Australia. Senza voce a casa propria


È la condizione che vivono i popoli indigeni dell’Australia. Da quando – era il 1788 – gli inglesi arrivarono a occupare la loro terra.

Ormai è trascorso un anno, ma quella data – 14 ottobre 2023 – rimarrà nella storia del Paese come un giorno nero.
Gli elettori australiani erano stati chiamati a un referendum per approvare o respingere una modifica alla Costituzione riguardante i popoli indigeni del Paese. Ovvero per dire sì o no alla formazione di un organismo consultivo chiamato «Aboriginal and Torres Strait Islander Voice». Detto organismo avrebbe avuto il compito di presentare istanze al Parlamento e al Governo su questioni relative alle popolazioni indigene.

La proposta è stata però respinta sia a livello nazionale che in ognuno dei sei stati (Australia Meridionale, Australia Occidentale, Nuovo Galles del Sud, Queensland, Tasmania, e Victoria). Insomma, la maggioranza degli australiani ha detto no a un emendamento costituzionale di buon senso, a una riparazione (sia pure molto tardiva) che avrebbe posto fine a secoli di dominazione sui popoli nativi.

Dagli olandesi alla conquista inglese

Donna aborigena a caccia di varani della sabbia in Australia, Comunità aborigena Warlpiri di Alice Spring. Foto: Fred Muller – Biosphoto via AFP.

I primi stranieri ad approdare sulla Terra australis (Terra meridionale) furono gli olandesi. Un navigatore al servizio della Compagnia olandese delle Indie orientali, Willem Janszoon, nel 1605 sbarcò a Capo York, penisola nordorientale del continente australiano, nella regione successivamente chiamata Queensland.

Dopo le sporadiche visite degli olandesi, trascorsi oltre centocinquanta anni, furono gli inglesi a iniziare un vero e proprio insediamento nel continente australiano.

Nel 1770, il capitano James Cook tracciò la costa orientale dell’Australia e la rivendicò per la Gran Bretagna. Tornò a Londra con resoconti favorevoli alla colonizzazione a Botany Bay (oggi Sydney).

La prima flotta di navi britanniche arrivò a Botany Bay nel gennaio 1788 per fondarvi una colonia penale. Tra il 1788 e il 1868 furono deportati in Australia più di 162mila detenuti, ospiti delle prigioni della Gran Bretagna e dell’Irlanda. Di questi, solo nel 1833 ne arrivarono quasi settemila.

Quelle terre erano abitate da una popolazione nativa considerata tra le più antiche del mondo: gli studi la fanno risalire a 65mila anni fa. «L’arrivo di portatori di una potente cultura imperialista – spiega l’enciclopedia Britannica – costò agli aborigeni la loro autonomia e il possesso indiscusso del continente». Le modalità e le conseguenze della conquista furono identiche a quelle accadute nelle Americhe e, in pratica, in ogni luogo del mondo abitato da popolazioni indigene.

Gli insediamenti europei iniziarono a espandersi nell’entroterra, venendo in conflitto con i nativi per il possesso della terra. «Quando divenne evidente – si legge sul sito dell’Australian war memorial (Awm) – che i coloni e il loro bestiame erano venuti per restare, si sviluppò la competizione per l’accesso alla terra e l’attrito tra i due modi di vita divenne inevitabile. […] Si stima che in questo conflitto morirono circa 2.500 coloni e poliziotti europei. Per gli abitanti aborigeni il costo fu molto più alto: si ritiene che circa 20mila siano stati uccisi nelle guerre di frontiera, mentre molte altre migliaia morirono di malattie e altre conseguenze involontarie dell’insediamento».

Come sempre avviene, sul numero dei nativi morti durante la conquista non c’è concordanza. Tuttavia, è comune – anche se controverso – parlare di «genocidio». Si ritiene, infatti, che la popolazione nativa passò da un numero stimato di 1-1,5 milioni di persone a meno di centomila agli inizi del Novecento.

Cittadini o stranieri?

L’indipendenza della colonia australiana da Londra (rimanendo essa nel Commonwealth e sotto la Corona britannica) arrivò con la Costituzione del 1901. Questa trattava diversamente i nativi dagli altri australiani.

Soltanto due parti si riferivano agli abitanti originari del Paese: la Sezione 51 (paragrafo XXVI) che conferiva al Commonwealth il potere di legiferare nei confronti di «persone di qualsiasi razza, diversa dalla razza aborigena, per la quale si ritiene necessario emanare leggi speciali»; e la Sezione 127 in base alla quale «nel computo del numero delle persone del Commonwealth, o di uno Stato o di un’altra parte del Commonwealth, i nativi aborigeni non devono essere conteggiati».

«Ciò significava – si legge sul sito di the Australian institute of aboriginal and Torres Strait islander studies (Aiatsis) – che gli aborigeni e gli isolani dello Stretto di Torres non venivano riconosciuti come parte della popolazione australiana».

Il referendum del 1967 mise fine a questa incredibile esclusione. Così, a partire dal Censimento del 1971 gli indigeni australiani entrarono – per la prima volta – nel computo dei cittadini australiani.

Mappa dell’Australia con i sei stati federati (più due territori).

Per gli indigeni del continente la strada del riconoscimento dei propri diritti era però ancora molto lunga. Una delle proteste più famose e longeve – e tuttora in essere – prese il nome di «The tent embassy», l’Ambasciata della tenda.

Tutto ebbe inizio il 26 gennaio 1972, nella capitale Canberra. Quel giorno quattro indigeni installarono un ombrellone sui prati di fronte al Parlamento. L’ombrello (poi divenuto una tenda) venne denominato «Ambasciata aborigena». Dato che il governo non considerava i diritti indigeni sulla terra di cui erano storicamente proprietari, quella protesta voleva ricordare che il governo aveva reso gli indigeni australiani «stranieri nella propria terra» e, in quanto tali, avevano bisogno di un’ambasciata.

Sulla proprietà della terra la questione è ancora aperta, ma – come accade ovunque nel mondo – non stanno vincendo i popoli indigeni.

Secondo l’incipit di una dettagliata inchiesta del Guardian – titolata «Who owns Australia?» (17 maggio 2021) -: «Chi possiede l’entroterra australiano è una questione controversa. La vera risposta sono i popoli delle Prime nazioni, la cui proprietà risale a 60mila anni fa. La risposta giuridica è più complessa. È un pasticcio di titoli: proprietà, locazioni pastorali, locazioni della corona, terreni pubblici, titoli nativi e terreni detenuti da trust aborigeni».

Secondo dati governativi, «a livello nazionale, nel giugno 2023, il 16,2% della superficie terrestre australiana (1,25 milioni di Km quadrati, ndr) era posseduta o controllata da aborigeni e isolani dello Stretto di Torres».

Tanto o poco? Per avere un’idea delle proporzioni è utile confrontare i dati con le proprietà in mano a uno ristretto numero di privati e di multinazionali. Per esempio, la magnate Gina Rinehart – della multinazionale mineraria Hancock – possiede 9,2 milioni di ettari (92mila chilometri quadrati). Secondo Forbes, la donna è la persona più ricca dell’Australia, al 56° posto nella classifica mondiale.

Il razzismo esiste ancora

Anche il termine per definire i popoli nativi è stato oggetto di dibattito. Per lungo tempo essi sono stati conosciuti come «aborigeni» australiani. Questo termine è però troppo generico ed anche incorretto perché incompleto, non includendo gli indigeni dello Stretto di Torres, un ampio braccio di mare tra il Queensland e la Nuova Guinea che comprende ben 274 isole. Pertanto, è stato adottato il termine di Prime nazioni (First nations people) o di Popoli aborigeni e isolani dello Stretto di Torres (Aboriginal and Torres Strait islander people).

Essi non costituiscono una comunità omogenea, ma un insieme di centinaia di gruppi con lingue, storie e tradizioni diverse.

Secondo l’ultimo censimento, la popolazione indigena australiana conta poco meno di un milione di persone. Di essa il 41 per cento vive nelle città, il 44 per cento in aree interne e il restante 15 per cento in zone remote o molto remote del Paese. Dal punto di vista geografico, gli stati con la più alta percentuale di indigeni sono il Nuovo Galles del Sud (34 per cento) e il Queensland (28 per cento).

L’Australian institute of health and welfare (Aihw), ente pubblico, deve ammettere: «È riconosciuto che, in tutto il mondo, la colonizzazione ha avuto un impatto fondamentale sugli svantaggi e sulla cattiva salute dei popoli delle Prime nazioni, attraverso sistemi sociali che hanno mantenute le disparità. In Australia, gli effetti storici e attuali della colonizzazione e del razzismo hanno contribuito, almeno in gran parte, alle attuali disuguaglianze».

Un recente studio (Australian reconciliation barometer, 2020) ha rilevato che oltre la metà di tutti gli aborigeni e degli isolani dello Stretto di Torres ha sperimentato almeno una forma di pregiudizio razziale negli ultimi sei mesi, mentre il 60% di essi concorda sul fatto che l’Australia sia un Paese razzista.

Emarginazione e razzismo fanno sì che i popoli indigeni australiani abbiano i peggiori indicatori socioeconomici: oltre 120mila indigeni vivono al di sotto della soglia di povertà; i tassi di disoccupazione indigena sono doppi di quelli delle popolazioni non indigene nelle città e nei centri regionali ma molto più alti nelle aree remote.

Manifestazione in favore del «sì» al referendum del 1967 sui popoli indigeni australiani (l’esito fu favorevole al contrario di quello dell’ottobre 2023). Foto sbs.com.au.

Quel «no» alla riconciliazione

Il clamoroso risultato del referendum del 14 ottobre 2023 è stato un colpo ferale per i popoli indigeni australiani e i loro sostenitori. Come Marcia Langton, antropologa aborigena (Yiman), in prima linea nella lotta per il riconoscimento dei diritti indigeni.

«È molto chiaro – ha detto senza mezzi termini la docente universitaria – che la riconciliazione è morta. La maggioranza degli australiani ha detto “no” all’invito dell’Australia indigena, con una proposta minima, a darci voce in capitolo sulle questioni che riguardano le nostre vite. Penso che i sostenitori del “no” abbiano molto di cui rispondere  per aver avvelenato l’Australia contro questa proposta e contro l’Australia indigena».

Paolo Moiola

Camberra, gennaio 1972: un’immagine della protesta nota come «Ambasciata aborigena» (Aboriginal embassy o The tent embassy) contro il trattamento riservato alle popolazioni indigene.
Foto: Ken Middleton collection, National Library of Australia.




Noi e Voi, dialogo lettori e missionari

«Grande cuore» è andata in Cielo

«Ltau sapuk» (cuore grande), questo il nome dato dai Samburu a Mirella Menin (1941 – 2023), la laica missionaria di Collegno (Torino) che in tanti abbiamo conosciuto nei suoi viaggi in Kenya per oltre quarant’anni e per il suo infaticabile lavoro e dedizione per aiutare i più poveri e i bambini in particolare. Il Signore l’ha chiamata a sé il 29 maggio 2023 in modo inaspettato.

La sua vita è stata un vulcano di iniziative, attività, incontri, viaggi. Tutto fatto con passione, dedizione missionaria e spirito profetico. Oltre all’esperienza del Kenya aveva vissuto anche quella in El Salvador negli anni in cui era vescovo san Oscar Romero che lei accompagnava nei villaggi dei campesinos e che ha visto morire, ucciso, mentre celebrava l’Eucarestia.

Mirella tante volte era scomoda perché diceva la verità senza mezze misure e con coraggio. Aveva «fame e sete di giustizia» come è scritto sul ricordino del suo funerale.

Durante il rosario che si è pregato nella sua parrocchia di Collegno (To), la sera prima del funerale, il parroco, don Teresio Scuccimarra, ha voluto fermarsi su quattro misteri e momenti evangelici vedendone la realizzazione nella vita di Mirella: il suo amore ai bambini, la cura e assistenza delle persone con handicap psichici, il suo desiderio di giustizia ricordando la sua esperienza in El Salvador e la dedizione alla sua comunità.

Mirella, nel suo «darsi da fare» per la missione, ha raccolto e donato molto. Come dice l’Allamano, è stata un canale che ha fatto sempre scorrere ciò che riceveva senza trattenere nulla per sé, vivendo la sua vita nella semplicità ed essenzialità. Ha compiuto le «opere più grandi» (Gv 14,12) che Gesù ha promesso ai suoi discepoli perché era una donna di fede, una fede non bigotta, ma tenace e concreta. La fede che sa vedere Gesù in ogni persona, che ha compreso e vissuto il «tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt 25,40).

Per tutto questo, e per quello che lei è stata, le siamo grati.

Completiamo queste note con due testimonianze significative che sono state lette al suo funerale: quella di Agata Lekimencho, già catechista a Maralal, e quella di mons. Virgilio Pante, vescovo emerito di Maralal.

padre Michelangelo Piovano,
Torino 03/05/2023

Omaggio alla nostra amata mamma Mirella

È con profondo dolore e tristezza che abbiamo appreso la notizia della scomparsa della nostra grande amica e madre.

Per noi Mirella è stata una madre amorevole che ha condiviso con noi tutta la sua vita qui nel Samburu: soldi, tempo, vestiti, e persino il sapone e prodotti di igiene personale.

Molti hanno potuto studiare grazie al sostegno economico che proveniva dal suo grande cuore. Si occupava delle spese ospedaliere ed era sempre preoccupata per il benessere delle persone bisognose.

Ha sostenuto le spese per l’educazione di oltre 250 bambini che, grazie a quello, hanno poi aiutato a migliorare il tenore di vita delle loro famiglie. Alcuni ora sono insegnanti, dottori, meccanici, falegnami, ecc. Ha anche aiutato i loro genitori che hanno potuto iniziare attività che hanno permesso loro di avere una vita dignitosa.

Mirella ha davvero toccato vite e le sue azioni si vedranno per sempre nelle nostre comunità. È stata mandata dal cielo e nessuna parola può descrivere appieno il suo amore per l’umanità.

Nonostante le condizioni ambientali qui da noi siano molto dure, il suo grande cuore compassionevole la faceva camminare instancabilmente per visitare i malati, gli anziani e le persone meno fortunate e i bambini nei villaggi e nelle scuole.

Le piaceva passare il tempo con i bambini, giocare e scattare foto insieme con loro. Mirella era una specie di figura che senti di volere sempre vicino.

Abbiamo davvero visto come Dio usa le persone per aiutare gli altri, Mirella era davvero una sua serva.

Ltau sapuk, riposa in pace. Ci mancherai senza dubbio. Mentre riposi, prega per noi di emulare il tuo cuore in modo che possiamo anche noi aiutare gli altri nel modo in cui tu hai amato.

 da Agata Lekimencho
tutore dei bambini Maralal, Samburu, Kenya

Ciao, Mirellona

Mirella, che io chiamavo Mirellona, è entrata nella mia vita una quarantina di anni fa, durante i suoi viaggi in Kenya. Un dono di Dio per me e per tanti altri, specialmente i più poveri della società. Aveva un cuore grande, sempre al servizio degli ultimi.

Per me prete missionario e poi vescovo, era una sfida e una voce profetica, molto scomoda. Sia in America Latina che in Africa ha mandato «milioni» per sfamare e per far studiare i più svantaggiati del mondo.

Sapeva anche essere affettuosa, sotto una scorza dura, e si commuoveva per i piccoli, i disabili mentali (ne sanno qualcosa quelli della casa di Collegno che ha servito con amore per tanti anni).

Mirella non sapeva misurare le parole contro le ingiustizie e le falsità nella società e, talvolta, nella chiesa stessa.

Ciao Mirellona. Grazie di avermi incontrato nella vita. Ci ritroveremo in Paradiso circondati dal sorriso dei piccoli.

+ Virgilio Pante
01/05/2023, Maralal, Kenya

Creazione da reinterpretare?

Leggo sempre con molto interesse la rubrica «Camminatori di speranza» del biblista Angelo Fracchia. Mi sembra di capire che egli tenti di spiegare la maggior parte dei cosiddetti miracoli in chiave naturalistica, essendo il primo aspetto frutto della mentalità del tempo di redazione. Alla luce dell’accettazione sempre più profonda delle coppie omogenitoriali da parte di varie correnti cristiane, della Chiesa Valdese e della stessa Chiesa cattolica, dobbiamo forse aspettarci una rilettura dell’atto di creazione della donna come atto di creazione di una persona a cui ciascuno attribuisce il sesso che desidera?
Grato dell’attenzione porgo cordiali saluti.

Saverio Compostella
01/04/2023

Abbiamo girato la domanda ad Angelo Fracchia. Ecco la sua risposta.

Ringrazio intanto della generosa attenzione. Provo a rispondere in tre punti.

1) La lettura «naturalistica» dei miracoli è in effetti quella preferita oggi, per ragioni anche culturali, in quanto fatichiamo ad ammettere la presenza di eventi inspiegabili, laddove l’antichità era molto più pronta ad accoglierli. L’interpretazione preferita dall’approccio storico critico è tuttavia quella che cerca di cogliere che cosa un testo antico volesse effettivamente significare, al di là delle interpretazioni e premesse culturali di chi scriveva.

2) Leggere in questo modo il racconto della creazione della donna in Gen 2 porta a cogliere che il cuore di quell’episodio è individuare come fondamentale per gli esseri umani non solo un rapporto verso l’alto (con Dio) e il basso (con gli animali, la creazione), ma anche alla pari, in una relazione che è segnata dall’affinità («osso delle mie ossa, carne della mia carne») e insieme dalla chiara differenza (a essere chiamati a diventare «una carne sola» sono «i due»).

3) Restando dentro la logica del testo, a porre come differenti e complementari i due è l’opera divina, ossia qualcosa che gli esseri umani non decidono. Ci sono molti aspetti della nostra esistenza che semplicemente ci troviamo a gestire (dove e da chi nasciamo, il nostro aspetto, persino il nostro carattere…) senza averli scelti.

Consapevolezza culturale e ascolto di situazioni umane complesse portano anche le chiese, sempre più, a rendersi conto che la stessa condizione omosessuale, o come ci si percepisce, sono un «dato» non scelto da chi la vive. Per questo si sta uscendo dalla condanna di persone che sono autenticamente in questa realtà, perché se non c’è scelta non c’è colpa. Non è però che queste persone abbiano «deciso» di essere come sono. Piuttosto, si tratta di riconoscere chi siamo e decidere come gestire questa nostra esistenza che non abbiamo stabilito noi.

Poi, dal rispetto e accoglienza piena di una persona omosessuale e della sua dimensione di compimento di sé non consegue per forza accettare l’omogenitorialità. È altra cosa che merita di essere rimeditata con calma, ricordandoci che nel generare, il centro non sono i genitori, ma i figli.

Angelo Fracchia
13/05/2023

È chiaro che la questione dell’omogenitorialità è tutt’altro che semplice, con differenze profonde a seconda che si tratti di una coppia gay o lesbica. La posizione della Chiesa, ribadita sia nel Catechismo che nel Compendio della dottrina sociale della Chiesa cattolica, è che le unioni di fatto (tra persone omosessuali) non sono equiparabili al matrimonio tra uomo e donna.

Ovvio che non è questo il luogo per approfondire il tema. A noi sta certamente a cuore il rispetto e l’amore per ogni persona, contro ogni discriminazione di sesso, etnia, cultura, posizione sociale o colore della pelle.

Assalto all’occidente?

Buon giorno,
qualche parolina su cosa dobbiamo imparare dagli indigeni oceanici. Il timore reverenziale verso la natura era terrore degli spiriti che popolavano le foreste i fiumi le montagne. Ma ciò non impediva loro di praticare l’infanticidio quando la foresta aveva esaurito i frutti, di torturare i nemici o stranieri, straziandoli in modo indicibile (i sopravvissuti rimanevano terrorizzati per giorni e giorni), e non diciamo degli stupri, incesti, cannibalismo, promiscuità, ecc. comuni a tutti i primitivi, compresi i popoli amazzonici, campioni di orrori anche peggiori.

Se l’uomo bianco non avesse lavorato modificando la natura infida del caos primordiale, non ci sarebbe nulla sulla terra, né case confortevoli, né elettrodomestici, e cibo ogni giorno dell’anno, scuole, ospedali, strade, neanche i giornali da cui parlate, ecc.

Tutto ciò che chi non è occidentale invidia vorrebbe possedere senza aver mai lavorato, e tenta di depredare insozzando i luoghi in cui vengono accolti per amore fraterno, ma i fratelli uccidono e restano impuniti, vedi Caino.

La povertà materiale si combatte col lavoro, attività sconosciuta per gran parte di africani, indios, asiatici i quali sono ai primi posti per omicidio, stupro, spaccio di droga violenza contro le donne e i bambini, abbandono dei deboli e malati, terrorismo, conflitti tribali, ecc., bei regali del terzo mondo che non si sviluppa soprattutto in etica.

La natura non ha moralità (papa Wojtyla) e chi vive in armonia con essa diventa una bestia. A questa bestia si stanno avvicinando gli europei. Da quando amano la natura infatti sono diventati animalisti, sodomiti legalizzati (pratica diffusa tra i selvaggi), abortisti gratuiti e altre aberrazioni tipiche di questi individui non certo buoni, miti e innocenti.

I volontari continuano ad essere uccisi. Nonostante il Vangelo la luce è ancora lontanissima. Se scompare la cultura occidentale (ancora in maggioranza buona) sarà la fine per tutti, ma siamo a buon punto verso l’abisso grazie alla vile sovrappolazione di Africa, Asia, America Latina, ricchi di risorse ma non di gente che lavora cioè i maschi le donne sono oberate di tutto e nessuno le protegge. Saluti.

Gli occidentali
email di L.V., 29/04/2023

Forse lo spunto di questa email è stato il nostro articolo sul Pacifico come Territorio di caccia (MC 4/2023, p. 10). Sarebbe stato un testo da ignorare, ma non è stato possibile visto che assurdità simili sono oggi anche sulla bocca di politici con responsabilità di governo.

Molte delle accuse fatte ai popoli indigeni sono quelle che, nei secoli, hanno giustificato il colonialismo e anche la cosiddetta «civilizzazione cristiana». In realtà oggi possiamo tranquillamente dire che sono pure fandonie per giustificare una pseudo superiorità culturale e morale che, di fatto, noi occidentali non abbiamo.

Primo. Cocktail di etnie.
Noi occidentali (e noi italiani, in particolare) esistiamo perché siamo il risultato di un’incredibile mescolanza di etnie diverse: dagli indoeuropei agli schiavi nordafricani, asiatici e nordici che i Romani importavano a migliaia; dai popoli dell’Est (Unni, Longobardi, Mongoli, Slavi e affini), che hanno invaso o trovato casa nelle nostre pianure, ai «mori» che hanno scorazzato per anni nelle nostre valli e razziato le nostre coste.

Secondo.  Violenze.
Quanto a violenze ed efferatezze non siamo secondi a nessuno. Basta ricordare l’Olocausto, la bomba atomica, la schiavitù praticata per secoli e che, pur ufficialmente abolita, continua di fatto in tantissime fabbriche delocalizzate e con la tratta di persone per lavoro nero, prostituzione e pornografia, il colonialismo che ha espropriato tanti popoli delle loro terre e delle loro risorse, il cambiamento climatico in corso causato dal nostro stile di vita, il traffico di armi, le guerre dirette e per procura, fino all’attuale follia in Ucraina.

Terzo. Lavoro.
Siamo davvero sicuri che il nostro modo di lavorare sia il migliore e il più umano? Lavoriamo davvero per vivere meglio e creare un mondo più bello o per avere sempre di più anche sulla pelle degli altri e a spese dell’ambiente?

Quanto a tutto il resto: davvero possiamo vantare superiorità su altri popoli e culture? E circa la fola della sovrappopolazione come minaccia per la nostra etnia, siamo seri per favore. Siamo noi che stiamo scegliendo di morire, rifiutandoci di fare figli.

Senza dire del presunto piano di islamizzazione dell’Europa tramite l’invasione degli immigrati. Fosse vero, basterebbe che i cristiani nominali dell’Occidente tornassero a praticare una fede sincera.

 




Stati Uniti. È ancora lunga la strada per il sogno

Dopo la schiavitù, gli Stati Uniti conobbero la segregazione. Un periodo di cento anni segnato dalla lotta di personaggi come Rosa Parks e Martin Luther King. Ancora oggi il razzismo è ben presente nella società americana come hanno evidenziato le vicende avvenute durante la presidenza di Donald Trump.

Per soli bianchi: posti a sedere, sale d’attesa, bagni, cabine telefoniche, fontanelle, ma anche scuole e università. Per quasi un secolo (1865-1964), la scritta «Whites only» fu la dimostrazione tangibile che negli Stati Uniti era terminata la schiavitù, ma non il razzismo.

La pratica aveva il nome di «segregazione razziale». Essa consisteva nella separazione fisica delle persone sulla base della razza o, meglio, visto che il concetto non ha valenza scientifica, della presunta razza. Si dividevano i neri dai bianchi all’interno di strutture pubbliche (scuole, tribunali, ecc.), servizi pubblici (mezzi di trasporto) e privati (ristoranti, barbieri, campi sportivi, servizi igienici, ecc.) e li si segregava in aree residenziali a loro dedicate (ghetti).

La segregazione razziale fu la modalità attraverso cui la società bianca dominante riuscì a circoscrivere e limitare le conseguenze prodotte dall’abolizione legale della schiavitù, avvenuta nel 1865.

Per dirla con l’Enciclopedia Britannica: «La segregazione razziale fornisce un mezzo per mantenere i vantaggi economici e lo status sociale superiore del gruppo politicamente dominante».

L’insegna di una lavanderia che lavora soltanto per bianchi.

«Separati ma eguali»

Durante e, soprattutto, dopo il periodo della ricostruzione postbellica (1865-1877), gli stati del Sud, appartenenti alla ex Confederazione (South Carolina, Mississippi, Florida, Alabama, Georgia, Louisiana, Texas, Virginia, Arkansas, Tennessee, e North Carolina), e l’Oklahoma, iniziano ad applicare norme discriminatorie nei confronti della minoranza nera.

Queste leggi sono conosciute sotto i nomi generici di «Black codes» (codici per i neri) e «Jim Crows laws» (leggi Jim Crows, dal personaggio interpretato da un attore che si dipinge il viso di nero). Ecco qualche esempio.

A fine 1865, lo stato del Mississippi emana una legge secondo la quale i neri, senza lavoro o che si riuniscano senza permesso, sono considerati vagabondi e, in quanto tali, punibili con una multa o, a discrezione del giudice, con il carcere. Nel caso che il nero condannato non paghi la multa entro cinque giorni, è compito dello sceriffo trovargli un’occupazione fino al pagamento della somma dovuta. La stessa legge punisce i bianchi che si riuniscano con neri o abbiano con essi rapporti.

Negli stati del Sud si susseguono le norme che richiedono la separazione dei bianchi dalle «persone di colore» (colored, così all’epoca vengono chiamate) sui mezzi del trasporto pubblico (tram, autobus e treni). Il principio applicato è conosciuto come quello del «separati ma eguali» (separate but equal). Secondo questo principio, la segregazione razziale è consentita purché sia prevista una pari sistemazione per i passeggeri neri.

Ne è significativo esempio il «Louisiana Separate Car Act», approvato nel luglio 1890. Al fine di «promuovere il comfort dei passeggeri», le ferrovie della Louisiana devono fornire «posti uguali ma separati per le razze bianche e colorate» sulle linee che percorrono lo stato.

Nel 1896, il principio «separati ma eguali» viene confermato anche dalla Corte suprema chiamata a deliberare sul caso «Plessy v. Ferguson».

Homer Plessy è un calzolaio di New Orleans. Proveniente da una famiglia mulatta, Homer è una persona attiva nel sociale. Per protestare contro le leggi sulla segregazione, nel 1892 acquista un biglietto di prima classe sulla East Louisiana Railroad e si siede nello scompartimento per «solo bianchi». Alla richiesta di allontanarsi, Plessy rifiuta e per questo viene fatto scendere dal treno, imprigionato per una notte e rilasciato dopo aver pagato una cauzione di 500 dollari. Nel processo l’imputato dichiara di aver visto violati i diritti sanciti dal XIII e XIV emendamento della Costituzione, ma il giudice John Howard Ferguson lo dichiara colpevole.

Nel 1986 la causa «Plessy v. Ferguson» (dal nome dei due protagonisti) arriva davanti alla Corte suprema. Questa, con una netta maggioranza (sette contro uno, con un giudice assente), dà torto al ricorrente sostenendo la costituzionalità della segregazione razziale secondo la dottrina del «separati ma uguali».

Avendo dalla loro parte la Corte suprema degli Stati Uniti (composta di nove membri eletti a vita), fino al 1954, gli stati del Sud possono emanare senza problemi leggi di segregazione razziale. Come testimoniano varie sentenze, «la Corte sostanzialmente acconsentì alla “soluzione” del Sud ai problemi delle relazioni razziali» (prof. Melvin Urofsky, Britannica).

In sostanza, queste leggi vengono emanate e sono vigenti pur violando uno o più degli emendamenti della Costituzione americana introdotti dopo la guerra civile: il XIII (che proibisce la schiavitù), il XIV (pari protezione davanti alla legge) e il XV (diritto di voto).

Al Lincoln Memorial una giovane attivista domanda (retoricamente): «Dov’è il sogno?». Foto Victoria Pickering.

Anni cinquanta: la storia cambia

Dopo la Prima guerra mondiale, cambia il clima generale e cambia anche la Corte suprema. Nel 1950, la «Associazione nazionale per il progresso delle persone di colore» (National Association for the Advancement of Colored People, Naacp) chiede a un gruppo di genitori afroamericani tra cui Oliver Brown di Topeka (Kansas) di tentare di iscrivere i propri figli a scuole per soli bianchi (all-white school). Oliver prova a iscrivere la figlia Linda, 9 anni, alla scuola elementare Sumner della cittadina, ma l’iscrizione viene negata in quanto l’istituto non accetta bambini di colore. L’associazione afroamericana raccoglie altri 12 casi e intenta una causa collettiva conosciuta come «Brown contro l’ufficio scolastico» (Brown v. Board of Education of Topeka, Kansas). Nel 1954, la Corte suprema sentenzia che «sistemi d’istruzione separati sono per essenza ineguali. [I ricorrenti], in ragione della segregazione qui contestata, sono stati privati dell’uguale protezione davanti alla legge».

Un anno e mezzo dopo questa storica sentenza accade un altro evento che segnerà la storia dei neri d’America.

Il bus di Rosa Parks

La foto segnaletica di Rosa Parks, l’iniziatrice (1955) della rivolta contro la segregazione sui mezzi pubblici.

Montgomery, Alabama, 1° dicembre 1955. Al termine della sua giornata lavorativa, Rosa Parks, una donna nera di 42 anni, prende l’autobus per tornare a casa sistemandosi sul primo sedile dietro la parte riservata ai bianchi. Le norme della città di Montgomery richiedono infatti che tutti i mezzi di trasporto pubblico abbiano posti separati per bianchi (nella parte anteriore) e neri (in quella posteriore).

Durante il suo percorso l’autobus si riempie e vari passeggeri bianchi rimangono in piedi nel corridoio. L’autista se ne accorge, ferma il mezzo e sposta il cartello che separa le due sezioni indietro di una fila, chiedendo a quattro passeggeri neri di lasciare i loro posti ai bianchi.

Tre di loro obbediscono all’autista, mentre Rosa Parks si rifiuta. «Non credo che debba alzarmi», risponde la donna. A quel punto, l’autista chiama la polizia. Questa arresta la donna per violazione delle norme locali e la porta alla centrale. Verrà rilasciata quella notte dietro cauzione.

Pochi giorni dopo – il 5 dicembre – al processo Rosa Parks viene condannata al pagamento di una multa. La storia della donna fa però nascere tra la comunità afroamericana di Montgomery una protesta civile e pacifica di grande portata: il boicottaggio degli autobus della città. Circa 40mila pendolari afroamericani iniziano a disertare i mezzi pubblici, scegliendo di muoversi a piedi o su taxi da loro stessi organizzati.

La protesta (funestata anche da violenze dei segregazionisti) prosegue per 381 giorni fino al 13 novembre 1956. In quella data la Corte suprema degli Stati Uniti dichiara incostituzionale la segregazione sui trasporti pubblici.

La prigione di Birmingham

La lotta di Rosa Parks è stata guidata dal giovane e preparato pastore della Dexter Avenue Baptist Church di Montgomery. Il suo nome è Martin Luther King.

Nel 1957, assieme ad altri pastori e leader neri, King fonda ad Atlanta, sua città natale, la Southern Christian Leadership Conference (Congresso dei dirigenti cristiani del Sud), organizzazione per i diritti civili. Nel 1959, King viaggia in India, dove approfondisce la filosofia nonviolenta di Ghandi. Il suo lavoro di pastore è ad Atlanta, ma la sua attività principale è ormai girare il paese per parlare di razzismo e diritti civili. Inevitabilmente si scontra più volte con le autorità. A Birmingham, Alabama, una città con alti livelli di segregazione, lancia una grande campagna di resistenza, coinvolgendo nella protesta anche ragazzi. Viene arrestato. Nell’aprile 1963 pubblica la «lettera dal carcere di Birmingham» in cui controbatte alle critiche pervenutegli dagli ecclesiastici bianchi della città e spiega la pratica della disobbedienza civile nonviolenta.

«Per oltre due secoli – scrive Martin Luther King – i nostri antenati hanno lavorato in questo paese senza ricevere compenso; hanno fatto del cotone una ricchezza; hanno costruito le case dei loro padroni mentre pativano macroscopiche ingiustizie e vergognose umiliazioni: e tuttavia, grazie a una inesauribile

vitalità, hanno continuato a crescere e a svilupparsi. Se le crudeltà inaudite della schiavitù non sono riuscite a fermarci, l’opposizione con cui oggi abbiamo a che fare dovrà senza dubbio fallire. Noi conquisteremo la nostra libertà».

La protesta dei cittadini neri, la lettera dal carcere e le violenze della polizia di Birmingham hanno una vasta eco portando la questione razziale all’attenzione generale.

Un’insegna nella stazione delle corriere di Durham, in North Carolina, nel 1943, indica la sala d’attesa per i neri («colored»), come prevedono le norme Jim Crow. Foto Jack Delano.

Il sogno di Martin

Pochi mesi dopo, la protesta si sposta a Washington, dove il Congresso sta discutendo il Civil Rights Act, la legge antidiscriminazione presentata dal presidente John Kennedy. Il 28 agosto 1963 Martin Luther King, davanti a una folla di 250mila persone, pronuncia il suo discorso più famoso: I have a dream, ho un sogno.

Il leader afroamericano delinea chiaramente la meta: «In America, non ci sarà né riposo né tranquillità fino a quando ai neri non saranno concessi i loro diritti di cittadini». Ma le modalità per raggiungere quest’obiettivo sono, secondo Martin Luther King, precise e inderogabili: «In questo nostro procedere verso la giusta meta non dobbiamo macchiarci di azioni ingiuste. Cerchiamo di non soddisfare la nostra sete di libertà bevendo alla coppa dell’odio e del risentimento. […] Non dovremo permettere che la nostra protesta creativa degeneri in violenza fisica». Infine, ecco il sogno: «Io ho un sogno, che i miei quattro figli piccoli vivranno un giorno in una nazione nella quale non saranno giudicati per il colore della loro pelle, ma per le qualità del loro carattere».

Il 3 luglio 1964, circa un anno dopo la marcia e il discorso di Washington, il presidente Lyndon Johnson (sostituto dell’assassinato John Kennedy) firma il Civil Rights Act, avendo alle spalle Martin Luther King.

La lotta non conosce pause. Pochi mesi dopo (a marzo 1965), ancora nello stato dell’Alabama, Martin Luther King partecipa alle marce da Selma a Montgomery, la prima delle quali repressa dalla polizia, attuate per reclamare il diritto di voto anche per gli afroamericani. Pochi mesi dopo, il 6 agosto 1965, il presidente Johnson firma il Voting Rights Act, con il quale i neri ottengono finalmente l’accesso al voto.

Martin Luther King non potrà però continuare a perseguire il suo sogno perché viene assassinato a Memphis, in Tenneesee, il 4 aprile 1968, all’età di 39 anni.

«La vera pandemia è il razzismo», un cartello eloquente di una afroamericana. Foto Miki Jourdan.

Da Obama a Trump

Nelle elezioni del novembre 2008 viene eletto Barack Obama, primo presidente afroamericano nella storia degli Stati Uniti. I problemi razziali del paese non si risolvono però con la sua elezione. Con Obama la condizione dei neri migliora nel campo dell’istruzione e della salute, ma non in quello del lavoro e del reddito.

A dimostrazione del cammino ancora da percorrere, la circostanza che nel 2013, cioè all’inizio del suo secondo mandato, nasce il movimento Black lives matter (le vite dei neri contano).

Il successore alla Casa Bianca è l’imprenditore e miliardario Donald Trump, che mette subito in mostra la sua totale mancanza di scrupoli negando per lungo tempo la nascita americana di Obama.

Le proteste degli afroamericani dilagano nelle città Usa soprattutto durante il secondo mandato di Trump. Con l’ex presidente i «suprematisti bianchi» (cioè coloro che ritengono i bianchi intrinsecamente superiori alle persone di colore) – riuniti in gruppi come The Proud Boys, gli Oath Keepers o i Three Percenters – hanno molta visibilità e libertà d’azione. Nei drammatici eventi del 6 gennaio 2021, i sostenitori di Trump e assalitori del Campidoglio sono nella quasi totalità bianchi.

Due ragazze mostrano cartelli di appoggio al movimento «black lives matter» (le vite dei neri contano). Foto Tom Hilton.

Joe Biden, finalmente

Sono ormai passati 55 anni dalla fine (formale) della segregazione e discriminazione razziali. Tuttavia, ancora oggi la minoranza nera – oltre 48 milioni di persone pari al 14,7 per cento della popolazione statunitense – è fortemente penalizzata. I neri sono discriminati nei rapporti con la polizia e la giustizia (più morti, arrestati e condannati), nell’accesso a buone scuole e ai lavori migliori, nell’assistenza sanitaria (Pew Research Center, Race in America 2019, aprile 2019).

Non sarà facile per il nuovo presidente Joe Biden porre rimedio a ingiustizie razziali sedimentate e acutizzate durante i quattro anni di Trump.

Tuttavia, i suoi passi iniziali sono di buon auspicio. La vice di Joe Biden è Kamala Harris sulle cui spalle ricadono una serie di primati: la prima donna, la prima nera (il padre è giamaicano), la prima tamil (per parte di madre) a diventare vicepresidente degli Stati Uniti. Inoltre, in considerazione delle età di Biden (78 anni) e di Kamala (56), la ex procuratrice della California è una candidata molto accreditata alla prossima presidenza.

Anche il movimento Black lives matter sembra mostrare speranza e fiducia nel cambiamento attraverso una lotta non-violenta. A gennaio, sul proprio sito, ha scritto: «Ogni giorno che passa, facciamo sempre più passi verso la realizzazione dell’America in cui Martin Luther King ha sempre creduto».

Paolo Moiola


Cronologia: 1865-1968

Dalla segregazione a Martin Luther King

  • 1865-1877

    Martin Luther King, leader della causa degli afroamericani, assassinato nel 1968. Foto Library of Congress.

    È il periodo della «ricostruzione» post bellica. Negli stati del Sud inizia a essere applicata la segregazione attraverso norme specifiche denominate «Black codes» e «Jim Crows laws».

  • 1866
    A Pulaski, in Teneessee, nasce il Ku Klux Klan (Kkk), la più violenta tra le organizzazioni di suprematisti bianchi.
  • 1896
    La Corte suprema stabilisce che la segregazione sui vagoni dei treni della Louisiana è costituzionale sostenendo il principio del «separati, ma eguali» (separate but equal).
  • 1909, febbraio
    Nasce la «National Association for the Advancement of Colored People» (Naacp), una delle prime e più influenti associazioni per i diritti civili degli afroamericani negli Stati Uniti.
  • 1915
    L’Oklahoma entra nella storia Usa come il primo stato a separare le cabine telefoniche pubbliche.
  • 1954, maggio
    Una sentenza della Corte suprema – Brown v. Board of Education (Brown contro l’ufficio scolastico) – dichiara incostituzionale la segregazione razziale nelle scuole pubbliche.
  • 1955, 1 dicembre
    A Montgomery, capitale dell’Alabama, l’attivista Rosa Parks si rifiuta di cedere il posto sull’autobus a un passeggero bianco. Viene arrestata. Il giorno successivo incomincia il boicottaggio dei mezzi pubblici della città, protesta che dura per 381 giorni.
  • 1964, 3 luglio
    Una legge federale – il «Civil Rights Act» – rende illegale ogni forma di discriminazione razziale, non solamente da parte degli organismi pubblici, federali o locali, ma anche nelle relazioni commerciali e nel lavoro.
  • 1965, 21 febbraio
    A 39 anni, il leader nero Malcolm X viene assassinato con sette colpi di arma da fuoco durante un discorso pubblico ad Harlem.
  • 1965, marzo
    Per il diritto di voto agli afroamericani si svolgono tre marce da Selma a Montgomery.
  • 1965, 6 agosto
    Il presidente Lyndon B. Johnson firma il «Voting Rights Act», una legge progettata per far rispettare i diritti di voto garantiti dal 14.mo e 15.mo emendamento della Costituzione degli Stati Uniti.
  • 1968, 4 aprile
    Martin Luther King, leader nero di fama mondiale, viene assassinato a Memphis.

(a cura di Paolo Moiola)


«Sala d’attesa per i colorati»: un’indicazione specifica per i neri nella stazione di Rome, Georgia, nel 1943. Foto Esther Bubley – Library of Congress.

Neri americani*: i numeri (2019)

  • popolazione nera: 48,2 milioni
  • percentuale su totale: 14,7 per cento
  • tasso di povertà: 20,8 per cento (10,1%**)
  • tasso di disoccupazione: 6,1 per cento (3,3%**)
  • educazione superiore (college): 29 per cento (45%**)
  • stati con più neri: New York, California,Texas, Florida e Georgia
  • città Usa con più neri: New York, Chicago, Detroit.

(*) «Black population», «african americans» sono i termini più utilizzati negli Stati Uniti per indicare la popolazione nera. I termini «negro» («negroes», al plurale) e «colored» sono caduti in disuso.
(**) Percentuale per la popolazione «bianca».

Fonti: US Census Bureau (census.gov); US Bureau of Labor Statistics (bls.gov); US Department of Education (ed.gov).

 (Pa.Mo.)


Politica e religione in Usa

Il cattolico Joe Biden

Il nuovo presidente Joe Biden, secondo cattolico (dopo John Kennedy) a ricoprire la massima carica degli Stati Uniti. Foto Matt Johnson.

Joe Biden, dal 20 gennaio 2021 alla guida degli Stati Uniti, è il secondo presidente Usa di fede cattolica. Il primo fu John Fitzgerald Kennedy (dal 1961 al 1963). Si stima che il 3 novembre 2020 circa la metà degli elettori cattolici abbia votato per Biden. L’altra metà si è schierata con l’ex presidente Donald Trump; una buona parte di costoro appartiene alla schiera degli anti Francesco.

Durante il suo mandato, l’ex presidente ha avuto rapporti soprattutto con i cristiani evangelici. Trump aveva l’Evangelical Advisory Board, un organismo composto principalmente da leader di organizzazioni della destra religiosa, predicatori televisivi e pastori conservatori (The Washington Post, 30 agosto 2018). Aveva Paula White, nota televangelista della Florida, come capo consigliere spirituale.

Il primo giugno dello scorso anno, nel pieno delle proteste per l’uccisione di George Floyd, Donald Trump ha camminato dalla Casa Bianca fino alla Chiesa episcopale di San Giovanni. Un centinaio di metri sgombrati dalla polizia con i gas lacrimogeni. Arrivato davanti alla chiesa con il suo stuolo di accompagnatori (peraltro, tutti bianchi e senza mascherine), l’ex presidente si è piazzato davanti all’insegna e ha alzato al cielo la Bibbia che teneva tra le mani. Senza aprirla. Tutto in favore di telecamere e macchine fotografiche.

Per tutto il suo mandato presidenziale, Trump ha usato la religione per i suoi fini politici, un «nazionalismo cristiano» che ha ottenuto molto seguito tra fette consistenti di evangelici e di cattolici.

Ci sono stati politici repubblicani e leader religiosi che hanno parlato apertamente di un intervento di Dio per la sua ascesa al potere. Franklin Graham, noto pastore evangelico, in un’intervista del luglio 2019 ha affermato che «Dio era dietro le ultime elezioni» vinte da Trump.

Anche la frettolosa nomina alla Corte suprema della giudice cattolica Amy Coney Barrett, nominata pochi giorni prima delle elezioni del 3 novembre, rientrava nel disegno politico ed elettorale dell’ex presidente. Questo utilizzo strumentale della fede religiosa da parte di Trump ha contribuito a fomentare un clima fortemente divisivo.

Il 30 agosto 2020, padre James Altman di La Crosse, Wisconsin, è intervenuto nel dibattito con un video pubblicato su YouTube: «Non puoi essere cattolico ed essere democratico […] Pentiti – esorta padre Altman nel suo accattivante filmato – del tuo sostegno a quel partito e alla sua piattaforma o affronterai le fiamme dell’inferno!».

L’opposizione della destra cristiana continua anche dopo la chiara sconfitta del presidente. «Jesus saves» dicevano alcuni cartelli nella manifestazione pro Trump del 6 gennaio 2021 sfociata nell’assalto al Campidoglio. Quei fatti hanno però costretto vari leader religiosi repubblicani (come i pastori Mark Burns, Pat Robertson, ecc.) a prendere apparentemente le distanze dall’ex presidente. Se questi sembra, almeno per il momento, fuori gioco, non lo è però il «trumpismo».

Il giorno seguente all’insediamento del nuovo presidente, il sito del «Falkirk Center» della Liberty University, istituto cristiano (evangelico battista), ha pubblicato un lungo articolo sui «modi in cui tutti noi possiamo glorificare Cristo mentre ci opponiamo alle politiche di Biden».

Nella sua lettera di benvenuto (datata 20 gennaio) al nuovo presidente e alla sua famiglia, l’arcivescovo José Gómez, presidente della Conferenza episcopale statunitense (United States Conference of Catholic Bishops, Usccb), ha scritto che «lavorare con il presidente Biden sarà unico, sarà il nostro primo presidente in 60 anni a professare la fede cattolica». Tuttavia, è facile prevedere che il dialogo non sarà certamente semplice su alcuni temi e, in particolare, sulla questione dell’aborto su cui la lettera dell’arcivescovo si sofferma molto.

Secondo una ricerca del Pew Research Center (4 gennaio), nel 117.mo Congresso degli Stati Uniti la maggioranza assoluta dei parlamentari sarebbe di religione protestante (294 persone, il 55,4 per cento del totale), mentre i cattolici sarebbero 158, pari al 29,8 per cento, più di quanti sono nel paese (20 per cento). Difficilmente i cattolici pro Trump cambieranno idea rispetto al suo successore. È invece molto probabile che, al contrario di Trump, il cattolico Joe Biden non userà la fede religiosa come strumento di lotta politica.

Paolo Moiola

 


Le puntate precedenti:

 




I Perdenti 40.

Luz Long e Jesse Owens campioni nello sport e nella vita

Quel
che accadde in un caldo e afoso pomeriggio del 4 agosto 1936 all’Olympiastadion
di Berlino fu una cosa inimmaginabile per quei tempi in Germania, uno schiaffo
dato in pieno volto al regime nazista all’apice del suo potere: la conquista di
una medaglia d’oro da parte di un uomo di colore alle Olimpiadi che si tenevano
nella capitale dell’ideologia della supremazia della razza ariana su tutte le
altre, non solo in ambito sportivo, ma bensì in ogni aspetto del vivere sociale
e civile.

L’aspetto
più luminoso legato a quella data è la sincera amicizia fra l’atleta tedesco Luz
Long e il suo più forte avversario, lo statunitense afroamericano Jesse Owens,
nata sui campi di gara e consolidatasi nel tempo, a dimostrare che la rivalità
sportiva non si traduce sempre in feroce antagonismo, e che il valore di
un’amicizia si misura dalla sua capacità di sopravvivere al passare degli anni.
Tutto ciò trova valida conferma in una lettera di Long – ultima di una fitta
corrispondenza – spedita dal fronte della Seconda Guerra Mondiale al rivale
sportivo nonché amico fraterno: «Dopo la guerra, va’ in Germania, ritrova mio
figlio e parlagli di suo padre. Parlagli dell’epoca in cui la guerra non ci
separava e digli che le cose possono essere diverse fra gli uomini su questa
terra. Tuo fratello, Luz». Così scriveva Long, divenuto ufficiale della
Luftwaffe tedesca, a Owens che aveva appreso da poco la notizia della nascita
del suo primogenito.

Proprio
con il campione sportivo tedesco Luz Long vogliamo scambiare quattro
chiacchiere sulla loro straordinaria amicizia.

Jesse Owens in piena corsa alle Olimpiadi del 1936 a Berlino (Collection MNS)
Caro Luz, nonostante i tuoi meriti sportivi, anche tu sei stato reclutato
per l’esercito tedesco e mandato in prima linea a combattere…

Devo dire
che il mio status di atleta internazionale mi aveva risparmiato di prendere
parte al conflitto iniziato nel 1939, ma il capovolgimento delle sorti della
guerra richiamava al servizio del Reich tutti gli uomini validi, quindi anche
gli atleti sportivi di ogni disciplina.

Cosa accadde all’Olympiastadion di Berlino in quel lontano 4 agosto 1936?

Cominciamo
col dire che uno spettatore che prendeva posto nelle strutture sportive,
pianificate e costruite in quegli anni in Germania dall’architetto del regime
Albert Speer, rimaneva stupefatto per la loro imponenza ed eleganza. Era un
modo per infondere negli spettatori una forma di ammirazione e rispetto per il
potere nazista.

L’Olympiastadion era veramente così imponente?

Con
chiari richiami ai modelli architettonici dell’Antica Grecia, l’Olympiastadion,
poteva contenere oltre centodiecimila spettatori. Maestoso e immenso,
costituiva un’autentica «macchina di propaganda» messa in azione dal regime
nazista per ottenere un sempre più vasto consenso dal popolo tedesco attraverso
gli avvenimenti sportivi.

Possiamo dire quindi che una manifestazione sportiva come le Olimpiadi era
usata dal potere nazista come uno strumento di battaglia ideologica?

Hitler
intendeva servirsi delle Olimpiadi per dimostrare al mondo intero la supremazia
della razza ariana, di conseguenza l’atleta tedesco doveva corrispondere
all’immagine stereotipata: alto, biondo, prestante, carnagione chiara e occhi
azzurri.

Quindi tu rientravi pienamente nei canoni estetici voluti dal Fuhrer.

Sì.
Appartenevo fin dalla nascita alla patria tedesca, a quel tempo avevo ventitré
anni ed ero studente di legge all’Università di Lipsia. Dal punto di vista
sportivo, in precedenti gare avevo già superato per due volte consecutive nel
salto in lungo il record olimpico di 7,73 metri stabilito nel 1928 ad Amsterdam
dallo statunitense Edward Hamm.

Eri diventato anche il beniamino della nazione tedesca dopo esserti
classificato terzo ai campionati europei di atletica leggera, nel 1934.

Mi
rendevo conto che ero una pedina importante, nella scacchiera preparata da
Hitler per affermare il dominio sportivo germanico sul resto del mondo. Agli
occhi del Fuhrer le mie possibili affermazioni in campo atletico apparivano
quasi scontate e il dittatore si preparava a gustarle di fronte agli ospiti
provenienti da tutto il mondo.

Quante nazioni erano presenti a quelle Olimpiadi?

Parteciparono
ben quarantanove paesi, un numero record rispetto alle edizioni precedenti, che
tuttavia non teneva conto della forte discriminazione insita nell’evento
berlinese. Gli atleti ebrei tedeschi furono espulsi da tutte le discipline
sportive, mentre un destino già più felice toccò agli afroamericani, ai quali
fu concesso di gareggiare, anche se in numero ridotto. La squadra olimpica
americana presentava diciotto atleti di colore su 312 partecipanti, una
percentuale bassissima. Tra l’altro, quei diciotto subivano una pesante
discriminazione perfino in patria. Erano pochi, ma abituati alle privazioni,
forse per questo motivo ancor più desiderosi di riscattarsi. Tra loro spiccava
James Cleveland Owens, da tutti conosciuto come Jesse Owens.

Hitler come vedeva questi atleti di colore?

La
presenza degli afroamericani alle Olimpiadi di Berlino venne giustificata da
Hitler con sordido disprezzo: diceva che essendo loro dei «primitivi» potevano
vantare una costituzione robusta, perciò più adatta alla corsa. A rincarare
l’acredine fu il quotidiano della propaganda nazionalsocialista, diretto da
Joseph Goebbels, che definiva i neri come cittadini di seconda categoria degli
Stati Uniti.

In effetti, a ben guardare, anche nel loro paese non erano trattati molto
bene.

Basti
pensare che in quegli anni gli afroamericani erano costretti a sedere nella
parte posteriore dei bus pubblici e dovevano utilizzare gli ascensori di
servizio negli alberghi: la loro condanna era di essere confinati ai margini
della società. Il diritto di vivere non era loro precluso, eppure,
silenziosamente, veniva negata loro quella possibilità che si trova alla base
della libertà stessa: vivere come loro desideravano.

Nonostante ciò, il desiderio di affermarsi, di emergere nella società
civile come nello sport da parte degli afroamericani era molto sentito.

Proprio
così, e Jesse Owens, figlio di un povero agricoltore dell’Alabama, che a otto
anni lavorava già come inserviente per conquistare un posto un po’ più
dignitoso in quel mondo che lo voleva escludere, era deciso a tutto pur di
farcela.

Quale fu l’occasione che gli permise di «sfondare»?

Furono le
sue doti e le sue capacità atletiche a consentirgli di ottenere una borsa di
studio per la Ohio State University, dove incontrò Larry Snyder, uno dei
migliori coach in circolazione.

Con lui, Jesse cominciò ad affermarsi e a stabilire nuovi record.

Qualche tempo prima in Michigan, partecipando ad un
evento sportivo, vinse ben quattro gare in diverse discipline in un’ora e un
quarto. L’eccezionalità delle sue imprese sportive impressionò la Federazione
americana di Atletica Leggera che lo incluse nel gruppo di atleti da portare
alle Olimpiadi di Berlino.

Dove il nome di Jesse Owens divenne leggenda.

Il tre
agosto del 1936 conquistò la sua prima medaglia d’oro, quella della corsa dei
cento metri. Bisogna dire che i giudici tedeschi durante le gare lo presero
particolarmente di mira, infatti non esitarono a sollevare la bandierina rossa
per delle inezie durante le qualificazioni per il salto in lungo. Dopo due
salti nulli incombeva su di lui lo spettro dell’eliminazione. Jesse era dotato
di grande velocità, ma il suo stile rivelava imperfezioni, soprattutto se
confrontato con l’impeccabile hang style (sospensione nel salto) di altri
atleti.

Per Owens sembrava ormai preannunciarsi una sconfitta inevitabile.

Senza
contare che su di lui pesava duramente la fatica degli sforzi precedenti.
Rimaneva l’ultima possibilità nel salto in lungo, ma la giuria internazionale,
influenzata pesantemente dalle autorità naziste, era pronta a dichiararlo fuori
gioco senza troppi complimenti.

Jesse perciò si trovava di fronte all’ultimo salto valido per accedere alla
finale, quando qualcuno si avvicinò alle sue spalle. Eri proprio tu Luz,
l’atleta tedesco da cui tutti si attendevano una vittoria.

Mi
avvicinai a lui e gli sussurrai all’orecchio: «Uno come te dovrebbe essere in
grado di qualificarsi ad occhi chiusi», poi gli consigliai il punto di stacco
ideale per effettuare un salto valido indicandolo con un fazzoletto bianco
posato accanto alla pedana. Jesse non solo si qualificò per la finale, ma mi
superò ampiamente saltando ben 8,06 metri contro i miei 7 metri e 87
centimetri.

Jesse Owens saluta mentre riceve la medaglia d’oro per il salto in lungo.

Owens quel giorno vinse il suo secondo titolo olimpico, ricordiamo che tra tutti gli atleti di colore della squadra americana il migliore fu proprio lui, che il 3 agosto vinse la medaglia d’oro nei cento metri, il 4 agosto nel salto in lungo e il 5 agosto nei 200 metri e infine, il 9 agosto vinse la sua quarta medaglia d’oro nella staffetta 4×100 metri; questa era una gara a cui Owens non era nemmeno iscritto, ma partecipò dopo che la squadra americana decise di non far partecipare due atleti ebrei a causa delle pressioni dei nazisti. Il trionfo di Jesse Owens fu un vero scacco per Hitler che riponeva ogni speranza nei campioni di casa per una robusta affermazione tedesca nelle discipline sportive di atletica leggera. Si vociferò anche a lungo sulla reazione di Hitler alla mancata vittoria tedesca, gli attribuirono i comportamenti più disparati: come il fatto di essersi rifiutato di stringere la mano a Owens. Jesse, da perfetto galantuomo, smentì le versioni non veritiere, affermando di essere stato salutato, sebbene a distanza, dal Fuhrer. La vittoria alle Olimpiadi non procurò inizialmente molti benefici economici a Owens, quando tornò negli Stati Uniti dovette adattarsi a fare parecchi lavori umili per procurarsi da vivere, tra cui l’inserviente a una pompa di benzina.

Ignorato e snobbato (non si sa per quale ragione) dal presidente Franklin Delano Roosevelt, e dal suo successore Harry Truman, il primo vero riconoscimento per i suoi trionfi sportivi arrivò quarant’anni dopo, nel 1976 dal presidente Gerald Ford, che gli assegnò la Medaglia per la libertà, il più alto riconoscimento civile degli Stati Uniti. Jesse Owens si spense a 77 anni nella sua casa a Tucson, in Arizona, il 31 marzo 1980.

Don Mario Bandera




I Perdenti 33.

Lebensborn: la fabbrica dei superuomini

Testo di Mario Bandera |


Il progetto Lebensborn (sorgente di vita) fu l’aberrante strumento della politica razziale nazista che aveva lo scopo di favorire la nascita di bambini ariani ed elevare il grado di «purezza» del popolo tedesco: esso fornì alle mamme e ai bambini «razzialmente di valore» l’assistenza necessaria per ottenere individui scientificamente selezionati dal punto di vista razziale.

L’organizzazione Lebensborn è dunque l’altra faccia della medaglia del razzismo nazista: se con il «progetto eutanasia» e con la «soluzione finale» si volevano eliminare le persone «indegne di vivere», nei Lebensborn doveva crescere la perfetta razza ariana: questa era l’idea fissa di Heinrich Himmler, il braccio destro di Hitler. Nei centri Lebensborn – diverse decine in tutto il territorio del Reich – venivano fatti nascere e crescere i figli illegittimi di soldati tedeschi. Ma in quei luoghi venivano anche portati i ragazzi, ritenuti razzialmente «adeguati», strappati alle famiglie delle zone occupate dalle truppe di Hitler per essere germanizzati e poi dati in adozione a famiglie di provata fede nazista. Il 1° gennaio del 1938 il progetto Lebensborn passa sotto la tutela dello Stato Maggiore delle SS, quindi sotto la diretta autorità di Himmler: la sede centrale fu ubicata a Monaco di Baviera, nella cui sede sarà anche conservato l’archivio anagrafico del Lebensborn, così da avere dati sempre precisi, in quanto i bambini allontanati dalle madri diventavano di «proprietà» dell’istituzione.

Di questo progetto criminale parliamo con Ingrid (personaggio di fantasia), donna del popolo norvegese passata attraverso questo calvario.

(CC BY-SA 3.0 Bundesarchiv) 1 gennaio 1943

Com’è potuta accadere una cosa simile?

Dal punto di vista dei nazisti che avevano invaso la Norvegia, il mio paese, noi ragazze eravamo prede ambite per le SS: il nostro «tasso di nordicità e purezza razziale» era ritenuto perfino superiore rispetto a quello di molte zone della Germania. Pensarono perciò che ci fossero condizioni molto favorevoli per far nascere piccoli ariani germanici del Nord.

Come si comportarono con voi le truppe di occupazione tedesche?

Essi cercarono subito di instaurare rapporti cordiali con la popolazione norvegese, specialmente con le ragazze. Già nell’aprile 1940, fra i soldati occupanti fu lanciata un’enorme campagna a favore della procreazione della pura razza ariana. Si aprirono nove cliniche di maternità per bambini i cui padri erano tedeschi e in cinque anni ne nacquero almeno 8mila (di cui 6mila nei centri Lebensborn).

E quale era il destino riservato a quelle creature?

Dopo il parto erano per lo più abbandonati dalle madri (molte volte queste erano costrette a cederli) e dati in adozione a famiglie tedesche. Quelli che rimasero nei Lebensborn divennero invece, alla fine della Seconda guerra mondiale, con la sconfitta della Germania, capri espiatori a cui far pagare i crimini e le angherie dei tedeschi.

Che vuoi dire, spiegati meglio…

Il popolo norvegese vide nei bimbi Lebensborn soltanto caratteristiche ereditarie e li indicò come i figli delle SS, quindi potenzialmente pericolosi e disumani. Molte donne che vissero il mio stesso dramma raccontarono poi storie di trattamenti crudeli subiti senza capire le motivazioni di tanto odio.

Questo dramma non è molto conosciuto in Europa, come mai?

La Norvegia insabbiò il problema per tanti anni, costringendo i figli della guerra a sopportare una serie di ingiustizie e di maltrattamenti. Alcuni di essi furono rinchiusi in orfanotrofi e in istituti psichiatrici. Altri, pur essendo stati affidati alle madri o a parenti, furono ugualmente discriminati in vario modo a scuola o sul posto di lavoro e subirono violenze fisiche e psicologiche di ogni genere, tanto che di recente un gruppo di essi ha citato in giudizio il governo norvegese per la politica discriminatoria da esso attuata nel dopoguerra verso di loro.

Neanche al processo di Norimberga si sollevò la tragedia dei bambini Lebensborn.

È vero, a Norimberga non si tenne un processo distinto per il progetto Lebensborn. Invece il 10 ottobre 1947 si aprì un processo (che durò fino al marzo del 1948) contro il «RuSHA» (Rasse und Siedlungshauptamt –  Ufficio centrale della razza e del popolamento/colonizzazione), ma la stampa vi diede scarso rilievo e il Lebensborn non fu condannato in quanto istituzione. Solo i dirigenti finirono sul banco degli imputati, ma furono condannati a pene detentive abbastanza ridotte, esclusivamente perché appartenevano a un’organizzazione criminale, ovvero le SS, non per le attività che svolsero nel Lebensborn.

Ma dopo la guerra, il «clima» nei confronti di chi aveva in un certo modo collaborato con le truppe d’invasione nazista, mutò radicalmente.

Le guerre hanno effetti contraddittori sui rapporti tra le persone. Da una parte ci sono pregiudizi tradizionali che vengono ribaltati: le donne ad esempio, occupano posti di lavoro lasciati vacanti dagli uomini impegnati al fronte. Dall’altra si inaspriscono le differenze e ci si irrigidisce nei confronti della morale sessuale femminile: dalle donne ci si aspetta che si prendano cura del focolare domestico e che rimangano fedeli ai mariti e ai fidanzati assenti. Il corpo femminile diventa suo malgrado un altro «fronte di guerra», in quanto la sessualità femminile assume un significato prioritario: essa non è più solo una questione di decenza e virtù, ma anche di onore nazionale e di sopravvivenza.

Si può dire che in queste circostanze l’intera visione della sessualità femminile viene stravolta.

La possibilità di essere madre è considerata una risorsa nazionale e dunque le relazioni tra donne del luogo e soldati nemici costituiscono una minaccia per l’intera popolazione e la donna che intrattiene tali relazioni è ritenuta colpevole non solo verso il codice tradizionale di comportamento sessuale, ma anche nei confronti della nazione.

E questo l’avete vissuto in maniera acuta proprio in Norvegia, nella vostra terra, durante l’occupazione nazista.

Dalle relazioni fra donne norvegesi e militari tedeschi vennero al mondo i così detti «figli della guerra» i quali furono immediatamente stigmatizzati due volte: non solo in quanto «bastardi», ma anche e soprattutto perché «bastardi tedeschi». La dubbia reputazione delle madri si proiettò sui figli e in maniera aberrante sulle figlie, considerate fin dall’adolescenza «disponibili», tanto che a volte esse stesse finirono per essere vittime di abusi sessuali.

Purtroppo, le cose non andarono in maniera molto diversa nel resto dell’Europa.

Se le stime dei bambini nati nelle cliniche Lebensborn si aggirano intorno ai 10mila, molti di più furono i «figli della guerra», ossia i figli illegittimi di padri tedeschi e madri autoctone, tanto che – ad esempio – per la Francia si ipotizzano oltre centomila bambini figli di tedeschi, in Danimarca oltre 5.500, in Norvegia oltre 10mila, in Olanda almeno 8mila.

Finita la guerra, tramontata l’ideologia del Lebensborn, rimase solo l’onta subita dai più deboli, a cui seguirono la negazione e la rimozione del loro dramma in tutta Europa. I bambini nati da relazioni con soldati tedeschi furono dunque circondati da silenzio, imbarazzo, vergogna, senso di colpa e condanna sociale. Considerati «gli orfani del disonore», spesso subirono abusi, rifiuti, abbandono. Molti di loro ignorarono la propria origine e così furono per sempre privati della loro vera identità.

Tutti d’altronde avevano interesse a stendere un velo di omertà: le autorità dei vari paesi per escludere ogni forma di relazione con i nemici di un tempo, proteggere i bambini da vessazioni, nascondere una vergogna nazionale e così difendere la stabilità delle famiglie che cominciavano a riunirsi. Ma anche le madri stesse che avevano bisogno di tenere nascosta la vera «disonorevole» origine dei propri figli di fronte alla società. Solo nel 1985 il ministero della Giustizia tedesco ha affermato i diritti dei bambini che vogliono conoscere i genitori biologici e ha aperto l’accesso ai documenti rimasti negli archivi statali.

Ultimamente i bambini di Lebensborn (ormai persone di una certa età) hanno trovato la forza di parlare e di rivelare le loro origini e hanno fondato un’associazione con lo scopo di fare emergere la verità storica e tutelarli di fronte alla legge. Nell’ottobre 2001, oltre 150 «figli della guerra» hanno intentato una causa contro lo stato norvegese per discriminazione, tortura, trattamento inumano e degradante. Benché la loro istanza sia stata respinta, hanno comunque ottenuto che lo stato finanzi un progetto di ricerca per fare luce, dopo decenni di silenzio, sui traumi vissuti dai «bambini tedeschi». Hanno fatto anche ricorso contro il governo norvegese alla Corte europea per i diritti dell’uomo per violazione dei diritti dei bambini.

Don Mario Bandera

 




Etty Hillesum la forza dentro


Etty Hillesum nasce ad Amsterdam, in Olanda, nel 1914 da una famiglia della buona borghesia ebraica. Ragazza vivace, brillante, fin dagli studi giovanili rivela un’intensa passione per la letteratura e la filosofia.

Dopo la laurea in giurisprudenza si iscrive alla facoltà di lingue slave e intraprende lo studio della psicologia. Gli anni in cui frequenta l’università sono quelli in cui divampa la seconda guerra mondiale e con essa la persecuzione del popolo ebraico. Negli ultimi anni della sua esistenza scrive un diario personale, undici quadei fittamente ricoperti da una scrittura minuta, quasi indecifrabile, che narrano gli eventi degli anni 1941 e 1942, anni di guerra e di oppressione, non solo per l’Olanda, ma per l’Europa intera, per Etty un periodo di crescita e paradossalmente di liberazione individuale. Proveniente da una famiglia in cui le relazioni tra i suoi membri erano segnate da diverse incomprensioni, Etty vive un’amara adolescenza con degli sfibranti malesseri fisici, ma non tarda molto a scoprire che essi sono legati a tensioni di ordine spirituale che la lasciano: «Lacerata interiormente e mortalmente infelice».

In quel periodo ha un incontro decisivo con uno psicologo ebreo, Julius Spier, di molti anni più anziano di lei, che nei suoi confronti si rivela ben più di un terapeuta. Attraverso le contraddizioni di una relazione particolarmente complessa, per certi versi anche ambigua, egli la guida in un percorso di realizzazione umana e spirituale.

Etty, prova a raccontarci come si sviluppò la tua storia di ebrea olandese che i tedeschi deportarono nei campi di sterminio.

Dopo aver invaso la Polonia nel settembre 1939, le armate di Hitler irruppero in Olanda il 10 maggio 1940. Da piccola nazione libera e indipendente quale eravamo, diventammo un piccolo satellite nell’orbita nazista.

In un primo tempo la comunità ebraica non pensò che le cose sarebbero volte al peggio come invece avvenne pochi mesi dopo.

Assolutamente no, nonostante con il passare dei mesi venisse rapidamente portata a compimento l’attuazione delle leggi di Norimberga che vietavano agli ebrei, tra le altre cose, di usare trasporti pubblici, telefonare, sposarsi con persone non ebree.

Ma i nazisti non si limitarono a quelle misure.

Nel 1939 venne creato il campo di Westerbork, dove il governo olandese, in accordo con la principale organizzazione ebraica presente in Olanda, decise di riunire i rifugiati ebrei, tedeschi o apolidi, che vivevano nei Paesi Bassi.

Nonostante il cataclisma che stava abbattendosi sull’Europa tu trovasti il modo di non perdere la testa e di mantenerti serena.

Fu il 3 febbraio 1941 che avvenne l’incontro più importante della mia vita, l’incontro con lo psicologo Julius Spier, allievo di Carl Gustav Jung, inventore della psicochirologia, la scienza che studia la psicologia di una persona partendo dall’analisi delle mani.

Che tipo era Julius Spier?

Ebreo tedesco, fuggito da Berlino nel 1939, Spier tenne ad Amsterdam dei corsi serali particolarmente apprezzati e molto frequentati. Nel frattempo, a causa della mancanza di personale tedesco, era giunta un’informativa che permetteva a dei prigionieri di svolgere un lavoro di segreteria. Un giovane studente di biochimica che frequentava i suoi corsi propose a Spier di assumermi come segretaria.

Il vostro incontro fu folgorante e tu decidesti subito di prendere un appuntamento privato per cominciare una terapia.

Subito fin dall’inizio diventai la prima segretaria di Spier e successivamente una sua allieva. Il problema fu che tra noi scoppiò un’attrazione reciproca molto forte, nonostante la notevole differenza di età, 54 anni lui e 27 io. Ma la complicazione peggiore stava nel fatto che entrambi eravamo già impegnati in altre relazioni.

Anche se lavoravi da lui non ti fermavi a dormire per la notte?

No, tornavo al campo dove, attraverso una radio clandestina che i prigionieri avevano costruito, appresi la notizia che i tedeschi si preparavano ad annientare totalmente tutti gli ebrei dal continente europeo.

Nello stesso periodo il campo di Westerbork passò sotto comando tedesco diventando così un «campo di transito di pubblica sicurezza».

I tedeschi volevano fare di quel campo un luogo di raccolta e di smistamento per gli ebrei prigionieri diretti ad Auschwitz. Fu necessario trovare qualcuno che mandasse avanti l’organizzazione a livello amministrativo-burocratico.

Quindi anche per te fu dilatato il tuo campo di azione?

È vero, a Westerbork godevo di una certa libertà e questo mi permise di mantenere contatti con l’esterno e di scrivere delle lettere che si diffusero ovunque in Olanda. Il 15 settembre 1942 Julius Spier morì per un tumore al polmone e, cosa abbastanza strana, le autorità tedesche mi diedero il permesso di andare ad Amsterdam per partecipare al suo funerale.

La relazione con Julius Spier è alla base della tua sensibilità religiosa e, attraverso i tuoi scritti, intuiamo che c’era tra voi una grande tensione spirituale.

Pur proveniente da una famiglia ebraica, io ero per nulla osservante delle leggi della Sinagoga. L’incontro con Julius fu per me come uno squarcio di sereno in una giornata carica di nubi e di dubbi. Con lui posso dire di essermi aperta alla trascendenza e al divino. Mi insegnò a pregare e finalmente riuscii a raccogliermi e a concentrarmi su me stessa. Imparai a ritirarmi nella mia cella personale della preghiera, che diventava ogni giorno una realtà sempre più grande.

Anche la situazione che stavi vivendo imparasti a vederla con occhi diversi?

I nazisti potevano renderci la vita più dura, privarci della nostra libertà di movimento, ma io mi rendevo conto che eravamo noi stessi a privarci delle nostre forze migliori, con un atteggiamento del tutto sbagliato, col sentirci perseguitati, umiliati ed oppressi, col nostro odio e con la millanteria che mascherava la paura.

In un certo senso si può dire che anche attraverso le situazioni più drammatiche possiamo mantenere la nostra dignità, nessuno ce la può portare via.

Se ho imparato qualcosa dalla mia terribile esperienza è che quel Dio che vive in noi soffre con noi. Egli non può fare molto per modificare le circostanze in cui mi trovo, ma io sono sicura che a ogni battito del nostro cuore tocca a noi aiutare Lui, difendere fino all’ultimo la Sua Casa che è in noi. Non si può essere nelle grinfie di nessuno se si è nelle braccia di Dio.

Anche se non vedevi all’orizzonte la fine dei tuoi tormenti, la scoperta di Dio dentro di te ti spinse a vivere per aiutare altre persone a preparare tempi nuovi.

Ero sicura che i «tempi nuovi» sarebbero venuti e sentivo che stavano crescendo in me con una forza irresistibile ogni giorno di più. Alla sera tardi, quando il giorno si era inabissato dentro di me, mi capitava spesso di camminare lungo il filo spinato e di sentire che dal mio cuore si innalzava una voce, anzi una forza elementare che diceva che la vita è una cosa splendida e grande. Per questo abbiamo il dovere, nonostante tutto, di costruire un mondo completamente nuovo.

Anche quando capisti che Hitler e i suoi sgherri nazisti volevano lo sterminio del tuo popolo.

Per ogni crimine od orrore che si consuma sulla Terra dovremmo essere capaci di opporre un nuovo pezzettino di amore e di bontà che avremo conquistato in noi stessi. Possiamo soffrire, ma non dobbiamo soccombere. E se sapremo sopravvivere intatti a questo tempo, allora avremo anche il diritto di dire la nostra parola a guerra finita.

Etty, la tua testimonianza lascia un messaggio sconvolgente e allo stesso tempo meraviglioso.

Sul mio diario scrissi così: «Se ogni uomo si sarà liberato dall’odio contro il prossimo, di qualunque razza o popolo, se avrà superato quest’odio e l’avrà trasformato in qualcosa di diverso, quel pezzettino di eternità che ci portiamo dentro ci spalancherà un orizzonte nuovo. Sono una persona felice, nonostante la detenzione, lodo questa vita nell’anno del Signore 1942 e combatto la mia battaglia contro fanatici furiosi e gelidi che vogliono la nostra fine».

Nonostante tutto riesci a dare a tutti un po’ del tuo amore cristallino e sconfinato.

Pur essendo vissuta in un mondo sbagliato, senza dignità, io non odio nessuno, non sono amareggiata perché ho la consapevolezza che, una volta che l’amore per tutti gli uomini comincia a crescere e svilupparsi, in noi questo amore diventa infinito.

Dall’estate del 1943 si moltiplicano i treni carichi di prigionieri che dal campo di raccolta di Westerbork, in Olanda, si dirigono verso Auschwitz. Il 7 settembre 1943 la famiglia Hillesum sale su un convoglio diretto in Polonia. I genitori muoiono di stenti lungo il tragitto, mentre Etty e il fratello Mischa muoiono nel marzo del 1944 entrambi nel campo di sterminio. Il fratello Jaap, deportato nel campo di Bergen Belsen, muore il 27 gennaio 1945 sul treno che evacua i sopravvissuti del campo, da pochi giorni liberato dall’Armata Rossa.

I quadei di Etty con la sua calligrafia minuta vengono da lei affidati a una sua amica che solo nel 1981 riesce a trovare un editore per pubblicarli. Essi diventando immediatamente un grande successo editoriale. La storia di Etty colpisce per la lucidità con la quale questa giovane donna olandese affronta le vicende tragiche del suo tempo opponendo una grande resistenza interiore al male e ricercando con tenacia e fede in Dio tracce di bene anche là dove Egli sembra assente. L’insegnamento che ci lascia è l’unica strada per contrastare l’odio, è un atteggiamento d’amore con cui guardare – nonostante tutto – anche chi ci sta facendo del male.

Don Mario Bandera




Sudafrica quattro passi nella storia


Da Sendton ad Alexandra, da Newtown a Soweto, passando per Durban e King William’s Town. Il ricordo di Biko e di Mandela. Visitando i luoghi «storici», ritroviamo il percorso di una delle nazioni più  particolari del continente. E ne scopriamo le contraddizioni.

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Era il 1994 quando si svolsero in Sudafrica le prime elezioni multirazziali e democratiche. I giorni tra il 26 e il 29 aprile furono di grande euforia. Il paese, noto a livello internazionale per una politica fondata su criteri razzisti, stava voltando pagina; stava concretizzando il principio one person one vote, «una persona, un voto», attraverso elezioni inclusive, capaci cioè di incorporare quei segmenti sociali – in primis i neri – rimasti isolati, seppur a differenti livelli, per lungo tempo. Quelle del 1994 vennero definite elezioni miracolose: era finalmente giunto il tempo della riconciliazione, preludio di una nuova era. Tale momento storico vide un imponente coinvolgimento e partecipazione del popolo sudafricano. Il diritto di voto fu infatti esercitato dall’87% dell’elettorato attivo: all’incirca 19 milioni di persone. Ciò diede vita a una miriade di lunghe e colorate file di elettori, la maggior parte dei quali sperimentavano liberamente il loro diritto per la prima volta nella loro vita.

Molti appoggiarono, come ci si aspettava, la linea politica dell’African National Congress (Anc), che ottenne il 62% dei voti, avendo così a disposizione all’Assemblea nazionale (il parlamento) 252 seggi.

In quei giorni nasceva la Rainbow Nation, «nazione arcobaleno», alla cui presidenza sarebbe andato Nelson Mandela, tra i massimi esponenti dell’Anc, il quale dopo ventisette lunghi anni di prigionia, divenne simbolo, nonché guida politica, del nuovo corso sudafricano. Tanti parlavano di Rainbow Nation, per sottolineare la volontà di creare una società multirazziale e tollerante verso ogni genere di differenza. Da allora, sono trascorsi due intensi decenni.

(© Silvia C. Turrin)
Museo dell’apartheid (© Silvia C. Turrin)

La mano di Madiba

Johannesburg (© Silvia C. Turrin)
Johannesburg (© Silvia C. Turrin)

Mandela, quando fu alla presidenza, cercò di implementare programmi di giustizia sociale e di ridistribuzione della ricchezza, ma le logiche neoliberiste prevalsero e i suoi successori non furono in grado di portare la nazione verso un piano di sviluppo che favorisse le comunità povere.

La morte di Mandela (5 dicembre 2013), una delle poche figure, se non la sola, davvero carismatica dell’Anc, acuì alcuni problemi politici: il partito che permise la fine dell’apartheid e che siglò la politica di riconciliazione non era stato in grado di mantenere la promessa di dare aiuti agli indigenti e di migliorare i servizi nelle comunità periferiche.

Il tasso di disoccupazione continua tutt’oggi a essere alto – circa il 25% nel 2014 – e la maggioranza dei senza lavoro sono neri. Inoltre, permangono gli effetti della dura dominazione coloniale che aveva represso, sul piano fisico, psicologico, sociale e giuridico la maggioranza della popolazione sudafricana.

Nonostante ciò, il Sudafrica rimane tra i paesi più vitali del continente africano, sia a livello economico, sia culturale. È una terra vasta, con un ricco mosaico di popoli, etnie e idiomi (si contano undici lingue ufficiali). Incastonato tra l’Oceano Indiano e quello Atlantico, è un paese, in cui convivono culture europee, africane e asiatiche e dove si respira il profumo della libertà. Una libertà per lungo tempo ricercata da tanti sudafricani, per la quale molte persone si sono sacrificate, superando difficoltà e ostacoli.

La democrazia che la società sudafricana sperimenta oggi, seppur con tante contraddizioni, è stata il frutto della protesta e delle lotte portate avanti, nei decenni scorsi, da uomini e donne comuni, da studenti, da attivisti per i diritti civili, da artisti ed esponenti dell’intellighenzia africana e non, e da figure politiche dotate della determinazione necessaria per modificare il regime razzista edificato con tanta tenacia dalla minoranza afrikaner (vedi glossario).

Johannesburg (© Silvia C. Turrin)
Johannesburg (© Silvia C. Turrin)

Luci e ombre della nazione arcobaleno

Johannesburg (© Silvia C. Turrin)
Johannesburg (© Silvia C. Turrin)

Abbiamo deciso di compiere un viaggio nel paese che ha un territorio quattro volte più esteso dell’Italia, allo scopo di conoscere qualcosa del Sudafrica di oggi.

Incominciamo da Johannesburg, detta Jozi o anche Jo’burg, città in cui il divario tra zone residenziali e quartieri poveri è impressionante. Basta guardare alle disuguaglianze tra il quartiere di Sandton e la township di Alexandra. A Sandton risiedono sudafricani benestanti, che abitano in grandi case o appartenenti lussuosi o ville con piscina e con sistemi di allarme sofisticati. Vi sono modei centri commerciali,  banche e centri finanziari. Sembra che molti bianchi che vivono a Sandton nutrano ancora forti sentimenti razzisti e di superiorità nei confronti dei neri.

A pochi chilometri sorge la township di Alexandra, fra i luoghi più poveri del Sudafrica post apartheid, la cui storia risale ai primi anni del ‘900. Nonostante l’avvio dell’Alexandra Renewal Project con cui si intende migliorare le condizioni di vita dei suoi abitanti, c’è ancora molto da fare per risolvere i problemi basilari della gente che vi abita.

Johannesburg rimane uno specchio che riflette le contraddizioni del Sudafrica. La città venne fondata nel 1886 a seguito della scoperta di ingenti giacimenti auriferi nella zona: era il periodo della corsa all’oro che richiamò migliaia di persone.

Nel quartiere di Sandton è stata creata una piazza intitolata a Nelson Mandela, dove si erge la statua sorridente del «padre della patria».

Da Sandton ci muoviamo verso il distretto culturale di Newtown, dove, al numero 121 di Bree Street, troviamo l’ingresso del Museum Africa.

Lo spazio espositivo racconta, attraverso fotografie, reperti, fumetti e disegni, la storia del paese e le diverse culture che lo popolano.

Ginsberg e casa museo di Steve Biko (© Silvia C. Turrin)
Ginsberg e casa museo di Steve Biko (© Silvia C. Turrin)

C’è una sala dedicata all’arte rupestre del popolo San, e poi, grazie a una sezione dedicata alla geologia, si ha l’opportunità di attraversare le epoche della pietra e del ferro, si osservano fossili e testimonianze di quei giacimenti d’oro e di diamanti che attirarono in Sudafrica migliaia di coloni europei. Furono proprio quelle incredibili ricchezze a cambiare il volto del paese.

Nel Museum Africa gli appassionati di musica possono trovare tante testimonianze, immagini, copertine di dischi, vecchi articoli di giornali, circa la nascita del jazz sudafricano avvenuto nelle township.

Un’altra sezione racconta il passaggio di Gandhi in questa terra: dalla creazione della Tolstoy farm allo sviluppo della filosofia del Satyagraha (basata sulla resistenza pacifica, ma attiva, contro le ingiustizie politiche), sino alla creazione del suo ufficio che richiamava attivisti sia indiani, sia cinesi. Gandhi rimase in Sudafrica per ben 21 anni (dal 1893 al 1914), lasciandovi un’impronta filosofico-politica importante.

Usciti dal museo visitiamo l’area di Newtown, che è stata protagonista di un ambizioso progetto di ristrutturazione urbana. Gli edifici industriali e i vecchi magazzini sono stati riqualificati in eleganti loft e centri culturali, tra cui music club e teatri, anche se in alcune vie è facile che lo sguardo incontri ancora angoli di miseria e di emarginazione sociale.

Johannesburg (© Silvia C. Turrin)
Johannesburg (© Silvia C. Turrin)

La rivolta di Soweto

Dal centro di Johannesburg ci spostiamo nella sua città satellite, Soweto, acronimo di South West Township. Qui ci si immerge nella storia dell’apartheid e delle sue conseguenze, ancora ben visibili. Una delle sue vie più famose è Vilakazi street, in cui hanno abitato due prestigiosi sudafricani, entrambi premi Nobel per la Pace, l’arcivescovo Desmond Tutu e Nelson Mandela, la cui casa è stata trasformata in un museo che descrive i suoi anni di lotta e di clandestinità.

(© Silvia C. Turrin)
(© Silvia C. Turrin)

Non distante dalla casa museo di Mandela, tra Kumalo street e Moema street, è stato edificato il memoriale dedicato a Hector Pieterson, tredicenne nero ucciso il 16 giugno 1976. Per protestare contro l’introduzione dell’afrikaans come lingua veicolare di formazione scolastica venne indetta una manifestazione, presso l’Orlando Stadium di Soweto: migliaia di studenti (circa 20mila) sfilarono pacificamente per le vie della township, cantando inni di libertà e diffondendo slogan contro quella che definivano la lingua dell’oppressore. Quando i manifestanti si trovarono presso Vilakazi Street, ubicata vicino alla scuola di Orlando West, un contingente di polizia incominciò a lanciare gas lacrimogeni per dissuadere i giovani dal proseguire. Questi, anziché arrestarsi, risposero lanciando pietre. La polizia, senza esitare, reagì sparando sulla folla disarmata, uccidendo Zolile Hector Pieterson. Altri ragazzi morirono a seguito degli scontri e numerosi vennero feriti: la rivolta di Soweto, proseguita nelle settimane successive con il sostegno dei genitori degli studenti e dei lavoratori, si trasformò in un’ecatombe. Presso l’Hector Pieterson Museum si ripercorrono quegli eventi drammatici attraverso contributi multimediali e audiovisivi.

Sui passi di Gandhi

Lasciamo Johannesburg e la Provincia del Gauteng per spostarci verso Durban, la città più indiana del Sudafrica. Qui si incontra infatti una numerosa comunità di genti originarie dell’Asia. Un afflusso voluto in epoca coloniale dai britannici, per avere in loco manodopera destinata a vari lavori: dal settore agricolo (specialmente nelle piantagioni di zucchero) a quello dei trasporti (per la ferrovia Natal-Transvaal). Gli inglesi, che allora controllavano la zona chiamata del Natal (oggi KwaZulu-Natal), avevano anche bisogno di cuochi e domestici. Tra il 1860 e il 1911, agevolarono quindi l’arrivo di numerosi lavoratori provenienti dalle attuali regioni del Tamil Nadu, Andhra Pradesh, Uttar Pradesh e Bihar. Sì verificò poi un’ulteriore ondata di immigrazione proveniente dal Gujarat, formata da gruppi dediti al commercio.

A Durban e nell’area circostante la presenza indiana, col tempo, si è consolidata e accresciuta. Fu qui che Gandhi abitò. La sua casa, chiamata Sarvodaya, che significa «benessere per tutti», si trova a 25 chilometri dalla città, nell’area denominata Phoenix Settlement. Essa venne costruita nel 1904, e poi distrutta a causa dei tumulti del 1985. Ricostruita e inaugurata nel 2000, la casa è stata trasformata in museo, in cui sono raccontate, attraverso immagini e descrizioni, le sue battaglie pacifiche in Sudafrica. All’esterno troviamo altri pannelli sulla vita di Gandhi, mentre sotto un piccolo pergolato di paglia c’è un busto scolpito che lo ritrae.

Ginsberg e casa museo di Steve Biko (© Silvia C. Turrin)
Ginsberg e casa museo di Steve Biko (© Silvia C. Turrin)

L’eredità di Biko

Ginsberg e casa museo di Steve Biko (© Silvia C. Turrin)
Ginsberg e casa museo di Steve Biko (© Silvia C. Turrin)

Ci trasferiamo verso Ovest e raggiungiamo l’Easte Cape, direzione prima East London, poi King William’s Town. Questa cittadina era stata fondata come missione nel 1834 dal reverendo scozzese John Brownlee della Società dei missionari di Londra. King William’s Town non attrae molti turisti, quei pochi generalmente sono desiderosi di conoscere il luogo in cui nacque Stephen (Steve per gli amici) Biko, attivista anti-apartheid e «mente» del Movimento della Consapevolezza Nera. Biko, la cui storia è stata tratteggiata nel film Cry Freddom (Grido di libertà) del compianto Sir Richard Attembourough, era nato e cresciuto in una zona povera, Ginsberg, township di King William’s Town. Ancora oggi, chi visita questo sobborgo vede qua e là abitazioni fatiscenti, polli e ovini che scorrazzano nei giardini, e gente che compie chilometri a piedi.

Al numero 698 di Leightonville a Gisnsburg, si trova la casa dove Steve Biko visse e dove scontò la sanzione della messa al bando. Oggi trasformata in museo, inaugurato nel 1997, dall’allora presidente della Repubblica, Nelson Mandela. Al suo interno troviamo libri, documenti, teche e fotografie che tratteggiano non solo la vita di Biko, ma anche la nascita del Black Consciousness Movement (Bcm) e l’amicizia – raccontata nel film citato – tra lo stesso Biko e il giornalista Donald Woods. A Ginsberg sorge una sezione della Steve Biko Foundation (la sede centrale si trova a Johannesburg), i cui membri lavorano sia per diffondere valori quali il rispetto per la dignità umana e le diversità, sia per implementare progetti di carattere educativo e socio economico, al fine di contrastare la disoccupazione, molto alta nell’area di East London.

Nel 2012 è stato inaugurato un altro spazio dedicato a Biko, in cui vi sono un museo, un centro congressi moderno, una biblioteca e altre sale di ritrovo. Sempre a Ginsberg, alla periferia, merita un passaggio lo Steve Biko Garden of Remembrance, dove riposano le spoglie dell’attivista anti apartheid. È un luogo avvolto da silenzio. Qui, se si ascolta bene, si percepiscono gli echi di tutti coloro che hanno sacrificato la propria vita per la libertà che oggi il Sudafrica conosce.

Silvia C. Turrin