Giordania. Nel paese di Rania
Pur senza vere risorse, la monarchia hashemita è vitale per l’area mediorientale. Da sempre alla ricerca di un difficile equilibrio tra mondo arabo e Occidente, ospita circa tre milioni di palestinesi.
Umm Qays (Gadara). Infuocate dalla luce del sole del tramonto, le antiche facciate di Petra raccontano storie di un tempo passato, mentre le caotiche strade della capitale Amman pulsano di una vita vibrante e moderna. La Giordania è un crocevia di culture e tradizioni, un luogo dove il passato incontra il presente in una danza armoniosa che si interrompe subito al di là del fiume Giordano e del Mar Morto.
I territori di Israele e della Palestina sono sempre ben visibili a chi percorre la strada che da Umm Qays, nell’estremo Nord del Paese, raggiunge Aqaba, quattrocento chilometri più a Sud. Sullo sfondo delle proprie foto, i turisti vedono il lago di Tiberiade, il sito del battesimo di Gesù, la sponda palestinese del Mar Morto, le luci di Gerusalemme. Tutti dovrebbero ricordare che questa terra, spesso trascurata dai pellegrinaggi, è parte integrante di quella che i cristiani chiamano Terra Santa.
I luoghi che rimandano a storie bibliche ed evangeliche, si intrecciano con destinazioni turistiche alla moda, ma anche con castelli arroccati su aride alture che celebrano le gesta degli ordini monastici crociati che, in queste aree, sono nati e hanno scritto la loro storia.
Per i giordani, invece, osservare le Alture del Golan occupate da Israele (dal 1981), la città di Gerico, i grattacieli di Gerusalemme, la recinzione che delimita il confine con Israele ad As Safi, significa ricordare quanto sia precaria la pace sociale e politica che il regno hashemita – dal 1999 guidato da re Adb Allah II e dalla regina Rania – è riuscito a ottenere negli anni Novanta. E questo dopo il conflitto con Israele del 1967 (nota come «Guerra dei sei giorni»), ma anche i massacri e la guerra tra la stessa Giordania e l’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp) del settembre 1970 (passata alla storia come «Settembre nero»).
Tra Israele e Palestina
Se la contrapposizione con Tel Aviv pulsa ancora nel cuore della popolazione giordana, i drammatici fatti del Settembre nero sembra siano stati dimenticati, almeno dalla gente comune. I giordani sono teoricamente solidali con il popolo palestinese (anche se, in realtà, molti palestinesi residenti nel Paese continuano a essere relegati ai margini della società), mentre il governo, conscio della potenziale destabilizzazione che potrebbero portare frange estremiste, è più cauto nell’esprimere il proprio appoggio, anche se la voce più autorevole per la difesa dei diritti dei palestinesi proviene dall’interno della stessa casa reale.
La voce della regina
Nata in Kuwait da genitori palestinesi, la regina Rania, amatissima dai giordani, all’indomani dell’invasione di Gaza, ha sempre criticato la narrazione occidentale affermando che «la maggior parte delle reti televisive sta coprendo la storia con il titolo di “Israele in guerra”, ma per molti palestinesi dall’altra parte del muro di separazione e del filo spinato, la guerra non se n’è mai andata. Questa è una storia vecchia di 75 anni; una storia di morte e di sfollamento per il popolo palestinese. Il contesto di una superpotenza regionale dotata di armi nucleari che occupa, opprime e commette quotidianamente crimini documentati contro i palestinesi è assente dai racconti fatti in Occidente».
Il suo accorato appello, assieme alle posizioni progressiste a favore dell’emancipazione femminile e alle sue campagne per garantire l’istruzione capillare a tutta la popolazione giordana, è un ammonimento che però non ha pieno riscontro nella politica di Amman, sempre attenta a rispettare un equilibrio tra le istanze filoarabe e quelle filoccidentali.
La Giordania è Palestina?
La narrazione secondo cui il piano a medio termine del governo di Netanyahu sarebbe quello di costringere tutta la popolazione di Gaza a trasferirsi nel Sinai egiziano e quella della Cisgiordania (o West Bank) nella Transgiordania (o East Bank) giordana, trova moltissimi sostenitori in Giordania ed è uno dei temi più caldi che oggi il governo di Amman si trova ad affrontare.
Storicamente si basa sulla teoria in voga sin dagli anni Settanta nella destra israeliana, secondo cui «la Giordania è Palestina». Teoria che, agli occhi dei nazionalisti, giustificava la politica di espansione di Israele verso i territori appartenenti ai palestinesi a occidente del Giordano.
Nonostante la regina Rania sia palestinese e la Giordania sia l’unico Stato arabo a concedere la cittadinanza ai palestinesi, la Casa reale non vuole che il regno si trasformi in uno Stato palestinese. Non lo vogliono soprattutto i transgiordani, gli abitanti della vecchia Transgiordania, la parte a est del Mar Morto e del fiume Giordano, che si reputano i legittimi rappresentanti della cultura giordana e, come tali, i legali amministratori politici ed economici della nazione.
Da qui il risentimento dei giordani di cultura palestinese che dal 1970 (dopo Settembre nero), si sono sentiti esclusi dalla vita politica. Mentre i transgiordani dominano il settore pubblico, agricolo e rurale, i cisgiordani palestinesi prevalgono in quello privato e religioso, contribuendo in maniera consistente alle entrate della West Bank e penetrando in modo massiccio i movimenti islamici.
Questa polarizzazione caratterizza la vita sociale giordana.
Da una parte i transgiordani accusano i grandi proprietari privati di alimentare la corruzione che le riforme introdotte dal governo su richiesta del re non sono riuscite a mitigare. Dall’altra, i giordani palestinesi e i rifugiati palestinesi accusano la casa reale di impotenza nella gestione dei luoghi santi di Gerusalemme.
Lo «Status quo», un accordo informale redatto nel 1967 a conclusione della guerra dei Sei giorni che vede il Waqf islamico giordano amministrare la Spianata delle moschee mentre Israele ne controlla la sicurezza e l’accesso, è stato più volte infranto dalle forze israeliane e da gruppi di ebrei che, in violazione dell’accordo, entrano nella spianata a pregare, a volte anche a voce alta. Questo ha causato non solo scontri a Gerusalemme e in Palestina, ma ha minato il prestigio stesso della casa hashemita, impotente di fronte a queste trasgressioni, attirando le critiche dei gruppi palestinesi più radicali.
Per la stabilità del Regno
Nonostante le enormi divergenze ideologiche e politiche, re Adb Allah II e Netanyahu condividono l’idea che rapporti pacifici fra i due Stati siano indispensabili per mantenere la stabilità della Giordania (e, quindi, della dinastia hashemita) e contenere le minacce iraniane e siriane.
Questo ruolo di mediatore ha trasformato una terra composta da miriadi di tasselli tribali, difficile da governare ed economicamente priva di interesse, in uno dei fulcri nevralgici per la pace in Medio Oriente. «È il miracolo della dinastia hashemita di Giordania che, dopo la Grande rivolta araba, l’assassinio di re Adbullah I da parte di un palestinese, le disastrose guerre con Israele, è comunque riuscita a sopravvivere alle faide tribali diventando un solido punto d’appoggio per gli Stati Uniti nell’area», ci dice Rawan Rawa- shdeh, studentessa alla Irbid national university.
Secondo l’Unrwa, l’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi del Vicino Oriente, in Giordania vivrebbero 2,2 milioni di palestinesi, ma in realtà, il loro numero raggiungerebbe i tre milioni. In più si aggiungono i 717mila rifugiati, principalmente siriani (643mila) e iracheni (52mila), ma anche sudanesi, yemeniti, somali che fuggono dalle guerre in atto nei loro Paesi e 80mila lavoratrici domestiche, per lo più filippine, srilankesi, indonesiane.
In totale, il governo di Amman deve garantire acqua, cibo, alloggio, servizi essenziali ad altri quattro milioni di persone, oltre agli 11,3 milioni di cittadini giordani. Una percentuale enorme che pesa come un macigno sulla già non florida economia dello Stato arabo e che sarebbe insostenibile senza gli aiuti che provengono dalla comunità internazionale, in particolare da Stati Uniti e Unione europea.
Il Jordan Compact, l’accordo che nel 2016 il governo ha stipulato con i Paesi donatori per garantire l’integrazione nel mondo del lavoro e dell’istruzione ai rifugiati siriani, ha permesso a 252mila di loro di trovare un’occupazione, ma solo al 25% dei rifugiati in età scolare di frequentare una scuola. La maggior parte dei 230mila profughi potenzialmente in diritto di avere un’istruzione, ne è impedito per motivi culturali, logistici (mancano le infrastrutture e i trasporti) ed economici.
Il lavoro minorile è ormai una costante tra le file non solo dei rifugiati, ma tra gli stessi giordani, soprattutto nelle zone rurali.
Il problema parte dalla scuola primaria e dalla differenza di genere. I dati, ricavati dai rapporti della Banca mondiale e delle varie agenzie dell’Onu, sono preoccupanti: solo il 37% degli studenti che affrontano il secondo e terzo grado della scuola primaria sono in grado di leggere e comprendere un testo semplice e se è vero che la carriera lavorativa della donna si prepara sin dalla adolescenza, quando la famiglia deve investire nella scolarizzazione, il 38% della popolazione femminile non è iscritta ad alcun programma scolastico, liste di disoccupazione o di addestramento professionale.
Solo il 13,8% della forza lavoro è composta da donne nonostante esse rappresentino il 50,4% dei giordani in età di lavoro, mentre la disoccupazione femminile è il doppio rispetto a quella maschile. Il 90% delle donne che non ha un diploma di scuola secondaria rimane disoccupata, percentuale che cala al 61% per le donne che ha un diploma di scuola media secondaria o universitario.
Tutto questo pone la Giordania al 126° posto su 146 Paesi nella classifica del Global gender gap index report.
Sebbene questo sia dovuto principalmente a una tradizione discriminante verso la donna, l’emancipazione femminile è in parte frenata anche dai recenti sviluppi del conflitto israelo-palestinese.
Nonostante la Giordania sia un Paese sicuro, il turismo, settore in cui le donne ricoprivano il 20% della forza lavoro pre Covid, ha subito una battuta d’arresto. Nei primi due mesi del conflitto di Gaza, le presenze alberghiere in Giordania sono crollate del 50-75% e il turismo proveniente da Israele, che nel 2023 rappresentava il 17% degli arrivi totali, si è azzerato.
Negli alberghi e nei ristoranti, fatta eccezione per le grandi catene internazionali, il personale è per la quasi totalità maschile, così come le guide che accompagnano i turisti nei luoghi più frequentati come Petra, Wadi Rum, i siti archeologici.
Piergiorgio Pescali
In visita al Sesame
I miracoli (a metà) della scienza
Assieme all’Egitto, Israele è il principale fornitore energetico della Giordania. Tel Aviv invia gas naturale al Paese dal giacimento offshore «Leviathan». Se questo dovesse mancare, la Giordania sarebbe costretta a importare gas attraverso il porto di Aqaba a prezzi decisamente superiori a quelli israeliani.
«Quando parliamo di Paesi del Medio Oriente, pensiamo che siano ricchi di petrolio e non abbiano problemi energetici», mi dice Khaled Toukan, già ministro dell’istruzione, ingegnere nucleare. «In realtà la Giordania è una nazione senza grandi risorse energetiche e ha bisogno di importare quasi tutto il suo fabbisogno dall’estero. È per questo che stiamo progettando di costruire una centrale nucleare, in particolare installando reattori Smr (reattori di piccole dimensioni, installabili nel giro di 2-3 anni dall’approvazione, possono alimentare una città di medie dimensioni e producono poche scorie, ndr). Il nucleare ci aiuterebbe anche ad aumentare la disponibilità idrica desalinizzando l’acqua marina».
Oltre a essere una personalità di spicco nel mondo politico e scientifico giordano, Khaled Toukan è soprattutto il direttore di Sesame (Synchrotron-light for experimental science and application in the Middle East), un fiore all’occhiello della ricerca applicata non solo in Giordania, ma in tutto il Medio Oriente. In questo centro, situato a pochi chilometri da Amman, fondato alla fine del secolo scorso con il decisivo supporto dell’Europa e del Cern, si trova l’unico sincrotrone (acceleratore di particelle che produce radiazione elettromagnetica collimata che serve per analizzare la struttura dei materiali in diversi campi, ndr) dell’intera regione araba, ma la sua importanza trascende il valore scientifico.
Sesame è, infatti, un esempio di «diplomazia scientifica». Oltre alla Giordania e l’Egitto, tra gli otto Stati membri, vi sono nazioni che non hanno relazioni diplomatiche tra loro: Turchia e Cipro, ma anche Israele, Iran, Palestina, Pakistan. «Sin dalla nascita di Sesame, tutti gli Stati membri hanno partecipato alle riunioni semestrali, nonostante i conflitti che attanagliano la nostra regione – ci spiega Toukan -. Sesame è un posto in cui veramente regna la pace». «Sesame è nato prima di tutto nell’ottica del miglioramento dei rapporti tra Israele ed Egitto e il sincrotrone che oggi è l’anima del centro proveniva da Berlino su proposta di Herman Winick, il padre degli ondulatori», spiega il direttore scientifico, l’italiano Andrea Lausi. «È una storia bellissima: una macchina che da una città divisa, Berlino, va a unire due Paesi come Egitto e Israele che, all’epoca, erano ai ferri corti. Dal punto di vista politico era una storia accattivante che, all’epoca, generò titoli suggestivi sui giornali».
Tra tante difficoltà, non solo finanziarie, Sesame è un progetto di cooperazione che continua ancora oggi. Tuttavia, a dimostrazione di quanto sia difficile superare le barriere culturali anche nella scienza, Khaled Toukan confessa che «non abbiamo progetti di ricerca misti che coinvolgano, per esempio, scienziati turchi con scienziati egiziani o scienziati israeliani con quelli iraniani. Eppure – conclude il direttore -, il valore politico di questa cooperazione è di grande importanza per il futuro del Medio Oriente».
P.P.