Pyongyang e la pandemia:

Dai missili al coronavirus

testo di Piergiorgio Pescali |


Stretto tra la Cina e la Corea del Sud, il paese ha affrontato il coronavirus con misure molto drastiche. Pur avendo come fattori negativi anche le sanzioni internazionali, un fragile Sistema sanitario e problemi cronici come la malnutrizione, Pyongyang pare aver retto l’urto.

La Corea del Nord ha considerato il Sars-CoV-2 (il virus che causa la malattia Covid-19) come una minaccia per la propria sicurezza nazionale immediatamente dopo la notizia della virulenza con cui si stava espandendo. Gli organi d’informazione hanno chiesto alla popolazione di mostrare uno «spirito rivoluzionario» nel contrastare quella che è stata definita come un’«emergenza nazionale». Nonostante la sua economia dipenda quasi esclusivamente dal commercio con la Cina, Pyongyang non ha esitato a sigillare le proprie frontiere con Pechino e con la Russia sin dalla fine di gennaio, annullando tutti i pacchetti turistici e gli incontri diplomatici in programma.

Per una nazione soggetta a embargo internazionale da parte delle Nazioni Unite, la decisione di chiudere le porte al turismo non è cosa da poco: nel 2019 circa 350mila cinesi hanno visitato il paese e l’industria turistica ha portato nelle affamate casse nordcoreane 175 milioni di dollari. Una boccata d’ossigeno non indifferente per un’economia sempre alla ricerca di valuta pregiata, eppure il governo nordcoreano non ha esitato un attimo nel prendere le misure necessarie per contrastare una possibile epidemia.

Dopo la serrata internazionale è stato il turno delle scuole e dei principali centri di aggregazione sociale, ritenuti non indispensabili per la sopravvivenza quotidiana dei 25 milioni di nordcoreani, arrivando ad ordinare la quarantena a trecentottanta stranieri residenti nel paese e circa settemila persone nelle provincie settentrionali e meridionali di Phyongan e di Kangwon. Sono queste le zone considerate più a rischio: Kangwon confina con la Corea del Sud, mentre le provincie di Phyongan sono attraversate dalle arterie principali che collegano la Corea del Nord con la Cina. Sinuiju, il capoluogo con 360mila abitanti, è la città più esposta al contagio: al di là del fiume Yalu, lungo le cui rive si sviluppa il centro urbano, c’è la metropoli cinese di Dandong, due milioni e mezzo di abitanti molti dei quali hanno attività commerciali collegate alla Corea del Nord.

Durante i periodi normali, quando il confine rimane aperto, migliaia di persone passano da una parte all’altra del fiume. Chiaro, quindi, che le autorità nordcoreane siano state particolarmente apprensive verso questa zona a rischio. Proprio da qui, secondo un rapporto non confermato del Daily NK (sito sudcoreano specializzato in notizie sulla Nord Corea, ndr), sarebbe partito il primo focolaio che avrebbe infettato il paese estendendosi nella zona a economia speciale di Rason, nella città di Heju, nella provincia di Hwanghae meridionale e nella stessa capitale del paese. Notizie che non sono state ufficialmente confermate. Tuttavia, è assai improbabile che un virus assai contagioso come il Sars-CoV-2 possa essere stato contenuto al di fuori delle frontiere nazionali, soprattutto in un paese schiacciato tra due degli stati più colpiti dalla malattia.

Se i 238 chilometri di confine condivisi con la Corea del Sud non rappresentano un grosso problema, in quanto divisi da una zona demilitarizzata invalicabile, controllare 1.416 chilometri di confine con la Cina è praticamente impossibile e il fiorente commercio clandestino tra i due paesi non gioca a favore delle restrizioni imposte da Pyongyang.

Le politiche di contenimento messe in atto dal governo hanno, però, funzionato grazie a diversi fattori tra cui la coesione culturale e l’orgoglio nazionale attorno a cui è stata plasmata la società nordcoreana durante l’arco della sua storia attraverso le visioni e le idee imposte dai leader che si sono succeduti dal 1948 ad oggi. Era già accaduto durante l’Ardua Marcia, il periodo di profonda crisi economica accompagnato da una terribile carestia tra il 1994 e il 1999 quando, anziché ribellarsi alle autorità, i nordcoreani si sono riorganizzati all’interno del sistema avviando una serie di riforme sociali ed economiche che hanno costituito le fondamenta dell’attuale struttura nazionale.

Ricercatori ala lavoro su nuovo disinfettante / Photo by KIM Won Jin / AFP

Propaganda e timori (taciuti)

La lotta contro la propagazione del virus è funzionale anche alla propaganda di Pyongyang: ogni giorno gli organi di Stato informano la popolazione sul numero sempre maggiore di contagiati e di morti in Corea del Sud, enfatizzando il sistema nordcoreano che sta «adottando tutte le misure necessarie per proteggere il popolo».

Paradossalmente il sistema dittatoriale e fortemente centralizzato che governa la nazione, si è mostrato più efficace e agile rispetto ai sistemi democratici nel fronteggiare la crisi virale (Vedi più sotto: Collettivismo vs individualismo). Mentre in Europa si discuteva su quali fossero le misure più appropriate a livello etico, politico ed economico da adottare per debellare il contagio perdendo tempo prezioso, in Corea del Nord le poche persone al comando decidevano e imponevano azioni. In pochi giorni l’intero paese ha adottato i provvedimenti emanati dall’unica linea di comando dell’emergenza coadiuvata da équipe di scienziati ed esperti sanitari. Sono stati predisposti presidi medici in tutte le provincie, il Centro epidemiologico di Pyongyang ha allestito succursali nelle zone più a rischio e centinaia di volontari della Croce Rossa sono stati mobilitati per dare manforte alle squadre inviate per informare la popolazione come difendersi dal contagio. Ciò che veniva imposto dall’alto doveva essere adottato senza se e senza ma. In questo modo l’emergenza è stata affrontata, contrastata e, a quanto risulta, vinta.

Il timore della dirigenza nordcoreana è che un’espansione incontrollata del Sars-CoV-2, come è accaduta in Cina e in Corea del Sud, faccia collassare il già precario sistema sanitario nazionale.

L’economia del paese, pur crescendo con una media annua del 5-7%, è ancora estremamente fragile e le sanzioni imposte dalle Nazioni unite rendono questo sviluppo fluttuante e discontinuo. Il riflesso sul sistema sanitario è diretto: negli ospedali mancano strumentazioni e apparecchiature, spesso non c’è riscaldamento (il petrolio e suoi derivati sono prodotti sottoposti ad embargo) e il personale medico è ormai risicato. Per far fronte alla penuria di farmaci Ebm (Evidence-based medicine, i prodotti approvati dall’Oms) l’industria farmaceutica ha potenziato la produzione delle cosiddette medicine Koryo, preparati a base di ingredienti naturali secondo antiche tradizioni popolari che però spesso risultano inefficaci nella cura di malattie.

A Pyongyang, acquisto di fiori per la Giornata internazionale della donna / Photo by KIM Won Jin / AFP

Anziani trascurati

Il ministero della Sanità ha stabilito che, per tenere sotto controllo la salute della popolazione, servirebbe un medico ogni 130 famiglie, un rapporto che dalla fine degli anni Novanta non è mai stato raggiunto. Inoltre, il sistema sanitario nordcoreano si è storicamente concentrato sulla salvaguardia delle fasce più giovani della popolazione, soprattutto nella fase neonatale. I poster dei leader (in particolare Kim Il Sung) circondati da folle di bambini sorridenti ed entusiasti sono divenuti una costante nella propaganda nordcoreana, mentre quasi mai vengono ritratti anziani. La facilità con cui la malattia Covid-19 colpisce persone meno giovani trova del tutto impreparata la sanità nordcoreana: il 14% della popolazione ha più di sessant’anni, ma la percentuale dovrebbe raddoppiare entro il 2030 secondo le previsioni statistiche. Il 37% di loro ha una disabilità ed è costretto a vivere con i figli; la famiglia rimane, quindi, un punto importante nell’assistenza sociale e sanitaria del paese.

Anche le fasce più giovani, però sarebbero colpite in modo aggressivo in caso di diffusione virale. Sebbene negli ultimi anni la mortalità infantile sia diminuita, nelle campagne rimane 1,2 volte maggiore che in città. Sono aumentate anche le vaccinazioni e i servizi di ostetricia, ma le cause principali di mortalità infantile continuano ad essere polmoniti e diarrea. E le polmoniti, si sa, sono proprio le malattie tipiche su cui si sviluppa il Covid-19. La diarrea, invece, è causata dalla mancanza di accesso ad acqua potabile e alle precarie condizioni igieniche, non solo in famiglia, ma all’interno stesso delle strutture sanitarie. La Fao stima che il 23% della popolazione (5,7 milioni di persone) non può contare su servizi igienici adeguati e quasi tre milioni di nordcoreani non hanno accesso diretto all’acqua nelle loro abitazioni.

Una volta passata la fase di contenimento del virus Kim Jong Un dovrà quindi ripensare a un sistema di assistenza sociale che tenga conto anche delle generazioni di età più avanzata, ma anche a una maggiore tutela generale della popolazione. Un aiuto potrebbe arrivare dalla scienza.

Sotto l’attuale leader, le discipline scientifiche e tecnologiche in Corea del Nord hanno avuto uno sviluppo considerevole soprattutto, ma non solo, per la scelta di adottare un programma di politica nucleare. Le decisioni prese dal governo hanno portato la Corea del Nord a incentivare tutte le attività scientifiche collegate al programma atomico, dalle facoltà universitarie ai centri di ricerca. Le ricadute di queste ricerche si sono ripercosse anche su ambiti non prettamente militari, come gli studi sanitari.

Senza, però, un’apertura al commercio e agli scambi internazionali sarà difficile per il paese asiatico risalire la china di un pozzo di cui intravede la luce, ma lungo le cui pareti è difficile arrampicarsi.

Bambino controllato all’aeoporto / Photo by KIM Won Jin / AFP

Le sanzioni e l’ambiguità degli Stati Uniti

Nel dicembre 2019, l’ambasciatore cinese all’Onu, Zhang Jun, ha chiesto all’Assemblea generale di togliere temporaneamente le sanzioni imposte dalla comunità internazionale così da aiutare Pyongyang nella lotta contro il Covid-19. Il Dipartimento di stato Usa ha però negato il consenso affermando che non è ancora giunto il tempo per rimuovere i paletti economici che puniscono l’economia nordcoreana.

Di diverso avviso sembra invece essere lo stesso presidente Trump, che sempre più spesso si trova in contrasto con la sua stessa amministrazione. In nome dell’amicizia che lo lega a Kim Jong Un, il presidente statunitense si è impegnato personalmente a far arrivare aiuti al giovane collega asiatico, così come nel 2019 si era opposto efficacemente all’inasprimento delle sanzioni contro la Corea del Nord come richiesto dal Dipartimento del tesoro.

Pochi giorni dopo il pronunciamento di Trump e la sua dichiarazione di non essere interessato a incontrare di nuovo Kim Jong Un prima delle elezioni di novembre, il leader nordcoreano ha inviato al suo collega sudcoreano Moon Jae-in una lettera.

Nelle righe, oltre ad esprimere le condoglianze alle vittime del coronavirus, Kim si preoccupava della salute del presidente sudcoreano e si diceva ottimista sul futuro delle relazioni con Seul. Un cambio di rotta radicale, a cui peraltro chi si occupa di affari coreani è abituato, rispetto alle dichiarazioni di pochi giorni prima espresse da Kim Yo Jong, la sorella minore di Kim Jong Un, nelle quali esprimeva, in toni non proprio conciliatori, il proprio disappunto verso le proteste avanzate dal governo di Seul riguardo i lanci missilistici nordcoreani.

CC BY-SA / Ryan Hodnett

la difficile lotta  alla malnutrizione

L’attenzione mostrata verso il coronavirus non ha però allontanato altri problemi cronici di cui è malata la nazione, primo fra tutti la malnutrizione. Dopo essere riuscita a debellare malattie come il morbillo e la malaria, a diminuire la Tbc e a sconfiggere la morte per inedia che ha falcidiato nella seconda metà degli anni Novanta tra le 300mila e le due milioni di persone, Pyongyang oggi deve fare i conti con la scarsità alimentare.

Secondo la Fao circa dieci milioni di nordcoreani necessitano di assistenza alimentare e sei milioni di questi rientrano nelle fasce più vulnerabili, tra cui 1,7 milioni di bambini al di sotto dei cinque anni d’età e 342mila donne incinte. La malnutrizione dei bambini al di sotto dei cinque anni non è dovuta tanto alla mancanza di cibo, quanto alla qualità dei servizi sanitari, alla mancanza di medicine, di integratori e alla discontinuità con cui il cibo è disponibile.

Ci sono periodi in cui si ha grande abbondanza di cibo, durante i quali i genitori cercano di sovralimentare i figli, alternati ad altri periodi invece in cui la scarsità di alimenti fa esplodere situazioni di grave sottoalimentazione. Questa discontinuità influisce negativamente sulla crescita della popolazione più giovane.

La lotta al Sars-CoV-2 potrebbe, quindi, rappresentare un modo anche per ricompattare il fronte degli aiuti umanitari per garantire alla Corea del Nord un futuro più sereno e accelerare uno sviluppo sociale, oltre che economico, già in atto, ma non privo di ostacoli. Non tutti causati dal regime di Pyongyang.

Piergiorgio Pescali

© Devrig Velly EU-ECHO


Oriente e Occidente

Collettivismo versus individualismo

Questi mesi di pandemia da coronavirus hanno messo in evidenza grandi differenze tra Oriente e Occidente. Una diversità non solo politica, ma culturale.
Le modalità della lotta al Covid-19 hanno suscitato molte polemiche e critiche, come del resto è logico che sia in una società democratica e fortemente individualista come quella Occidentale. Nonostante si parli sempre più di Europa unita come entità sovranazionale, in questo frangente (come in molti altri) non c’è stata alcuna direttiva imposta da Bruxelles sul comportamento da tenere per contrastare il coronavirus. Ogni stato ha agito secondo le proprie direttive, spesso in contrasto con quelle del vicino. L’Italia ha adottato un sistema di contenimento simile a quello cinese, anche se non altrettanto drastico: chiusura delle attività ritenute non essenziali, delle scuole, restrizione negli spostamenti. Con la furbizia che ci contraddistingue migliaia di persone, appena subodorato il primo decreto restrittivo del governo, hanno preso d’assalto treni per fuggire dalla cosiddetta zona rossa per ritrovarsi, pochi giorni dopo, in un’altra zona rossa. I cinesi, invece, hanno accolto l’imposizione del governo centrale con più senso civico e, oserei dire, coraggio. Forti dell’esperienza della Sars 2003, dopo l’evidenza del nuovo virus (pur con tutti i ritardi addebitati al governo centrale) Pechino ha imposto senza indugi il coprifuoco mobilitando in massa anche l’esercito. La cultura asiatica è basata su un caposaldo: il rispetto del bene comune e della collettività.

La popolazione, da sempre più numerosa rispetto a quella europea, ha una concentrazione demografica che ha costretto a far fronte a piaghe sociali, economiche e sanitarie durante l’arco della sua storia. Inoltre l’economia risicola ha imposto uno stile di vita comunitario coordinando collettivamente le fasi di lavorazione delle risaie: aratura, trapianto, irrigazione, raccolto devono essere programmate collettivamente. Ne consegue che la libertà individuale in Asia viene sottomessa a quella sociale. Inoltre il pensiero cinese, basato sul «Dao» (armonia, equilibrio, per il taoismo ma anche per il confucianesimo), è molto più mobile e agile rispetto a quello occidentale del «Logos». La società cinese si trasforma e si adatta ai cambiamenti molto più di quanto faccia la nostra: mentre noi contiamo singole menti brillanti puntando sulla creatività della singola persona, in Asia (Cina, Corea, Giappone, Vietnam, Laos) il lavoro di squadra è sempre stato la forza trainante dello sviluppo. Mentre da noi si impiegano settimane solo per decidere se e quali locali destinare ad emergenze ospedaliere, in Cina sono bastati pochi giorni per costruire interi reparti sanitari. Ciò che conta per il sistema cinese è mantenere la stabilità sociale e l’armonia anche a costo di limitare le libertà individuali. La democrazia impone lunghi ed estenuanti dibattiti prima di adottare decisioni; il sistema comunitario orientale (che è comune a tutta l’Asia, anche se rafforzato in Cina dall’autoritarismo del partito unico) detta le regole dall’alto secondo un sistema antico e collaudato. E in Asia, nata e costruita su fondamenta culturali assai diverse da quelle occidentali, spesso funziona.

Piergiorgio Pescali

© Roman Harak




La Cina in Africa: che cosa è cambiato /1


Colonizzatrice, sfruttatrice e insaziabile divoratrice di risorse del sottosuolo o amica degli africani, partner alla pari e addirittura benefattrice? La presenza della Cina in Africa è complessa e sfaccettata.

Negli ultimi quindici anni le relazioni fra la Cina e l’Africa hanno avuto una decisa impennata. A testimoniarlo sono i dati sia sul commercio sino-africano che sugli investimenti di Pechino in Africa. Secondo uno studio di McKinsey pubblicato nel giugno scorso, Dance of the lions and dragons@, il commercio fra il continente africano e il colosso asiatico è aumentato a ritmo del 21% annuo dai 13 miliardi del 2001 ai 188 del 2015, facendo della Cina il primo partner commerciale dell’Africa. Il commercio con l’India, che dell’Africa è il secondo partner, arriva a 59 miliardi, un terzo. Quanto all’investimento diretto all’estero (Ide) dalla Cina all’Africa, esso è passato dal miliardo del 2004 ai 35 del 2015, aumentando del 40% annuo.

Ma la presenza cinese in Africa ha molto più di quindici anni. Senza scomodare l’ammiraglio Zheng He e le imprese della flotta imperiale cinese che raggiunse le coste del Kenya, della Tanzania e della Somalia nel quindicesimo secolo, le relazioni sino-africane nell’epoca contemporanea sono vecchie di oltre mezzo secolo. Secondo Liu Youfa, ex vicepresidente del China Institute of International Studies, tre sono gli eventi che aiutano a sintetizzarne l’evoluzione@.

  • In primo luogo, la costruzione nel 1970 della ferrovia TanZam che collega il porto di Dar Es-Salaam in Tanzania alla cintura del rame in Zambia. Le negoziazioni per la costruzione della TanZam cominciarono nel 1966, dopo che i due paesi africani avevano chiesto il sostegno di Banca mondiale, Stati Uniti e altri paesi occidentali, rimanendo però inascoltati.
  • Il secondo evento – chiave, continua Liu Youfa, è l’approvazione, il 25 ottobre 1971, della risoluzione 2758 dell’Assemblea generale Onu, che riconosceva la Repubblica Popolare Cinese di Mao Zedong – e non i rappresentanti di Chiang Kai-shek e di Taiwan – come governo legittimo della Cina e membro del Consiglio di Sicurezza. In quell’occasione, dei 76 voti a favore della Cina popolare 26 erano africani e Mao ebbe modo di commentare: «Sono i nostri amici africani che ci hanno portato all’Onu».
  • Il terzo e ultimo passaggio fondamentale è la creazione del Forum sulla cooperazione sino-africana (Focac) nel 2000, nell’ambito del quale i rapporti politici ed economici fra il regno di mezzo e il continente nero hanno preso una forma via via più strutturata.

Quella dell’ultimo ventennio, dunque, è un’esplosione economica che affonda le sue radici in un lungo lavoro diplomatico e strategico e che oggi sembra alle soglie di un ulteriore cambiamento.

La base militare a Gibuti e le infrastrutture

Il più recente e macroscopico segno di questo cambiamento è probabilmente l’apertura, lo scorso luglio, della prima base militare della Cina al di fuori del proprio territorio. Per lo storico passo il gigante orientale ha scelto Gibuti, piccolo paese del Corno d’Africa affacciato sullo stretto che collega il Mar Rosso con il golfo di Aden e che già ospita le basi militari di Italia, Stati Uniti, Francia e Giappone. È una base navale il cui scopo, a detta di Pechino, è quello di fornire supporto alle missioni umanitarie e di peacekeeping e di contribuire agli sforzi internazionali di lotta alla pirateria nella zona. Ospiterà, certo, dei militari e sarà utile per attività di cooperazione militare, esercitazioni congiunte, evacuazione e protezione di Cinesi all’estero. Ma, hanno insistito i media cinesi, la Cina non persegue espansionismo militare né si impegnerà in corse agli armamenti. Lo sviluppo militare della Cina, taglia corto il Pla Daily, quotidiano delle forze armate cinesi, mira a proteggerne la sicurezza, non a controllare il mondo.

Le precisazioni sono una risposta agli altri attori internazionali come gli Stati Uniti – che hanno espresso preoccupazione per la mossa cinese – e l’India, altro gigante asiatico che rivaleggia con la Cina e che teme di esserne pian piano accerchiata. È, questa, la teoria del «filo di perle» che attribuisce alla Cina la volontà di creare una serie di presenze nei punti chiave del percorso marittimo immaginario che va dal territorio cinese alla città sudanese di Port Sudan, sul Mar Rosso, circondando, appunto, l’India.

Ma anche prima di questo passo, il quale, al netto delle preoccupazioni di Usa e India, resta comunque epocale, che la Cina avesse cambiato marcia era piuttosto chiaro. Lo scorso maggio c’è stato a Pechino il primo incontro di presentazione dell’iniziativa Una cintura, Una strada (One Belt, One Road, Obor), che prevede la ricostituzione della via della seta. Anzi, delle vie della seta: quella terrestre, che interessa principalmente Asia ed Europa, e quella marittima, che tocca anche l’Africa orientale. Le manifestazioni di interesse da parte dei paesi potenzialmente coinvolti sono state tante, e tanti sono anche i dubbi sulla praticabilità e sostenibilità di un’opera così mastodontica.

Nuovo treno merci sulla nuova ferrovia costruita dai cinesi in partenza da Mombasa

Intanto, però il lancio esplorativo del programma mette in una diversa prospettiva due infrastrutture che in Africa sono state già realizzate. Se n’è parlato molto nell’ultimo anno: sono la ferrovia che collega il porto kenyano di Mombasa con la capitale Nairobi e quella che connette Gibuti alla capitale etiope Addis Abeba.

La linea ferroviaria kenyana, riporta la Bbc, è stata inaugurata lo scorso maggio con diciotto mesi di anticipo, è lunga 470 chilometri ed è la prima fase di un più ampio progetto che prevede in Kenya un totale di 840 chilometri sino alla città frontaliera occidentale di Malaba. Costruita dall’azienda cinese China Road and Bridge Corporation (Crbc), ha avuto un costo di 3,8 miliardi di dollari finanziati all’85 per cento dalla Banca per l’import export cinese (China Exim Bank) con un prestito agevolato che concede al Kenya di cominciare a ripagare il debito fra dieci anni con i proventi generati dalla ferrovia. Il tratto kenyano dovrebbe essere il primo di un complessivo progetto regionale che collegherebbe l’oceano Indiano con il Sud Sudan.

Quanto alla linea Gibuti-Addis, è la prima ferrovia elettrica del continente e permetterà di impiegare dieci ore invece che tre giorni per trasportare merci sui 756 chilometri che separano le due città. Anche in questo caso, finanziatori e costruttori sono cinesi: l’Exim Bank ha concesso i prestiti e due costruttori – diversi da quelli della Mombasa-Nairobi – hanno realizzato la ferrovia, che dovrebbe cominciare le operazioni questo mese dopo un anno di test e verifiche.

Ma le due strade ferrate non sono certo le sole opere a cui la Cina è o è stata alacremente intenta negli ultimi anni. Sempre cinese è il ponte che collegherà la capitale mozambicana di Maputo al distretto di Catembe e che, con i suoi oltre tre chilometri, sarà il ponte sospeso più lungo del continente. Il costo sarà di circa 750 milioni di dollari e il progetto comprende anche la costruzione di due strade per migliorare i collegamenti del Mozambico con lo Swaziland e il Sudafrica, incentivando così turismo e commercio. I nomi del finanziatore e del costruttore? Sempre gli stessi: Exim Bank e Crbc.

Vale la pena di citare poi la cittadella di Kilamba, a trenta chilometri dalla capitale dell’Angola, Luanda, un complesso abitativo composto da 710 edifici di diverse altezze e con più di ventimila appartamenti, oltre ai servizi come asili, scuole, negozi. Costruita con fondi e da aziende cinesi e inaugurata nel 2011, è stata oggetto di alcuni reportage che la descrivevano come una città fantasma, almeno fino all’anno scorso. Oggi fonti ufficiali quantificano in ottantamila gli angolani residenti nella cittadella; la lentezza con cui le case vengono vendute pare dipendere più che altro dai prezzi – fino a qualche mese fa decisamente troppo alti anche per i luandesi di classe media -, dalle difficoltà nell’ottenere un mutuo e dalla inefficienza e disorganizzazione con cui l’assegnazione delle case viene gestita dagli enti angolani.

Ma andiamo oltre le singole opere. Nel 2016, si legge nel rapporto di Fdi Intelligence, la sezione del Financial Times che si occupa di investimenti diretti all’estero@, la Cina è stata il primo paese per capitali investiti in Africa: oltre 36 miliardi di dollari e quasi 40 mila posti di lavoro creati. Ha così soffiato il primato all’Italia che l’anno precedente, soprattutto grazie al progetto Eni per l’estrazione di gas dal giacimento di Zohr, al largo dell’Egitto, faceva da capofila con 7,4 miliardi di dollari.

Per numero di progetti, restano in testa gli Stati Uniti: 83 progetti (dieci in meno dell’anno precedente), contro i 71 della Francia e i 62 della Cina, che li ha però raddoppiati rispetto al 2015. Considerando i paesi come aggregati, è l’Europa occidentale a posizionarsi al primo posto, con 224 progetti, pur registrando un calo rispetto ai 282 del 2015.

Invasione cinese? Non proprio.

La base di Gibuti, le grandi opere e numerosi articoli e reportage hanno contribuito a creare la sensazione di un’invasione dell’Africa da parte della Cina. I volumi sono certo impressionanti, ma vanno contestualizzati. Anche perché l’analisi dei numeri sulla Cina si scontra con due difficoltà: la prima è che i dati forniti da Pechino non sono né chiari né trasparenti. Ad esempio, osserva David Dollar della Brookings Institution di Washington, metà del complessivo investimento cinese all’estero risulta diretto a Hong Kong e, a seguire, alle isole Cayman e Virgin. Nessuno dei tre luoghi è probabilmente la destinazione finale degli investimenti@. Inoltre, diverse ricerche prendono in considerazione gli impegni annunciati dalla Cina, che non sempre però si trasformano in effettivi flussi di denaro. La seconda difficoltà è che l’elaborazione di questi dati da parte dei media non sempre sfugge al sensazionalismo.

La Cina ha certamente fatto un balzo notevole nell’ultimo decennio. Come sottolinea a pagina 20 lo studio McKinsey sopra citato, Pechino è già il maggior partner economico dell’Africa: si trova nelle prime quattro posizioni in cinque ambiti fondamentali: commercio, investimenti, progressione degli investimenti, aiuto allo sviluppo e finanziamento di infrastrutture. Sempre David Dollar nel 2016 proponeva tuttavia una lettura cauta: l’investimento della Cina in Africa è sia grande che piccolo. È piccolo, scrive lo studioso, nel senso che la Cina è arrivata più tardi in Africa e rappresenta solo una piccola parte dello stock totale degli investimenti stranieri nel continente. Alla fine del 2011, questo totale era di 629 miliardi, del quale la quota cinese era pari al 3,2%. I paesi europei, guidati da Francia e Regno Unito, sono di gran lunga i maggiori investitori nel continente. L’investimento della Cina in Africa è tuttavia anche grande in senso relativo. A fine 2013, la Cina aveva un investimento diretto estero in Africa (32 miliardi di dollari) comparabile a quello che aveva negli Stati Uniti (38 miliardi). Pertanto, dal momento che l’investimento diretto tende di norma ad andare verso le economie più avanzate, l’attenzione relativa della Cina all’Africa è grande@.

Lo stock di investimenti diretti esteri in Africa l’anno scorso si aggirava intorno agli 836 di cui 49 miliardi dalla Cina secondo le stime di McKinsey. Se la stima fosse confermata, la quota cinese di investimenti in Africa salirebbe a poco meno del 6%. L’ultimo dato disponibile per gli Stati Uniti è quello del 2015, pari a 64 miliardi di investimenti in Africa: l’8,3% del totale.

La China Africa Research Initiative (Cari) della Jonhs Hopkins University è un’altra delle fonti che tende a ridimensionare i dati. Un esempio? Il fact checking della Cari su un articolo apparso lo scorso maggio sul New York Times dal titolo «La Cina è la nuova potenza coloniale mondiale?», nel quale il quotidiano statunitense sosteneva che nel 2016 la Cina avrebbe riservato un fondo di sessanta miliardi di dollari per finanziare infrastrutture in Africa principalmente attraverso prestiti cinesi. «Non esiste nulla del genere», puntualizza Cari. «L’articolo potrebbe riferirsi agli impegni presi dalla Cina nell’incontro del Forum Africa Cina del 2015» e – a leggere i documenti ufficiali del Forum – è chiaro come i sessanta miliardi non costituiscano un unico fondo ma comprendano prestiti, donazioni e investimenti e, soprattutto, non sono concentrati sulle infrastrutture.

Chiara Giovetti
(continua in gennaio 2018)

Archivio MC:

Di relazioni Cina Africa abbiamo parlato nel dossier MC dicembre 2007 e nel numero monografico MC ottobre 2010.




Stati Uniti: nelle Americhe di Donald Trump


Da gennaio 2017 il 45.mo presidente degli Stati Uniti d’America è Donald Trump. È arrivato alla guida della maggiore potenza mondiale nonostante la sua fama di finanziere bancarottiere, evasore fiscale e molestatore. Cosa ha spinto gli statunitensi a questa scelta dirompente? Come cambierà la politica estera degli Usa? Come si comporterà la Chiesa cattolica statunitense (molto silente durante l’intera campagna elettorale)?

L’America ha parlato, e ha eletto Donald Trump presidente. A qualche settimana dal risultato del voto questo è ancora un paese sotto shock. Durante una campagna elettorale lunga quasi un anno e mezzo, che ha sfiancato la psiche e l’anima degli Stati Uniti, pochi pensavano che il finanziere bancarottiere, evasore fiscale e molestatore potesse raccogliere la maggioranza degli «electoral votes» (rappresentano i cosiddetti «grandi elettori» eletti su base statale, chi vince in uno stato – anche per un solo voto – prende tutto, ad esempio vincendo in Florida Trump ha preso tutti i 29 grandi elettori di quello stato, ndr) dell’arcaico sistema che ancora governa le elezioni presidenziali. Per la maggioranza degli americani che non hanno votato per lui è come non riuscire a svegliarsi da un incubo.

Il Partito repubblicano soggiogato e conquistato da Trump si trova ora a dover esercitare il potere nel governo federale che da anni ormai odia in modo quasi teologico, come incarnazione del male. Le elezioni dell’8 novembre 2016 non solo hanno portato Trump alla presidenza, ma hanno prodotto anche una solida maggioranza repubblicana alla Camera e al Senato, e in molti stati. La maggioranza della Corte Suprema federale sarà plasmata per decenni dalle nomine che farà l’amministrazione Trump. È un terremoto politico che ha sconvolto le aspettative: con un Partito repubblicano risorto dalle proprie ceneri, asservitosi al pirata che lo ha scalato e umiliato, e un Partito democratico senza una leadership e senza un messaggio se non quello perdente della «identity politics» (suddivisione della popolazione in base a elementi identificativi: nazionalità, genere, religione, lingua, ecc., ndr) in cui si sperava che la demografia di un paese sempre più multiculturale risolvesse il problema della mancanza di una visione.

Le spiegazioni

In un paese diviso lungo linee diverse che si sovrappongono – disparità sociali e di reddito, salti generazionali, identità culturali ed etniche-razziali, ubicazioni geografiche ed esistenziali, livelli di educazione scolastica – i messaggi lanciati e ricevuti con l’elezione di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti sono vari. Ci sono due tentativi principali di spiegare quanto accaduto. La prima spiegazione è di tipo materialistico: Trump è stato eletto dai dimenticati e perdenti del sistema economico e finanziario, dagli snobbati del sistema informativo, dagli esclusi dal sistema educativo. La seconda spiegazione è di tipo identitario: Trump è stato eletto da quanti si sono ritrovati nel messaggio non solo anti-immigrazione e anti-musulmano (non sconosciuto all’Europa di oggi), ma nativista e razzista, chiaramente «white supremacist» e sottilmente antisemita, isolazionista e violento del candidato anti-establishment. Sono due spiegazioni che devono entrambe far parte del tentativo di spiegare quanto accaduto. Comprendere è un’altra questione, se con comprendere vogliamo intendere di mettersi nei panni di coloro che, l’8 novembre 2016, hanno accettato e normalizzato l’immaginario trumpiano, molto vicino a quello nativista (l’idea di un’America in cui sia ancora politicamente, socialmente e culturalmente dominante la parte della popolazione composta da bianchi e protestanti) e schiavista di metà Ottocento. Non tutti, né molti degli elettori di Trump sono razzisti, ma non tutti lo hanno votato per esprimere un disagio economico. È impossibile spiegare l’America solo con i meccanismi di classe, senza ricorrere alla storia dei rapporti tra razze e religioni, e senza una presa di coscienza di come le identità si intersecano e sovrappongono.

Il neo presidente Donal Trump visita il presidente uscente Obama alla Casa Bianca il 10/11/2016 / AFP PHOTO / JIM WATSON

Contro Obama

Il risultato dell’elezione non può essere spiegato senza ricordare che la campagna per la presidenza Trump l’ha, in un certo senso, iniziata anni fa, poco dopo l’elezione di Barack Obama nel 2008, accusando il nuovo presidente di non essere cittadino americano («Voglio che mostri il suo certificato di nascita», disse più volte) e quindi di essere stato eletto illegittimamente. Il mandato del primo presidente afroamericano ha incontrato da parte del Partito repubblicano una resistenza tesa non soltanto a ostacolae l’agenda, ma a delegittimae la funzione. Dal 2008 in poi negli stati governati dai repubblicani ci sono stati sistematici tentativi (in molti casi coronati da successo) di impedire il voto degli americani non bianchi, e degli afroamericani in particolare: in aiuto a questo tentativo di revocare le conquiste del civil rights movement, la Corte Suprema federale (guidata da un chief justice cattolico, John Roberts) ha cassato una parte della legislazione degli anni Sessanta promulgata per difendere il diritto di voto delle minoranze in quegli stati con una storia di tentativi di privare una parte della popolazione della possibilità concreta di esercitare il diritto di voto.

Contro Obama non vi è stata solo la resistenza politica da parte del Partito repubblicano. Anche la Chiesa cattolica, i sindacati di polizia, il sistema giudiziario hanno agito per delegittimare la sua presidenza e non hanno fatto molto per mascherare la loro convinzione di avere a che fare con la presidenza di un alieno rispetto al sistema.

L’elezione di Donald Trump è anche la reazione di un paese spaventato, specialmente nella sua componente bianca, da un futuro più multietnico e multiculturale. I silenzi della gran parte dei vescovi della Chiesa cattolica (che è la chiesa più grande del paese) durante i passaggi più foschi della campagna elettorale di Trump non verranno giudicati in modo benevolo dagli storici. È uno dei frutti di una politica cattolica tutta giocata sulla questione dell’aborto, peraltro in modo ideologico: è noto che le politiche dei repubblicani, tese a tagliare lo stato sociale indiscriminatamente (fino quasi ad azzerarlo), conducono di norma a un numero maggiore di aborti.

Un razzismo sistemico

Ad alcuni italiani l’elezione di Trump ha riportato alla memoria la sorpresa, ovvero lo sconcerto, per la prima vittoria elettorale di Silvio Berlusconi nel 1994. Nonostante gli evidenti paralleli tra la carriera e lo stile dei due personaggi, ci sono alcune fondamentali differenze, a parte quella ovvia di importanza sulla scena globale tra due paesi come l’Italia e gli Stati Uniti. La prima differenza è di ordine storico globale. Nel 1994 Berlusconi arrivava sulla scena come l’eccezione all’interno dello scenario europeo e occidentale del primo dopo guerra fredda; Trump è invece il punto più estremo di una serie di rivolgimenti all’interno delle democrazie occidentali (soprattutto il voto per «Brexit» di qualche mese fa, ma anche la decennale crisi dell’Unione Europea; le pulsioni autoritarie in Polonia e Ungheria) e nello scenario euro-asiatico (la fine della democrazia in Turchia e in Russia) che fanno temere per la pace e la stabilità, e soprattutto per la capacità della democrazia in Occidente di resistere ai populismi. La seconda differenza ha a che fare con la storia della democrazia e dei diritti negli Stati Uniti d’America. Nell’Italia di Berlusconi non c’era, come c’è negli Stati Uniti, una parte importante della popolazione con una memoria diretta e personale del razzismo legalmente sancito contro molti milioni di cittadini: la segregazione razziale, specialmente nel Sud degli Stati Uniti, fino alla metà degli anni Sessanta (per non parlare della memoria dei campi di inteamento per i giapponesi americani durante la Seconda guerra mondiale) non è storia dimenticata, e soprattutto non è qualcosa che appartenga solo al passato. Gli Stati Uniti sono ancora pervasi da un razzismo sistemico – nella politica, nell’economia, nella giustizia, nelle scuole – che, per continuare a produrre ineguaglianze radicali, non ha bisogno di persuasioni convintamente razziste dei singoli.

Queste due differenze spiegano la paura con cui molti americani hanno accolto l’elezione di Trump: una paura per il futuro del paese, specialmente dei propri figli, con un ruolo particolare per la questione ambientale visto il rifiuto sia di Trump che dei repubblicani di prendere seriamente le sfide della sostenibilità. Ma c’è anche una paura fisica, per la propria incolumità personale specialmente negli americani non bianchi (afroamericani, latinos, asiatici) e nelle minoranze sessuali. Di fronte al nativismo i documenti in regola rappresentano in molti casi una protezione tardiva. Dopo le elezioni si sono moltiplicate le notizie di incidenti a sfondo razziale nei campus universitari e contro chiese afroamericane. L’America non sembra essere accogliente come prima verso studenti e lavoratori stranieri. Potrebbe esserci un effetto Brexit anche su certi settori dell’economia americana, come l’educazione superiore.

L’anima religiosa (e le assenze della Chiesa)

Il Cardinal Daniel DiNardo. ( Brett Coomer / Houston Chronicle )

L’anima religiosa del paese non esce indenne da questa stagione politica che peraltro sembra essere appena iniziata. La prima domenica dopo le elezioni ha visto gli americani andare in chiesa con uno spirito molto diverso dal solito e diverso tra le varie chiese: alcune chiese hanno celebrato (tra cui quelle evangelicali bianche), altre hanno invocato coraggio e perseveranza nella prova (quelle afroamericane). La Chiesa cattolica ha faticato a nascondere l’imbarazzo che deriva dall’essere una chiesa più divisa di altre e più sprovveduta di altre a cogliere i segni dei tempi: è una chiesa che soffre di una divisione tra quelle realtà che operano sul terreno e la dirigenza, nonostante le buone nomine episcopali e cardinalizie di papa Francesco.

La Conferenza episcopale è stata una voce del tutto assente nell’assistere i cattolici a disceere l’importanza dell’elezione, e la sua neghittosità è stata confermata dall’assemblea dei vescovi tenutasi la settimana dopo le elezioni presidenziali. Il 15 novembre 2016 i vescovi hanno infatti eletto le nuove cariche tra cui il nuovo presidente (il cardinale Daniel DiNardo, uno dei tredici firmatari della lettera contro papa Francesco durante il Sinodo del 2015), il nuovo vicepresidente e quindi futuro presidente (l’arcivescovo di Los Angeles José Horacio Gómez, chierico vicino all’Opus Dei, nato in Messico e difensore degli immigrati) e altre cariche (tra cui il presidente della Commissione giustizia e pace, il vescovo Timothy Broglio, ordinario militare e non esattamente interprete della forte cultura «justice and peace» della chiesa americana di base). I vescovi americani stanno tentando di impostare il rapporto con Trump sulla base delle policies del suo governo, evitando di confrontarsi con la campagna di odio e di razzismo interpretata e scatenata dal suo movimento. Il timore è che l’episcopato americano non sia intellettualmente e moralmente in grado, tranne alcune eccezioni, di fare fronte all’emergenza morale e culturale della presidenza Trump (e del vicepresidente Mike Pence, un ex cattolico ora evangelicale che potrebbe essere il vero ideologo dell’amministrazione).

La politica estera

L’elezione di Trump apre una pagina tutta da scrivere per la politica estera americana. Ci sono in gioco questioni geopolitiche complesse e tragiche – Siria, Turchia, e il Medio Oriente; il ruolo della Russia; la nuclearizzazione dell’Asia orientale, Giappone e Cina; l’America Latina «cortile di casa» degli Usa; l’Unione Europea e Brexit – su cui la politica estera americana ha inanellato negli ultimi quindici anni una serie impressionante di sconfitte. I proclami di Trump per un nuovo isolazionismo dovranno fare i conti con il prezzo che il nazionalismo americano deve pagare per una supremazia globale che non è più incontrastata. Il rapporto con la Russia di Putin e il suo impatto sul risultato delle elezioni americane è una delle questioni che restano da indagare.

La politica vaticana, così come chiunque abbia a cuore la pace, la giustizia e la cooperazione, hanno molto da temere da un’amministrazione Trump. C’è da attendersi più vigilanza dal Vaticano di papa Francesco e del cardinal segretario di Stato Parolin che dall’episcopato negli Usa, tranne alcuni vescovi. Il cattolicesimo americano interessato alla politica si divide tra neo-conservatori (che cercheranno di trovare un accordo di desistenza con Trump sulle questioni bioetiche e biopolitiche) e cattolici radicali postmodeisti (per i quali la politica è terreno da evitare, se non da etichettare come devozione all’idolatria nazionalista americana). In mezzo tra questi due estremi il common ground cattolico americano è ridotto ai minimi termini sociologicamente e intellettualmente. Una delle questioni che l’elezione di Trump solleva per la chiesa americana è come possa risolvere le tensioni sempre più evidenti tra la sua cattolicità e il suo americanismo.

Massimo Faggioli

È docente ordinario nel dipartimento di teologia e scienze religiose della Villanova University (Philadelphia). Ha lavorato come ricercatore presso la «Fondazione per le scienze religiose Giovanni XXIII» di Bologna dal 1996 al 2008 e ha conseguito il dottorato in Storia religiosa all’Università di Torino nel 2002. Collabora con varie riviste italiane e non, tra cui Il Regno, Jesus, Commonweal, e La Croix Inteational. Le sue pubblicazioni scientifiche si occupano di Vaticano II, di ecclesiologia, e di nuovi movimenti cattolici. Questo articolo è il suo esordio su Missioni Consolata.

  • www1.villanova.edu
    Il sito della Villanova University, istituto fondato nel 1842 dagli Agostiniani.

 


Approfondimento

Gli Usa di Trump e Cuba senza Fidel,
«El bloqueo» al tempo di Donald 

Con papa Francesco e Barack Obama l’Avana e Washington si stavano avviando – pian piano – a una normalizzazione delle relazioni. Dopo gli ultimi avvenimenti, tutto torna in forse.

Avevamo visto Fidel Castro, con il volto smunto ed emaciato e una voce fioca ed impastata, nell’intervista concessa a Gianni Minà – ultimo giornalista a incontrarlo – per il suo recentissimo documentario, «Papa Francesco, Cuba e Fidel». Il vecchio leader aveva parlato di Cuba, degli Stati Uniti e della chiesa cattolica, soprattutto del suo incontro privato con papa Francesco.

Il 25 novembre, subito dopo la morte di Fidel, da tempo malato e ritirato dalla politica attiva, sono iniziate le manifestazioni di giubilo dei cosiddetti esuli cubani di Miami, da sempre spina dorsale del partito repubblicano statunitense e dei suoi candidati in Florida (nonché ideatori ed esecutori di quasi tutte le attività illegali – terrorismo compreso – contro l’isola). Il Miami Herald, quotidiano ferocemente anticastrista, titolava: «La morte di Castro porta speranza, sollievo a Miami». È stato triste, perché giornire della morte altrui è sempre un atto di viltà.

Il neopresidente Donald Trump ha postato i suoi tweet – nuova ed «esaltante» frontiera della comunicazione modea – prima per dire che Castro era stato «un brutale dittatore che aveva oppresso il suo popolo per quasi sessant’anni», poi per affermare che adesso Cuba dovrà concedere di più altrimenti lui porrà fine agli accordi («I will terminate deal») siglati da Barack Obama.

Da miliardario (peraltro, molto controverso anche in questa sua veste) forse Trump pensa di riuscire – finalmente – a comprare quella dignità, morale e materiale, fino ad oggi salvaguardata dalla gente cubana con coraggio, fatica e rinunce, nonostante 55 anni di inflessibile embargo (el bloqueo) statunitense.

Qualsiasi cosa si pensi di Fidel – eroe o dittatore sono le due definizioni che vanno per la maggiore – la dignità della Cuba castrista rimarrà una testimonianza che nessuno (sia politico, editorialista, professore o blogger) riuscirà mai a cancellare.

Paolo Moiola