatamente i valori si erano normalizzati. Gli esami successivi hanno confermato che i valori erano rientrati. I medici erano stupiti e sorpresi. Non riuscivano a spiegare l’accaduto. L’11 maggio (mese di Maria), dopo ulteriori accertamenti, Simone, ha ricevuto una telefonata dall’oncologo che lo seguiva. Gli ha detto: «Simone, sei seduto?». E lui ha subito pensato al peggio. Ha proseguito dicendo: «Inspiegabilmente sei guarito, gli esami sono perfetti, i linfonodi quasi completamente rientrati». Gli ha detto che non aveva mai visto una reazione del genere, assolutamente inaspettata.

Il linfonodo nella schiena c’è ancora, ma non risulta più pericoloso. Altra cosa che i medici non sono riusciti a spiegare: dal mese di giugno 2023 si è sottoposto periodicamente ad esami e controlli, risultati tutti ok. A fine di gennaio di quest’anno aveva i primi esami di controllo generale: tutti ok.

Lode a Dio e a Maria e un grazie immenso e specialissimo al beato Allamano.

Ultima cosa che vorrei ancora raccontarvi per lodare e ringraziare è questa. Durante i mesi della terapia, nonostante fosse debole e sofferente, spesso diceva: «Sto male, ma mi sento sereno». In quei mesi abbiamo pregato tanto, l’ho portato ogni giorno nella messa. L’Allamano è proprio stato con lui. «Il bene va fatto bene» e lui è stato di parola. Gesù con Maria sono andati oltre, sorprendendo come sempre. Che bello.

Nadia Luciano,
Villanovetta, Cn, 16/02/2024


Nelle steppe di Gengis Khan

Alla fine del 2023 è uscito in libreria, pubblicata dalla Effatà editrice, il corposo libro (oltre 270 pagine) intitolato «Nelle steppe di Gengis Khan» di Pier Giuseppe Accornero, un sacerdote giornalista di Torino che si occupa di informazione sociale ed ecclesiale.

Più che un semplice libro, quello di Accornero è quasi un’enciclopedia dedicata alla vita missionaria della Chiesa piemontese. Partendo dal cardinal Giorgio Marengo, e quindi anche dal beato Giuseppe Allamano che ha fondato i Missionari della Consolata di cui il cardinale è parte, l’autore ci conduce per mano a scoprire la vitalità missionaria della regione fin dai tempi del Regno di Sardegna. Pagine piene di informazioni e curiosità di estremo interesse e poco conosciute.

Ma lascio la parola a padre Stefano Camerlengo che ne ha scritto la prefazione.

«Il libro di Pier Giuseppe Accornero si prefigge di offrire ai lettori lo spaccato di una realtà, per certi versi, ignota al grande pubblico. Nei primi capitoli illustra come nell’immensa distesa della Mongolia, un figlio della terra pedemontana guida con mano sicura e con grande apertura di cuore e di intelligenza il suo «pusillus grex, piccolo gregge» di cristiani e riesca a intessere relazioni fraterne e fruttuose con uomini e donne di altre fedi religiose. Un seme che sta spuntando e che annuncia un futuro promettente. La fecondità del Piemonte per la sua poliedrica personalità merita attenzione e diffusione. Un attore giovane ha raggiunto quella terra e vive ora nella lontana Mongolia.

Questa terra dalle dimensioni enormi merita attenzione anche perché ha attirato l’amore apostolico di papa Francesco. […]

Dal capitolo terzo l’autore continua la sua opera con mano decisa e con un linguaggio svelto e leggero a presentare i grandi protagonisti, principalmente subalpini, che hanno segnato le tappe più importanti della diffusione del Vangelo, sotto il patronato di grandi papi che si sono succeduti nella Sede apostolica […].

In questa sezione del libro, l’autore presenta in sequenza un grandissimo numero di grandi missionari, tutti, eccetto qualcuno, figli e figlie della terra pedemontana. La loro azione missionaria abbraccia l’intero globo terraqueo. Si va dalle numerose nazioni latinoamericane alle molte nazioni africane e ad alcune regioni dell’Asia. Il loro idioma piemontese si riverbera su molte latitudini e longitudini del globo e semina nel cuore dei popoli il seme della Parola eterna del Padre, la quale darà frutto a suo tempo perché irrorata anche dal sangue di molti che hanno pagato la loro testimonianza a Cristo risorto con la loro vita. Tertulliano ha detto: “Il sangue dei martiri è il seme di nuovi cristiani”. Il Piemonte ha dato anche questo meraviglioso contributo alla propagazione del Vangelo.

Ci permettiamo di raccomandare questo libro a tutti coloro che amano essere edotti del cammino, anche se faticoso, della Chiesa di Cristo. Tra le pagine di questo libro, che raccoglie la testimonianza di gente generosa infiammata dall’amore del Vangelo, si respira un’aura di fede e uno sviscerato amore per la Parola del Vangelo. A un lettore attento germoglierà nel cuore, oltre che l’ammirazione di tanta fedeltà al Vangelo anche una timida preghiera per coloro che consumano ogni giorno la loro esistenza nei diversi angoli della terra».

padre Stefano Camerlengo
superiore generale emerito

Si può ordinare il libro direttamente su https://editrice.effata.it


Settimana biblica a Caserta

Egregio Direttore,
anche quest’anno la diocesi di Caserta organizza la Settimana biblica, giunta alla XXVII edizione, con il patrocinio dell’Associazione biblica italiana, in collaborazione con l’Istituto superiore di Scienze religiose interdiocesano «SS. Apostoli Pietro e Paolo» e con la segreteria del Centro apostolato biblico diocesano.

La Settimana biblica si terrà a Caserta da lunedì 1° luglio 2024 e fino a venerdì 5 luglio 2024.

Tema della XXVII edizione sarà «La comunità e i discepoli nel Vangelo secondo Matteo», con i biblisti Giulio Michelini e Francesco Filannino.

Questa esperienza di conoscenza del testo biblico ci pone davanti il cammino sinodale della Chiesa aperta all’ascolto della Parola di Dio per discernere secondo lo spirito del Vangelo, il cammino da seguire tutti insieme. Tutto il popolo di Dio è convocato in assemblea per ascoltare ciò che lo Spirito dice alla Chiesa.

Sul sito del Centro apostolato biblico trovate tutte le notizie utili per iscriversi e partecipare alla Settimana biblica di Caserta.

Cordiali saluti

don Valentino Picazio,
Caserta, 25/02/2024

Per partecipare alla settimana biblica vai al sito
www.centroapostolatobiblicocaserta.it
email: centroapostolatobiblicogmail.com




La Cina è grande, ma non ha spazio per noi

testo di Luca Lorusso |


Un uomo di 37 anni, una donna di 30. Entrambi cinesi e fedeli della Chiesa di Dio Onnipotente, nuovo movimento religioso perseguitato in Cina. Sono richiedenti asilo in Italia con il rischio concreto di essere espulsi.

Un dialogo con due perseguitati

«A giugno del 2003, mentre andavo a un incontro di preghiera, la polizia mi ha fermato per un controllo. Nel mio borsello hanno trovato il libro sacro della Chiesa di Dio Onnipotente, e me l’hanno portato via. Arrivati al posto di polizia mi hanno fatto un interrogatorio per avere informazioni sui miei fratelli [di fede, nda], ma io non ho dato nessuna informazione, così mi hanno tirato uno schiaffo, mi hanno preso a calci e pugni e poi mi hanno portato in un posto segreto».

L’uomo che ci parla via Skype dalla sede dell’associazione della Chiesa di Dio Onnipotente (Cdo) di Milano, dice di chiamarsi Marco (nome di fantasia), richiedente asilo per motivi religiosi di 37 anni, proveniente dalla Cina. Capisce poco l’italiano e lo parla ancora meno. Si fa aiutare da una giovane «interprete», sorella della sua stessa fede, seduta alla sua sinistra, con qualche difficoltà in meno nella lingua.

foto in CC da evanse1_flickr – https://www.flickr.com/photos/145837323@N08/39243506842/

Fedeli a Dio Onnipotente

Marco indossa una t-shirt a righe orizzontali bianche e grigie. È un po’ spettinato. Il suo volto sembra sereno, nonostante quello che ci racconta. Appare come un uomo molto semplice. Accanto a lui, alla sua destra, c’è Vivian (altro nome di fantasia), donna di trent’anni dal viso tondo e un po’ dolente. Indossa una camicetta color panna, con motivi floreali. Anche lei si fa aiutare nelle traduzioni da un’altra giovane cinese dall’italiano incerto, Sabrina.

Marco e Vivian sono fuggiti entrambi nel 2015 dalla Cina a causa della persecuzione.

Tutti e quattro sono membri della Cdo, un movimento religioso nato in Cina nel 1991, e dal 1995 perseguitato con crescente violenza dal regime del Partito comunista cinese (Pcc).

Attualmente i seguaci di questo nuovo movimento sono circa 4 milioni, soprattutto in Cina. Secondo un rapporto pubblicato dalla stessa Cdo, «tra il 2011 e la fine del 2019 sono stati arrestati dalle autorità cinesi più di 400mila cristiani della Chiesa di Dio Onnipotente».

Reclusione arbitraria

Marco prosegue il suo racconto: «Arrivati in quel posto segreto, la polizia voleva informazioni sulla chiesa. Mi ha ordinato di divaricare le braccia e le gambe, anche se mi mancavano le forze per sostenermi. Il poliziotto mi ha schiaffeggiato diverse volte, poi mi ha picchiato sulla testa usando un libro. Mi ha colpito il viso. Mi ha proibito di andare in bagno. Mi ha coperto di insulti. Senza nessun tipo di processo legale, il governo mi ha condannato a un anno di lavori forzati con l’accusa di avere violato l’articolo 300 del codice penale [quello che definisce reato l’appartenenza a una delle xie jiao, le “sette malvagie” considerate associazioni sovversive, tra le quali figura anche la Cdo, nda].

Nella prigione, i poliziotti hanno istigato gli altri detenuti a tormentarmi. Sono stato costretto a spogliarmi completamente e a mettermi a gambe e braccia divaricate, poi mi hanno quasi soffocato puntandomi un getto d’acqua sul viso.

In prigione, i credenti sono considerati criminali politici, e quindi i secondini e i prigionieri m’insultavano e maltrattavano.

Quella in cui ero recluso, era una struttura di rieducazione. Si viveva una vita inumana: in 50 metri quadrati stavamo in più di 70 persone. Le condizioni igieniche erano pessime. Ogni giorno dovevo fare 14 ore di lavori forzati in una fabbrica di pelletteria per scarpe. Solo la Parola di Dio Onnipotente mi ha dato fede e forza per sopportare quella vita in prigione».

Una vita latitante

Marco è stato informato del motivo della sua condanna, ma non ha mai visto un avvocato, né un giudice: «In Cina, i comunisti non rispettano la legge. Se una persona crede in Dio, non ha diritto di difendere i suoi diritti. Non ho potuto difendermi in nessun modo».

La prima volta che Marco ha potuto rivedere i suoi famigliari è stata tre mesi dopo l’arresto. Le visite erano concesse una sola volta al mese. Gli incontri avvenivano attraverso un vetro, e Marco poteva parlare con i suoi famigliari tramite un telefono.

«Dopo aver lasciato la prigione, io, mia sorella e i miei genitori siamo stati costretti ad andare a vivere in un’altra provincia per continuare la nostra vita. Io poi non avevo la carta d’identità, nessun documento. Non potevo lavorare né affittare un appartamento in modo regolare. Però vivevo la mia vita e la mia fede.

In Cina, i documenti dei credenti che sono stati arrestati sono bloccati. Sono registrati dalla polizia su internet, quindi io non potevo usarli per fare altre cose.

Dal 2004 al 2012 sono stato senza documenti, poi, nel 2012, con l’aiuto di un amico che aveva le conoscenze giuste, sono riuscito a fare il passaporto. Nel 2015 un fratello di fede che viveva con me, è stato arrestato. Di conseguenza anche io ero in pericolo. Allora ho deciso di scappare». Il 2015 è stato l’anno dell’Expo di Milano e del giubileo straordinario. In quell’anno era semplice ottenere un visto per l’Italia. «Con l’aiuto dell’amico che mi aveva procurato il passaporto, ho ottenuto un visto e sono partito per fare richiesta di protezione internazionale in Italia».

Paura di tornare

La questione del passaporto è spesso uno dei punti critici per l’ottenimento dello status di rifugiato in Italia. Le commissioni territoriali, e poi i tribunali dei ricorsi, si domandano come sia possibile per una persona «schedata» ottenere un regolare passaporto dalle stesse istituzioni che perseguitano. È opinione comune di chi si occupa di questa tipologia di richiedenti asilo, però, che l’alto livello di corruzione in Cina possa aprire maglie abbastanza grandi nella fitta rete dei controlli.

Oggi Marco è in attesa della sentenza della cassazione sulla sua richiesta di asilo, dopo il diniego in prima istanza e la perdita del ricorso in appello. Grazie al permesso di soggiorno temporaneo, lavora come rider per un ristorante, consegnando cibo a domicilio, e ciò che guadagna lo usa anche per pagare l’avvocato. Marco ci racconta che finalmente in Italia può vivere liberamente la sua fede, ma che comunque continua ad avere paura: ad esempio per i genitori e la sorella, anch’essi credenti in Dio Onnipotente, rimasti in Cina e mai più sentiti dal momento della sua partenza per evitare di essere intercettato dal governo che controlla telefono e internet, e quindi creare problemi ai suoi. La sua paura più grande, poi, è quella (concreta) di essere espulso e di dover tornare in Cina, dove è certo che verrebbe nuovamente arrestato.

foto in CC da guandoandelei_flickr – Una cristiana indonesiana femminile espresse i suoi sentimenti dopo aver creduto in Dio Onnipotente – https://www.flickr.com/photos/160458804@N06/32309036097/in/photostream/

La storia di Vivian

Mentre Marco parla, alla sua destra intravvediamo Vivian, inquadrata a metà dalla webcam, che annuisce a tutte le parole di Marco. Quando ci rivolgiamo a lei, Vivian sposta la telecamera su di sé e inizia il racconto: «L’11 dicembre 2011 stavo andando a un incontro di predicazione del Vangelo con alcune sorelle che lavoravano nella stessa azienda, ma siamo state arrestate. La polizia non ha mostrato nessun documento, però ci ha costrette a salire su un’auto e ci ha portate in una caserma. Lì, ci minacciavano dicendoci che in Cina non possiamo credere in Dio, ma solo nel Pcc. Poi ci hanno portate in un posto dove non ci hanno dato da mangiare e bere. Quella sera il direttore dell’azienda è venuto in caserma per salvarci. I poliziotti ci hanno minacciate dicendoci che se avessimo continuato a credere in Dio, saremmo state arrestate di nuovo e condannate. Al direttore della compagnia, invece, hanno detto che doveva convincerci a rinunciare alla nostra fede».

Quando Vivian è tornata nell’azienda, i colleghi non le parlavano e lasciavano in vista giornali con informazioni negative sulla Chiesa di Dio Onnipotente: «Il governo cinese ha fabbricato false notizie sulla Cdo, e le divulga».

Dato che la situazione era sempre più pesante, a un certo punto la donna ha deciso di rinunciare al lavoro e di trasferirsi in un’altra città.

Pregare nascosti

«In Cina non possiamo vivere la nostra fede apertamente. Normalmente per pregare ci troviamo in tre o quattro persone a casa di un fratello. Quando si entra, si controlla che non ci sia nessuno che ha visto, poi si chiudono porte e finestre per non far sentire le voci, e lasciamo qualcuno fuori a fare il palo. Tra fratelli non usiamo internet e telefono, scriviamo lettere da portare a mano.

Nel giugno 2013 il governo ha arrestato il capo locale della Cdo e alcuni fedeli della regione nella quale mi ero trasferita, e sono stati condannati. Quel capo aveva informazioni su di me, quindi mi sentivo in pericolo. Allora mi sono di nuovo trasferita in un’altra provincia, e mi sono nascosta in una casa. Sono stata nascosta 14 mesi. Mi mancavano i miei genitori, ma non osavo fare una chiamata. Non osavo fare niente».

Vivian è diventata credente della Cdo nel 2012. I suoi genitori, invece, lo erano già dal 1998. Quando parla di loro, ha la voce rotta dalla commozione, e si asciuga le lacrime: «Non li ho mai più sentiti. Anche mia mamma nel gennaio 2013 è stata arrestata. Da quando è stata rilasciata non ho avuto più contatti. In quel periodo avevo molta paura: il governo continuava ad arrestare membri della chiesa che sapevano dove vivevo, quindi ogni volta dovevo cambiare casa. In questa situazione ho deciso di andare all’estero. Anche se la Cina è grande, per i credenti non c’è un posto per vivere.

Nel 2015 grazie a un amico che lavorava nella polizia e che poi è stato condannato, sono riuscita ad avere il visto per l’Italia e sono partita».

Richiesta di asilo

Vivian, quando viveva in Cina era designer per un’azienda di scarpe. Ora, in Italia, lavora nei fine settimana in un ristorante. Ci tiene a dire che usa molto del suo tempo libero per fare volontariato: «A Roma, a Torino e a Milano, i fedeli della Cdo organizzano attività religiose, oppure iniziative per promuovere i diritti umani o i diritti della donna. Gli Italiani sono sempre molto gentili e ci aiutano. Quando ho tempo, vado volentieri a fare volontariato per aiutarli».

Anche la sua domanda per il riconoscimento dello status di rifugiata è stata respinta. A differenza di Marco, che è già all’ultimo passaggio, lei è in attesa della sentenza di secondo grado. «Sto facendo il ricorso al tribunale dopo il rifiuto della mia richiesta», ci dice, poi il suo volto si scurisce: «Quando ho fatto il colloquio con la commissione, non mi lasciavano raccontare la mia storia. M’interrompevano. Mi facevano domande sui miei genitori. Non ho potuto raccontare la mia storia completa».

Marco interviene per dirci che anche a lui è successa la stessa cosa: «A causa della pressione del Pcc sui paesi stranieri, e delle notizie false prodotte dal governo cinese, è difficile per i rifugiati cristiani ottenere l’asilo. Io ho sperimentato la persecuzione del Pcc, ma la commissione territoriale alla quale mi sono rivolto non l’ha riconosciuta e non ha accettato la mia domanda. In commissione, è successo anche a me che mentre raccontavo sono stato interrotto».

Rischio espulsione

«In Italia la situazione per la fede religiosa è migliore che in Cina», dice Marco. «Qui posso parlare della mia fede. Come ha detto Vivian, in Cina non posso raccontare quello in cui credo, non posso predicare il Vangelo, perché il Pcc incoraggia a denunciare i credenti. La situazione è molto pericolosa.

La mia richiesta di asilo in Italia è stata rifiutata due volte. Se anche la cassazione dovesse rifiutarla, la mia situazione sarebbe grave. So di altri che sono stati rimandati in Cina, anche da altri paesi, e sono stati arrestati di nuovo e condannati a tre anni e anche di più. Ho sognato diverse volte la scena di essere di nuovo arrestato. La mia speranza è che il giudice accetti la mia richiesta per rimanere in Italia e poter continuare a vivere la mia fede».

«In Italia sono più tranquilla», conclude Vivian, «ma sono comunque ancora preoccupata, perché qui la libertà religiosa è garantita, ma la mia richiesta di asilo è stata rifiutata. Se anche il ricorso che ho fatto venisse rifiutato, sarebbe molto brutto. Ho molta paura di essere rimpatriata in Cina».

Luca Lorusso

Archivio MC sui richiedenti asilo cinesi in Italia:
Luca Lorusso, Dalla Cina all’Italia, rifugiati per religione, in MC agosto 2019.


La Chiesa di Dio Onnipotente

La Chiesa di Dio Onnipotente (Cdo) è un nuovo movimento religioso cinese, fondato nel 1991 da Yang Xiangbin, donna nella quale, secondo la fede dei suoi credenti, si è incarnato Dio Onnipotente.

Nata nel 1973 nella Cina Nord Occidentale, dal 2001 Yang Xiangbin è rifugiata politica negli Usa insieme al numero due della Cdo Zhao Weishan.

La Cdo è nota anche come Folgore da Oriente o Lampo da Levante, definizione che viene dal Vangelo di Matteo (24,27) che profetizza la seconda venuta di Cristo: «Come la folgore viene da Oriente e brilla fino a Occidente, così sarà la venuta del figlio dell’Uomo». Il dato dottrinale di fondo, infatti, è la nuova incarnazione di Cristo in Cina per inaugurare la terza Età dell’umanità.

Alcuni studiosi definiscono questo credo come «cristiano», con una teologia che differisce dalle chiese tradizionali per diversi aspetti, ma che per altri sembra radicata nel filone del protestantesimo. Yang Xiangbin, infatti, prima di rivelarsi come Dio Onnipotente, era membro degli Shouters, una delle molte chiese domestiche diffuse (e perseguitate) in Cina e nate da rami fondamentalisti delle chiese riformate.

La donna, nel febbraio 1991, durante alcune riunioni degli Shouters, ha cominciato a parlare della realizzazione del Regno di Dio Onnipotente. Le sue parole, da subito, sono state considerate da molti come ispirate dallo Spirito Santo e paragonate per autorità e potenza a quelle di Gesù Cristo.

La diffusione delle parole di Dio Onnipotente ha subito poi un’accelerata grazie a Zhao Weishan, nato nel 1951, leader di un ramo degli Shouters, «convertito» alla nuova rivelazione e divenuto, di fatto, la guida principale della Cdo, dopo Yang Xiangbin.

La Cdo è stata inserita dal governo cinese nella lista degli xie jiao, i «culti malvagi», già nel 1995. In seguito alla persecuzione, nel 2000, i due leader Yang e Zhao, hanno raggiunto gli Usa, dove nel 2001 hanno ottenuto asilo politico.

Nonostante la rigidità della dottrina, le «purghe» interne che pare abbiano portato nei decenni ad alcune centinaia di migliaia di espulsioni, e nonostante le persecuzioni del Pcc, la Cdo ha continuato a crescere fino a raggiungere la cifra stimata di 4 milioni di fedeli.

Dal 2014, la persecuzione si è inasprita, tanto da spingere molti a fuggire e a fondare comunità in tutto il mondo.

Teologia

Il testo sacro fondamentale della Cdo è La Parola appare nella carne, pubblicato nel 1997. Contiene una raccolta di affermazioni di Yang Xiangbin, cioè Dio Onnipotente, il Signore Gesù ritornato per inaugurare la terza età dell’umanità, l’Età del Regno. Le prime due sono state l’età della Legge, cioè l’epoca dell’Antico Testamento, e l’età della Grazia, iniziata con la vita pubblica di Gesù. La Bibbia cristiana non viene rinnegata, ma riconosciuta come scrittura «imperfetta» delle due età della Legge e della Grazia.

Se con Gesù i peccati degli uomini sono stati perdonati, però la loro natura depravata non è stata cancellata.

Nell’Età del Regno, Dio si fa carne in Cina per compiere in modo definitivo la sua opera e rendere perfetto un gruppo di persone. Non vi sarà un’altra incarnazione di Dio dopo quella attuale in Dio Onnipotente.

Negli ultimi giorni, quando un gruppo di credenti sarà reso perfetto, i giusti saranno riconosciuti e i malfattori additati, Dio Onnipotente distruggerà la natura peccaminosa degli uomini, ed entrerà nel riposo eterno insieme ai perfetti.

L’età del Regno è l’ultimo periodo di purificazione, al termine del quale ci sarà il Regno Millenario: quando Dio Onnipotente tornerà al Cielo, seguiranno le catastrofi annunciate nell’Apocalisse. Ma la Terra non sarà distrutta, bensì trasformata per essere la dimora eterna dei seguaci purificati di Dio che vivranno per sempre nel Regno di pace e bellezza.

Cdo e comunisti

La teologia della Cdo identifica il Partito comunista cinese con il «grande drago rosso» dell’Apocalisse. Il Pcc, infatti, oppone resistenza a Dio perseguitando i fedeli proprio come la figura menzionata nell’ultimo libro della Bibbia. Detto questo, però, la Cdo è anche convinta che il drago cadrà da solo sotto il peso dei propri errori, quindi non è necessario ribellarsi, e anzi vieta ai fedeli di prendere parte a qualsiasi attività politica. Il fatto quindi che il governo cinese tema un’attività eversiva di questo movimento religioso, non ha un fondamento concreto.

Le persecuzioni

A inizio 2020 la Chiesa di Dio Onnipotente ha pubblicato un rapporto sulle persecuzioni subite in Cina dai suoi fedeli. In esso si legge: «Tra il 2011 e la fine del 2019 sono stati arrestati dalle autorità cinesi più di 400mila cristiani della Chiesa di Dio Onnipotente, ed è ampiamente documentato che i credenti morti in seguito alle persecuzioni dalla fondazione della Chiesa sono 146».

Secondo il rapporto, nel solo 2019 almeno 32.815 fedeli della Cdo hanno subito qualche forma di persecuzione, 6.132 sono stati arrestati, 4.161 dei quali detenuti per brevi o lunghi periodi e 3.824 hanno subito torture e indottrinamento forzato. Sono stati condannati 1.355 membri, 481 dei quali a pene di 3 anni o più, 64 a pene di 7 anni o più e 12 a pene di 10 anni o più. Tra gli arrestati, il rapporto c’informa che il più giovane aveva 14 anni, il più vecchio 86. «Nel 2019 almeno 19 cristiani della Chiesa di Dio Onnipotente sono morti a causa della folle caccia all’uomo[…]. Alcuni per le torture subite durante la detenzione; altri hanno contratto malattie gravi ma sono rimasti ugualmente reclusi e alla fine hanno perso la vita per il peggioramento delle loro condizioni dopo essere stati assoggettati a prolungati maltrattamenti e lavori forzati […]».

Il sito d’informazione Bitter Winter riferisce che «a tutto giugno 2019, 2.322 fedeli della Chiesa di Dio Onnipotente hanno chiesto asilo nei paesi dell’Unione europea. Sebbene alcune recenti decisioni giudiziarie siano incoraggianti, finora l’asilo è stato concesso solo a 265 di loro, ovvero l’11,4%. […] Nell’Ue, 307 rifugiati hanno ricevuto ordini di rimpatrio e rischiano ogni giorno di essere rimandati in Cina, 227 di loro si trovano in Francia. Alcuni sono stati effettivamente espulsi. Studiosi e Ong hanno documentato che quando coloro che vengono espulsi giungono in Cina, normalmente vengono arrestati o “scompaiono”».


Due libri per conoscere:




Scienza versus religione

testo di Piergiorgio Pescali |


Molti scienziati rifuggono la religione perché la considerano una superstizione. Un tempo la scienza doveva assoggettarsi ai dettami religiosi. Oggi la religione (e l’ideologia) influenza ancora il  progresso scientifico? Esiste un punto d’incontro?

Il rapporto tra scienza e religione è stato sempre problematico e ha nel processo a Galileo Galilei (1564-1642) l’esempio (non unico) della lunga incomprensione che, per secoli, ha opposto due categorie del pensiero umano.

La Chiesa cattolica è sempre stata (almeno nel mondo occidentale) uno dei principali attori in questo dialogo-scontro, assumendo spesso atteggiamenti ambigui. Durante lo stesso processo a Galileo (tenutosi a Roma nel 1633) il verdetto fu aspramente combattuto tra i cardinali non tanto sulla tesi eliocentrica, che oramai sapevano essere più semplice e veritiera rispetto alla tesi geocentrica (lo stesso papa Gregorio nel 1582, 50 anni prima del processo, riformò il calendario basandosi sull’eliocentrismo), ma perché la fazione del cardinale Bellarmino, ostile a Galileo, pretendeva che lo scienziato ammettesse di parlare «ipoteticamente e per supposizione». Questa ammissione avrebbe dato alla Chiesa la possibilità di salvare capra e cavoli rimanendo ancorata al famoso versetto biblico («E il sole si fermò e la luna rimase al suo posto», Giosuè 10,12-13), ma al tempo stesso avrebbe potuto ammettere l’ipotesi che la Terra girasse attorno al Sole. Contro Bellarmino e a favore di Galileo si era posto il cardinale Barberini.

Del resto 97 anni prima, un altro astronomo, Copernico (1473-1543), aveva pubblicato il De Revolutionibus (1536), avendo però l’accortezza di far scrivere una prefazione al furbo ecclesiastico Andreas Osiander il quale, ben sapendo quanto gli aristotelici fossero potenti all’interno della Chiesa cattolica scrisse che «Non è affatto necessario che queste ipotesi siano vere, e neppure che siano verosimili: piuttosto, è sufficiente una sola cosa: che diano luogo a calcoli che concordano con le osservazioni».

Il risultato fu che le tesi eliocentriche di Copernico furono accettate senza grossi problemi (almeno da parte cattolica; i luterani furono meno indulgenti), mentre Galileo venne condannato.

Padre Lemaitre, S.J.

I gesuiti e il big bang

Nel corso dei secoli il dialogo scienza-religione si è sviluppato tra collaborazioni e incomprensioni anche all’interno di cornici ideologiche.

Il Big Bang, ad esempio, non fu accettato dall’intellighenzia sovietica e stalinista degli anni Trenta-Quaranta in quanto teorizzava una creazione che, a parere degli inesperti tutori ideologici, assomigliava troppo alla Genesi biblica venendo bollato come teoria pseudo-scientifica e idealistica.

Uno dei motivi principali di questa emarginazione era anche il fatto che il principale teorico del Big Bang fu il belga Georges Lemaître (1894-1966), il quale, oltre che essere matematico e cosmologo, era anche un gesuita.

L’opposizione di Stalin al Big Bang si scontrava dogmaticamente anche al sostegno dato da papa Pio XI alla teoria della cosmologia relativistica.

In realtà Lemaître non concepì mai il Big Bang come una creazione, e fu sempre molto attento nel distinguere «principio» e «creazione» del mondo. Secondo Lemaître, il modello del Big Bang «resta del tutto lontano da ogni questione metafisica o religiosa (e) lascia il materialista libero di negare qualsiasi Essere trascendente». Pressoché tutti i fisici condividono la frase del gesuita belga sostenendo che, per spiegare la cosmologia del Big Bang, non è necessaria l’idea di un creatore e dal 1951 anche i papi non hanno mai usato il Big Bang per esprimere la scientifica dimostrazione dell’esistenza di Dio.

APOLLO 8 MISSION (© Nasa)

La Nasa e la Bibbia

La stessa Nasa oggi è estremamente cauta nel mischiare, anche involontariamente, la religione nelle sue imprese spaziali.

Già durante il viaggio spaziale dell’Apollo 8 nel 1968 i tre astronauti, Frank Borman, Jim Lowell e William Anders, lessero un passo della Bibbia tratto dalla Genesi. Era la vigilia del Natale e William Anders inviò un messaggio dicendo: «A tutte le persone sulla Terra, l’equipaggio dell’Apollo 8 ha un messaggio che vorrebbe inviarvi», leggendo, immediatamente dopo, dei passi biblici alternandosi con i suoi compagni di viaggio (Genesi 1, 1-4; Genesi 1, 5-8; Genesi 1, 9-10).

Lo stesso Borman, comandante della missione concluse il messaggio dicendo: «Dall’equipaggio dell’Apollo 8 vi auguriamo una buona notte, buona fortuna, un felice Natale e che Dio vi benedica tutti, tutti quanti sulla Terra».

La lettura della Bibbia scatenò una polemica guidata da Madalyn Murray O’Hair, fondatrice e presidentessa dell’Associazione degli ateisti americani, secondo cui i tre astronauti avrebbero violato il primo emendamento della costituzione statunitense che recita: «Il Congresso non promulgherà leggi per il riconoscimento ufficiale di una religione, o che ne proibiscano la libera professione; o che limitino la libertà di parola, o di stampa; o il diritto delle persone di riunirsi pacificamente in assemblea e di fare petizioni al governo per la riparazione dei torti».

La O’Hair citò a giudizio il governo statunitense ma, in tutti e tre i processi che seguirono, i giudici ritennero non valida l’accusa.

Sebbene il procedimento nei confronti dello stato non abbia avuto alcuna conseguenza legale, la Nasa non ritenne opportuno sfidare di nuovo l’agguerrita presidentessa degli ateisti e vietò ad Aldrin la lettura del passo biblico che si era preparato nel suo viaggio sulla Luna del 1969 («Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla», Gv 15,5) e la diretta mondiale della comunione.

Religione e scienza, oggi

Viene quindi spontaneo chiedersi quanto ideologia e religione influenzino il progresso scientifico.

Sebbene siano lontani i tempi oscurantisti in cui la scienza doveva assoggettarsi alle esigenze ecclesiastiche, esistono ancora pressioni da parte di forze estranee al sapere scientifico.

Oggi gran parte delle Chiese cristiane storiche hanno imparato a convivere con il pensiero razionale e materialistico, ma in tempi recenti lo scontro tra religione e astronomia ha coinvolto altre fedi e altri credi.

Il caso più eclatante e molto controverso nella sua dinamica lo si è avuto negli anni Ottanta con il telescopio Vaticano a tecnologia avanzata sul monte Graham, in Arizona. Fondato dal Vatican observatory research group di Tucson in collaborazione con l’Università di Arizona, l’Osservatorio di Arcetri e il Max Planck institute, il complesso astronomico sorge su un territorio considerato sacro da una parte degli Apache della riserva di San Carlos, che chiamano «Dzil Nchaa Si An» (Grande montagna seduta). Dato che nel 1873 il monte Graham venne rimosso dalla riserva di San Carlos diventando terra pubblica, il consorzio scientifico non era legalmente tenuto a negoziare la costruzione del telescopio con la comunità apache locale.

All’inizio, alcuni gruppi ecologisti avanzarono preoccupazioni per la presenza di attività umane in un territorio che ospitava una specie protetta: lo scoiattolo rosso del monte Graham. In seguito, alle proteste ambientaliste, si innestarono quelle di alcuni indiani guidati da Ola Cassadore Davis, una leader spirituale apache che, tra l’altro, non viveva neppure nella riserva e che aveva preso a cuore la vicenda del monte Graham dopo aver avuto contatti con spiriti apache durante un sogno.

(© Nasa)

Al tempo stesso, però, il Consiglio tribale San Carlos rilasciò una risoluzione di neutralità rispetto alla costruzione. La vertenza intentata da Ola Cassadore contro il consorzio scientifico si protrasse tra il 1988 e il 1994 quando la Corte d’Appello chiuse la diatriba consentendo l’inizio dei lavori.

Oggi un simile contenzioso si sta ripetendo, questa volta nelle Hawaii dove la Tmt observatory corporation, un ente che raggruppa l’Università di California, l’Istituto di tecnologia di California e l’Associazione delle università canadesi per la ricerca astronomica sta costruendo il Thirty meter telescope (Tmt), un telescopio da 1,4 miliardi di dollari sulla sommità del vulcano Mauna Kea, a 4.050 metri di altitudine. L’aria tersa, l’altitudine, la posizione geografica rendono il vulcano il miglior sito sulla Terra dal quale scrutare lo spazio profondo.

Una volta ultimato, il Tmt e la sua gigantesca lente di trenta metri di diametro permetteranno di osservare i corpi nell’Universo con una nitidezza senza precedenti consentendo così di scrutare punti che i normali strumenti non possono raggiungere.

Sul sito sono già operativi altri tredici telescopi gestiti da undici nazioni e tre istituzioni (Nasa, Università delle Hawaii, Associazione per la ricerca astronomica della California) e nessuno di questi edifici scientifici è stato costruito senza aver suscitato le proteste di ambientalisti e delle comunità religiose locali. La decisione di aggiungere un nuovo fabbricato ad un’area già congestionata e considerata sacra dalla confessione locale, ha aumentato le tensioni già esistenti facendo esplodere l’ira dei fedeli indigeni. E se, in altre circostanze, rimostranze simili erano limitate essenzialmente negli ambienti di attivisti, ora i dissensi si sono estesi anche a professori universitari, studenti, cittadini hawaiani e stessi scienziati.

Da parte loro i leader dei dimostranti, sapendo di correre il serio rischio di essere paragonati a fedeli bigotti contrari al progresso e alla ricerca, hanno ultimamente fatto sapere che il vero motivo della loro strenua opposizione alla costruzione del Tmt è quello di «lottare per una scienza etica». Una scienza in cui lo sviluppo scientifico in terre considerate sacre e inviolabili dalle singole comunità, sia discusso e condiviso con le autorità locali, i cittadini, le organizzazioni che operano nella regione, e le istituzioni intenzionate a investire energie e finanziamenti per approfondire la conoscenza per il bene dell’umanità.

Per la verità un simile raffronto è già stato fatto: la costruzione del Tmt avrebbe l’approvazione del 64% dei residenti della zona se si dovesse dar credito a un sondaggio condotto dal giornale locale Honolulu Civil Beat (in un altro sondaggio commissionato dall’Honolulu Star Advertiser, il 72% della popolazione sarebbe favorevole all’edificazione del nuovo osservatorio). Il fatto è che questi sondaggi sono pesantemente influenzati dagli enormi benefici che la presenza degli osservatori concedono a istituzioni accademiche e alla popolazione. L’Università delle Hawaii (da cui pur provengono numerosi accademici contrari alle installazioni sul Mauna Kea) gestisce il 10% del tempo di osservazione dei telescopi guadagnando prestigio e finanziamenti dagli istituti internazionali, mentre i tredici telescopi del Mauna Kea garantiscono entrate annuali per 64 milioni di dollari alle casse dello stato. Comunque stiano le cose, è però chiaro che la comunità scientifica ha valicato un confine invisibile e alquanto delicato. La situazione è peggiorata quando il governatore dello stato delle Hawaii, David Ige, ha imposto posti di blocco lungo le strade impedendo ai dimostranti di raggiungere l’area di Mauna Kea e, in pratica, militarizzando l’intera zona.

Scienza e religione: una convivenza possibile?

Sembra che, dopo il XVII secolo, l’uomo sia stato incapace di tessere un legame tra scienza e religione (il termine scienziato fu coniato solo nel 1834, mentre la parola religione è sconosciuta nel vocabolario delle lingue orientali). Molti scienziati odierni, pur con notevoli eccezioni hanno difficoltà a reputarsi religiosi in quanto ogni tipo di concezione metafisica e di credo, storicizzato o no, viene da loro contrassegnato nella categoria di superstizione.

Secondo San Tommaso d’Aquino (1225-1274), la teologia e la religione entrano in gioco quando la scienza non è in grado di spiegare ciò che accade nel mondo. E anche se la conoscenza della scienza progredisce velocemente mentre la religione ha dei concetti che rimangono fissi e immutabili nel tempo, oggi siamo ben lontani dallo spiegare cosa sia e come funziona l’universo. Probabilmente l’uomo non sarà mai in grado di svelare il meccanismo che muove il cosmo perché, come disse Galileo (nella lettera a Madama Cristina di Lorena Granduchessa di Toscana del 1615), «l’intenzione dello Spirito Santo è d’insegnare come si vada in Cielo e non come vada il cielo».

Piergiorgio Pescali

La prima inchiesta /L’altra faccia della luna
«Esplorare lo spazio è uno spreco?» è stata pubblicata su MC 12/2019

(© Nasa)




Islam: Finché il jihadismo rimane «halal»


Eravamo stati a Manchester, prima dell’attentato jihadista dello scorso maggio (che ha fatto 22 morti). Qui avevamo incontrato molti giovani libici dalle esistenze complicate e dalla testa confusa. Oggi tanti quartieri delle città inglesi sono degli stati nello stato, delle realtà parallele, aliene dal mondo circostante. Rappresentano visivamente il fallimento dell’integrazione. E un futuro di incertezze e paure. Come anche Barcellona (con 16 morti) dimostra.

Manchester, settembre 2015. Arrivo in città in autobus, da Londra. Ho appuntamento per interviste con alcuni simpatizzanti e ex combattenti libico-britannici e libico-irlandesi, contigui a movimenti dell’islamismo politico, in un quartiere ad alta densità di immigrati musulmani. Mentre mi dirigo verso il luogo dell’incontro, d’improvviso mi sembra di essere catapultata a Islamabad, a Kabul o chissà dov’altro, ma non certo in Gran Bretagna. È una sensazione strana, di proiezione spazio-temporale in realtà lontane migliaia di chilometri. Donne, uomini, bambini di varie provenienze geografiche, indossano abiti delle loro tradizioni islamiche locali, e veli di ogni tipo, dallo hijab fino al niqab1. Sono rare le apparizioni di giovani non in abiti lunghi o foulard. I ragazzini, anche loro in vestiti tradizionali, si recano nelle scuole coraniche. Noto uomini, tra cui molti africani subsahariani, con lunghe barbe, tipiche di chi si riconosce nelle dottrine neo salafite, cioè di un’interpretazione radicale dell’islam, spesso politicizzata. I negozi, i ristoranti, i supermercati sono tutti «halal», cioè «islamicamente leciti»: sono pachistani, mediorientali, turchi, indiani, ecc. La varietà delle lingue che si sentono va dall’urdu, all’arabo, al turco, in quanto l’inglese è semisconosciuto, come mi dimostra il cameriere del bar dove mi siedo ad aspettare i miei interlocutori.

A Manchester sono numerose le moschee, le scuole coraniche e i centri islamici dove viene diffusa la dottrina neo salafita. Interi quartieri della città, ma anche di Londra e di altre aree della Gran Bretagna, sono state trasformate in ghetti di cittadini musulmani provenienti da paesi, culture e tradizioni totalmente diverse e spesso «nemiche» tra loro, che vanno ad aumentare la tensione sociale.

Manchester, il «melting pot» e il suo fallimento

Se è vero che barba e abito non fanno il monaco, è anche vero che la concentrazione di persone con stili e visioni della vita, dei rapporti umani e sociali totalmente e intenzionalmente alieni rispetto a quelli della società ospite, può essere un vero azzardo. È permettere uno stato nello stato. Una realtà parallela. E in questa città, perlomeno in certe zone, è ciò che si percepisce in modo molto forte: il fallimento del melting pot (da non confondersi con l’assimilazione, retaggio coloniale francese) e della cittadinanza paritetica, dove il cittadino immigrato o di seconda-terza generazione viene integrato nel tessuto sociale, relazionale e lavorativo del luogo di residenza, pur mantenendo radici religiose e culturali proprie.

Girando per queste aree di Manchester ho la sensazione che ci sia una bomba ad orologeria pronta a esplodere alla prima occasione, innescata da un forte detonatore sociale e politico fatto di rabbie represse (per le politiche coloniali passate e neo coloniali presenti della Gran Bretagna in molti dei paesi di provenienza dei cittadini immigrati), di fallimenti esistenziali e sociali, di debolezze umane, a cui si aggiunge il fenomeno socio-politico dei cosiddetti «jihadisti» che ritornano da fronti bellici, ad esempio di Libia e Siria. Si tratta di cittadini britannici, britannico-arabi o arabi che in Libia hanno collaborato anche con le forze Nato e occidental-arabe, o che sono passati dai campi di addestramento di al-Qa’ida e del Daesh, dove hanno appreso tecniche della guerriglia urbana, della dissimulazione tra la folla di inermi cittadini, della costruzione di ordigni e altro ancora, pronti all’azione in Europa, in Nordafrica o Medioriente.

A Manchester, come in altre città britanniche, è facile, infatti, incontrare giovani e adulti di varie origini geografiche uniti da quella dottrina politica radicale che è stata sostenuta, armata, finanziata dall’Occidente e da certi paesi del Golfo, Arabia Saudita in primis. Spesso si tratta di giovani esaltati, depressi, borderline, mal integrati oppure cittadini e studenti di classe media, ma con problemi di inserimento sociale. Ne parla diffusamente una ricerca di un gruppo di psichiatri, sociologi, antropologi e giuristi francesi2. Ciò che accomuna tutti, spesso, è la rabbia per l’ingiustizia, il fallimento sociale, cui si aggiungono il vuoto esistenziale, la fragilità o instabilità psicologica. Su questi individui fanno particolare presa i predicatori radicali, che li indottrinano in centri islamici o, sempre più spesso, via web. Le prediche infuocate (non molto diverse nei modi da quelle di certi evangelici in America Latina) canalizzano la loro collera e delusione, dirigendola verso obiettivi politici e concreti, dando un senso di missione e dunque di scopo nella vita3.

Le testimonianze che raccolgo durante il mio soggiorno a Manchester vanno in questa direzione, anche se i miei intervistati non sono giovani che hanno commesso atti di terrorismo in Europa.

Riscoperta della fede islamica e «rinascita»

Yusuf è un ragazzo simpatico, sembra più giovane dei suoi 23 anni. È figlio di madre irlandese e padre libico, e vive a Manchester da qualche anno. Il marito di sua sorella è un famoso combattente libico che partecipò, nel 2011, alla rivolta contro Muammar Gheddafi, e appartenente al Lifg  – Libyan Islamic Fighting Group – un gruppo di al-Qa’ida. Yusuf e suo fratello maggiore, Sami, hanno avuto un’infanzia difficile, a causa di problemi familiari e sociali, che li hanno resi, in certi momenti, dei borderline. Entrambi hanno preso parte alla guerra contro il regime libico, a fianco della Nato, nel 2011, e insieme a gruppi dell’islamismo politico. Durante l’addestramento nei campi militari in Libia, hanno riscoperto la fede e sono «rinati», come raccontano i due giovani. Yusuf è tornato a vivere in Inghilterra, e ogni tanto va in Libia a trovare la famiglia, mentre Sami vive a Tripoli, dove ha trovato lavoro come reporter.

Casi come quello dei due fratelli di Manchester sono numerosi, ormai, nel panorama europeo. Tuttavia, il loro esito esistenziale e lavorativo è differente da altri che, lasciando i campi di addestramento e la guerriglia, si sono trasformati in «jihadisti di ritorno», come la cronaca degli ultimi sei anni purtroppo ci mostra.

Manchester-Libia: andata e ritorno

Manchester, 23 maggio 2017. Alle 22:30 esplode una bomba all’arena cittadina affollata di adolescenti che assistono al concerto di una famosa star dei teenager. È una strage degli innocenti. I video mostrano in tutto il mondo gente presa dal panico: bambini e genitori che cercano le uscite di sicurezza, urlando terrorizzati. Un kamikaze s’è fatto esplodere in mezzo ai ragazzini. È Salman Abedi, 23 anni, cittadino britannico, figlio di genitori libici oppositori del regime di Gheddafi. Ultimo di quattro fratelli tornati in Libia con padre e madre, Abedi era iscritto all’università Salford di Manchester, ed era noto alle forze dell’ordine e dell’intelligence, secondo quanto ha affermato la polizia.

Nei giorni successivi all’attacco, The Independent e The Guardian spiegano, riferendo testimonianze e dichiarazioni di compagni di università e testimoni, che Abedi era appena ritornato dalla Libia, paese dove qualunque potenziale jihadista terrorista può trovare campi di addestramento. Il giovane faceva la spola con la Libia. Come consueto, il Daesh rivendica anche quest’ultimo orrore.

Il legame tra Manchester e la Libia è molto forte, in quanto la città britannica ospita migliaia di libici e relative famiglie che hanno svolto un ruolo importante nella rivolta contro Gheddafi, nel 2011. Diversi di questi erano collegati al Lifg4.

Le guerre in Libia e in Siria hanno scatenato un Vaso di Pandora: la promiscuità con dottrine radicali violente e un «humus» umano potenzialmente esplosivo fatto di tanti soggetti, gruppi, «società» parallele e poco o per nulla comunicanti e integrate.

Esiste ormai una fitta e dettagliata documentazione, anche di dispacci di intelligence desecretati, che evidenzia la collaborazione tra combattenti radicali, la Nato e alcuni stati europei come Francia e Gran Bretagna, e il ruolo di movimenti dell’islamismo politico nelle cosiddette primavere arabe5. Uno degli effetti di tali partnership, oltre alle evidenti destabilizzazioni regionali e locali, è il fenomeno del «jihadismo di ritorno», cioè di giovani combattenti indottrinati e addestrati nei campi militari in Libia o in altri Stati arabi, finanziati dalla Cia e da altre agenzie e dai paesi del Golfo, e tornati nel proprio paese o in quello di residenza, e poi coinvolti in attacchi terroristici.

Cui prodest?

Come detto, Salman era britannico: nato nel 1994 a Manchester da genitori libici.

«Suo padre, Ramadan Abedi, era un ufficiale dei servizi segreti libici, prima di essere reclutato dagli inglesi – scrive il sito Vietatoparlare.info6 -. La sua copertura fu bruciata accidentalmente da un parente della moglie, Samia Tabal, poco dopo il fallimento di una vasta cospirazione dell’esercito libico per uccidere Muammar Gheddafi. Quest’ennesima congiura contro Gheddafi innescò non solo una delle più grandi purghe nei servizi di sicurezza, ma la dissoluzione delle Forze Armate libiche, sostituite da ciò che Gheddafi chiamò “popolo in armi”, concetto vagamente ispirato ai sistemi svizzeri e svedesi di difesa logistica e che si rivelerà fatale nel 2011, quando la Libia fu attaccata dalla Nato. Fu il servizio segreto inglese che si occupò dell’esfiltrazione o fuga della famiglia Abedi dalla Libia. Ufficialmente, Abedi fuggì dalla dittatura di Gheddafi rifugiandosi nel Regno Unito. Gli Abedi risiedettero prima a Londra, per poi trasferirsi nel sobborgo di Manchester dove risiedettero per oltre un decennio. Come molti giovani delle periferie delle città europee, Salman crebbe senza riferimenti e mostrò particolare entusiasmo verso la cosiddetta “primavera araba” al punto di voler unirsi ai ribelli libici. Ciò naturalmente attirò subito l’attenzione dei servizi segreti inglesi responsabili della perlustrazione della periferia cercando candidati disposti a sacrificarsi in battaglia contro i nemici di Sua Maestà, in nome di Allah. (…) La polizia inglese rivelava rapidamente l’identità del presunto terrorista, suggerendo che non fosse solo conosciuto, ma supervisionato dagli agenti che seguivano l’ambiente da cui proveniva».

La lunga citazione solleva vari interrogativi. Questi giovani esaltati sono «asset», strumenti umani da utilizzare all’occorrenza? Si tratta, come abbiamo visto, di persone note, che hanno partecipato a rivolte arabe, che entrano e escono dai paesi dove risiedono e da quelli dove vanno a fare il «jihad» per anni appoggiato dall’Occidente.

Ora, l’aver pensato che questi giovani – con la loro visione radicale e estrema di una politica religiosizzata o di una fede politicizzata, condita con problemi sociali e personali – non costituissero un «problema» anche in loco, è davvero poco credibile.

L’esito, come sempre, è la morte di innocenti. Nel caso di Manchester, adolescenti e bambini.

Al di là dell’orrore e della rabbia che tali azioni suscitano, dovremmo continuare a porci la sana domanda: cui prodest?

Angela Lano
(quarta puntata – continua)

Note

(1) Lo hijab è il foulard che copre il capo incorniciando il viso; il niqab è il velo nero integrale, che copre anche il volto lasciando scoperti solo gli occhi.

(2) Fonte: Dounia Bouzar. Link: http://www.bouzar-expertises.fr/metamorphose

(3) Dossier MC, Sventola bandiera nera 2, marzo 2016.

(4) Fonte: Jon Sharman, Kim Sengupta, Salman Abedi: Police probe Libyan links of Manchester bomber who killed 22, 23 maggio 2017, www.independent.co.uk/

(5) Nelle prossime puntate parleremo dei casi della Tunisia e della Libia.

(6) Fonte: L’attentatore di Manchester era vicino ai servizi segreti inglesi, 24 maggio 2017, www.vietatoparlare.it (traduzione di un testo apparso su strategika51.wordpress.com).

 

 




Tanzania: Kabula e i suoi nipoti


Nonna Kabula quando morì contava 113 anni. Forse anche di più, o forse meno, nessuno conosceva la data precisa della sua nascita. Era una nonna speciale, tanto da stupire gli stessi figli, nipoti e pronipoti fino alla sua morte nel 1995. Per non parlare del suo funerale. Infatti, dentro il lenzuolo che avvolgeva il suo corpo, volle che mettessero pure un sacchetto di «farmaci tradizionali africani», un tasbihi islamico, nonché un rosario cattolico.

Kabula nacque nell’isola di Ukerewe, nel cuore del maestoso Lago Vittoria, Tanzania. Apparteneva alla tribù dei Wasukuma.

Da ragazza, era pagana o seguace della «religione tradizionale». Sposandosi con un arabo di Mombasa (Kenya), si convertì all’islam. I due vissero sereni e generarono quattro figli. Improvvisamente lui morì e lei si trovò vedova, ancora giovane e bella.

Un giorno, a Mombasa, Kabula incontrò un modesto commerciante del Tanzania, della tribù dei Wahehe. I due convolarono presto a nozze a Tosamaganga (Iringa), mentre i quattro figli di Kabula rimasero a Mombasa con i parenti del padre defunto. Poi, siccome il nuovo marito era cattolico, la musulmana Kabula non esitò a farsi battezzare.

La donna era entusiasta della nuova fede: andare a messa la domenica vestita a festa, nella magnifica chiesa di Tosamaganga, ascoltare la parola di Dio, pregare cantando e ballando con uomini e donne, giovani e bambini… Ma che bello! E fu pure bello mettere al mondo altri due figli, ovviamente cattolici.

Però un giorno Kabula scoprì che il marito giocava a carte, buttando via tanti scellini, e beveva, beveva, quasi da impazzire.

La moglie non ce la fece a vivere con un uomo scialacquone, beone e folle. Affidò i due figli alla famiglia del marito e ritornò nell’Isola di Ukerewe a respirare la dolce brezza del Lago Vittoria.

Qui fece una scoperta. Kabula avvertì che Dio onnipotente l’aveva arricchita di un dono straordinario. Sì, quella donna era una «guaritrice», che conosceva i segreti arcani di tante erbe e piante terapeutiche. Donne sterili, uomini sessualmente impotenti, «indemoniati» che avevano perso il bene dell’intelletto, persino i lebbrosi… accorrevano da quella dottoressa, guarivano, e riprendevano a sorridere mormorando «asante sana» (grazie).

A 33 anni, Kabula si sposò per la terza volta. Gli abitanti di Ukerewe affermano che non si videro mai nozze come quelle di Kabula, vestita di bianco con l’abito del battesimo di Tosamaganga e il capo incoronato da un velo sontuoso. Il tutto in barba alla cultura dei Wasukuma, che vietano tanta pompa magna ad una donna al terzo matrimonio. Ma Kabula era speciale.

Due nipoti pure speciali

Con il trascorrere delle stagioni, Kabula diventò nonna e bisnonna di uno stuolo di nipoti e pronipoti che accorrevano a lei per un consiglio. Alcuni erano musulmani, altri cristiani e altri pagani.

Pietro è uno dei nipoti cattolici, nato a Tosamaganga. Da ragazzo aveva studiato in seminario per diventare prete. Un giorno domandò a Kabula:

– Nonna, qual è la tua religione?

– La religione di un solo vero Dio, creatore di tutti.

– Nonna, noi crediamo che solo il Cristianesimo sia la religione giusta.

– Lo so, Pietro, perché anch’io sono cristiana, ma sono pure musulmana.

E aggiunse: «C’è un problema spinoso, dovuto al fatto che sia i cristiani sia i musulmani ritengono che solo la loro religione sia vera. Nipote mio, ricorda: i fedeli di ogni religione sono tutti, allo stesso modo, figli amati dello stesso Dio creatore».

Pietro, divenuto sacerdote, poco dopo abbandonò la Chiesa Cattolica. Ne fondò un’altra con il nome di «Chiesa del Cristianesimo vivo» che si opponeva alla Chiesa di Roma, cui rinfacciava di essere schiava del Diritto Canonico e di altri precetti occidentali, mentre dimenticava quelli ben più significativi del Vangelo.

Un altro nipote di Kabula si chiama Amani, musulmano, ma sposato con una donna cattolica. Vivono in piena armonia a Mwanza, ognuno secondo i dettami della propria fede.

Quando Amani informò la famiglia che intendeva sposare una cattolica, sua madre lo apostrofò con furore: «Guai a te! Saresti la nostra vergogna! Avresti il coraggio di unirti ad una selvaggia infedele?».

Il nipote di Kabula non solo sposò «una selvaggia infedele», bensì commise pure un altro reato: tradusse il Corano in swahili, voltando le spalle all’arabo glorioso del profeta Muhammad. Eresse anche una moschea per «i musulmani tolleranti».

Un venerdì Amani predicò: «Il vero musulmano, timorato di Dio, non è colui che prega rivolto verso la Mecca, bensì colui che dona i suoi averi ai bisognosi, agli orfani, ai rifugiati…».

I nemici di Amani aumentarono. Fra questi, persino il fratello minore.

Una notte, senza luna e senza stelle, in casa di Amani esplose un ordigno che incenerì tutto, lui compreso, con moglie e i figli. Subito da un altoparlante si udì: «Allah akbar! Questa è la vendetta sacra dei combattenti di Allah contro i nemici dell’islam vero del profeta Muhammad!».

La bomba era stata posta dal fratello minore di Amani.

C’è una religione giusta?

La storia di «Kabula e i suoi nipoti» è tratta dal romanzo «I timorati di Dio di nonna Kilihona» di Gabriel Ruhumbika1. Nel suo testo Ruhumbika affronta argomenti impegnativi, quali: l’indagine sulla cultura tradizionale africana, il confronto fra le religioni, la riforma della religione e il suo valore intrinseco. Temi cruciali. Per questo l’autore merita apprezzamento.

Nel romanzo un genitore dichiara al proprio figlio: «Vedi, ragazzo mio, senza religione, io non saprei lavorare. E, da quando è morta tua madre, non saprei neppure vivere, oppure diventerei matto».

Il libro termina così: «La religione nasce nel cuore della persona e si manifesta nelle sue opere buone. In chiesa o in moschea non c’è fede, e neppure nei sacrifici agli spiriti della cultura africana. I timorati di Dio di ogni religione sono tutti figli diletti di Dio creatore. Alcuni generano divisioni nella società, allorché dichiarano che solo la loro religione è giusta».

Forse per questo Kabula fu, a pari merito, musulmana, cristiana e seguace della religione tradizionale africana.

E cristiano e pagano

«La persona umana ha diritto alla libertà religiosa. Il contenuto di tale libertà è che gli esseri umani devono essere immuni da coercizione da parte di singoli individui, gruppi e qualsivoglia potestà umana, così che in materia religiosa nessuno sia forzato ad agire contro la sua coscienza, né sia impedito ad agire in conformità ad essa». È una dichiarazione del Concilio Ecumenico Vaticano II2.

Nel riconoscere il diritto alla libertà religiosa, hai pure la facoltà di essere, nello stesso tempo, pagano, musulmano e cristiano? Sì, ce l’hai.

Tuttavia, in Africa, la scelta di «varie fedi religiose» è motivata da altri criteri, senza scomodare il diritto alla libertà religiosa.

Il terrore degli spiriti maligni, la paura dell’altro, l’incertezza sulla salute, l’ansia nel trovare lavoro… fanno sì che l’africano «affianchi» alla fede cristiana o islamica quella della tradizione degli antichi.

Si tratta di una «duplice appartenenza religiosa». Un fenomeno che i vescovi del continente africano, nel loro II Sinodo del 2009, giudicano come un problema, una sfida3.

La «duplice appartenenza religiosa» è giudicata una mancanza di fiducia nel proprio credo.

Il cardinale Polycarp Pengo, arcivescovo di Dar Es Salaam, commenta: «Dobbiamo maturare nella nostra fede, perché molti cristiani, specialmente durante la malattia, mettono da parte il Dio di Gesù Cristo per affidarsi al guaritore tradizionale e, persino, allo stregone»4.

In altre parole, al mattino si va in chiesa e nel pomeriggio si bussa alla porta dello stregone.

«Solo cristiano» si può

È possibile scegliere e praticare «una sola religione»? È possibile, anche in Africa. Uno splendido esempio ci proviene dall’Uganda con San Mattia Malumba, uno dei 22 martiri locali.

Mattia, prima di scegliere di essere cattolico, rifletté a lungo sull’islam. Si confrontò pure con la Chiesa protestante pentecostale. Infine, a 50 anni, dopo aver meditato sul comportamento dei missionari cattolici, decise di abbracciare per sempre la loro religione. Morì martire nel 1886 tra atroci sofferenze.

Il suo sangue, come quello dei suoi 21 eroici compagni, fu un seme che generò altri cristiani.

Francesco Bernardi*

* Già direttore di MC; in Tanzania è direttore della rivista «Enendeni» (Andate).

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Note:

1) Titolo originale del romanzo di Gabriel Ruhumbika, Wacha Mungu wa Bibi Kilihona, E & D Vision Publishing, Dar Es Salaam 2014. Scritto in swahili, non esiste traduzione in altre lingue.
2) Dignitatis Humanae, 1045.
3) Cfr. Africarne Munus, 93 (Esortazione apostolica di Benedetto XVI, Roma 2009).
4) Enendeni, Januari/Februari 2012. Enendeni è la rivista dei Missionari della Consolata, Tanzania.