Congo Rd. Un futuro a tinte fosche


Il 20 dicembre scorso contestate elezioni hanno mantenuto al potere Félix Tshisekedi. Le sfide che dovrà affrontare il presidente sono enormi: il conflitto nell’Est, l’economia che barcolla, le mire straniere sulle risorse del Paese, ma anche la corruzione a tutti i livelli. Le premesse non sono delle migliori.

Oltre 2.300 chilometri di strade, soprattutto sterrate e percorribili in almeno quaranta ore di auto, separano Kinshasa, capitale della Repubblica democratica del Congo (RdC), da Lubumbashi, capitale dell’Haut-Katanga, la provincia più meridionale. Per recarsi a Goma, capitale del Nord Kivu al confine orientale con il Rwanda, invece i chilometri diventano 2.700 e le ore di viaggio più di cinquanta.

Il tragitto su strada da Kinshasa verso Lubumbashi e Goma, interminabile e difficile, è metafora di quello che è la RdC oggi: un Paese immenso, dal potenziale enorme, ma estremamente fragile. La distanza tra la capitale e molte province non è solo geografica, ma anche politica, economica e sociale. I soli 200mila chilometri di strade – che attraversano uno Stato di 2,3 milioni di chilometri quadrati (7,8 volte l’Italia) – sono solo un esempio di questo scollamento.

Il territorio congolese è estremamente frammentato: non c’è un solido legame tra la capitale e il resto del territorio dilaniato da conflitti armati e in perenne crisi umanitaria, depredato delle proprie ricchezze e attraversato da una corruzione endemica. Molte sfide – alcune di lunga data, altre più recenti – attendono Félix Tshisekedi, riconfermato presidente a seguito delle caotiche e contestate elezioni del 20 dicembre scorso. Il presidente uscente ha ottenuto il 73% dei voti, e il secondo, Moise Katumbi, solo il 18%. Conflitti, economia e corruzione spiccano tra le sfide.

Campo di sfollati nei pressi di Goma, Nord Kivu. Foto Christophe Mutaka

La lunga guerra nell’Est

Da Nord a Sud, da Est a Ovest, la RdC è travolta da violenze. Conflitti diversi e causati da motivazioni differenti, ma riconducibili a un unico denominatore comune: la scarsa governance e la mancanza di istituzioni politiche, militari e sociali efficienti, affidabili e diffuse su tutto il territorio nazionale.

Movimenti secessionisti operano nell’Haut-Katanga che già nel luglio 1960, subito dopo l’indipendenza, aveva tentato di separarsi dal resto del Paese. A Nord, nell’Haut-Uélé e nel Bas-Uélé avvengono incursioni e saccheggi di ribelli coinvolti nella guerra civile centrafricana e negli scontri con il governo del Sud Sudan. Tensioni intercomunitarie per le terre sono diffuse su tutto il territorio nazionale. Mentre da inizio 2022, le province occidentali, storicamente le più stabili, sono messe a ferro e fuoco dalla milizia Mobondo, nata a causa di tensioni tra comunità per il pagamento di tasse sulla terra.

Nell’Est (Ituri, Nord e Sud Kivu), i conflitti si protraggono da tre decenni e sono profondamente legati al contesto regionale. Infatti, fin dalle due guerre del Congo, alcuni Paesi della regione dei Grandi Laghi – Rwanda, Uganda e Burundi – mirano a estendere la propria influenza sulle province orientali della Rdc, data la loro posizione strategica nel cuore dell’Africa e la ricchezza di risorse minerarie.

La moltitudine di attori, statali e non, coinvolti, l’intrecciarsi di differenti obiettivi, la fragilità delle alleanze e le interferenze degli altri Paesi della regione sono tutti fattori che hanno reso in passato e rendono ancora oggi difficile la pacificazione dell’area. In particolare, l’interventismo ruandese ha recentemente raggiunto livelli tali da causare una crisi diplomatica tra Kinshasa e Kigali e rischiare un conflitto aperto tra i due Paesi. Dalla primavera del 2022, truppe ruandesi sono infatti intervenute in territorio congolese a supporto del Movimento del 23 marzo (M23), il gruppo armato più violento del Nord Kivu, capace di giungere, a fine 2023, a pochi chilometri da Goma.

Disastro umanitario

«La guerra ha creato un incredibile disastro umanitario», dice Viateur, cooperante del Nord Kivu e analista dei processi di cambiamento nella regione dei Grandi Laghi. L’Unhcr (agenzia Onu per i rifugiati) conta sei milioni di sfollati interni, mentre un altro milione ha cercato rifugio nei Paesi vicini. Chi resta nei territori controllati dagli attori armati «vive ogni giorno le afflizioni della guerra come vessazioni, stupri, saccheggi e lavori forzati. I gruppi armati portano via tutto quello che i locali possiedono: cibo, denaro, bestiame e coltivazioni. I bambini non vanno più a scuola, gli agricoltori non lavorano più i campi, le attività economiche sono paralizzate», racconta Viateur.

Come prevedibile, la promessa di Tshisekedi di un intervento militare tale da porre fine alle violenze in tempo affinché le elezioni si potessero svolgere in tutto il Paese non è stata mantenuta: gli abitanti dei territori di Masisi e Rutshuru, occupati dall’M23 (oltre a Kwamouth, epicentro della violenza dei Mobondo), non hanno potuto votare.

Raramente le Forze armate della Rdc registrano successi contro i gruppi armati e lo stato d’assedio, introdotto a maggio 2021, non ha portato cambiamenti. La Missione dell’Organizzazione delle Nazioni Unite per la stabilizzazione del Congo (Monsuco), operativa dal 2000 per proteggere la popolazione, è costantemente accusata di inefficacia, data la frequenza di attacchi e uccisioni nei confronti dei civili, e il governo congolese ne ha chiesto il ritiro. Così come, dopo un solo anno, ha iniziato ad abbandonare il Paese anche la Forza regionale della Comunità dell’Africa orientale (Eac), criticata da Kinshasa per l’approccio poco aggressivo nei confronti dei gruppi armati.

Il costante fallimento delle operazioni militari evidenzia la necessità di rafforzare altre tipologie di interventi. Ne derivano azioni diverse, frutto dell’intersecarsi delle dimensioni politica, sociale ed economica: rafforzamento di governance e trasparenza delle istituzioni, sviluppo di programmi efficaci e duraturi per la smobilitazione e il reinserimento socioeconomico dei combattenti e realizzazione di dialoghi intercomunitari e piani per la ripartizione inclusiva delle risorse.

Economia fragile

Un’altra sfida che attende il presidente congolese è quella economica. Secondo la Banca mondiale, nel 2020, a causa della pandemia da Covid-19 che aveva paralizzato scambi e produzione, il Prodotto interno lordo (Pil) era crollato di quasi tre punti percentuali rispetto al +4,4% del 2019. Tuttavia, dall’anno successivo, la consistente domanda cinese di minerali ha trainato la ripresa del Pil, cresciuto del 6,2% nel 2021 e dell’8,9% nel 2022. L’economia congolese è però estremamente fragile: il 90% delle esportazioni è costituito da minerali e idrocarburi, e questo rende il Paese dipendente dalle fluttuazioni dei loro prezzi sul mercato internazionale.

L’analisi di un quadro socioeconomico più dettagliato mostra poi che la crescita del Pil, esaltata da Tshisekedi come risultato positivo delle sue politiche di rilancio post pandemia, è un dato isolato, non una tendenza. La guerra in Ucraina ha spinto l’inflazione dal 9% (2021) al 13,2% (2023) e l’incremento dei prezzi dei beni di base sta impattando soprattutto su quel 60% della popolazione che, secondo la Banca mondiale, vive con meno di 2,15 dollari al giorno. Tra essi, moltissimi giovani, il cui tasso di disoccupazione supera l’80%.

La carenza di reti stradali e ferroviarie ostacola lo sviluppo dei commerci su tutti i livelli: nazionale, regionale e internazionale. I conflitti armati nelle province orientali – le più ricche di risorse – costituiscono un pesante fardello per la crescita economica del Paese, mentre la diffusione di economia informale, illegale e corruzione riduce le risorse statali.

La transizione ecologica

La transizione ecologica globale passa anche per i minerali della RdC: le province meridionali producono il 70% del cobalto mondiale, le riserve congolesi di rame sono considerevoli e la metà del tantalio, contenuto nei telefoni e nei computer di tutto il mondo, proviene dai suoi territori. Dai primi anni Duemila, l’impennata della domanda globale di minerali per la transizione ecologica ha trainato la crescita della produzione congolese, esacerbando però anche gli aspetti negativi a essa connessi: conflitti armati, violazioni dei diritti umani e sfruttamento da parte delle multinazionali.

Per molti dei circa 120 movimenti armati attivi nelle province orientali «i minerali hanno un ruolo preponderante – dice Viateur -. Certi gruppi sfruttano direttamente o fanno sfruttare da altri per loro, le cave e i minerali ottenuti sono venduti attraverso negozianti che li portano oltre confine, in Rwanda e Uganda». Il contrabbando è infatti un’importante fonte di finanziamento per molti attori armati e, in questo modo, sebbene nella RdC siano applicate certificazioni che impediscono la vendita di minerali legati a conflitti e violazioni dei diritti umani, molti di essi entrano nel mercato internazionale. Buona parte della produzione è artigianale: i minatori estraggono senza tecnologie o macchinari e fronteggiano dure condizioni di vita. La crescente domanda mondiale non si traduce in un incremento dei guadagni per i lavoratori locali che «rimangono nella povertà e muoiono ogni giorno a causa di malattie respiratorie e frane, mentre molti bambini non vanno a scuola». Viateur ricorda quanto lo sfruttamento minorile sia diffuso, soprattutto nelle miniere di rame e cobalto dell’Haut-Katanga, nonostante sia proibito dalla legge.

Proteste anti Rwanda (Photo by Aubin Mukoni / AFP)

I minerali

Anche le multinazionali straniere, con un atteggiamento predatorio, contribuiscono a rendere ancora più difficili le precarie condizioni di vita dei congolesi, drenando dal Paese grandi quantità di risorse a fronte di compensazioni decisamente inadeguate.

L’accordo siglato nel 2008 dall’allora presidente Joseph Kabila con la Cina ne è un esempio. Le aziende di Pechino hanno ottenuto concessioni su giacimenti di rame e cobalto del valore di circa 90 miliardi di dollari a Kolwezi (Haut-Katanga). In cambio, la Cina si è impegnata a investire sei miliardi in progetti di sviluppo. Ma, di fatto, ancor meno – tre miliardi circa – sono stati realmente destinati alla costruzione di strade, scuole e ospedali, e gli interventi sono stati appaltati esclusivamente a compagnie cinesi, impedendo la creazione di posti di lavoro e crescita economica nella RdC. Anche se nel 2021 Tshisekedi ha annunciato la rinegoziazione dell’accordo, non sono mai stati rilasciati dettagli sulle nuove discussioni, facendo temere che la revisione non si traduca in miglioramenti tangibili per i congolesi.

I minerali estratti nella Rdc, quando sfuggono al contrabbando, sono esportati, soprattutto in Cina, dove vengono processati. In questo modo, il Paese perde la maggior parte delle proprie risorse ancora in forma grezza, traendone un guadagno limitato, e non beneficia della creazione di opportunità lavorative e della generazione di reddito derivanti da attività di lavorazione interne alla RdC. Un’evoluzione necessaria, quest’ultima, e che è stata timidamente avviata da Tshisekedi con l’istituzione del Consiglio congolese della batteria, cui è stato affidato il compito di creare una filiera per la produzione di batterie elettriche nel Paese. Un progetto che, se realizzato, permetterebbe alla RdC e ai suoi abitanti di trarre maggiori guadagni dalle proprie risorse, ma che deve avvenire al riparo dalla corruzione, imperante nel settore ed endemica nel Paese. Gécamines, la principale compagnia mineraria statale, è infatti ciclicamente coinvolta in scandali e accusata di essere un mezzo per l’accaparramento di risorse da parte dell’élite politica ed economica della Rdc.

Corruzione e potere

Con il giuramento di fine gennaio, Tshisekedi si è confermato alla guida di un Paese dilaniato da conflitti armati e in difficoltà economica. Ma fronteggia anche accuse di corruzione, scarsa trasparenza e manipolazione dei risultati elettorali al fine di soddisfare una sete personale di potere e assicurare favori alla propria cerchia di amici e familiari.

Nulla di nuovo nella RdC. Fin dalla cleptocrazia di Mobutu Sese Seko (1965-1997), corruzione e clientelismo si sono infiltrati a fondo nell’apparato statale, totalmente piegato alla volontà e ai desideri del dittatore e dei suoi alleati. Anche Laurent Désiré Kabila (1997-2001) e il figlio Joseph (2001-2018), sebbene avessero annunciato una cesura con la dittatura precedente, hanno contribuito a istituzionalizzare corruzione e clientelismo. È continuato l’accaparramento di risorse statali – Joseph Kabila è accusato di essersi appropriato, tra il 2013 e il 2018, di 138 milioni di dollari destinati alle casse nazionali – e familiari e amici sono stati posizionati alla guida di aziende pubbliche: nel 2018, secondo il Centro di ricerca sul Congo, 80 compagnie erano riconducibili alla cerchia di Kabila.

L’elezione nel 2018 di Tshisekedi – frutto di un accordo tra quest’ultimo e Kabila affinché l’ex presidente potesse continuare a influenzare la politica congolese dalle retrovie – non ha segnato un’inversione di tendenza. Ancora oggi, la Rdc resta uno dei paesi più corrotti al mondo, al 166esimo posto su 180 nell’Indice sulla percezione della corruzione di Transparency international (ente indipendente che monitora la corruzione globale).

Criticato per aver perpetuato un clima di impunità, Tshisekedi ha visto alcuni dei suoi collaboratori colpiti da accuse, come Vital Kamerhe incolpato di essersi appropriato di 48 milioni di dollari pubblici. Mentre, in vista del voto del 2023, ha posto l’alleato Denis Kadima alla guida della Commissione elettorale nazionale indipendente (Ceni), assicurandosi il controllo della macchina elettorale e la rielezione.

Conflitti, difficoltà economiche e corruzione continuano a segnare il presente e il futuro della Rdc, guidata da un’élite più interessata a mantenersi al potere e ad accrescere le proprie ricchezze che a soddisfare le reali esigenze della popolazione. Ancora una volta, un futuro fosco attende un Paese estremamente fragile.

Aurora Guainazzi

© Christophe Mutaka




Nord Kivu senza pace


Nell’est del secondo paese africano per superficie, tra i più ricchi di risorse, imperversano gruppi armati sostenuti da paesi confinanti. Gli stessi sono alleati della Rdc a livello regionale. Le contraddizioni sono forti. Come pure non si spiega la presenza della missione Onu per la pace che in 23 anni non ha dato risultati. Ce ne parla un attivista per i diritti umani di Goma.

Nell’est della Repubblica democratica del Congo, da circa un anno la milizia M23, sostenuta dal Rwanda, sta causando grandi spostamenti di popolazione. Secondo il sito umanitario Reliefweb, al 31 gennaio 2023, gli attori umanitari e statali hanno stimato in almeno 602mila unità il numero di persone sfollate a causa della guerra nei territori di Rutshuru, Nyiragongo, Masisi, Walikale, Lubero e nella città di Goma (capitale del Nord Kivu). Nel marzo 2023, il numero di sfollati solo intorno alla città di Goma è stimato in circa 200mila.

Julienne, residente a Goma nel quartiere di Ndosho, descrive la loro situazione: «Abbiamo sofferto nella Rdc orientale per molto tempo. Ho visitato alcuni campi di sfollati. Non hanno riparo dalla pioggia, né servizi igienici, né bidoni della spazzatura, né cibo o vestiti. Alcuni hanno preso il colera. Una volta arrivati a Goma, alcuni vengono accolti in famiglie allargate, ma non hanno mezzi per sopravvivere sul lungo termine. Sperano di tornare nel loro territorio dove hanno lasciato tutto. A Goma sono aumentati i prezzi dei prodotti alimentari al mercato. Le strade sono chiuse, la guerra ha bloccato tutte le aree da cui proviene il cibo. I negozi non hanno più nulla da vendere».

Est Rdc, Nord Kivu, nei pressi di Goma. Campo di sfollati interni di Kanyaruchinya. Pascal Martin 2022.

M23 alla ribalta

Tra la fine di febbraio e l’inizio di marzo, i ribelli dell’M23 hanno paralizzato le strade principali che collegano Goma al resto della provincia.

In quella zona, a una trentina di chilometri dalla città, sono stati dispiegati i soldati burundesi presenti nella Rdc come membri della forza militare della Comunità dell’Africa orientale (Eac). Con base a Mubambiro, le truppe burundesi si sono unite a un contingente dell’esercito keniano, di circa mille uomini, schierati a Goma e dintorni dal novembre 2022.

Sempre a marzo, molto più a nord, nel territorio di Beni, anch’esso nella provincia del Nord Kivu, più di quaranta persone sono morte in un nuovo attacco attribuito ai ribelli dell’Adf (Allied democratic forces), affiliati al gruppo Stato islamico. L’Adf ha origine da ribelli ugandesi, in prevalenza musulmani, che sono arrivati nell’est della Rdc a metà degli anni ‘90 e sono accusati del massacro di migliaia di civili.

Est Rdc, Nord Kivu, nei pressi di Goma. Campo di sfollati interni Don Bosco. Pascal Martin 2023.

La voce dei diritti

Abbiamo intervistato Christophe Mutaka, attivista per i diritti umani e direttore del gruppo Martin Luther King a Goma.

Signor Mutaka, può riassumere il lavoro del gruppo Martin Luther King?

«Organizziamo le nostre attività con pochi mezzi. Realizziamo un lavoro di monitoraggio, che ci aiuta a sapere cosa avviene sul campo in modo che, in futuro, coloro che compiono gravi e massicce violazioni dei diritti umani, compresi crimini di guerra e crimini contro l’umanità, e persino atti di genocidio, non sfuggano alla giustizia internazionale.

Negli ultimi mesi, il gruppo Martin Luther King, al fine di evitare che la situazione degenerasse in atti di violenza etnica, ha fatto sensibilizzazione affinché le persone distinguano chiaramente e non confondano coloro che sono al fronte o sul campo di battaglia con le popolazioni civili che non sono responsabili di ciò che accade, indipendentemente dalla loro origine etnica.

Ma continuiamo anche a monitorare ciò che avviene in prima linea affinché gli autori di crimini di guerra, massacri e atti di genocidio siano identificati.

Sono un esempio i massacri di Kishishe e Bambu nel territorio di Rutshuru. Atti che non potranno rimanere impuniti perché i loro autori sono noti e identificati. La documentazione raccolta consentirà alle generazioni future di chiederne conto. Nella parte settentrionale della provincia del Kivu, le persone sono state massacrate per più di un decennio. Molte di esse appartengono alla comunità nande nel territorio di Beni.

Per quanto riguarda gli sfollati, ovvero persone che hanno lasciato i loro villaggi d’origine temendo per la propria vita e che si sono trovate in pericolo a causa dei disordini, anche nel loro caso gli autori delle violazioni dei diritti umani che hanno subito potrebbero essere perseguiti».

Est Rdc, Nord Kivu, nei pressi di Goma. Campo di sfollati interni a Mugunga. Pascal Martin 2022.

Perché e quando l’M23 ha ripreso i suoi attacchi nella parte orientale della Rdc?

«La ripresa degli attacchi, in particolare quelli dell’M23, risale al marzo 2022. Affermano di averli ripresi perché la comunità tutsi (etnia presente in Congo, Rwanda e Burundi, ndr) è minacciata. Ma non è vero: essi si trovano nel governo a livello nazionale, sono presenti nell’Assemblea nazionale, nel Senato, nelle aziende statali e parastatali, nelle aziende private strategiche, nell’esercito e nei servizi di sicurezza. È quindi inaccettabile che si descrivano come una minoranza minacciata o schiacciata del paese. I tutsi hanno tra i membri della loro comunità ministri, generali, alti ufficiali dell’esercito.

L’argomento della minaccia non regge. Come prova, i banyamulenge (tutsi congolesi, ndr) che l’M23 dovrebbe difendere, hanno dichiarato che preferiscono risolvere le loro questioni da soli, con gli altri congolesi.

Il secondo argomento è il rientro nelle loro terre dei rifugiati tutsi che sono ancora nei campi in Rwanda e Congo. Qui nessuno è contrario al loro ritorno, ma sarebbe necessario identificarli in anticipo, conoscere il loro luogo di origine e sapere da quale villaggio provengono. La contraddizione è che quando l’M23 attacca il Congo, crea insicurezza nelle loro zone di origine. Inoltre, c’è il timore che, nella confusione, approfittino del ritorno dei rifugiati per fare arrivare ruandesi non di origine congolese, che quindi non possono indicare il loro villaggio di provenienza.

Infine, questi gruppi richiedono di essere integrati nell’esercito. Anche questo non sta in piedi. Molti ufficiali tutsi, maggiori, colonnelli e caporali sono già nell’esercito, mentre la legge congolese proibisce il reclutamento collettivo di ribelli. Ognuno si fa arruolare individualmente.

Queste argomentazioni ci sembrano quindi infondate e noi pensiamo che le ragioni della ripresa delle ostilità siano altre.

In Rdc vivono circa 450 gruppi etnici che sono ciascuno una minoranza rispetto al resto. La minoranza tutsi non è la più piccola comunità del Paese. Ci sono gruppi etnici più piccoli dei tutsi che non usano questi argomenti di discriminazione. La tutela delle minoranze è garantita dalla Costituzione. Inoltre, non è corretto usare le armi per rivendicare diritti.

Occorre dunque operare una netta distinzione tra coloro che hanno preso le armi contro la Repubblica democratica del Congo (ad esempio l’M23) e i civili che non hanno nulla a che fare con il conflitto armato».

Est Rdc, Nord Kivu, nei pressi di Goma. Campo di sfollati interni a Mugunga. Pascal Martin 2022.

La Rdc fa parte della Comunità dell’Africa dell’Est (sigla inglese, Eac), come il Rwanda che però sostiene l’M23. Questa posizione non è contraddittoria?

«Rispetto all’impegno dell’Eac, ci sono cose che non si comprendono. Ad esempio, come sia possibile che la Rdc rimanga suo membro mentre un altro la attacca, e come mai gli altri membri non prendano posizione. Come società civile, avremmo trovato normale che la Rdc si ritirasse dall’Eac, perché non possiamo rimanere membri di una unione che mantiene un silenzio colpevole di fronte all’aggressione di uno dei suoi membri. Anche l’impegno delle truppe Eac a fianco delle Fardc (Forze armate della Rdc) è difficile da capire. Come le truppe burundesi abbiano attraversato il Rwanda per venire a combattere l’M23 in Congo è qualcosa che non possiamo comprendere. Tuttavia, il Rwanda è membro dell’Eac.

Quindi c’è un gioco di menzogne in questa alleanza, e questo spiega perché ci sono state manifestazioni qui a Goma per chiedere alla Rdc di lasciare l’Eac. Una volta fatto questo, il nostro Paese sarà in grado di cercare sostegno militare o di altro tipo da qualsiasi altro paese del mondo».

Alcuni capi di stato hanno recentemente visitato la Rdc. Possiamo ricordare la visita del sovrano belga, re Filippo, del presidente francese, Emmanuel Macron e del presidente dell’Angola, João Lourenço. Ma anche la visita di papa Francesco. Questo balletto diplomatico ha cambiato qualcosa sul terreno?

«A parte il Papa, le altre autorità che ha citato hanno un’agenda nascosta, che include interessi sulla guerra che si svolge nella Rdc. È quindi normale che il loro passaggio non possa cambiare molto sul terreno.

La Francia, ad esempio, in quanto membro del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, dovrebbe essere in grado di influenzare i suoi membri per fermare la guerra in Congo. Ma, poiché ci sono altri interessi, le visite non hanno cambiato la situazione.

Neppure la popolazione congolese ha capito il significato di queste visite.

Est Rdc, Nord Kivu, nei pressi di Goma. Campo di sfollati interni di Kanyaruchinya. Pascal Martin 2022.

La visita del Papa, invece, è ben diversa. È stata un campanello d’allarme per la popolazione congolese in generale. Nel suo messaggio, Francesco ha detto ad alta voce ciò che tutti stanno sussurrando: ha parlato del coinvolgimento occidentale nella crisi che ha lacerato la Rdc per più di due decenni. Quando il Papa chiede di “togliere le mani dalla Rdc e dall’Africa”, denuncia queste ingerenze esterne.

Come in Burkina Faso, che non ha avuto una guerra prima che i suoi minerali fossero scoperti, o il Nord del Mali, dove sono state scoperte risorse naturali. Tutte risorse di interesse per l’Occidente, e quindi portatrici di guerre. Il commercio di armi è anch’esso un grande business.

Nessuno combatterà per la Rdc, a parte noi congolesi. Le autorità devono capire che gli unici amici del Congo sono i congolesi stessi. Tutte queste missioni esterne vengono nel Paese per interessi personali e non per quelli della Rdc e del suo popolo.

Ad esempio, la missione delle Nazioni Unite è qui da più di 20 anni, la più grande missione di pace delle Nazioni Unite nel mondo. Ma la pace è arrivata? C’è la guerra con scontri continui a soli 30 km da Goma. E i caschi blu dell’Onu sono sul posto.

Capiamo quindi, che tutte queste missioni, che si tratti dell’Eac o delle Nazioni Unite, non sono venute per il Congo, ma per qualcos’altro.

Dobbiamo identificare chi, nel nostro Paese, sostiene la guerra e chi la sostiene al di fuori del Paese. Sarà quindi necessario attaccare gli interessi di coloro che fomentano la guerra, in modo che capiscano che non vale la pena avere le risorse della Rdc passando dalla finestra, ma devono passare dalla porta. Ovvero ottenere le risorse dai congolesi stessi.

Se i paesi occidentali, le multinazionali vogliono sfruttare le risorse naturali del nostro territorio, stabiliscano una partnership alla pari con il Congo, invece di massacrare l’intera popolazione solo perché abbiamo minerali».

In questo anno elettorale, quali sono le correnti di opposizione che possono presentare un’alternativa e canalizzare le aspirazioni del popolo?

«In quest’anno elettorale la posta in gioco è alta. Non dimentichiamo che alcuni politici a caccia di poltrone vogliono approfittare di questa situazione di guerra per posizionarsi e ottenere il sostegno di alcuni Stati occidentali.

Abbiamo anche le nostre responsabilità come congolesi. Siamo in parte responsabili delle nostre disgrazie perché siamo noi che votiamo per le persone che governano il paese. Accettiamo cose inaccettabili e quindi dobbiamo anche lavorare molto sulla governance. Il buon governo consentirà di evitare ingiustizie e di organizzare un’equa redistribuzione delle risorse a livello della popolazione. Se le risorse andranno a beneficio del paese e saranno ben gestite, le persone vivranno in condizioni soddisfacenti.

L’anno elettorale viene osservato con molto interesse anche fuori del paese».

Quali leader democratici emergono per proporre alternative alla popolazione?

«Ci sono leader che hanno una visione diversa della Rdc e un’idea affinché la popolazione possa beneficiare delle risorse del Paese. Ma chi li sostiene? Dovremo sostenere questi leader in modo che possano cambiare qualcosa nel Paese. Sfortunatamente non hanno ancora mobilitato la massa. I congolesi si stanno mobilitando e combattendo per la loro patria, attraverso marce pacifiche, scioperi, giorni di blocco delle città, nonostante tutti i rischi che corrono durante questi eventi.

La popolazione congolese non si lascia abbattere. Resiste in maniera nonviolenta.

Chi sogna la balcanizzazione del Congo si sbaglia: se noi siamo umiliati oggi, domani non umilieranno i nostri figli e nipoti. Perché sono essi che stanno vivendo le disgrazie del popolo congolese: rimanere senza acqua, cibo, elettricità in un paese così ricco è una contraddizione. Un giorno tireremo fuori questo paese da questa vergogna a livello globale».

Quale segno di speranza vede in tutto ciò che il Congo sta attraversando oggi?

«I congolesi stanno combattendo contro diversi paesi contemporaneamente: Rwanda, Uganda e diversi paesi occidentali (Francia, Gran Bretagna e altri).

C’è un barlume di speranza se a livello di società civile continuiamo a sensibilizzare la popolazione affinché tutti capiscano che il futuro del Congo è nelle mani dei congolesi e soprattutto dei giovani. Il futuro dell’Africa è nelle mani degli africani. Non possiamo svendere la nostra dignità e la nostra sovranità. È una consapevolezza che deve aumentare.

Inoltre, è necessario esercitare pressioni sui nostri leader per una sana gestione degli affari pubblici. La liberazione del popolo passa anche attraverso questo. Altrimenti, continueremo a cadere nella miseria e a essere considerati come subumani usati da coloro che ne hanno bisogno. Dobbiamo anche lavorare sull’educazione civica degli elettori, in modo che le autorità che gestiranno questo paese possano essere degne di questo compito. Che lavorino per il benessere della popolazione.

C’è anche l’advocacy. Non lavoreremo da soli. Ci sono persone che vogliono sostenere il Congo, che si chiedono perché il popolo congolese sia schiacciato. Dobbiamo andare da queste persone per spiegare cosa sta succedendo e attivare una diplomazia che possa far capire la causa congolese al mondo.

Perché abbiamo visto paesi mobilitarsi per i terremoti mentre poco o per nulla è stato fatto a favore del nostro Paese? La causa congolese deve essere resa nota all’estero. Il popolo congolese non ha solo bisogno di aiuti umanitari, ma soprattutto di porre fine alle ostilità. In modo che tutti possano tornare a casa, nel loro territorio, e riprendere le loro attività».

Pascal Martin*

*Nato e cresciuto a Goma in una famiglia di volontari, ha poi lavorato per oltre 20 anni come cooperante in Africa, tra Congo Rd, Burundi, Madagascar e altri paesi. Ha già scritto per MC.

Est Rdc, Nord Kivu, nei pressi di Goma. Campo di sfollati interni di Rusayo. Pascal Martin 2023.

 




Congo RD: Chi ha orecchie per intendere


Nel gennaio scorso il papa si è recato nel paese martoriato da una guerra lunga e dimenticata. Ha denunciato sfruttamento e indifferenza. Il racconto di un testimone.

Dal 31 gennaio al 3 febbraio il Papa è stato in Repubblica democratica del Congo (per poi andare in Sud Sudan dal 3 al 5 febbraio, ndr), una visita a lungo preparata e desiderata, segnata da momenti di grande partecipazione e altri più raccolti di ascolto. Un evento atteso dalle autorità locali che per l’occasione hanno «tirato a lucido» (si fa per dire) le strade della capitale Kinshasa. Notiamo però che ad andarsene non sono stati solo i rifiuti, ma anche i poveri che affollano quotidianamente le vie del centro: venditori ambulanti, bambini di strada, homeless. «Nelle zone centrali della città non si può più entrare – ci ha raccontato don Maurizio Canclini -, il centro è presidiato dalla Guardia repubblicana, agenti in borghese e polizia».

Dopo l’arrivo all’aeroporto internazionale N’djili di Kinshasa, il Papa ha dedicato il primo incontro alle autorità nel bellissimo Palais de Nation, un luogo immerso nel verde sulle sponde del fiume Congo, dove l’ansa del fiume dà allo spazio una geometria dolce, mentre le luci di Brazzaville, sulla sponda di fronte, lo rendono un piccolo paradiso.

Qui il Papa ha presentato il Congo «come un Paese che è quasi un continente nel grande continente africano. Sembra che la terra intera respiri. Ma se la geografia di questo polmone verde è tanto ricca e variegata, la storia non è stata altrettanto generosa: tormentata dalla guerra, la Repubblica democratica del Congo continua a patire entro i suoi confini conflitti e migrazioni forzate, e a soffrire terribili forme di sfruttamento, indegne dell’uomo e del creato. Questo Paese immenso e pieno di vita, questo diaframma d’Africa, colpito dalla violenza come da un pugno nello stomaco, sembra da tempo senza respiro». La platea piena di generali ed ex (forse) signori della guerra vestiti in abiti civili restava in silenzio.

In attesa di papa Francesco nello Stadio dei Martiri a Kinshasa. (Photo by Tiziana FABI / AFP)

Colonialismo economico

Il Papa ha poi ripreso, «è tragico che questi luoghi, e più in generale il continente africano, soffrano ancora varie forme di sfruttamento. Dopo quello politico, si è scatenato infatti un “colonialismo economico”, altrettanto schiavizzante. Così questo Paese, ampiamente depredato, non riesce a beneficiare a sufficienza delle sue immense risorse: si è giunti al paradosso che i frutti della sua terra lo rendono “straniero” ai suoi abitanti. Il veleno dell’avidità ha reso i suoi diamanti insanguinati. È un dramma davanti al quale il mondo economicamente più progredito chiude spesso gli occhi, le orecchie e la bocca […]. Si faccia largo una diplomazia dell’uomo per l’uomo, dei popoli per i popoli, dove al centro non vi siano il controllo delle aree e delle risorse, le mire di espansione e l’aumento dei profitti, ma le opportunità di crescita della gente […]. Non possiamo abituarci al sangue che in questo paese scorre ormai da decenni, mietendo milioni di morti all’insaputa di tanti».

Racconta un dottore nato nella regione dell’Ituri (Nord Est) che «qui le persone sono ammazzate come le bestie, in Congo non c’è più da sperare, i volti della gente sono spenti, atterriti, non c’è più la felicità tipica dei villaggi africani, l’entusiasmo per l’ospite, la gioia dell’altro. L’abitudine qui è vedere morti sparsi per le strade».

Messa all’aeroporto

Secondo giorno: messa all’aeroporto di Ndolo. Migliaia di giovani erano già sulla pista da giorni, ma la maggior parte delle persone si è messa in movimento di notte per essere sicurea di arrivare prima delle sei del mattino, dopodiché i cancelli sono stati chiusi. Quando il Papa è arrivato alle nove erano un milione e mezzo che attendevano sotto un sole splendente e caldissimo.

Anche per questa messa, in prima fila c’erano molte autorità e candidati alla presidenza della Repubblica che, al momento dello scambio della pace, hanno ritirato la mano.

La celebrazione è stata una sintesi tra una celebrazione eucaristica, un concerto e un momento di orgoglio nazionale. L’organizzazione ha retto e tutto si è svolto in modo ordinato. Il Papa ha commentato il Vangelo del Risorto ricordando che quelle tre parole, «pace a voi», per noi sono «una consegna, più che un saluto», e sottolineando che le sorgenti della pace, le «fonti per continuare ad alimentarla sono il perdono, la comunità e la missione».

Francesco ha concluso pronunciando alcune parole in lingala: moto azalí na matoi ma koyoka (chi ha orecchie per intendere) e la folla ha risposto ayoka (intenda).

Testimonianze dal Kivu

Nel pomeriggio del primo febbraio, alla nunziatura, il Papa ha ascoltato testimonianze dal Kivu (Nord Est del Paese), forse il momento più toccante della visita.

Una di esse era la sedicenne di Eringeti, nel territorio di Beni: «Sono un agricoltore. Mio fratello maggiore è stato ucciso in circostanze che ancora oggi non conosciamo. Mio padre è stato ucciso in mia presenza, da dove ero nascosto ho visto in che modo lo hanno fatto a pezzi e come hanno portato via mia madre. Siamo rimasti orfani, io e le mie due sorelline. Mamma non è più tornata e non sappiamo cosa ne abbiano fatto. Di notte non riesco a dormire».

La giovanissima Léonie Matumaini ha mostrato un coltello uguale a quello che ha ucciso tutti i membri della sua famiglia in sua presenza.

Kambale Kakombi Fiston, di soli 13 anni, ha raccontato di essere stato rapito per 9 mesi.

Poi è stata la volta di una diciassettenne della zona di Goma ridotta in condizioni di schiavitù sessuale da un comandante per 19 mesi, finché con un’amica è riuscita a scappare: «Ma a quel punto ho scoperto di essere incinta. Ho avuto due bambine gemelle, non conosceranno mai il loro padre». Poi ha proseguito dicendo che «le persone sono state sfollate più volte, i bambini sono rimasti senza genitori, sono sfruttati nelle miniere o negli eserciti ribelli».

Anche un’altra donna di Bukavu ha raccontato di essere «stata tenuta come schiava sessuale. Ci hanno fatto mangiare la pasta di mais e la carne degli uomini uccisi».

Da Bunia (Ituri) un testimone ha raccontato: «Sono sopravvissuto a un attacco al campo di sfollati di Bule, nel villaggio di Bahema Badjere, nel territorio di Djugu, nella provincia di Ituri. Questo campo è conosciuto come “Plaine Savo”. L’attacco è avvenuto la notte del primo febbraio 2022 da parte di un gruppo armato che ha ucciso 63 persone, tra cui 24 donne e 17 bambini. Viviamo in campi profughi senza speranza di tornare a casa».

Francesco, visibilmente commosso, ha detto: «Davanti alla violenza disumana che avete visto con i vostri occhi e provato sulla vostra pelle. Si resta scioccati e non ci sono parole, c’è solo da piangere, in silenzio. Il mio cuore è oggi nell’Est di questo immenso Paese».

In quella regione, ha proseguito il Papa, «si intrecciano dinamiche etniche, territoriali e di gruppo; conflitti che hanno a che fare con la proprietà terriera, con l’assenza o la debolezza delle istituzioni, odi in cui si infiltra la blasfemia della violenza in nome di un falso dio. Ma è, soprattutto, la guerra scatenata da un’insaziabile avidità di materie prime e di denaro, che alimenta un’economia armata, la quale esige instabilità e corruzione».

Il Papa ha poi ricordato l’ambasciatore Luca Attanasio, il carabiniere Vittorio Iacovacci e l’autista Mustapha Milambo, uccisi due anni fa nell’Est del paese: «Erano seminatori di speranza e il loro sacrificio non andrà perduto». Più che un secondo giorno di visita, un programma politico decennale.

Pope Francis (2nd R) blesses attendees as he meets with victims of the conflict in eastern Democratic Republic of Congo (DRC) at the Apostolic Nunciature in Kinshasa, DRC, on February 1, 2023. – Pope Francis arrived in the Democratic Republic of Congo on January 31, 2023, on the first leg of a six-day trip to Africa that will also include troubled South Sudan. (Photo by Tiziana FABI / AFP)

L’incontro con i giovani

Il terzo giorno, il Papa ha incontrato i giovani a cui ha ricordato l’esempio di Floribert Bwana Chui che, quando aveva «soli ventisei anni, venne ucciso a Goma per aver bloccato il passaggio di generi alimentari deteriorati che avrebbero danneggiato la salute della gente. Poteva lasciare andare, non lo avrebbero scoperto e ci avrebbe pure guadagnato».

In serata il Papa ha poi messo «le mani» nelle piaghe del Paese ascoltando le testimonianze di persone vulnerabili. Come i rappresentanti del gruppo Telema Ongenge: «Siamo portatori e portatrici di handicap. Molti di noi erano in ribellione aperta contro la società e pure contro Dio, soprattutto quando ci siamo resi conto che le nostre sofferenze potevano essere evitate, invece non hanno più rimedio e gridano nel deserto dell’impotenza e dell’indifferenza».

Anche Pierre Ngeleka Musangu, di 68 anni, ha raccontato che «da quando ne avevo quattro soffro di un handicap che poteva essere evitato. Per raddrizzare un piede storto dalla nascita, i miei genitori mi portarono all’ospedale di Luebo. Non c’erano medici così fui operato da un assistente, ma la situazione peggiorò perché l’intervento provocò un’infezione […] e ci fu anche la lesione di un nervo, che ha causato la deformazione di cui soffro ancora oggi. Nella mia vita ho incontrato decine di persone che soffrono, o addirittura sono morte, a causa di diagnosi sbagliate, oppure per l’assenza di medici, di medicine o di apparecchiature».

Tekadio Vangu Nolly, 40 anni, ha spiegato al Papa di aver contratto la lebbra quando aveva 21 anni: «iniziarono a venirmi delle macchie […] e mi sentivo sempre più debole, e per di più, poco a poco mi stavo anche trasformando in una persona che disturbava la tranquillità altrui. Piangevo e soffrivo, non solo nel corpo, ma soprattutto nel cuore […] la mia famiglia mi aveva ripudiato e, con la complicità di un guaritore, mi ero convinto di essere responsabile per quello che mi era capitato. Alcuni mi hanno accusato di essere uno stregone, ma come è possibile che uno stregone desideri il suo stesso male?».

Queste sono storie che, grazie a gruppi, associazioni, parrocchie, non sono finite nell’esclusione, perché vi sono anche «persone che non hanno girato la faccia dall’altra parte quando hanno attraversato la nostra strada».

Il Papa ha ripetuto: «Grazie per tutto quello che fate! In questo paese, dove c’è tanta violenza, che rimbomba come il tonfo fragoroso di un albero abbattuto, voi siete la foresta che cresce ogni giorno in silenzio e rende l’aria migliore, respirabile […]. Non mi avete fatto un elenco di problemi sociali, enumerato dati sulla povertà, ma mi avete fatto incontrare nomi e volti».

Poi, il Papa ha proseguito: «Mi sono chiesto: ma vale la pena impegnarsi di fronte a un oceano di bisogno in costante e drammatico aumento? Non è un darsi da fare vano, oltre che spesso sconfortante? Voi mi avete detto: ne vale la pena e c’è bisogno che soprattutto i giovani vedano questo. Volti che superano l’indifferenza guardando le persone negli occhi, mani che non imbracciano armi e non maneggiano soldi, ma si protendono verso chi sta a terra e lo rialzano alla sua dignità».

In tre giorni il Papa ha fatto il possibile. Purtroppo però le risorse e la classe dirigente continuano a essere una sfida per il Paese: nell’Assemblea nazionale (parlamento, ndr) sono presenti molti deputati condannati per corruzione e molti altri vengono da posizioni di comando in gruppi ribelli, gente in abiti civili, ma dalla mentalità incline all’uso della forza e della sopraffazione: «Schiacciare o comprare».

«A Kinshasa (e in Congo) la vita non è facile, ma – spiega il gesuita Olivier Mushamuka – abbiamo capito che se vogliamo fare una cosa la possiamo fare, siamo capaci». Alla fine, secondo alcuni commentatori, le parole del Papa «cadranno nel vuoto, i potenti sono impermeabili». Per altri «forse tra i grandi sarà così, ma per la gente il viaggio è stato importante e continuerà nel tempo a dare i suoi frutti».

Fabrizio Floris*

 *Laureato in economia, dottore di ricerca in sociologia, ha insegnato Antropologia economica presso la Facoltà di Lettere e filosofia dell’Università di Torino e Sociologia generale presso le Università di Milano e Betlemme. Tra le sue pubblicazioni: Periferie esistenziali. Da rispettare, superare, distruggere, Robin&Sons, 2018; Gino Filippini. Uomo per gli altri, Gabrielli, 2021 e Il traffico delle vite. La tratta, lo sfruttamento e le organizzazioni criminali, Franco Angeli, 2022.

 




Congo RD: Perché abbiano la vita


Fratel Domenico, missionario della Consolata, da 37 anni spende la sua vita per le popolazioni che vivono in una delle zone più martoriate del mondo, nel Nord del Congo. Tra malati, bimbi malnutriti, persone con disabilità, poveri, carcerati, studenti.

Fratel Domenico Bugatti, da 37 anni, esattamente la metà della sua vita, opera in una delle zone più martoriate del mondo. Si spende tra le popolazioni dell’Alto Uélé, provincia a Nord Est della Repubblica democratica del Congo, al confine con il Sud Sudan e il Centrafrica.

È stato prima a Neisu, poi a Doruma, infine, da 22 anni, a Isiro.

Tra le molte cose che racconta con tranquilla pacatezza, ci sono anche due fughe in foresta per sfuggire ai gruppi armati, e un assalto notturno di ribelli sudanesi, decisi a saccheggiare la missione e poi scacciati con le armi dalla gente del villaggio.

Incontriamo fratel Domenico a Torino, durante una sua «vacanza» obbligata per piccole questioni di salute. Scalpita per poter tornare nel suo Congo, dai «suoi» bambini del centro nutrizionale Gajen e delle scuole, dalle «sue» persone con disabilità per le quali costruisce speciali carrozzine inventate da lui, dai detenuti del carcere costretti a vivere in condizioni spaventose, dalle persone malate alle quali offre le sue competenze infermieristiche. Gli chiediamo di raccontarci di sé.

Tra Italia e Canada

Nato nella frazione Sant’Apollonio di Lumezzane, Brescia, il 5 ottobre 1947, fratel Domenico è entrato nel seminario dei Missionari della Consolata nel 1959.

«Cinquanta anni fa – racconta -, arrivavano nei nostri paesi i missionari. Facevano animazione, e chi voleva iscriversi, si iscriveva. Io mi sono legato a uno di loro, allora sono entrato nel seminario di Bevera. Lì ho fatto due anni».

Fratel Domenico porta sul viso due larghi occhiali con spesse lenti che mettono in risalto i suoi occhi timidi. Tra i bottoni chiusi della sua polo blu, sbuca una piccola croce di legno con un foro al centro a forma di cuore.

Sembra un po’ a disagio. Non sappiamo se per la mascherina alla quale forse non è molto abituato e che si aggiusta continuamente sul naso, o per il fatto stesso di dover parlare di sé, incalzato dalle nostre domande.

Appare un po’ schivo, benché di cose da raccontare ne abbia molte, e anche di avventurose.

«Quando avevo 14 anni, nel ’61, sono andato ad Alpignano (Torino) per fare la scuola di avviamento. Lì ho fatto i tre anni di formazione come falegname e calzolaio. Poi sono andato in noviziato alla Certosa di Pesio. Eravamo in tre. Uno era un laico che lavorava già da tempo in Kenya.

A 18 anni, nel 1965, sono andato a Milano per fare animazione missionaria. Sono rimasto lì fino al ‘70. Poi sono tornato ad Alpignano. Nel 1972, il superiore mi ha chiesto se ero disponibile ad andare in Canada, nel Québec. Io pensavo da sempre all’Africa, però ho detto di sì, e ci sono andato per lavorare nella procura (un ufficio che curava la raccolta e la spedizione di tutti gli aiuti alle missioni nei paesi più poveri, ndr). Allo stesso tempo seguivo gli studenti del seminario, che ai tempi erano 35-40.

Nel 1977 sono tornato in Italia, e ho fatto un corso di infermieristica. Ho dato una mano a padre Saverio Dalla Vecchia per iniziare la futura casa per anziani di Alpignano. In Casa Madre a Torino, infatti, c’erano già diversi missionari anziani e malati. Ci sono rimasto fino al 1984».

La scoperta del Congo

Quando finalmente i superiori hanno proposto a fratel Domenico di partire per l’Africa, aveva 37 anni. È stato inviato in Congo, allora Zaire, a Neisu, nella zona Nord orientale del paese, in una missione tra la popolazione di etnia mangbetu fondata nel 1981 nella foresta dai suoi confratelli padre Antonello Rossi a padre Oscar Goapper.

Quest’ultimo, morto prematuramente nel 1999, all’età di 47 anni, era un missionario della Consolata argentino con la passione per la medicina.

«A Neisu si trattava di aprire un ospedale – continua il suo racconto fratel Domenico -. Padre Oscar, infatti, si era trovato con tanti casi di malattia, e lui, con un medico, ha organizzato un ospedale. All’inizio era un insieme di case in fango.

Alla fine, Oscar è riuscito a fare dei corsi universitari a Milano, ed è diventato medico lui stesso.

Quando sono arrivato io, mi ha detto: “Qui infermieri ce ne sono già. Tu occupati della costruzione”. Allora ho iniziato a costruire, e ho fatto i padiglioni della parte centrale dell’ospedale. Chi è venuto dopo di me, ha aggiunto attorno altre costruzioni. Sono stato lì 8 anni».

Oggi, l’Ospedale Notre Dame de la Consolata, sviluppato partendo dal preesistente ambulatorio, è una struttura che dispone di 150 posti letto, punto di riferimento per l’assistenza sanitaria di tutta la zona, anche grazie alla sua rete di postazioni sanitarie distribuite in diversi villaggi nel folto della foresta (cfr. Amico nei n. 3 e 5 di MC 2021).

A Doruma nella guerra

Nel 1993, fratel Domenico si è spostato presso il popolo Zande, a Doruma, un grosso villaggio importante snodo per il commercio a tre chilometri dal confine con il Sudan, allora preso nella guerra civile che in seguito avrebbe portato alla nascita dell’attuale Sud Sudan.

«A Doruma c’erano molti profughi sudanesi assistiti dall’Unhcr. Noi eravamo in una missione costruita a inizio Novecento dai domenicani, dove noi della Consolata siamo arrivati nel 1973 – racconta il missionario -. Quando sono arrivato lì, mi occupavo dell’economia e della manutenzione. Ci sono stato cinque anni, prima che fossimo costretti a venire via. I primi tre sono stati abbastanza calmi. Poi, nel 1997, Mobutu (l’allora presidente dello Zaire, ndr.) è stato spodestato da Laurent Désiré Kabila, durante la cosiddetta prima guerra del Congo. Le frontiere non sono state più controllate, e i ribelli del Sudan hanno iniziato a entrare».

È uno dei molti risvolti della crisi dei Grandi Laghi che negli anni Novanta e seguenti avrebbe provocato milioni di morti in diversi paesi dell’area.

La missione di Doruma ha così vissuto momenti drammatici, venendo più volte saccheggiata, sia dall’esercito governativo che dalle forze ribelli del Sud Sudan (Spla).

«Un giorno sono arrivati: prima i militari congolesi che scappavano verso il Centrafrica. Poi i ruandesi e gli ugandesi che inseguivano i congolesi. Noi ci siamo rifugiati tre settimane nella foresta insieme alla gente. C’era con me padre Ferdinando Paladini, il padre congolese Honoré
Tsiditeta e le suore agostiniane.

Alla fine padre Stefano Camerlengo, che era il nostro superiore  in quegli anni, è riuscito a organizzare con altre congregazioni una piccola spedizione, e quindi siamo potuti a venire via. Siamo arrivati a Kinshasa passando da Isiro e Kisangani».

I fucili puntati addosso

«Era il 1998. Quando siamo arrivati a Kinshasa – continua fratel Domenico, sorridendo, come se stesse raccontando di una vacanza al mare -, la notte stessa siamo partiti per Madrid, perché le ambasciate avevano detto di evacuare. Sono tornato un po’ a casa e poi ad Alpignano».

Dopo tre mesi, le cose in Congo sembrava che stessero cambiando. Allora fratel Domenico e padre Rinaldo Do, che era superiore della missione di Doruma, sono rientrati in Congo. Ma la crisi era lontana dal finire: «Se prima c’erano i militari congolesi – continua il fratello missionario -, ora c’erano i ribelli sudanesi che arrivavano d’improvviso e prendevano quello che potevano.

Ci è toccato stare ancora un mese in foresta. Io e padre
Rinaldo abbiamo vissuto grazie ai cristiani che ci hanno dato una capanna e un po’ di cibo.

Dopo un mese, siamo rientrati alla missione. Era l’inizio del 1999. Poco tempo dopo, una sera, è arrivato da noi il nostro superiore provinciale che da mesi voleva venire. Ha parcheggiato la macchina piena di vettovaglie nella missione. Di notte sembrava tutto tranquillo, ma poi, alle 4 del mattino, ci siamo ritrovati circondati dai ribelli sudanesi.

Bussavano alle porte e ci facevano uscire puntandoci i fucili addosso. Ci hanno fatti sedere sui gradini della casa di fronte alla chiesa e hanno iniziato a portare via tutto quello che c’era.

Abbiamo passato più di un’ora così. A quel punto è arrivato qualcuno dal villaggio e ha incominciato a sparare. I ribelli hanno pensato che fossero i militari, allora hanno preso tutto quello che potevano e hanno iniziato a fuggire, tirando anche delle granate per proteggersi. Noi ci siamo nascosti dove potevamo, e siamo stati un’altra ora lì, senza sapere cosa fare. Poi siamo usciti dai nostri nascondigli e abbiamo visto che i ribelli non erano riusciti a prendere l’auto con cui era arrivato il superiore. Allora lui ci ha detto: “Qui bisogna partire, non c’è più sicurezza”. Ha lasciato la missione in mano alla catechista e a un prete diocesano che era arrivato lì per un po’ di vacanza, e noi siamo saliti sull’auto e siamo partiti, così come eravamo, cercando di non fare troppo rumore. Siamo arrivati a Isiro, a 300 km di strada sterrata, il giorno dopo».

Nuova vita a Isiro

Dopo quella fuga, fratel Domenico non è più tornato nella missione di Doruma, che adesso è gestita da sacerdoti locali, ed è stato assegnato alla comunità Imc di Isiro, cittadina che attualmente si stima conti più di 200mila abitanti, capitale del Distretto dell’Alto Uélé.

L’associazione Cuore Amico, che nel 2015 gli ha conferito il «premio Cuore Amico» come figura esemplare di missionario, descrive così il suo impegno nella nuova missione: «Da subito si occupa della realizzazione di un centro nutrizionale d’appoggio ai moltissimi bambini e giovani con gravi carenze alimentari che affollano le strade della cittadina, vittime degli effetti della guerra.

Partendo da un terreno con una costruzione non terminata, fratel Domenico realizza il Centro di alimentazione Gajen che oggi funziona a pieno ritmo: fornisce alimenti per bambini e malati, effettua visite mediche, attività di laboratorio e farmacia, dà gratuitamente medicine. Le attività del Centro non si fermano all’alimentazione e all’assistenza sanitaria: vi si organizzano corsi di igiene e formazione per le mamme, visite negli ospedali o centri di salute per aiutare piccoli e poveri, accoglienza e aiuto a bambini, ragazzi e giovani non scolarizzati, per i quali si paga la retta scolastica mensile; si realizzano attività sportive, vi si costruiscono biciclette per portatori di handicap, vi si organizzano corsi di alfabetizzazione e promozione della donna, vi si vendono pane e biscotti grazie alla costruzione di un piccolo forno.

Una volta la settimana, il Centro accoglie oltre 200 poveri, ai quali viene dato un po’ di riso, sapone, sale e qualche soldo […].

A partire dal 2005 costruisce e ristruttura la Maison père Oscar, una casa per studenti provenienti dalle missioni della Consolata che frequentano le scuole superiori e universitarie di Isiro. Sorge accanto alla clinica universitaria ed ha al suo interno una biblioteca, aperta a tutti gli studenti della città, e un auditorium. La Maison ospita il dipartimento di Scienze religiose per la formazione di insegnanti di religione, agenti di pastorale e diaconi permanenti. L’iniziativa vuole essere un contributo per elevare la situazione culturale della popolazione, un piccolo tassello per costruire la pace, il dono più desiderato dai congolesi».

Il centro Gajen

«Quando sono arrivato a Isiro – prosegue fratel Domenico -, c’era padre José Ariel Hoyos
Zuluaga, che sarebbe morto nel 2013. Con lui abbiamo cominciato ad accogliere i bambini malnutriti. A padre Ariel è succeduto padre Rinaldo Do. Abbiamo comprato dei terreni e, un po’ per volta, abbiamo organizzato il centro nutrizionale che abbiamo chiamato Gajen: Groupe d’appui aux jeunes et aux enfants nécessiteaux (Gruppo d’appoggio a giovani e bambini bisognosi)».

Fratel Domenico ha costruito poi il dispensario, una sala per l’osservazione con dei letti, il laboratorio, la farmacia, la cucina.

«All’inizio avevamo quattro infermieri, oggi abbiamo due infermieri e un pediatra. Abbiamo salvato qualche centinaio di bambini… forse qualche migliaio. E continuiamo. I bambini vengono con le mamme al mattino, tutti i giorni, per due o tre mesi, alcuni anche per quattro o cinque mesi. Fanno colazione, e un controllo. Una volta che hanno preso le medicine, verso mezzogiorno diamo loro un pasto abbondante. Ne mangiano una parte, e l’altra parte la portano a casa. Stanno da noi fino all’una, poi tornano a casa con le mamme».

Quando ci sono casi di bambini con altre malattie, ad esempio l’Aids, fratel Domenico li manda all’ospedale generale di Isiro o all’ospedale di Neisu, a 30 km.

Scuole, carrozzine, carcere

In questi 22 anni a Isiro, fratel Domenico ha espresso tutte le potenzialità dei suoi talenti. Oltre al centro Gajen, si è occupato di persone con disabilità, costruendo quasi 200 carrozzine con pezzi di biciclette e tubi reperibili sul mercato locale; si è preoccupato di offrire un alloggio agli studenti che arrivano dalle missioni Imc della zona. «Poi ho iniziato ad andare nelle prigioni: visitiamo i carcerati e portiamo cibo e medicine. È un carcere fatto come al tempo dei belgi: uno di quei capannoni che, quando c’era la colonia, servivano per le piantagioni di caffè e cotone. I carcerati stanno nel capannone così, senza letti, senza stanze, sdraiati a terra… una cosa impossibile. Se uno non vede, non ci può credere.

Io e padre Rinaldo, qualche tempo fa, abbiamo fatto una settantina di letti per portarli al carcere. Ma sono spariti tutti dopo poco tempo. Venduti: materassi e letti. A quel punto abbiamo continuato a portare solo gli alimenti e le medicine».

Un’altra delle cose di cui si occupa fratel Domenico è la conduzione della scuola materna e della scuola primaria per i bambini del centro nutrizionale. «Le scuole devono essere autosufficienti, quindi chiediamo una retta per i bambini. Lo stato dice di voler dare qualcosa, ma alla fine non dà niente. Le scuole si reggono con le rette degli studenti e gli aiuti dall’Italia. Il centro nutrizionale invece è un servizio completamente gratuito».

Il problema del Congo

Chiediamo a fratel Domenico come ha visto cambiare in questi 37 anni il Congo. «Il paese ha sofferto molto. Il suo problema è la sua ricchezza. Tutte queste guerre che ci sono, sono per il sottosuolo. I paesi limitrofi cercano di prendersene una parte: come il coltan, ad esempio, poi i diamanti, l’oro. A Isiro, nel sottosuolo, c’è molto ferro. Adesso non ci sono cave, ma il giorno che ci sarà bisogno di ferro, le faranno. Ci sono dappertutto compagnie straniere che estraggono minerali. La guerra in Nord Kivu è dovuta a questo, alla sua ricchezza. Cercano di eliminare la gente facendola partire o uccidendola. Ammazzano senza pietà. E la gente scappa».

Infine, gli chiediamo quali sono state le soddisfazioni e le difficoltà della sua missione: «La difficoltà, è quella di capire come andare avanti economicamente con la nostra opera. La soddisfazione, invece, è quella di poter vedere in giro i bambini che abbiamo salvato, che sono tanti, che magari erano arrivati al centro nutrizionale mezzi morti. Piano piano li abbiamo fatti riprendere. Alle volte sono figli di ragazze madri. La soddisfazione è questa: che lo scopo che ci siamo prefissi, cioè quello di aiutare, è realizzato».

Luca Lorusso




Noi e Voi: dialogo lettori e missionari

Amazzonia

Cari missionari,
ritengo che quanto denunciato dall’inchiesta del Tg2 (cfr. Amazzonia: una nuova emergenza – Tg2 Dossier di sabato 16 gennaio) dovrebbe ispirare le agende politiche di tutti i paesi veramente civili e intenzionati ad affrontare la pandemia come le circostanze richiedono.

In Brasile, distruzione della foresta tropicale e mortalità da coronavirus, sono legati da un rapporto strettissimo: più l’agrobusiness criminale si espande a spese della giungla e delle comunità che da essa dipendono, più il Covid-19 ha modo di diffondersi, di radicarsi di sviluppare nuove varianti, di aumentare il suo potenziale distruttivo.

Come ha ricordato l’impresario Sidney Pollettini, una delle persone intervistate dall’équipe del Tg2, la penetrazione nell’Amazzonia continua grazie anche ai rifornimenti italiani: è dal nostro paese infatti che arrivano le macchine per la lavorazione dei tronchi tagliati: «Sono le migliori al mondo» – assicura Pollettini.

Questo, in un mondo normale, dovrebbe costituire un motivo d’orgoglio. Ma possiamo considerare normali le modalità e la velocità con le quali le foreste amazzoniche vengono sfruttate? Possiamo considerare normale il modo con cui Bolsonaro, i latifondisti, la polizia brasiliana e le squadre paramilitari trattano le minoranze indigene?

Possiamo considerare normale il tributo che il Brasile sta pagando al Covid? ffettuosi saluti

Ivo Scorfanetti
23/01/2021


Padre Giuseppe Radici

A Grumello del Monte (Bg) abbiamo ricordato con una messa il 9° anniversario di padre Giuseppe Radici (1924-2012). Grazie al parroco, don Angelo.

Padre Giuseppe, missionario della Consolata, era un amico di famiglia, concelebrò al funerale di mio padre Ezio e dedicò molto tempo alla causa dell’emigrazione orobica costituendo il Circolo dei bergamaschi di San Paolo del Brasile dove visse per oltre 60 anni.

Ogni volta che rientrava organizzavo diversi incontri ed ovunque veniva accolto con successo. Cordiali saluti,

Dott. Massimo Fabretti
Grumello del Monte, 09/02/2021

Bergamasco (orobico) genuino, padre Radici è stato inviato in Brasile subito dopo la sua ordinazione avvenuta nel 1950. Là è rimasto, servendo con grande generosità e dedizione in São Manuel, Rio do Oeste, Três de Maio e São Paulo. Significativa la sua presenza in mezzo alla comunità italiana, soprattutto di origine bergamasca. La sua avventura missionaria si è conclusa l’8 febbraio 2012.


Piccola bimba

Egregio Piergiorgio Pescali,
mi permetto di inviarle questo pensiero che mi è sgorgato alla vista dell’immagine della bimba inserita nell’articolo a pag. 49 apparso su MC 1-2 gen-feb 2021. Complimenti e auguri a tutti voi.

Volti di etnia kirghiza. Foto Piergiorgio Pescali.

«Mia piccola bimba,
da giorni, guardando la foto che ti hanno scattato,
vedo il genere umano non solo il tuo visino.

Rappresenti la vita che si vive,
il tuo sguardo esprime tutto ciò che sarai e già sei.

Cara bimba, ci osservi tutti.
Ci guardi già. Conosci, incerta, sorpresa,
ci invadi inconsapevolmente, ma già sbigottita.

Siamo noi che dobbiamo amarti.
Tu ci rimproveri, ma aspetti.

Lo esprime la luminosità del tuo sguardo,
diretto e interrogativo,
che mandi a chi ti sta difronte,
e tu ancora non conosci.

Ti voglio bene.
Possa tu essere la bambina mia e di tutti».

B. Repetti
13/02/2021


RD Congo

Egregio Direttore
sul MC 12/2020 ho letto l’ampio servizio sulla RD Congo. Sono rimasto esterrefatto della situazione catastrofica di questa grande nazione: malavita, barbarie, atrocità a tutto campo e di ogni genere, soprattutto sul corpo delle donne, sotto lo sguardo impotente delle autorità e del contingente Onu.

Voi dite che il «mondo» sta a guardare, meglio, si gira dall’altra parte. Ma ci potete dire che cosa ci può fare il cosiddetto «mondo» e quei soldati Onu che rischiano ogni giorno la vita? Cordiali saluti.

Angelo Guzzon
Cernusco Lombardone (Lecco), 28/12/2020

 

L’uccisione di Luca Attanasio, del carabiniere Vittorio Iacovacci e del loro autista Mustapha Milambo, ha finalmente costretto anche i grandi media a mettere in prima pagina la tragedia del Congo che in questi anni è costata milioni di morti.

Cosa può fare la comunità internazionale? Forse, per prima cosa, dovrebbe mettersi d’accordo per regolamentare le imprese multinazionali che ormai gestiscono il pianeta, l’economia, la salute e le risorse come se fossero loro proprietà privata senza rendere conto ad alcuno.

Poi, invece di una costosissima Monusco, investire gli stessi soldi per rafforzare e riqualificare l’esercito regolare del Congo e le istituzioni civili di quel paese.

      1. Porre sanzioni ai paesi limitrofi che guadagnano dalla situazione fuori controllo.
      2. Esigere la tracciabilità delle materie prime che vengono usate per cellulari, computer, batterie e prodotti simili, con garanzia di salari e servizi adeguati (salute, sicurezza, educazione, infrastrutture, ecc.) a chi lavora nella raccolta e produzione delle stesse materie prime, oltre al pagamento delle dovute tasse al governo del paese.
      3. E da parte nostra non cambiare i nostri gadget elettronici ad ogni nuova versione.

Ovviamente questi sono solo degli accenni. Il problema è complesso e, come viene ben espresso anche da papa Francesco nella Laudato si’ e nella Fratelli tutti, si tratta di pensare a un cambiamento radicale del nostro sistema economico e realizzare quella che è chiamata la «transizione ecologica» che richiede un nuovo stile di vita e un nuovo approccio alla gestione del nostro pianeta.

 


Complimenti a Chiara e Marco

Per Chiara Giovetti, autrice di un ottimo articolo sulla cooperazione marca Usa.

Una volta c’era a Panama una Escuela des Americas, dove si addestravano gli ufficiali degli eserciti sudamericani. La parte principale dell’addestramento consisteva nel selezionare i più fedeli per insegnar loro a far comprare dai loro eserciti, a caro prezzo, gli armamenti radiati dagli Usa e tenersi la differenza, assicurandosi così una eterna fedeltà. Ma poi la cosa si è risaputa ed è nata una diffidenza generalizzata verso gli ufficiali che avevano frequentato quella scuola, e si è tornati al sistema tradizionale di ricorrere alla massoneria, che nelle Americhe è molto diffusa e istituzionalizzata.

Per Marco Bello, autore di un bellissimo articolo sul Madagascar, che ho girato in lungo e in largo nel 1977. Eravamo in 12, tra cui parecchi medici che però non si sono accorti che una di noi si era presa la malaria, diffusissima. La cosa che mi ha più colpito è il culto degli antenati e della continuità della famiglia: in molte regioni le ragazze prima di sposarsi devono dimostrare di essere capaci di far figli.

Claudio Bellavita
14/02/2021

 


Andare contro corrente

Marzo, aprile e maggio 2020 e poi anche autunno e inverno: italiani impossibilitati a muoversi liberamente causa lockdown. Tutta la grande scienza e la grande tecnologia umana messa in ginocchio da un piccolissimo, microscopico virus. Ora è un virus a mettere in crisi il mondo intero, in futuro potrebbero essere megacomputer o catastrofi atmosferiche causate dal troppo inquinamento e dal continuo uso di armi. Viviamo un’era nella quale la potenza distruttiva nelle mani dell’uomo potrebbe cancellare qualsiasi segno di vita su questo satellite del sole. Come se non bastasse, la potenza dei supercomputer è tale da mettere sotto controllo e assoggettare un numero di persone superiore a quello di tutti gli abitanti della terra.

È necessario che la ragione e l’amore abbiano il sopravvento sulla follia e l’odio che imperversano nel mondo. Occorre che l’umanità agisca con più coscienza. L’insegnamento di Cristo è la più vera difesa della vita e della dignità umana. […]

Sa andare anche controcorrente, contro le mode sbagliate. Occorre diffondere maggiormente il lieto annuncio del Vangelo e soprattutto viverlo. Scomparirebbero immediatamente le numerose guerre e guerriglie che ancora ci sono. Anziché produrre armi micidiali si produrrebbero aratri nel senso di macchinari per il benessere, non per la morte, la natura sarebbe rispettata, non distrutta dall’inquinamento eccessivo per la troppa sete di denaro.

C’è grande necessità di diffondere e vivere il Vangelo più autentico. Il mondo e l’uomo hanno sete della Verità vera annunciata e vissuta da Cristo non di verità soggettive o di false verità. Cordiali saluti

Enrica Barbiroglio
11/02/2021

Gentile lettrice,
perdoni i tagli alla sua lunga lettera. Ho cercato di mantenere il messaggio centrale.

In questi giorni mi è capitato di leggere un testo che parlava dei rischi connessi all’uso degli algoritmi al servizio solo del profitto e di una scienza centrata su se stessa senza una vera riflessione etica, senza valutare le motivazioni, i vantaggi o le conseguenze del loro uso sulla dignità e libertà dell’uomo, di ogni uomo, specialmente dei più poveri e fragili.

Quando il Vangelo sintetizza tutta la «legge» in un’unica parola: ama il tuo prossimo, offre la chiave che sconvolge davvero ogni logica economica e politica, ogni relazione sociale, ogni relazione tra gli uomini.

È putroppo triste che abbiamo bisogno di un piccolissimo indomabile virus per tornare a pensare e agire da «uomini» fatti a immagine di Dio, l’Amore.

 


Cosa c’entar l’amore con la scienza?

L’amore è un sentimento, un’emozione che nasce dall’inconscio. Recentemente alcuni studi hanno dimostrato che l’attrazione fisica e sessuale è legata a fattori chimici, ma l’amore non è necessariamente legato al corpo e alle sue pulsioni; può essere qualcosa di astratto.

Chi ama il proprio Dio, qualunque esso sia o chiunque egli sia, non lo ha mai visto o non ha mai avuto contatti con lui. Alcune religioni disdegnano qualsiasi principio emozionale, compreso l’amore, perché è equiparato al desiderio che, una volta ottenuto, genera altri desideri in un crescendo di cupidigia senza fine lasciandoci nell’arsura dell’inappagamento. Anche quando sembriamo completamente appagati dall’amore, dovremo comunque fare i conti con un futuro che non lascia scampo alla sua perdita.

Ed è stata proprio la perdita della persona con cui ho condiviso gli anni più coinvolgenti della mia vita che mi ha indotto a colmare il vuoto emotivo creatosi cercando di trovare un’interazione scientifica con l’incomprensione della Morte.

La ricerca nel trovare un canale di comunicazione tra l’arida freddezza della solitudine e la spiegazione logica delle leggi fisiche e chimiche dell’Universo hanno prodotto questa serie di poesie che altro non sono che congetture e speranze, se vogliamo anche velleitarie, in cui affondare il proprio dolore e il proprio vuoto.

Piergiorgio Pescali

Il Mio Dio

Non mi interessa
avere soldi.
Se avessi soldi
vorrei avere potere.

Non mi interessa
avere potere.
Se avessi potere
vorrei avere stelle.

Non mi interessa
avere tutte le stelle.
Se avessi tutte le stelle,
vorrei avere l’Universo.

Non mi interessa
avere l’Universo.
Se avessi l’Universo
vorrei essere Dio.

Non voglio nulla
di tutto questo
perché possiedo già
soldi, stelle, Universo.

Te.

Piergiorgio Pescali, Versi d’amore e di scienza, Bertoni editore,
Corciano (Pg) 2020, 86 pagine, 14 euro.




Per non ricadere nell’indifferenza

testo di Marco Bello |


L’attacco a un convoglio di due auto del Programma alimentare mondiale (Pam), da parte di sei uomini armati, ha causato la morte dell’ambasciatore d’Italia in Rdc, Luca Attanasio, del carabiniere Vittorio Iacovacci e dell’autista congolese Mustapha Milambo. Un altro italiano, funzionario del Pam si è salvato. L’assalto è avvenuto la mattina del 22 febbraio nei pressi di Kanyamahoro, circa 30 chilometri Nord di Goma, Nord Kivu, Rdc, dove la strada corre lungo il confine con il Rwanda.

Alcune piccole riflessioni su questa tragedia.

  1. L’Italia scopre che esiste il Congo, solo grazie a tragedie che coinvolgono suoi connazionali, e in particolare, italiani di un certo livello istituzionale.
  2. Le analisi che ho sentito raramente vanno al di là dei gruppi ribelli presenti in quella zona del Congo e delle ricchezze del sottosuolo. Il perché ci siano i gruppi ribelli, perché paesi come il Rwanda, l’Uganda, lo stesso Congo, ma anche (soprattutto direi) potenze internazionali non africane, abbiano interesse a mantenere la situazione così instabile, e questa situazione perduri, e peggiori, da oltre un quarto di secolo, raramente viene spiegato.
  3. Le responsabilità del Programma alimentare mondiale (Pam, Wfp) nel mandare una delegazione di così alto livello, o comunque di elementi stranieri, in una zona così rischiosa, senza scorta armata (ricordiamo che nella zona sono presenti i caschi blu dell’Onu della Monusco, quindi non c’era difficoltà ad avere una scorta), sono a mio parere enormi. Voglio citare un episodio simile, capitato in Burundi nel 1999, quando un convoglio dell’Onu fu attaccato e persero la vita due giovani europei, membri staff Nazioni unite. Vivevo nel paese e ricordo come anche in quel caso c’era stata troppa leggerezza da parte di alcune agenzie Onu e, soprattutto, del loro servizio di sicurezza (super pagato), sul fatto di autorizzare il viaggio di una delegazione di quel tipo, in quel luogo e in quel momento.

Quindi attenzione:

  • Sì ci sono milizie e bande armate nell’Est Congo, ma perché queste imperversano in quella zona da decenni?
  • E perché mandare un ambasciatore con una piccola delegazione non scortata (due auto) proprio lì, in una strada che attraversa un parco naturale della Virunga, al confine con il Rwanda, infestato di bande e trafficanti di ogni tipo?

Vorrei che il sacrificio di questi tre uomini servisse almeno a creare un movimento di indignazione della società civile, che possa spingere chi governa a livello mondiale a cambiare qualcosa nell’Est Congo.

Marco Bello

Goma, teschi di vittime delle violenze di questi anni nel Kivu / foto Renata Andolfi




Rd Congo: Ripartire dalle donne (vittime di violenza)

testo di Luca Salvatore Pistone |


L’Est di uno dei paesi più ricchi d’Africa non trova pace. Nonostante la presenza delle Nazioni unite, decine di milizie imperversano. I civili subiscono ogni sorta di vessazione. Mentre il mondo sta a guardare o, meglio, si gira dall’altra parte.

La guerra nel Nord della Repubblica democratica del Congo (Rdc) è un abominio. Covava da lungo tempo, ma è con il genocidio ruandese del 1994 che, nell’immenso stato dell’Africa centrale, si è scatenata la catastrofe. Vertiginosa diffusione di gruppi armati, negligenza delle autorità, saccheggio di risorse naturali sono solo alcuni degli ingredienti di quello che gli esperti definiscono «conflitto a bassa intensità». Una barbarie, che si protrae da oltre due decenni (di cui MC ha più volte parlato, ndr).

La prima vittima di tanta violenza? La donna. Seni amputati, clitoridi tagliati e ani sventrati sono le firme dei macellai. In Congo il corpo della donna è diventato un campo di battaglia la quale è lecito infliggere dolore, umiliazione, terrore.

Goma

Raggiungiamo Goma, il capoluogo della provincia del Nord Kivu, via terra dal Ruanda. Lasciati i bagagli in albergo, la prima cosa che facciamo è recarci al comando regionale della Monusco (Missione dell’Onu per la stabilizzazione nella Repubblica democratica del Congo). Bisogna muoversi per tempo per trovare posto a bordo di uno dei suoi aerei diretti a Bunia, capoluogo della provincia di Ituri, prima meta del nostro viaggio.

Sbrigata la burocrazia dell’Onu e strappata a un funzionario indiano la promessa che saremo inseriti al più presto nella lista dei passeggeri, ci rechiamo all’appuntamento con Caleb in un bar con terrazza sul lago Kivu. Il tramonto contribuisce a rendere il paesaggio ancora più mozzafiato.

«Finalmente ci conosciamo!». Quarantacinque anni, alto, pochi denti in bocca, Caleb è un simpaticone. Giornalista, ha collaborato con prestigiose testate internazionali. È lui il nostro fixer (la persona che negli scenari di guerra o di crisi, assiste il giornalista che si muove sul campo). «Fidati di me, per capire come le cose vanno in Congo bisogna parlare con le donne».

La casa delle donne

La mattina seguente Caleb passa a prendermi con il suo fuoristrada. In meno di mezz’ora raggiungiamo il villaggio di Bulengo. Continuiamo per un paio di chilometri di strada sterrata e, nascosta da una fittissima vegetazione, troviamo un’enorme villa. Siamo alla Maison des femmes. Ci accolgono una ventina di donne con altrettanti bambini. Terminati i convenevoli, tutte tornano alle loro attività. C’è chi si dedica alla tintura di stoffe per abiti femminili, chi all’intreccio di cestini di plastica riciclata e chi all’allevamento di polli e maiali.

Justine Masika è la presidente di Synergie des femmes pour les victimes des violences sexuelles (Sfvs), una piattaforma nata nel 2002 che raggruppa 35 piccole Ong locali con sede a Goma. «Sfvs gestisce il progetto Maison des femmes. Teniamo dei corsi di formazione professionale e, grazie al microcredito, contribuiamo all’avvio di piccoli esercizi commerciali. Qui le nostre assistite parlano dei traumi che hanno vissuto. Capiscono di non essere sole e che si può andare avanti. Operiamo sulle conseguenze dello stupro, ma ci siamo rese conto che è necessario intervenire alla base di questo male, e cioè lavorare sulle cause che rendono la violenza sessuale un fenomeno così diffuso».

Justine ha un bel da fare. Alla porta del suo ufficio bussano in continuazione le sue collaboratrici per farle firmare pile di scartoffie. «Per porre un freno a questo crimine bisogna combattere l’impunità di cui godono gli stupratori, coinvolgere maggiormente i politici e gli investitori stranieri per mettere fine al saccheggio delle materie prime e, quindi, ai conflitti per il sottosuolo che dilaniano il nostro Congo. Occorre anche capire che gli stupri non distruggono solo il fisico di chi li subisce, ma l’intera società. Le donne, dopo essere state abusate, vengono considerate colpevoli per ciò che è successo loro: vengono ripudiate dai mariti e i figli restano abbandonati a se stessi».

Sfvs si assume le spese per la riparazione chirurgica di fistole retto-vaginali, dei test per l’Hiv e dei trattamenti per malattie sessualmente trasmissibili. Ha istituito venti consultori dove vengono invitate sia le vittime che i loro familiari, allo scopo di far capire a questi ultimi che la «gogna» perpetrata anche da loro non è la via giusta. La sezione per la difesa legale fa pressioni presso le Corti, dinanzi alle quali vengono portati i casi delle donne stuprate, e ha avviato un’intensa campagna per la creazione di tribunali che si occupino esclusivamente di violenze sessuali.

Il dolore

È mezzogiorno. Può avere inizio il douleur (dolore), come Justine chiama l’orario dei colloqui dello psicologo del centro con le vittime di violenza sessuale.

Provengono tutte dalla zona di Masisi, una città del Nord Kivu nota per essere il centro di conflitti che vedono coinvolti almeno 140 piccoli gruppi armati irregolari. «Mettetevi comodi. Vedrete quanto in basso può arrivare l’uomo», ci annuncia Justine.

La prima a entrare è Judithe, di 57 anni. Dieci anni fa dovette assistere all’assassinio del marito e dei due figli, fatti a pezzi col machete. «Il nostro villaggio fu attaccato dai miliziani Mai Mai. Piangevo e quelli mi violentarono uno dopo l’altro, picchiandomi a sangue. La mia comunità mi ripudiò».

È il turno di Mamy, di 35 anni, madre di tre bambini: «Ero andata al pozzo per prendere dell’acqua e ho incontrato degli uomini armati. Mi hanno detto che potevo scegliere tra la vita e lo stupro. Quando vieni stuprata vieni marchiata a vita. Il tuo uomo si sente umiliato e ti caccia via di casa. Per l’intero villaggio sei come morta o una prostituta. Io invece nella disgrazia sono stata fortunata perché mio marito ha capito la situazione e mi ha tenuta con sé».

Therèse ha da poco compiuto 15 anni ed è al settimo mese di gravidanza. Sorride solo quando pensa a Julie, il nome che ha scelto per sua figlia. Per più di un mese è rimasta nelle mani di criminali nella foresta. «Quando mi volevano venivano nella capanna in cui mi avevano rinchiusa. Lo facevano a turno, anche in due, per più volte al giorno. Ero la donna di tutti. Mi costringevano pure a cucinare per loro. Poi un giorno all’improvviso mi bendarono e mi riportarono all’ingresso del mio villaggio».

Chantal ha 19 anni e tra un mese partorirà: «Al mio villaggio non c’è una sola famiglia che non abbia una donna violentata. Io ho tre cugine che sono state abusate. La mia famiglia è in ginocchio, nessuno ci rivolge più la parola».

Secondo le stime delle Nazioni unite, nella regione si verifica uno stupro ogni trenta minuti. Una pratica che non accenna a placarsi.

Ringraziamo la Maison des Femmes e torniamo alla macchina. Regna il silenzio. A infrangerlo, una volta immessi sulla strada asfaltata, è Caleb: «Adesso capisci come siamo messi? In Congo la donna è il campo di battaglia». Mi squilla il cellulare e sul display compare il nome del funzionario della Monusco. È stato di parola: tra un paio di giorni potremo volare su Bunia.

Bunia

Un’enorme distesa bianca e blu. È così che Bunia appare dall’alto. Poi, a mano a mano che l’aereo plana, ci si rende conto di come migliaia di teli di plastica dei colori dell’Onu abbiano inghiottito l’intera città. Sono le tende degli sfollati provenienti da tutto l’Ituri, la martoriata provincia di cui Bunia è capoluogo.

Ituri, un vasto territorio di circa 65mila chilometri quadrati nel Congo Nord orientale, è da lungo tempo teatro di abominevoli scontri tra due etnie, gli Hema e i Lendu. I primi storicamente pastori, i secondi agricoltori. Le rivalità tra i due gruppi risalgono al periodo coloniale, quando i belgi favorirono gli Hema, creando non poche disparità che i governi succedutisi fino ai nostri giorni non hanno voluto e saputo limare.

Le dispute vere, quelle sfociate nel sangue, sono iniziate negli anni Settanta in concomitanza della promulgazione di leggi sulla distribuzione delle terre che avevano avvantaggiato gli Hema. Picchi di violenza si sono registrati nel 1972, 1985, 1996, 2001 e 2003, mentre scontri minori si sono protratti fino al 2007. Negli anni Novanta gli sfollati raggiunsero la cifra record di 400mila. Le varie missioni di stabilizzazione dell’Onu nella Rdc non sono riuscite a fermare i massacri, registrando peraltro un alto numero di morti tra i propri militari. Negli ultimi mesi hanno avuto luogo nuovi scontri con almeno una ventina di morti tra i civili, e le rappresaglie, fomentate da gruppi armati vicini alle due etnie interessati dalle ricchezze del posto, sembrano non avere fine.

Un mare di sfollati

L’Onu ritiene che gli sfollati dovuti a quest’ennesimo incidente, sparsi in campi ufficiali e irregolari soprattutto a Bunia, o rifugiatisi nel vicino Uganda, siano 340mila, circa l’8% dell’intera popolazione della provincia.

Per motivi di sicurezza dobbiamo alloggiare a Bunia, dove ha sede una base della Monusco, gestita dai contingenti marocchino e bengalese. Il responsabile dell’ufficio stampa della missione, un sergente marocchino, ci dà un lasciapassare per raggiungere autonomamente Djugu, la terza città per estensione di Ituri, divenuta uno degli epicentri delle violenze, a patto di tornare a Bunia prima di sera. Un percorso di 70 chilometri su strada sterrata con buche che inghiottirebbero una jeep. Caleb scorre la rubrica di uno dei suoi tre Iphone e contatta Richard, un autista locale. «Tutto ok, domattina alle 4 in punto ci passa a prendere con un pick up».

Richard spacca il minuto. Lasciamo Bunia e a ogni curva rimaniamo a bocca aperta per la bellezza del territorio. Colline verde smeraldo, cascate azzurrissime, fiori mai visti prima. Il viaggio procede liscio e in meno di tre ore siamo alle porte di Djugu.

La città bruciata

Il colore che domina in città è il nero: non c’è un solo edificio o catapecchia che non sia stato incendiato. La cenere è ovunque. Per la loro opera di devastazione sia gli Hema che i Lendu si servono di «serbatoi incendiari», ovvero serbatoi di motociclette lanciati a come molotov contro le case di quelli che ritengono nemici.

Pochissime le persone che incontriamo per strada. Nessuno ha voglia di parlare con noi e così decidiamo di proseguire per un’altra ventina di chilometri fino a Fataki, una piccola località sotto l’amministrazione di Djugu dove è attivo l’unico ospedale del circondario.

Da una stanza provengono urla strazianti di una giovane. Yvonne sta per dare alla luce il suo primogenito. Il dottor Bavi, il giovane direttore dell’Ospedale di Fataki, ci chiede se vogliamo assistere ma decliniamo l’offerta, rimanendo al di qua della tenda che delimita la sala parto. Ephala, la madre della ragazza, è seduta su una sedia in un angolino. Quella che tra pochi minuti diverrà nonna ha appena trent’anni. «Prima è toccato a me, adesso a lei. A sedici anni fui violentata, Yvonne a quattordici. Mia figlia nacque in seguito a quello stupro, come il figlio che ora sta partorendo. Spero sia un maschio, così non potrà essere violentato come noi».

Prendiamo la direzione per Bunia e siamo in hotel prima di sera, come promesso al sergente marocchino.

I campi profughi

Il giorno seguente ci viene assegnata una scorta di caschi blu bengalesi per visitare il Site1 e il Site2, i due campi ufficiali per sfollati di Bunia, uno a poche centinaia di metri dall’altro. Gli chiedo il perché di una simile misura di sicurezza, apparentemente eccessiva, e lui non mi lascia diritto di replica: «Un poliziotto è stato ucciso all’interno del Site1. Tranquillo, avrete massima libertà di movimento».

Il Site1 è il campo più grande della regione. Sorto lungo la recinzione dell’Ospedale Generale di Bunia, ospita circa diecimila sfollati in stragrande maggioranza di etnia Hema. Nel Site2, nato poco dopo su un terreno messo a disposizione dalla Diocesi di Bunia, ce ne sono quasi novemila.

È la Ong congolese Lasi (Ligue anti-sida en Ituri), diretta dal pastore Ignaci Bingi, ad aver ricevuto dal governo provinciale l’incarico di gestire gli aiuti al Site1 elargiti dal Pam (Programma alimentare mondiale) e Oxam (Oxford committee for famine relief). Per distribuire meglio le derrate alimentari, il pastore ha personalmente diviso il campo in dieci blocchi, facendo eleggere dalla comunità un rappresentante per ogni blocco. «Gli sfollati mi riferiscono tutto ciò che non va nel campo in modo che io possa portare le loro rimostranze a chi di dovere. È gente esausta, che ha perso tutto ciò che aveva, incattivita. Una bomba a orologeria insomma».

A occuparsi invece del Site2 sono Caritas Congo e Unicef (Fondo delle Nazioni unite per l’infanzia). Di scuole non ce ne sono e così l’unico spazio aggregativo che i bambini possono frequentare è un piccolo centro costituito da quattro pareti di legno all’interno delle quali alcuni animatori li intrattengono con balli e canti. «Tantissimi dei nostri sfollati sono minori – dice Clementine Pelosi, funzionaria Unicef – e tantissimi sono orfani perché i loro genitori sono stati uccisi durante gli scontri».

I due campi sono un distillato di atrocità. Testimonianze verbali e testimonianze visibili sulla loro pelle. La storia di Grace e Rachel appartiene a queste ultime. Non lascia molto spazio alla fantasia. Due bambine, sorelle, rispettivamente di undici e due anni. Da pochi giorni sono uscite dal reparto di chirurgia dell’Ospedale generale di Bunia, dove erano state condotte due mesi prima in fin di vita.

A raccontarcela è loro zia Charlotte: «I Lendu hanno attaccato Tchee, il nostro villaggio. Hanno violentato davanti agli occhi di Grace e Rachel la loro madre, mia sorella. Sempre davanti ai loro occhi hanno ucciso i loro genitori e i tre fratelli più grandi. I Lendu, non soddisfatti, si sono divertiti coi machete. Hanno tagliato parte del braccio sinistro di Grace e l’hanno ferita alla nuca. Poi sono passati a Rachel. L’hanno squarciata da guancia a guancia e da orecchio a orecchio. Io ho già i miei figli a cui badare, come posso sfamarle? Sapete che nessuno le sposerà in queste condizioni?». Grace è appoggiata alla sua spalla mentre Rachel dorme tranquillamente tra le sue braccia.

Accanto a me un casco blu bengalese. Ha gli occhi lucidi. Infila in tasca a Grace una merendina. Si è fatto buio, dobbiamo andare.

Luca Salvatore Pistone


Dieci anni dal «Rapporto Mapping»

Il genocidio senza storia

Il primo ottobre 2020 ricorrevano i 10 anni dalla pubblicazione del «Rapporto Mapping» dell’Alto commissariato delle Nazioni unite per i diritti umani (Unhchr) sulla Repubblica democratica del Congo.

Per capire meglio di cosa si tratta, occorre fare un passo indietro. Nel 1994, al termine del genocidio in Ruanda, durato 100 giorni senza che la comunità internazionale intervenisse, il Fronte patriottico ruandese (Fpr) di Paul Kagame assunse il controllo del paese (milizia a maggioranza Tutsi anglofona, ndr). Nella speranza di salvarsi dalle violenze dell’Fpr, deciso a vendicarsi del genocidio subito dagli Hutu, circa due milioni di ruandesi di etnia Hutu si rifugiarono nell’allora Zaire di Mobutu. Questi era malato, stanco e ormai abbandonato dagli alleati.

Con il genocidio in Ruanda, l’invasione dello Zaire da parte di quest’ultimo era solo questione di tempo e, con la scusa di inseguire i genocidari hutu, si è concretizzata con la «Prima guerra del Congo» che si è combattuta fra il 1996 e il 1997 e che ha messo fine al regime di Mobutu. Per non destare sospetti durante l’invasione, è stato messo a capo dell’avanzata un cittadino zairese, Laurent-Désiré Kabila che è diventato presidente nel paese nel 1997. Nel 1998 Kabila ha intimato ai ruandesi di ritornare a casa loro e così è iniziata la «Seconda guerra del Congo», detta anche Guerra mondiale africana, che, con milioni di vittime, si è conclusa nel 2003 con un governo di transizione guidato da Joseph Kabila, al potere dal 2001, dopo l’assassinio di Laurent-Désiré Kabila.

In seguito alla scoperta di molte fosse comuni nel 2005, l’Unhchr decise di investigare, e mandò i suoi esperti che indagarono sul decennio 1993-2003 producendo il Rapporto Mapping, uno studio molto dettagliato che sarà pubblicato il 1 ottobre 2010, ma subito messo nel cassetto, in seguito a pressioni di Paul Kagame e dei suoi alleati. Questo rapporto denunciava la morte di 6 milioni di persone e individuava 617 massacri classificabili come crimini di guerra, crimini contro l’umanità e, alcuni, come crimini di genocidio. Tutti crimini imprescrittibili.

Oggi sono in tanti, congolesi e amici del Congo, a chiedere la verità su questo dramma. Nel decimo anniversario del Rapporto Mapping, il dottor Denis Mukwege (cfr. Mc aprile 2018), Premio Nobel per la Pace 2018, ha lanciato, insieme alla società civile congolese ed esponenti della diaspora, una campagna di sensibilizzazione per chiedere alle Nazioni unite l’applicazione delle raccomandazioni di quel rapporto. In particolare, la creazione di un Tribunale penale internazionale ad hoc per giudicare i crimini commessi nella Rd Congo negli ultimi decenni, crimini, lo ricordiamo, che avvengono tuttora nel silenzio, seppure sotto gli occhi della comunità internazionale. Nessuno si illuda però. La strada per arrivare alla verità e alla giustizia è davvero molto lunga e piena di insidie. Ricordiamoci che le responsabilità non si limitano al solo Ruanda ma toccano potenze mondiali ed esponenti della politica congolese. E soprattutto, non dimentichiamoci i troppi interessi economici in ballo.

John Mpaliza*

*Attivista per i diritti umani e per la pace
FB: facebook.com/johnmpaliza/ (ospite di MC giugno 2016)




Con due anni di ritardo il Congo va al voto


Nella Repubblica democratica del Congo il mandato di Joseph Kabila è scaduto a dicembre 2016. Ma le elezioni sono state rimandate più volte. Finalmente la macchina organizzativa è in moto per realizzarle il 23 dicembre. Kabila ha deciso (a sorpresa) di rispettare la legge e non candidarsi alla presidenza. Però manda avanti un suo delfino e intanto ostacola gli oppositori. Sarà una tattica alla Putin?

Nessuno ci avrebbe scommesso. Si è dovuta attendere la sera dell’8 agosto (scadenza per la presentazione dei candidati alle presidenziali) per averne la certezza: Joseph Kabila non si è ricandidato. Dopo quasi due anni di balletti, slittamenti, bugie, sotterfugi e silenzi, tutto il paese temeva che il presidente, ancora assiso sullo scranno più alto nonostante il suo mandato sia scaduto nel dicembre 2016, avrebbe trovato qualche scappatornia legale, oppure avrebbe forzato le norme vigenti, pur di non abbandonare il potere. Del resto «così fan tutti» in Africa centrale. Dal Rwanda al Congo Brazzaville, passando per il Burundi e l’Uganda, i presidenti-padroni non mollano. E si temeva che Kabila, al potere dal 2001, non sarebbe stato da meno.

E invece no. Stavolta si andrà al voto senza di lui. Il suo partito, il Pprd (Parti du peuple pour la reconstruction et la democratie, partito del popolo per la ricostruzione e la democrazia), ha tenuto frenetiche riunioni fino all’ultimo giorno utile per presentare e registrare i candidati alle prossime elezioni presidenziali, fissate per il 23 dicembre. E alla fine dal cilindro è saltato fuori il nome del delfino designato: per la maggioranza presidenziale, a correre sarà Emmanuel Ramazani Shadary. Non a caso, forse (conoscendo un po’ le dietrologie di molti palazzi nella regione), tale candidatura è stata ufficializzata l’8 agosto 2018.

Emmanuel Ramazani Shadary / AFP PHOTO / Junior D. KANNAH

Il delfino del presidente

Cinquantasette anni, originario di Kabambare nella regione del Maniema (Est), da febbraio segretario permanente del Pprd, Shadary è stato ufficialmente designato candidato presidente per la coalizione Fcc (Front Commun pour le Congo, Fronte comune per il Congo), piattaforma elettorale di Kabila e dei suoi alleati. Come ricorda la rivista Jeune Afrique, Shadary è stato vice premier e ministro dell’Interno, ma soprattutto è stato colpito dalle sanzioni dell’Unione europea dal maggio 2017 per «ostacoli al processo elettorale e violazione dei diritti dell’uomo»: era infatti ministro dell’Interno e responsabile dei servizi di sicurezza durante la sanguinosa repressione delle manifestazioni anti Kabila e anti terzo mandato. A lui va attribuita anche la recente riforma elettorale, ritenuta favorevole al campo di Kabila, che autorizza in particolare l’uso delle «machines à voter» (macchine per votare), un esperimento che dovrebbe portare al voto elettronico sessanta milioni di abitanti spesso senza istruzione e senza alcun accesso a internet e ai moderni mezzi di comunicazione.

Ancora, Shadary era in carica durante la crisi nel Kasai, quando lo scorso anno la regione subì una fiammata di feroce violenza attribuita ai miliziani di Kamuina Nsapu, ma i cui contorni non sono mai stati chiariti e dove ha giocato un ruolo poco limpido l’esercito regolare, inviato a sedare la rivolta ma macchiatosi di esecuzioni sommarie. Ricordiamo fra gli altri il clamoroso e oscuro assassinio di due esperti delle Nazioni Unite, Zaida Catalan e Michael Sharp, che stavano investigando su numerose fosse comuni. Inchieste giornalistiche approfondite hanno portato all’evidenza elementi che mostrerebbero la complicità del governo nell’eliminazione dei due giovani internazionali.

Insomma, con un curriculum così, non c’è molto da stare tranquilli: il delfino di Kabila dimostra di essere «all’altezza» – si fa per dire – del suo predecessore e di volerne portare avanti lo «stile» di governo. Eppure, quando ne è stata ufficializzata la candidatura, tutti hanno tirato un sospiro di sollievo. Un paradosso, se vogliamo, che la dice lunga sulla situazione politica della Repubblica Democratica del Congo: gioire per la candidatura di un uomo colpito da sanzioni internazionali, semplicemente perché – quanto meno – la sua scelta ha garantito la non ricandidatura del suo capo.

Il presidente Joseph Kabila durante la  conferenza stampa del26 gennaio 2018 a Kinshasa. / AFP PHOTO / Thomas NICOLON / ALTERNATIVE CROP

Un candidato fantoccio?

Ora si apre tutta un’altra serie di valutazioni: quanta libertà di movimento avrà Shadary? Perché è stato scelto lui rispetto ad altri, più noti e più attesi, fra i fedelissimi di Kabila? Sarà una marionetta nelle mani di Kabila? Perché quest’ultimo, alla fine, ha accettato di non ripresentarsi? È presto per dirlo. Di certo, prima di giungere a questa mossa un po’ a sorpresa, Kabila ha agito per pararsi le spalle da conseguenze nefaste. Una volta tornato privato cittadino, infatti, nulla lo metterebbe al riparo da una denuncia alla Corte penale internazionale dell’Aja. Troppi i crimini a lui ascrivibili commessi negli anni che lo hanno visto padre padrone del Congo. All’interno del paese, tuttavia, non avrà problemi, poiché in base alla Costituzione diverrà automaticamente senatore a vita, con annessa immunità parlamentare. Non pago di ciò, a luglio ha fatto votare al parlamento una legge che gli garantisce anche tutta una serie di benefit e prebende.

Fedeli cattolici durante le proteste anti Kabila / AFP PHOTO / John WESSELS

Oppositori indesiderati

Dal canto suo, l’opposizione è ancora in fase di organizzazione.

L’ultima mossa dell’uscente Kabila è stata infatti quella di impedire la registrazione nell’elenco dei candidati presidenti a Moise Katumbi, quello che negli ultimi anni è stato il suo avversario numero uno. Ex governatore del Katanga, uomo ricchissimo, figlio di un greco ebreo sefardita e di una congolese, sposato con una burundo-ruandese tutsi (figlia di un ex ambasciatore ruandese in Belgio), Katumbi aveva già subìto tentativi di delegittimazione nel 2015, quando aveva lasciato la maggioranza presidenziale e il ruolo di governatore per predisporsi alla candidatura alle presidenziali. Nel 2016 fu prima aggredito da un poliziotto che tentò (pare) di avvelenarlo, poi condannato, in contumacia, a 36 mesi di detenzione «per la vendita di una casa non di sua proprietà», costringendolo a rimanere all’estero (dove era precipitosamente corso per farsi curare dal tentativo di avvelenamento) per evitare l’incarcerazione. Il 2 gennaio 2018 ufficializzò la sua candidatura alle presidenziali e il giorno dopo la sua residenza di Lubumbashi venne circondata dalla polizia, che lo accusava di arruolamento di mercenari. Katumbi ha sempre negato la fondatezza di questa accusa, sostenendo di aver semplicemente assunto una vigilanza privata per la sua sicurezza personale. Ma le accuse non erano finite: a maggio venne incolpato di sostenere la ribellione anti Kabila e addirittura di essere dietro l’epidemia di ebola scoppiata nella provincia dell’Equateur. A giugno le autorità congolesi gli revocarono il passaporto, causando il suo arresto a Bruxelles, mentre stava per prendere un aereo. Nel frattempo, in patria e nella diaspora circolavano le voci più disparate sulla sua nazionalità (addirittura dicevano che avesse un passaporto italiano). Insomma, una vera persecuzione mirata a indebolirlo e soprattutto a tenerlo lontano dal paese.

Fino al 3 agosto, quando, giunto in Zambia per entrare in Rdc e andare a registrarsi come candidato presidente, è stato bloccato alla frontiera per giorni, fino alla chiusura delle candidature. Una plateale scorrettezza, che lo ha per ora di fatto escluso dalla corsa, salvo sorprese.

Sul fiume Congo / foto Ennio Massignan

Il ritorno di Bemba

Una sorpresa, invece, è stato il (breve) ritorno in campo del rivale storico di Kabila, Jean-Pierre Bemba: nel 2006 era andato al ballottaggio contro il presidente uscente. La partita si era giocata anche a colpi di cannone. In quei giorni di settembre 2006 ero a Kinshasa e me lo ricordo bene: il centro città fu ostaggio delle truppe fedeli ai due, entrambi autodichiarati vincitori, che si fronteggiavano con armi pesanti e carri armati. Alla fine, Kabila ebbe la meglio. E Bemba cadde nelle maglie della giustizia internazionale, che lo portò a processo all’Aja per crimini contro l’umanità.

Bemba è figlio di un ricco industriale mobutista e per anni aveva avuto le sue truppe personali: un vero signore della guerra. Le sue milizie si erano macchiate di crimini orrendi nell’Est del Congo. Eppure, curiosamente, finì sotto accusa come responsabile per altri misfatti, che i suoi uomini avevano commesso in Repubblica Centrafricana. Bemba fu condannato in primo grado nel 2016 a 18 anni di carcere. Fino a che – a sorpresa – lo scorso 8 giugno la stessa corte lo assolse in appello. Una sorta di autorizzazione a rimettersi in gioco. Sta di fatto che Jean-Pierre Bemba è uscito dal carcere, ha potuto rientrare in Rdc e presentare la propria candidatura, insieme ad altre 24 persone. Fra i più noti, Félix Tshisekedi (figlio dell’eterno oppositore Etienne, deceduto un anno fa), Vital Kamerhe, Adolphe Muzito, Antornine Gizenga. Di Katumbi abbiamo detto. Per inciso, su 25 candidati, una sola è donna.

Ma mentre le opposizioni cercano la quadra per fare fronte comune e provare a sconfiggere la maggioranza presidenziale (la legge elettorale vigente, modificata da Kabila nel 2011 per garantirsi il secondo mandato, esclude infatti il ballottaggio: chi prende più voti al primo turno vince, anche con un venti per cento), ecco il nuovo colpo di scena: la Ceni (Commissione elettorale nazionale indipendente) boccia sei candidature, tra le quali proprio Bemba, che è stato sì prosciolto dall’accusa principale all’Aja, ma ha ancora pendente un giudizio secondario per corruzione di testimoni. Quindi, secondo la legge, non candidabile. E infatti, dopo la sua esclusione dalle liste elettorali, dall’Aja giunge il 17 settembre una condanna a 12 mesi per subornazione di testimoni.

E così, con una scusa o l’altra, gli avversari più temibili sono neutralizzati.

Giusy Baioni


Elezioni legislative

La macchina per il voto

Uno dei punti più discussi del programma elettorale riguarda la cosiddetta machine à voter: il 23 dicembre si dovrebbe infatti andare alle urne col voto elettronico. L’annuncio era stato dato il 31 dicembre 2017 da Corneille Nangaa, presidente della Commissione elettorale nazionale indipendente (Ceni). E aveva da subito creato scompiglio. Il timore di brogli è forte e ha portato le opposizioni e anche la Cenco (Conferenza episcopale nazionale congolese) a chiedere alla Ceni di rinunciarvi. Quest’ultima non cede, sostenendo che senza tale dispositivo elettronico non si farebbe in tempo a organizzare le elezioni per il 23 dicembre e che la macchina farebbe risparmiare denaro, oltre che tempo.

La nuova macchina per votare. / AFP PHOTO / John WESSELS

Prodotto dalla sudcoreana Miru Systems, è curioso che la stessa ambasciata sudcoreana a Kinshasa si sia presa la briga di sconsigliarne l’uso, per i rischi di irregolarità. Lo stesso dispositivo era stato preso in considerazione dal governo argentino per le elezioni del 2016, ma alcune organizzazioni della società civile si erano mobilitate contro tale ipotesi. Ingaggiando un hacker, avevano dimostrato che era possibile addirittura modificare il voto espresso dal singolo elettore mediante una semplice app sul cellulare. Le stesse associazioni (Fundación vía libre e Poder ciudadano) lo scorso aprile hanno scritto una lettera aperta alla società civile congolese, spiegando tutte le criticità del voto elettronico.

Ecco come funziona: sullo schermo touchscreen della machine à voter saranno visibili le foto dei candidati sia alla presidenza che alle elezioni legislative e provinciali. Il votante selezionerà una persona per ciascuna delle tre elezioni contemporanee e il dispositivo stamperà una scheda col relativo voto all’interno.

Per l’Argentina si trattava di un microchip inserito nella scheda (che l’hacker aveva potuto facilmente clonare e modificare), mentre nel caso congolese il presidente della Ceni Nangaa ha affermato che le schede non conterranno un microchip, troppo costoso, ma un più economico codice QR. Le associazioni argentine obiettano che il votante non è in grado di interpretare detto codice che – teoricamente – potrebbe anche corrispondere a tutt’altro, oppure permettere di identificare il votante. Insomma, nessuna garanzia di segretezza e validità. L’unica cosa certa è che tutte le opposizioni rigettano questo sistema di voto. E chi lo ha provato (fra gli altri, Bemba) ha impiegato parecchio tempo e ha affermato che è troppo complicato.

Ma non basta: una notizia del 14 luglio riportata dall’emittente nazionale Radio Okapi dà l’idea di quali e quanti rischi si stiano correndo. L’articolo titolava «Isangi: una baleniera immobilizzata dopo la scomparsa di una macchina per votare» e raccontava della collera dei commercianti bloccati con le loro merci su un mercantile fluviale, a causa della sparizione di una parte di un lotto che veniva inviato da Kisangani alla provincia della Tshopo per la sensibilizzazione pre voto. Non è dato sapere se sia stata ritrovata, quel che è certo è che il lotto viaggiava senza alcun controllo e che in un paese grande come l’Europa Occidentale tali episodi potrebbero ripetersi più e più volte.

Forte la preoccupazione espressa dall’Onu e secondo le opposizioni tale dispositivo potrebbe divenire fonte di contrasto anche post elettorale.

Giusy Baioni

Il Congo è in balia a una violenza diffusa / foto Irin




Rd Congo massacri nel Beni


I territori di Beni, Butembo e Lubero nella provincia del Nord-Kivu all’est della Repubblica democratica del Congo sono da decenni vittimi di massacri di civili. Una lettera aperta del 14 maggio 2016 mandata dai cornordinatori locali dei gruppi della società civile di Beni, Lubero e Butembo al presidente della Repubblica, Kabila, riporta che solo negli ultimi due anni sono stati registrati più di 1116 persone ammazzate e altre 1470 rapite; più di 1750 case incendiate (molto spesso con dentro i loro abitanti), 13 centri di salute incendiati (anche in questo caso con malati e personale sanitario all’interno); 27 scuole distrutte, altre abbandonate, altre ancora occupate o da rifugiati, o da “dipendenti” militari, o dagli stessi gruppi armati; ci sono villaggi interi completamente assediati e occupati da gruppi ribelli, e si tratta di Kyoto, Katundula, Ivombo, Mwekwe, Mukeberwa, Fungulamacho, ecc. (http://www.rfi.fr/afrique/20160517-rdc-kabila-adf-massacres-beni-lettre-ouverte-gilbert-kambale , http://www.radiookapi.net/2016/05/09/actualite/securite/massacre-de-beni-le-commandement-de-loperation-sokola-i-delocalise )

In queste zone la popolazione spesso si ritrova abbandonata a sé stessa, la polizia o le forze armate nazionali essendo quasi inesistenti. L’insicurezza è totale, e la situazione profondamente drammatica.

I gruppi armati all’est della RDC sono numerosi. I principali registrati negli ultimi 20 anni sono: M23, Fdlr, Fdlr-Soki, Fdlr-Rud, Fdlr-Soka, Fdlr Mandevu, Raia Mutomboki, Mai Mai Sheka, Mai Mai Kifuafua, Fdl, Fdc, Upcp/Fpc, Mac, Mpa, Mai Mai Morgan, Mai Mai Simba, Adf-Nalu, Lra, Fnl, Mai Mai Yakutumba, Mai Mai Nyatura, Fdipc, Apcls, Cogai/ Mrpc, Frpi, Kata Katanga, Fdn, M18, M26. (http://www.irinnews.org/fr/report/99057/briefing-les-groupes-armés-dans-l’est-de-la-rdc)

Ben una trentina di gruppi armati che l’esercito regolare e le truppe dell’Onu non riescono a controllare e contrastare, e continuano a seminare terrore in mezzo alla popolazione di questa parte del paese.

Gli ultimi orrori riportati sono stati le uccisioni del martedì 3 maggio nelle località di Minibo e di Mutsonge attribuiti ai ribelli islamici ugandesi appartenenti al gruppo ADF-NALU. Decine di persone sono state freddamente uccise con macete, coltelli e asce. Minimbo e Mutsonge sono due quartieri situati a Nord-Est della citta di Beni nel Nord-Kivu, poco lontano da dove l’esercito nazionale (Fardc) e le truppe dell’Onu (Monusco) hanno le loro basi. L’Adf-Nalu è un gruppo ribelle di origine ugandese che opera a ovest della catena del Ruvenzori nel Beni. È stato fondato nel 1995 e ha come scopo l’instaurazione di uno stato islamico in Uganda. È legato al gruppo somalo di Al-Shabab.

(per un tristissimi catalogo di immagini basta digitare “massacres de Beni RDC”)