Accoglienza profughi dall’Ucraina /5


Carissimi amici e benefattori
un saluto a tutti voi

Dopo una pausa dall’ultima comunicazione vi aggiorno sulla situazione che ci vede impegnati tutti insieme ad aiutare coloro che sono colpiti dalla guerra in Ucraina.

Qui a Łomianki come del resto in Polonia siamo passati ormai ad una seconda fase dall’inizio del conflitto inziato quasi due mesi fa e purtroppo non ancora interrotto. Dopo l’ondata di profughi improvvisa e gigantesca che si faceva notare ovunque nel paese, direi che ora siamo passati a una gestione delle migliaia di persone giunte qui. Qualcuno (pochi) ha provato a rientare nel paese ricongiungendo la famiglia in Ucraina; invece, la maggior parte di donne e di bambini che vivono ormai da 2 mesi presso le famiglie o nei centri in cui hanno trovato alloggio, sono ancora qui tra noi.

Se per fortuna non si notano piu le folle di arrivi di donne e bambini alle stazioni dei treni, tuttavia nei centri di assitenza le code giornaliere sono sempre ben visibili, come capita nella parrocchia di Łomianki, dove ogni giorno continuiamo coi volontari a distribuire generi di prima necessità. Permettetemi di ringraziare molti di voi per le generose offerte che ci avete fatto avere, grazie alle quali possiamo quotidianamente comprare e nuovamente riempire gli scaffali del centro di aiuto della parrocchia, che rapidamente si svuotano.

Ringraziamo anche i volontari che da diverse parti del mondo hanno scelto di vivere nella nostra casa per aiutare in diversi modi, tra questi ricordiamo Clara un’infermiera di Torino, Kessie una dottoressa del Sud Africa e Adriano un volontario di origine italiana abitante in Canada.

Se la situazione in Polonia si puo definire in questo momento di gestione, lo stesso non si puo dire nella vicina Ucraina, dove purtroppo come ben sapete il conflitto continua con una cruenza e una violenza raccapricciante. Le notizie che ascoltiamo dai media e ancor piu le storie dei testimoni che incontriamo sono molto tristi. Per questo motivo stiamo sempre piu organizzando i nostri sforzi non solo qui sul posto ma anche inviando aiuti di vario genere in Ucraina soprattuto nelle zone occupate, escluse da ogni rifornimento.

Sono gia 4 i trasporti partiti, (e per grazia arrivati!) nell’Est del paese come nella zona di Charkow dove proseguono i combattimenti. In quei luoghi ogno genere di aiuti e visto come una manna dal cielo, perche il prolungare del conflitto ha ridotti ogni scorta nei magazzini. Un frate francescano mi ha detto che in quella regione dove abita, per fare benzina alla propria auto con l’aiuto di un amico, sono andati a fare rifornimento da un treno abbandonato che aveva ancor del carburante nel serbatoio. Queste perché i benzinai o sono esauriti i sono stati distrutti.

In questi giorni stiamo organizzando altre spedizioni nella regione di Zaporoze esattamente a Energodar dove si trova la centrale atomica piu grande di Europa. La città è stata occupata.   Prevedo questa estate, se le condizioni lo permetteranno, di recarmi in Ucraina.

In questo momento è difficile fare delle previsioni. La situazione è ancora molto confusa e purtroppo non si vedono ancora spiragli per un cessate il fuoco. Una delle poche cose di cui si e sicuri che purtroppo si continuerà a lungo. Oltre a questo, una cosa che vediamo bene è il rischio che una volta terminata la guerra questa stessa continui nei cuori di molte persone che hanno subito violenza e sopprusi.

Per questo continuaimo a pregare per la fine della guerra chiedendo a Dio il dono della pace e continuando a costruiore pace attorno a noi.
Un saluto a tutti

padre Luca Bovio


Le foto sono da Charkow, in Ucraina. Sono le persone beneficiate dagli aiuti che abbiamo inviato.




Mozambico. La jihad dei poveri


La frustrazione per i proventi del petrolio mai arrivati, l’infiltrazione di imam radicali stranieri, l’afflusso di armi. Tutti ingredienti che hanno sviluppato una presenza islamista. Mentre il governo centrale, che aveva sottovalutato il problema, chiede aiuto.

La guerra continua. Sottotraccia, ma continua. Cabo Delgado, in Mozambico, molto probabilmente, non avrà pace neppure nei prossimi mesi. Quel senso di frustrazione e di marginalizzazione che hanno portato i giovani locali a sollevarsi contro il governo centrale di Maputo, spinti anche dalla predicazione di imam radicali, ha creato una miscela esplosiva che non è stata ancora neutralizzata. Neanche per effetto dell’intervento delle forze armate straniere, in particolare quelle ruandesi.

Cabo Delgado, uno sfollato si costruisce un riparo di fortuna usando tecniche tradizionali. Foto Luca. S. Pistone.

La genesi della crisi

La crisi a Cabo Delgado scoppia nell’ottobre del 2017. È in quel periodo che la provincia più povera e periferica del Mozambico inizia a conoscere i primi attacchi da parte di gruppi di islamisti radicali. Si tratta di azioni limitate, messe in atto da miliziani armati con machete e coltelli da caccia, che si spostano con mezzi di fortuna (motorini, vecchie auto, pulmini scassati). Prendono di mira villaggi isolati e sterminano la popolazione senza mostrare alcuna pietà. Professano un islam radicale e l’adesione allo Stato islamico, anche se non è mai stato confermato un rapporto organico che andasse al di là di una formale adesione da parte dell’Isis alle rivendicazioni dei miliziani mozambicani. In questi ultimi, però, c’è anche una volontà di rivalsa di carattere etnico. La maggior parte sono Kimwani e Amakhuwa e la loro lotta è indirizzata contro la minoranza Makonde (economicamente) dominante e filogovernativa.

Nampula. Giovane donna sfollata alla registrazione nel campo profughi. Luca S. Pistone

I motivi

Ma perché si ribellano? Che cosa li spinge a rivoltarsi contro le autorità centrali? L’esplosione delle violenze, secondo alcuni analisti internazionali, è legata soprattutto alla scoperta di grandi giacimenti offshore di gas fatta da società di idrocarburi occidentali, ad Afungi, all’estremo Nord della costa mozambicana, vicino alla città e al porto di Palma. «Gli investimenti nei giacimenti offshore del Nord del Mozambico – spiega Emilia Columbo, ricercatrice del Center for strategic & international studies (Csis), think tank di Washington (Usa), esperta delle dinamiche politiche dell’Africa australe – hanno creato enormi aspettative nelle popolazioni locali. Esse speravano che, finalmente, la loro vita misera potesse cambiare, ma non è stato così». Gran parte dei proventi dell’industria petrolifera e mineraria sono volati verso Sud e hanno arricchito le élite di Maputo invece di trasformarsi in stanziamenti per costruire infrastrutture e creare occupazione e ricchezza nel Nord. «La miseria è stata la vera spinta di questo movimento – continua Emilia Columbo -. Il detonatore che ha fatto esplodere la bomba è stato l’integralismo islamico predicato da imam venuti da fuori o da mozambicani che sono rientrati in patria dopo essersi radicalizzati all’estero. Nello Shabab, così si chiama il movimento (da non confondere con al Sahabab della Somalia, ndr), ai locali si sono aggiunti altri giovani provenienti dall’estero: tanzaniani, burundesi, ugandesi, ecc.».

Due giovani sfollate a Nampula. Foto Luca S. Pistone.

Salto di qualità

Gli attacchi, nel corso degli anni, sono diventati sempre più frequenti e sempre più efferati. Vere e proprie stragi nei villaggi che hanno portato a migliaia di morti (nessuno sa quante siano le vittime). Per mettersi al sicuro, la gente a iniziato a fuggire. Dei circa 1,5 milioni di abitanti di Cabo Delgado, 800mila hanno cercato rifugio nelle province vicine: Nampula, Niassa e Zambezia, o addirittura in Tanzania. In molte città delle province confinanti è scattata una gara di solidarietà nei confronti degli sfollati. Molte famiglie hanno ospitato nelle proprie case i rifugiati, offrendo loro aiuto materiale e sostegno umano. Chi è fuggito, secondo le testimonianze dei militari, non solo ha perso tutto, ma è spaventato.

La Chiesa cattolica si è mobilitata in molte zone per portare aiuti: vestiti, cibo, acqua, medicinali. Padre Fonseca Kwiriwi, religioso passionista, responsabile della comunicazione della diocesi di Pemba, capoluogo della regione, spiega, allagenzia Fides, l’azione solidale dei cristiani: «La Chiesa è sempre stata presente, fin dall’inizio della guerra, fornendo aiuti di ogni genere per contenere la crisi umanitaria. Abbiamo provveduto a cibo, sostenuto costruzioni di case e abbiamo istituito un centro di ascolto psicosociale permanente. In ogni caso, noi siamo in mezzo alla gente e collaboriamo con varie organizzazioni internazionali umanitarie per il sostentamento della popolazione e il raggiungimento della pace».

La tragica situazione è messa in risalto da una nota dei leader religiosi della provincia di Cabo Delgado, nel Mozambico settentrionale, resa nota il 5 gennaio scorso. «La nostra provincia attraversa una profonda crisi umanitaria causata dalla violenza terroristica, mentre si assiste alla regressione degli indicatori di sviluppo integrale, e aggravata anche dalle conseguenze delle misure restrittive di prevenzione contro la pandemia», hanno dichiarato.

Nampula, campo di sfollati. Pesa dei bambini per determinare lo stato di nutrizione. Foto Luca S. Pistone.

La reazione militare

I miliziani islamisti, in origine male organizzati e male armati, sono riusciti progressivamente ad acquisire mezzi e armi moderne. Le azioni sono diventate sempre più ardite. Come quando sono riusciti a occupare Pemba e Mocimboa da Praia cacciando le forze armate e la polizia.

Il loro integralismo inizia anche a fare presa su una società che ha sempre professato un islam sufi, dialogante, aperto al confronto con altre fedi e altre culture. «Shabab ha iniziato a indottrinare anche donne e perfino minori – continua Emilia Columbo – che hanno creato una rete di informatori diventata una sorta di struttura di intelligence per i ribelli. Lo Stato islamico ha approvato l’affiliazione della formazione. Non ci sono però evidenze che, oltre agli appelli propagandistici, abbia fornito un aiuto materiale ai miliziani».

Maputo ha inizialmente sottovalutato questo fenomeno, derubricandolo come criminalità comune. Ha inviato, quindi, giovani di leva delle province meridionali. Ragazzi poco addestrati che si sono trovati in un ambiente a loro estraneo culturalmente e linguisticamente e, soprattutto, a loro ostile. I miliziani di Shabab hanno avuto gioco facile con loro e i reparti dell’esercito di Maputo sono stati sopraffatti.

«Il governo – continua l’analista -, considerava questo movimento trascurabile. Operava in un luogo remoto, lontano dalla capitale e riguardava piccole città e popolazioni poverissime. Ma si sbagliava». La forza sempre maggiore dei miliziani lo ha convinto a inviare rinforzi militari al Nord. L’intervento dei mercenari russi (Gruppo Wagner) e sudafricani a fianco delle truppe mozambicane non è però servito a molto. Hanno fornito supporto aereo con gli elicotteri senza però offrire un contributo effettivo sul territorio.

Donne in un campo di sfollati a Cabo delgado. Foto Luca S. Pistone.

Arrivano i Ruandesi

La svolta si è registrata con l’arrivo di un contingente ruandese. Bene addestrati, abituati da anni a far fronte a varie guerriglie (soprattutto ai confini con la Rd Congo), i soldati di Kigali sono riusciti a contenere le azioni dei miliziani jihadisti. «Le cose sono cambiate con l’arrivo di militari ruandesi – conferma Emilia Columbo -. Hanno fornito un supporto nella formazione dei mozambicani e hanno combattuto sul terreno. Insieme alle truppe della Sadc, l’organizzazione degli Stati dell’Africa australe, sono riusciti a cacciare i ribelli dalla costa e dalle principali città. I miliziani jihadisti si sono dispersi, ma non sono stati sconfitti».

Le multinazionali petrolifere sono tornate nella provincia settentrionale dopo la sospensione delle attività. Secondo quanto riporta l’agenzia Ansa, TotalEnergies ha anche aperto un ufficio informazioni che ha lo scopo di facilitare la comunicazione tra le diverse compagnie interessate al progetto di esplorazione del gas naturale liquefatto (Gnl) nel bacino di Rovuma.

Cabo Delgado. Distribuzione di cibio a bimbi sfollati. Foto Luca S. Pistone.

La guerra continua

La guerra però prosegue. È un conflitto a bassa intensità, meno diffuso sul territorio, ma comunque cruento. Il comando militare ruandese ha confermato che i ribelli caduti non sono stati più di un centinaio, e pochi sono stati anche quelli catturati. Ciò significa che gli insorti sono ancora in gran parte operativi, nascosti in alcune aree protette dalla boscaglia all’interno di Cabo Delgado. «In generale la situazione a Cabo Delgado e nelle aree liberate si mostra tranquilla – conclude padre Fonseca Kwiriwi -. Purtroppo, però, gli attacchi non sono finiti, continuano in particolare nei villaggi più piccoli, nelle aree con poca popolazione.
I villaggi più piccoli sono vittime di ripetuti agguati e la gente vive ancora nel terrore. Ho visitato di recente alcune delle aree occupate dai terroristi, come Mocimboa da Praia e alcune aree nella zona di Mbaú. Si tratta di zone che erano sotto il totale controllo dei terroristi. Questi due territori in particolare sono ancora considerati di difficile accesso e solo i militari possono entrarci. Lì è ancora impossibile tornare a vivere».

Enrico Casale

Archivio MC
Mozambico. Jihad in Africa: nuovo fronte, Enrico Casale, agosto-settembre 2020.

Cabo Delgado. Profughi accampati in un palazzetto dello sport. Foto Luca S. Pistone.




Libano, rifugiati e con pochi diritti /2


Tra i profughi palestinesi e siriani in alcuni dei molti campi presenti in un paese attraversato da una profonda crisi sociale ed economica che pesa anche sulla vita dei rifugiati.

Accompagnato da personale della Wpa (Women’s program association), da Beirut scendo verso Tyre (l’antica Tiro dei Fenici). Qui ci sono tre campi profughi: Rashidiye, Burj Shamali e El Buss.

Come per tutti i campi, l’accesso a Rashdiye è permesso solo attraversando un checkpoint presidiato da militari armati e dotati di mezzi blindati. Il campo è circondato da muri di recinzione sormontati da filo spinato. Per problemi di sicurezza posso visitare solo la sede della Wpa. Alcune donne siriane mi raccontano della loro fuga dalla guerra e delle enormi difficoltà che ancora oggi affrontano a causa delle discriminazioni che il governo libanese attua nei loro confronti. Diritti negati soprattutto per le cure mediche dei loro bambini a volte affetti da patologie che richiederebbero anche un ricovero ospedaliero. Durante la riunione, sentiamo diversi colpi di arma da fuoco esplosi a poca distanza. I responsabili di Wpa mi chiedono di abbandonare rapidamente il campo.

Campo di Burj Shamali

Ci muoviamo alla volta del campo di Burj Shamali. Qui, come da prassi comune ovunque, ogni rifugiato riceve 17 dollari al mese dall’Unrwa, del tutto insufficienti per la sussistenza e per garantire ai bambini l’istruzione e il diritto di frequentare la scuola. Manal mi invita a visitare la sua casa dove vive con i suoi quattro figli dopo essere fuggita senza il marito, catturato e probabilmente ucciso dai militari in Siria. La donna era un’insegnante e oggi vive una vita di stenti, priva di riconoscimento dello status di rifugiata e alle prese con una malattia del sangue di suo figlio minore di nome Mostafah. Incontro decine di famiglie. Quasi tutte prive della figura paterna. Ognuna di esse porta con sé la testimonianza di una vita distrutta dalla guerra e di un dolore passato che si lega alle difficoltà presenti.

Campo di El Buss

El Buss è uno dei campi più grandi del Libano. Al centro educativo del Wpa siamo accolti dalle donne e dai bambini che seguono le attività formative pomeridiane. I bambini sono attratti dalla mia macchina fotografica e così improvviso un corso di fotografia accelerato. Mentre i piccoli prendono confidenza con la mia reflex, una bambina attira la mia attenzione per la sua spontaneità e per il fatto per porta un rosario attorno al collo. Il suo nome è Asia, ha undici anni ed è l’unica che ho visto manifestare apertamente la sua fede cristiana (foto qui a destra).

Frequentare le attività post scolastiche ha un costo mensile di 10mila lire libanesi (circa 7 €) per bambino, ma la maggior parte delle famiglie non riesce a sostenere questa spesa.

Nel campo di El Buss incontro una coppia di anziani palestinesi che mi invita nella propria abitazione. I due sono in compagnia di figli e nipoti, e mi raccontano la storia drammatica del loro arrivo in questo campo. La donna (nella foto qui a destra) è arrivata nel 1948, aveva dodici anni ed era fuggita a piedi nudi, da sola, per raggiungere il Libano. Nel campo ha incontrato quello che sarebbe diventato suo marito, anch’egli arrivato a El Buss in condizioni disperate.

Campo di Wavel

Situato nella regione orientale del Libano al confine con la Siria, il campo profughi di Wavel era originariamente un sito dell’esercito francese nella valle della Beqaa. Ha fornito rifugio ai palestinesi nel 1948 e l’Unrwa ne ha assunto la responsabilità nel 1952. Grazie alla lontananza da Beirut, i controlli da parte dell’esercito libanese per l’accesso sono meno severi che altrove.

Qui l’istruzione viene fornita a circa mille studenti della Secondary School e sono presenti due asili entrambi gestiti da organizzazioni non governative locali. A causa della posizione remota del campo, l’accesso ai servizi sanitari è difficile e costoso.

Per la vicinanza alla Siria, ci sono migliaia di profughi siriani e palestinesi-siriani. Questi ultimi sono palestinesi che erano rifugiati in Siria e che oggi si trovano a essere nuovamente rifugiati in Libano. Molti di loro mi raccontano che nell’area intorno a Wavel ci sono decine di campi non ufficiali e fuori dalla giurisdizione libanese e dagli aiuti ufficiali di Unrwa.

Una delle famiglie accetta di farmi visitare la propria casa. Il filo conduttore dei loro racconti è sempre la guerra in Siria. Fuggiti dalla guerra, i due genitori con i quattro figli si sono rifugiati in Libano. La casa ha due stanze molto piccole. Durante l’inverno sono costretti ad installare un sistema molto precario di riscaldamento a carbone che scarica all’interno delle due stanze gran parte dei fumi della combustione. La donna non ha un lavoro stabile e l’unico sostentamento per i suoi figli è quello che arriva da Unrwa, appena sufficiente per sfamarli, ma non per la scuola. Il loro desiderio più grande, come per tutti gli altri rifugiati che ho incontrato, è quello di raggiungere un qualsiasi paese europeo. Con ogni mezzo.

Quale futuro

Il giovane scrittore siriano palestinese Bassam Jamil, incontrato nel campo di Wavel, mi spiega che i rifugiati sono convinti di essere tenuti in ostaggio in modalità indefinita senza una seria e concreta intenzione di risolvere la loro situazione. Una condizione di immobilità priva di ogni diritto umano. Ciò che più manca loro è di avere un’opportunità per dimostrare di poter emergere, di essere in grado di costruire il proprio futuro attraverso un lavoro riconquistando la loro dignità. Non hanno bisogno di sussidi. Hanno bisogno di opportunità.

Dan Romeo

Prima puntata: Libano, nei campi dei rifugiati palestinesi, MC 03/2022

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(Libano 2 – fine)

 




A Medyka e Shehyni alla frontiera Sud Est tra Polonia e Ucraina


Aggiornamento al 2 aprile 2022 |

Per aiutare: fare versamento tramite Fondazione missioni Consolata Onlus, specificando “Aiuto profughi Ucraina”


Carissimi tutti,
con questo 4 aggiornamento oltre a ringraziare tutti voi per la continua solidarietà concreta che state dimostrando in questa situazione, desidero condividere l’esperienza che ho fatto questa settimana recandomi in Ucraina.

Il viaggio è nato da una proposta arrivata da don Leszez Kryza direttore nazionale dell’Ufficio di aiuto alla chiesa in oriente, struttura appartente alla Conferenza episcopale polacca.

Dopo aver riempito completamente la macchina di beni di prima necessità, quali cibo e medicinali, siamo partiti all’alba di giovedì 31 marzo, in direzione della frontiera di Medyka a sud est della Polonia. Con noi si è unita Clara la volontaria infermiera che da settiane è con noi. Dopo cinque ore di viaggio in un clima che si è fatto improvvisamente invernale alternando la pioggia alla neve, arriviamo presso la frontiera.

Non sono tanti i mezzi che passano il confine dalla Polonia all’Ucraina; tuttavia, i tempi di controllo dei documenti sono lunghi, dovuto sia al controllo dei documenti sia al controllo della merce trasportata, entrando in un paese in guerra i soldati vogliono essere certi di cosa si trasporta.

La frontiera polacca la passiamo senza difficoltà, invece dalla parte ucraina siamo fermati a lungo, per la mancanza di un documento della nostra macchina che abbiamo solo in versione on line e non stampata. Dopo piu di tre ore di attesa, siamo costretti a rientrare in Polonia a motivo della mancanza di questo documento. Cambiamo il nostro piano. Decidiamo di lasciare gli aiuti trasportati presso la sala di una parrocchia dei francescani vicino alla frontiera, per essere già nei prossimi giorni di nuovo spedita oltre il confine con un altro trasporto.

Questo cambio di situazione ci porta alla decisione di entrare in Ucraina a piedi. Il controllo dei documenti dalla Polonia all’Ucraina avviene in modo sbrigativo anche se non siamo soli, alcuni rifugiati, non molti, ritornano. Ci spiegano che sono coloro che abitano vicino a questo confine in una zona meno bombardata di altre. Hanno i mariti che li aspettano nelle loro case e inoltre trovare lavoro in Polonia non è facile… Aiutiamo una giovane donna a portare due borse della spesa pesanti. È tutto quello che ha con sé. La soldatessa ucraina mi chiede cosa andiamo a fare in Ucraina. Le spiego il problema che abbiamo avuto poco prima con la macchina aggiungendo che vorremmo organizzare il passaggio dei beni. Fissandomi seriamente negli occhi per un momento fa poi un mezzo sorriso e ringrazia per quello che stiamo facendo. Sono parole che mi colpiscono perché dette da un soldato non sono per niente scontate.

Entrando in Ucraina notiamo dalla parte opposta una coda molto piu lunga di rifugiati che attendono di entrare in Polonia. Nella vicinanza delle frontiera da entrambi i paesi ci sono tante organizzazioni umanitarie, sono volontari provenienti da tutto il mondo: americani, spagnoli, portoghesi, ebrei, sono tutti giovani sorridenti che trasmettono un calore umano fatto di sorrisi di mille piccole attenzioni verso i profughi. Alcuni sono vestiti da clown come al circo per strappare un sorriso ai bambini che scappano dalla guerra. Altri si prestano con carrelli della spesa ad aiutare a portare i pochi bagagli dei profughi. Altri ancora offrono bevande calde, pasti, cioccolata… siccome la giornata è fredda e umida vengono distribuite delle mantelline per la pioggia che anche noi beneficiamo e si organizzano dei ripari dalla pioggie mista a neve che cade ininterrottamente, usando delle serre per fiori che qualcuno ha offerto. Ci sono anche delle stufe a gas come quelle che si trovano nei ristoranti all’aperto che riscaldano nelle immediate vicinanze.

Incontriamo un gruppo di volontari polacchi che hanno allestito un campo a fianco della frontiera, in Ucraina. Conosciamo Magdalena che fin dall’inizio è qui presente. Ci racconta che la situazione in questi giorni è meno pesante rispetto all’inizio; tuttavia, non c’è sicurezza e da un momento all’altro potrebbe di nuovo tutto precipitare a seconda degli sviluppi della guerra nel paese.

Solo da questa frontiera sono passate circa 700.000 persone (circa la capienza di 10 grandi stadi di calcio) su un totale di 2.700.000 che hanno varcato il confine con la Polonia.

I primi giorni sono stati i più drammatici. Magdalena ci racconta che i primissimi aiuti sono arrivati tutti da Ovest fermandosi in territorio polacco senza oltrepassare il confine. Ancora oggi lì ci sono decine e decine di tende di volontari. Molto meno se ne trovano ancora oggi dalla parte ucraina, dove ci sono le code piu lunghe di profughi.

Ci sono video che mostrano all’inizio del conflitto, code di oltre 30 km di macchine in attesa di passare il confine. Erano tra i pù fortunati perche stavano al caldo e seduti, al contrario della maggioranza di essi che aspettavvano all’aperto giorno e notte anche per tre e quattro giorni, per passare il confine. Anche se le pratiche burocratiche sono state semplificate l’ondata di profughi da smaltire è stata così grande che non lasciava alternative. Per scaldarsi durante la notte si bruciava tutto quel poco che si trovava compresi i vestiti non utilizzati. Ci sono stati, ci raccontano i volontari, anche casi di parti precoci a seguito dello stress e della stanchezza.

Avendo lasciato la macchina al di là del confine, verso sera ci rimettiamo in coda con i profughi per rientrare in Polonia. Ci colpisce molto la dignita di queste persone. Non sentiamo un lamento o una imprecazione. Ci si guarda solo negli occhi. Le storie che ci raccontano sono terribili e talmente crudeli che si fanno fatica a descrivere. Sono tutte persone che scappano dall’estremo est del paese, Mariopol, Charchowy, Donbas, Kiev…

Le uniche persone accompagnate dai volontari che accorciano le file sono solo alcuni anziani su carrozzine avvolti da coperte. Gruppi di persone poco nominate in questo conflitto, ma che rappresentano un altro lato debole della popolazione. Nessuno si lamenta di questo anche se la stanchezza e il freddo non aiutano. Dopo circa tre ore in fila ritorniamo in Polonia. A differenza dei profughi, abbiamo una macchina ad attenderci e un luogo sicuro dove ritornare. È notte fonda quando ritorniamo a casa presso la nostra comunità dopo quasi 24 ore di viaggio. Siamo stanchissimi, ma anche coscienti che abbiamo visto molto e come testimoni molto possiamo continuare a fare molto insieme a tutti voi. Dopo Pasqua probabilmente ci recheremo ancora in Ucraina questa volta per qualche giorno.

padre Luca Bovio IMC




Con la Consolata in Polonia per L’Ucraina /3


Kieplin, 19/03/2022. Con questo 3° aggiornamento provo a darvi a qualche informazione attuale salutandovi e ringraziandovi per le vostre preghiere e i vostri aiuti. Stiamo tutti bene sempre impegnati a organizzare vari aiuti.

Le ultimi informazioni ufficiali governative indicano che si è superato il numero di di 2.000.000 di profughi accolti in Polonia su una popolazione che sfiora i 40.000.000. La capitale Varsavia, che nel 2019 contava 1.800.000 abitanti, ha già accolto quasi 500.000 profughi. Si è fatto notare come questa, che riguarda la Polonia principalmente ma non solo, sia la piu grande ondata di profughi avvenuta in Europa dalla fine della Seconda guerra mondiale. I numeri sono costantemente in crescita ed è ragionevole pensare che soltanto la fine del conflitto potrebbe mettere un freno a questa migrazione. La fine del conflitto tanto sospirata sembra essere ancora lontana.

Le stazioni dei treni di Varsavia sono allestite in modo da accolgliere le migliaia di persone che ogni giorno arrivano. Volontari di gruppi e associazioni umanitarie così come singoli cittadini, si impegnano giorno e notte fornendo informazionie e aiuti di prima necessità, come cibo, bevande calde e schede telefoniche prepagate. I mezzi di trasporto di tutto il paese sono gratuiti per i profughi. Ogni profugo ha diritto di ricevere il codice fiscale polacco che permette l’accesso al servizio di assistenza sanitario nazionale.

Come già scrivevo in precedenza sono pochissimi i palazzetti e le scuole che ospitano i grandi gruppi per dormire, perche la maggior viene ospitata nelle case di gente comune in tutto il paese.

Vorrei ringraziare due sacerdoti che abbiamo contattato telefonicamente a Lublino, non lontano dai confini con l’Ucraina, e che hanno organizzato in piena emergenza l’accoglienza per una notte di due gruppi di donne e di bambini. Ogni gruppo contava quasi cento persone. Il giorno successivo con dei pullman questi due gruppi sono partiti per Il Portogallo.

Qui a Łomianki continuiamo il lavoro in collaborazione con la parrocchia di Santa Margherita. Il numero dei profughi, circa 1500 nel solo comunenon è aumentato per una semplice ragione: non ci sono piu posti liberi nelle case. Il centro di distribuzione degli aiuti presso la parrocchia continua a lavorare ogni giorno grazie a un centinaio di volontari che fanno i turni. Gli aiuti che mandate sono distribuiti lì. E da lì sono messi a disposizione per le famiglie presenti ma anche spediti in Ucraina. Ricordo che i beneficiari sono prevalentemente mamme con bambini. I generi alimentari piu richiesti sono la farina, marmellate, olio non necessariamente di oliva, i semolini. Con parte delle vostre offerte questa settimana abbiamo acquistato una tonnellata e mezzo di farina, sufficiente per qualche giorno di distribuzione.

Accoglienza profughi dall’Ucraina nella parrocchia di Lomianki

Da pochi giorni si è unita alla nostra comunità una volontaria infermiera di Torino, Clara, che aiuta nello smistamento delle medicine che arrivano. Un lavoro umile e importante.

Stiamo riuscendo con l’aiuto di molti a organizzare l’accoglienza per i profughi in diversi luoghi in Italia.

Pochi giorni fa alcuni volontari di Sovere (Bg) sono venuti con le macchine per portare aiuti e al ritorno hanno viaggisto con ben 14 profughi che sono stati ospitati presso le famiglie del loro comune. Questa mattina l’associazione Eskenosen di Como similmente, dopo essere arrivati con ben 8 furgoni di aiuti sono ritornati con 11 madri e bambini di varie età.

Mi preme sottolineare che il desiderio di tutti i profughi è quello di tornare al più presto nelle loro case in Ucraina. Siccome non si sa ancora quando e in quale forma questo potrà avvenire (dipenderà molto dall’esito finale della guerra), alcuni sono disposti a intraprendere viaggi in paesi piu lontani per assicurarsi nell’immediato, un futuro piu sicuro e per i loro bambini continuare l’istruzione nelle scuole.

Nel caso di una eventuale disponibilità per l’accoglienza potete contattarci scrivendoci dove questa puo avvenire e le condizioni dell’alloggio. Queste sono informazioni basilari che possiamo dare ai profughi che devono fare, come immaginate, un grande atto di fiducia nel prendere queste decisioni.

Oggi e la festa di S. Giuseppe, festa dei papà. Affidiamo alla sua protezione tutti i papà del mondo specialmente quelle rimasti in Ucraina, e alla sua intercessione chiediamo la fine della guerra e una benedizione per tutte le famiglie.

Preghiamo per la pace, costruiamo la pace.

PadreLuca Bovio
Superiore dei missionari della Consolata in Polonia

Accoglienza profughi dall’Ucraina nella parrocchia di Lomianki


Post precedenti

Per l’Ucraina con i Missionari della Consolata in Polonia

In Polonia per Ucraina con la Consolata /2




Per l’Ucraina con i Missionari della Consolata in Polonia


Aggiornamento al 4 marzo 2022 |

Per aiutare: fare versamento tramite Fondazione missioni Consolata Onlus, specificando “Aiuto profughi Ucraina”


Łomianki, 5 marzo 2022, visita del Nunzio apostolico, mons. Salvatore Pennacchio al centro di raccolta che ad oggi ufficialmente segue 1200 rifugiati, tutti ospitati nelle famiglie.

 


Notizie 4 marzo 2022

Carissimi tutti,
condivido qualche aggiornamento sulla situaizone che stiamo vivendo, ringraziando ciascuno (e siete davvero tanti!) per linteresse e gli aiuti che state organizzando.

La situazione in generale, come è ben descritta da tutti i mas media, è quella di un costante e continuo giornaliero aumento di rifugiati specialmente qui in Polonia. Notevole è lo sforzo di accoglienza che si sta organizzando.

Il nostro aiuto, come missionari della Consolata presenti in Polonia (siamo qui da anni attualmente con 6 confratelli provenienti da 5 paesi diversi da tre continenti) come vi ho scritto precedentemnte, si sviluppa in tre direzioni:

  • Accoglienza dei profughi
  • Raccolta di beni
  • Raccolta di offerte

Dove aiutiamo:

Kiełpin – Łomianki (vicino a Varsavia)

La nostra comunità di Kiełpin collabora strettamente con la parrocchia di s. Margherita, sul terreno della quale ci troviamo. Qui il numero di profughi ospitati ad oggi è di oltre 800 persone. Il numero è in costante e regoalre crescita. Questo si spiega per il fatto che siamo a pochi chilometri dalla capitale, Varsavia, dove si trovano le ambasciate di tutti i paesi. Molti profughi, infatti, cercano di raggiungere i propri familiari anche fuori dall’Europa come ad esempio in America e per questo hanno bisogno dei documenti e dei permessi. I rifugiati sono principalmente ucraini, donne e bambini ma con non rare eccezioni. In casa nostra ospitiamo un papà ucraino Pietro con la figlia Anastasia di 9 anni. Sono scappati dalla regione del Donbas in accordo con la moglie inpossibilitata a partire a motivo dell’invalidità della sua mamma che è su una sedia a rotelle. Vorrebbero raggiungere un familiare in America.

I nostri vicini di casa, Raffaele e Giulia da poco sposati, stanno ospitando in casa invece una giovane coppia di nigeriani con un neonato di soli 4 mesi. Essi sono scappati da Kiev dove stavano studiando all’università. Questi sono piccoli esempi di storie ordinarie di questi giorni. La maggiornaza dei profughi qui presenti sono comunque mamme e bambini ucraini.

Białystok

A Białystok gia da mesi stiamo collaborando con la caritas locale con aiuti arrivati dall’Italia a favore dei migranti bloccati sul confine (che ancora ci sono) prima ancora che scoppiasse il conflitto. Di fronte all’emergenza di questi giorni è nostro impegno continuare questa collaborazione. Stiamo preparando una nuova sede piu spaziosa nel centro della città dalla quale potremo in un futuro prossimo organizzare diversi aiuti a seconda delle necessatà ed emergenze. Qui al momento i flussi dei profughi non sono altissimi come in altre regioni della Polonia per un motivo semplicemnete geografico, questa città confina con la Bielorussia con la quale i confini sono rigorosamente chiusi. Tuttavia, già ieri i primi profughi sono arrivati anche a Białystok e se ne prevedono altri.

Ukraina – Konotop

La nostra comunità ha da 5 anni vicino a sé una fondazione di volontariato giovanile missionario col nome: Opera per la missione. In breve, sono i nostri giovani volontari missionari polacchi provenienti da tutta la Polonia con base presso la nostra comunità. Essi tra le tante iniziative, da tempo hanno un contatto sul luogo in Ucraina a Konotop, una cittadina di circa 85.000 abitanti a 250 km. a nord est da Kiev, non lontano dal confine con la Russia. Qui vive un frate francescano p. Romualdo. Prima che iniziasse la guerra, c’era il piano di fare un campo di lavoro lì questa estate, piano che ora inevitabilmente è stato abbandonato. I nostri giovani volontari non si arrendono e sono in contatto in questi giorni con p. Romualdo e insieme stiamo organizzando in quale forma aiutare lì, sul posto, con l’invio di offerte (più probabile) e se riusciremo di beni. Purtroppo, quella zona e fortemente militarizzata e occupata.

Luca Bovio


Notizie 3 marzo 2022

Lavoriamo in collaborazione con la parrocchia di Santa Margherita in Łomianki vicino a Varsavia, sul terreno della quale la nostra comunità di Kiełpin si trova, e con la Caritas. Di fronte alle richieste della situazione, abbiamo creato tre aree di aiuto:

1. Accoglienza dei profughi.

Sono già partite delle macchine dalla parrocchia dirette al confine con lo scopo di portare qui i primi profughi. dalle informazioni che abbiamo si tratterebbero di madri con bambini. Stiamo organizzando l’accoglienza presso le famiglie che si dichiarano pronte per questo. Anche la nostra comunità si è resa disponibile.

2. Raccolta di generi di aiuto.

I beneficiari dei generi raccolti sono sia le persone qui ospitate nelle nostre case,  sia le persone rimaste nel paese. Iniziamo a raccogliere cibo che non si deteriori, indumenti in buono stato (anche per bambini), prodotti per la pulizia della casa, medicinali, ecc…

3. Offerte in denaro

I soldi raccolti serviranno a coprire i costi per i servizi resi alle persone qui sul luogo e in Ucraina come ad. esempio, pagamenti d’affitto di casa se ce ne fosse bisogno, aiuto dato a famiglie che ospitano ma che non hanno le possibilità economiche, cure mediche, ecc.

 

Le immagini sono del centro di raccolta e di distribuzione presso la parrocchia e la nostra comunita di Kielpin. Ad oggi (2 marzo 2022) sono gia ospitate piu di 600 rifugiati nel nostro comune di che conta circa 20.000 abitanti.

Queste sono le prime informazioni che posso darvi in una situazione che, come potete immaginare, è in continuo divenire.

notizie ricevute tramite padre Luca Bovio
superiore del gruppo dei missionari della Consolata in Polonia


Per aiutare: fare versamento tramite Fondazione missioni Consolata Onlus, specificando “Aiuto profughi Ucraina”

 

 




Viaggiare e rinascere

Viaggiare e rinascere

Questo mese affrontiamo il tema del viaggio attraverso tre libri molto diversi tra loro. Partendo dall’isola di Manus, a Nord della Papua Nuova Guinea, vero inferno dei migranti, passando dal Kenya, visto dagli occhi innamorati di un missionario, oggi vescovo di Asti, arriviamo alle nostre città che inquinano di luce il cielo della notte.

Nessun amico se non le montagne

L’isola di Manus è la quinta per grandezza della Papua Nuova Guinea. Gli australiani, com’è noto, in tema di accoglienza di profughi e immigrati, usano politiche al limite della barbarie, e hanno stretto un accordo con il governo papuano per fare di Manus un campo di detenzione.

Da quella prigione si esce solo se si accetta di tornare nel paese d’origine, diversamente si rimane lì. A tempo indeterminato, senza diritti, tutele, possibilità di riprendersi in mano la propria vita.

Le condizioni di detenzione sono disumane. Lo hanno certificato decine di indagini indipendenti, e il governo australiano fatica a mettere la polvere sotto il tappeto.

Il poeta curdo iraniano Behrouz Boochani ha passato a Manus cinque anni, finché la pressione internazionale gli ha fatto ottenere un visto temporaneo per la Nuova Zelanda.

Usando un vecchio telefonino e una singhiozzante copertura internet, Boochani, che oggi ha 37 anni, sms dopo sms, messaggio Whatsapp dopo messaggio, che inviava ad amici e colleghi, ha scritto un memoriale. Ha raccontato la sua vita nell’isola, la quotidianità del campo di detenzione, le storie dei compagni di viaggio e di prigionia.

La summa di tutto ciò è un libro che Add Editore ha pubblicato nel 2019 e che si intitola Nessun amico se non le montagne.

Quattrocentotrenta pagine molto dense, toste da leggere. E lo sono per due motivi: in primo luogo, Boochani è innanzitutto un poeta, e il suo sguardo, anche dal profondo degli inferi, rimane visionario, capace di crudezza e levità nello stesso verso. In secondo luogo, i versi di Nessun amico se non le montagne sono un lungo messaggio digitato dal telefonino: non c’è manoscritto, carta, penna, computer, stampante. Solo le sue dita su una piccola tastiera da tenere lontana dagli occhi delle guardie.

Un paradiso terrestre coperto di giungla e contornato da spiagge bellissime, può essere un inferno, e nessuno lo sa.

Dove Dio ha nome di donna

Avviciniamoci un po’, e arriviamo in Africa, nel Kenya di un sacerdote fidei donum torinese oggi vescovo di Asti, una diocesi con radici nel IV secolo d.C.

Monsignor Marco Prastaro è nato a Pisa nel 1968, ma è torinese d’adozione. È stato ordinato sacerdote nel 1988 dal cardinale Ballestrero, e inviato in Kenya, nella parrocchia di Lodokejek, dal card. Saldarini.

Ha lavorato nella diocesi di Maralal, 350 chilometri e 5 ore di fuoristrada a Nord di Nairobi. Un’esperienza africana che si è conclusa dieci anni fa, ma che ancora oggi porta i suoi frutti. Uno di questi è Dove Dio ha nome di donna, edito dall’Editrice missionaria italiana.

«Alcune esperienze […] segnano in modo permanente la vita – scrive mons. Prastaro -. La plasmano, la cambiano, a volte […] la trasformano completamente. Alla fine ci si ritrova un’altra persona. Questa è la resurrezione, che è sempre ingresso in una vita nuova».

A metà strada tra il diario e il recupero della memoria recente, il libro del vescovo di Asti ha un gran merito: è limpido, senza retorica, senza alchimie. È lo specchio di ciò che è la vita missionaria: un incontro tra culture lontane, che hanno bisogno di tempo per comprendersi, entrare in sintonia e dare frutto.

«Nel dicembre del 1997, per la prima volta pensai alla missione. Era appena rientrato per motivi di salute uno dei due preti della nostra missione diocesana di Lodokejek e, pensando a don Adolfo, rimasto lì da solo, mi dissi: “Qualcuno deve pur andare ad aiutarlo […]. Magari potrei andarci io”.

A volte le scelte sono più semplici di quanto uno possa immaginare. E così don Marco si ritrova tra i Samburu a condividere con loro una quotidianità molto complessa: il flagello della siccità che porta al limite la resistenza fisica e mentale, la diffusione dell’Aids, le centinaia di gravidanze indesiderate di donne bambine, il filo troppo sottile che separa la vita e la morte, il senso d’impotenza e rabbia di fronte a un bambino che muore di malaria perché non sei arrivato con quelle due pastiglie che gli avrebbero salvato la vita. E poi quella rassegnazione delle popolazioni locali, che impari a comprendere solo con il tempo.

Nel libro di Prastaro non ci sono risposte, ma il percorso di un uomo bianco che nel cuore dell’Africa cambia e rinasce.

Cieli neri

L’ultimo tratto del viaggio è a casa nostra, o quasi, e ha un altro orizzonte: il cielo.

Irene Borgna, giovane antropologa e guida montana con la passione per la scrittura, ha pubblicato da pochissimo Cieli neri. Come l’inquinamento luminoso ci sta rubando la notte, per Ponte alle grazie.

Savonese, trasferitasi in Valle Gesso, in provincia di Cuneo, con questo libro pone l’accento su un aspetto della nostra vita contemporanea, apparentemente marginale, ma legato al tema serio del cambiamento che la Terra sta subendo: se alziamo gli occhi al cielo non vediamo più le stelle.

A metà strada tra la lettura romantica della notte e l’analisi scientifica di un fenomeno naturale che scompare, Irene Borgna, a bordo di un camper, va a caccia delle aree del Nord Europa nelle quali, di notte, si può ancora essere travolti dal cielo stellato.

«La pianura Padana – scrive Irene – è tra le aree più abbagliate e abbaglianti dell’intero pianeta. […] Nessun italiano può dire di godere di una notte intatta […] otto italiani su dieci non riescono a scorgere la Via Lattea da casa propria».

La luce e il buio dettano i ritmi della vita, alterarli è una pessima idea. Esistono iniziative che cercano di portare il tema all’attenzione del grande pubblico. Irene Borgna invita il suo lettore: «Passa all’azione. Controlla che le luci di casa siano ineccepibili. Se quelle dei tuoi paraggi non ti convincono, consulta la documentazione e la normativa regionale […] sul sito cielobuio.org […], poi chiedi un consiglio su come iniziare a riconquistare la notte».

Il cielo più buio, e quindi luminoso, d’Europa, Irene lo trova. Per scoprire dove, vale la pena leggere il suo libro.

Sante Altizio




Niger: Sulle tracce di Boko Haram

testo e foto di Luca Salvatore Pistone |


L’estremo Est del paese, vicino al lago Ciad, vive da anni un’emergenza umanitaria. Qui i jihadisti di Boko Haram fanno incursioni dalla vicina Nigeria. Molti villaggi sono stati distrutti e la gente vive nei campi di sfollati.

Mussa si asciuga il sudore con uno straccio. «Mia cugina Jamilah è uscita di notte dalla tenda e non è più tornata. Sono passati tre giorni, è finita nelle mani dei Bons hommes». Al suono delle parole Bons hommes, la platea di bambini che si è radunata alle nostre spalle comincia a urlare a squarciagola una canzone il cui ritornello fa: «Bons hommes non osate venire qui, i piccoli di Assaga Niger e Assaga Nigeria vi prenderanno a pugni». C’è chi la canta in lingua haussa, chi in kanourì e chi in peul.

«Bravi uomini»: è così che i bambini del campo per profughi e sfollati di Assaga chiamano i membri di Boko Haram (locuzione haussa il cui significato è «l’istruzione occidentale è proibita», cfr. MC ottobre 2016), il gruppo terroristico nigeriano che si fa chiamare anche Stato islamico dell’Africa Occidentale, confermando l’affiliazione ai ben più potenti e mediatizzati cugini dello Stato islamico.

Per fare esorcizzare loro il mostro, le Ong attive nel campo li hanno muniti di fogli e pennarelli sui quali sono ritratti omoni grandi e grossi con fucili e machete, donne kamikaze con lunghe vesti che coprono l’esplosivo, taniche di benzina per dare fuoco a chiese, scuole e mercati e una marea di cadaveri.

Terra di confine

Il campo profughi di Assaga si trova a una ventina di chilometri da Diffa, una poverissima città del Sud Est del Niger, al confine con la Nigeria. Ho scelto Diffa come base per muovermi nella regione martoriata dai Bons hommes. È il terzo giorno consecutivo che vengo al campo, che tra sfollati nigerini e profughi nigeriani ospita un numero imprecisato di persone. Sicuramente diverse migliaia.

La tendopoli prende il suo nome da un piccolo villaggio di frontiera raso al suolo dai jihadisti. Si estende per quasi un chilometro ai lati dello stradone asfaltato che conduce all’aeroporto di Diffa. Da una parte c’è Assaga Niger, terra di sfollati nigerini, e dell’altra Assaga Nigeria, dei profughi nigeriani. Una divisione ormai interiorizzata dai locali. Così, quando qualcuno attraversa la strada, magari per acquistare del latte in polvere in una delle bancarelle sorte come funghi, esclama: «Vado all’altra Assaga, torno presto».

Abbandonando il loro villaggio natale, le vittime di Boko Haram speravano di trovare nel campo di Assaga un posto sicuro dove sopravvivere. Ma la realtà è un’altra: l’accampamento viene preso di mira dai miliziani, perché a difesa diretta della struttura non c’è nessuno. Le infiltrazioni, al fine di reclutare nuove forze, sono prassi comune. Spesso all’appello manca qualcuno o perché misteriosamente ucciso o perché rapito. Nel secondo caso le vittime sono soprattutto donne. Mancano servizi igienici e corrente elettrica, e così, di notte, per fare i propri bisogni, occorre allontanarsi ed esporsi a pericoli. Proprio come accaduto a Jamilah, la cugina di Mussa.

«Se non l’hanno sgozzata – è certo Mussa – l’hanno fatta loro schiava». Sul versante nigeriano di Assaga, Mussa ha visto la morte in faccia. «Ci avevano radunati tutti davanti al pozzo. Ci accusavano di essere dei traditori, di avere denunciato la loro presenza alle autorità. Ma non era vero. Hanno imbracciato i fucili e hanno iniziato a spararci contro, all’altezza della testa. Quel giorno sono morte almeno venti persone. Quei Bons hommes erano ragazzi dai quattordici ai vent’anni». Mussa è riuscito a scappare riportando però una profonda ferita sul fianco, frutto di un rapido incontro con la lama del machete di un jihadista.

Nigeriano o terrorista?

Una giovane donna si fa avanti. Si chiama Atikah, è anche lei nigeriana e vuole parlare. «La prima volta che vennero a casa nostra mi chiesero perché mio marito non fosse in moschea. Io risposi loro che non lo sapevo e se ne andarono via. Vennero una seconda volta. Risposi la stessa cosa. Alla terza risero, con un’espressione crudele in volto. Mi presero di forza e mi condussero in moschea. Lì mi fecero trovare mio marito, morto, con la gola tagliata».

Il terrore che la gente prova per Boko Haram si sta mutando in fobia. I rifugiati nigeriani, specialmente i più giovani, sono sospettati di essere terroristi perché provengono dalla loro stessa terra. Zainab, vent’anni, teme di essere diventata vedova: «Mio marito andava al mercato di Diffa per acquistare della frutta da rivendere qui al campo. Alcuni venditori ambulanti avevano iniziato a stuzzicarlo, a dirgli che, in quanto nigeriano, era certamente un terrorista. Poi due settimane fa uno di loro ha chiamato un poliziotto e questo lo ha arrestato e portato via. Da quel giorno non ho più sue notizie».

Diffa ha un solo alleato che tutti chiamano rivière Komadugu Yobé, un fiumiciattolo che nasce dal lago Ciad, si dirama fra piccoli arbusti e sabbia e aumenta sensibilmente la propria portata nella stagione delle piogge. Per circa 150 chilometri costituisce la frontiera fra Nigeria e Niger. Quando cominciano le piogge e il Komadugu Yobé sale, gli attacchi di Boko Haram diminuiscono.

Ma in queste settimane, di pioggia non se ne parla, e i jihadisti sono sempre in agguato, pronti ad attraversare il Komadugu Yobé a piedi e a lanciare rappresaglie di ogni sorta. L’intera regione è tenuta d’occhio dalle spie di Boko Haram che, oltre che per l’efficienza del proprio sistema d’intelligence, spicca per una notevole capacità persuasiva, basata sulla repressione di chi osa tradire la setta.

Lo stato ci prova

L’esercito nigerino di stanza a Diffa è costituito in maggioranza da giovani soldati male equipaggiati, spediti al fronte senza un buon addestramento. La paga mensile di un soldato non arriva ai 100 euro. Poco se si pensa che Boko Haram promette uno stipendio cinque volte maggiore.

Prima dell’arrivo di Boko Haram, il motore dell’economia regionale erano le coltivazioni di pepe. Poi sono cominciati a spuntare fucili e munizioni nascosti nel retro dei camion carichi della spezia, difficili da controllare senza metal detector di cui gli apparati di sicurezza nigerini sono sprovvisti.

Boko Haram riscuote delle tangenti sul passaggio di coloro che transitano nei territori da esso controllati. Per questo il governo di Niamey ha dichiarato a Diffa lo stato d’emergenza, con il divieto di alcune coltivazioni che avvantaggiano Boko Haram (il pepe) o che, impiegando piante a stelo alto, consentono ai terroristi di nascondersi (il mais). Altra misura preventiva è il divieto assoluto dell’utilizzo di motocicli, mezzi prediletti di Boko Haram per gli attacchi rapidi e kamikaze, oltre che diffusissimi a Diffa. Un provvedimento che ha messo definitivamente in ginocchio la già misera economia locale dal momento che quello del mototassista è uno dei lavori più diffusi.

Gocce di cristianesimo

È domenica e mi dirigo alla chiesa evangelica della «Vita abbondante». Insieme a quella cattolica è una delle due uniche comunità cristiane di Diffa: in tutto un centinaio di credenti. A indicarmi Godiya, la cui storia mi è stata raccontata da un suo conoscente, è il guardiano della parrocchia. È bellissima nel suo sfarzoso abito viola. Canta nel coro e in alcuni passaggi fa la prima voce sfoggiando le sue doti canore.

Per poterla avvicinare attendo che la funzione finisca. Trascorrono almeno due ore tra sermoni, musiche e balli che tengono alto il morale dei partecipanti, tutti elegantissimi.

Godiya ha vent’anni, è nigeriana e la sua città natale è Maiduguri, proprio dove nel 2002 nacque Boko Haram. Si è trasferita coi suoi cari a Diffa per fuggire all’assedio jihadista. «La tragedia della mia famiglia avvenne cinque anni fa. Uscii in cortile e vidi mio padre per terra, picchiato da due ragazzi più giovani di me. Cercava di difendersi dai loro pugni e calci. Gli rubarono i soldi e il cellulare. Corsi da mia madre gridando a squarciagola. “Aiuto! Aiuto! Stanno uccidendo papà!”. Mamma si mise a strillare insieme a me, ma quei due ci puntarono contro una pistola. Poi spararono tre colpi a mio padre. Nessuno venne in nostro soccorso». Godiya ha saputo in seguito che quei due giovani erano di Boko Haram. Tuttavia, non ha mai capito se avessero ucciso suo padre in quanto cristiano o perché aveva opposto resistenza durante il furto.

Vittime «collaterali»

È ancora mattino presto quando atterro a Niamey, la capitale. Prendo un taxi e mi faccio lasciare al carcere minorile maschile, in pieno centro. Al suo interno, tra spesse e alte mura di terra battuta, si trovano una cinquantina di ragazzi accusati di far parte di Boko Haram, e da mesi in attesa di giudizio. Il direttore della prigione non vuole correre il rischio di un «contagio» tra i comuni detenuti e così i presunti terroristi, identificati con la sigla Eafga (Bambini associati a forze e gruppi armati), hanno un’ala tutta per loro.

Durante il giorno, complice il caldo asfissiante, i ragazzi se ne stanno tranquilli sdraiati all’ombra. Sporadicamente scatta una rissa, subito soffocata dall’intervento dei secondini. La posta in gioco è troppo alta: chi sgarra non ha diritto all’ora di attività sportiva, ovvero alla partitella di calcio. Quando alle cinque di pomeriggio lo psicologo del penitenziario tira fuori dalla tasca il foglio con la lista dei più meritevoli, nel braccio dei sospetti Boko Haram cala un silenzio di tomba. Tutti si mettono sull’attenti nella speranza di sentire pronunciare il proprio nome.

«A tutti i nostri giovani piace il calcio – dice lo psicologo -. Qui è l’unico sfogo che hanno. Durante la partita abbiamo modo di renderci conto di chi sono i ragazzi con i caratteri più violenti. Una volta individuati, spiego loro che devono cambiare atteggiamento. Non dispongo di prove certe del fatto che ci siano membri di Boko Haram. Sono mesi che attendono il processo e solo Allah sa quando avverrà. La mia opinione? Solo pochi di loro, volenti o nolenti, hanno avuto contatti con i terroristi».

I detenuti selezionati dallo psicologo si mettono in fila indiana per uscire dal recinto in cui mangiano, si lavano e dormono. Appena fuori, un secondino li fa sedere per terra per la conta. A fatica i ragazzi riescono a contenere l’entusiasmo che solo un pallone può dare. E non fa niente che le linee del campo siano fatte con delle pietre e che le porte siano arrugginite e senza reti. Giocare a piedi scalzi non è un problema.

La situazione di questi detenuti, quasi tutti originari di Diffa, è molto delicata. Spesso non sanno neanche perché si trovino qui. La politica della «tolleranza zero» adottata dall’esercito e dalla polizia nigerini si è tramutata in continui arresti arbitrari. «Sono nato e cresciuto in un villaggio vicino a Diffa. I miei genitori sono morti quando ero piccolo, non li ricordo. Facevo l’apprendista saldatore, ma di lavoro non ce n’era, così mi sono messo a vendere biscotti per strada». Hamidou ha quindici anni ed è rinchiuso a Niamey da un paio di mesi. «Una sera al villaggio sono arrivati dei soldati che si sono messi a perquisire tutto e tutti. Indossavo una maglietta di colore verde militare che avevo trovato per strada. Mi hanno picchiato, bendato gli occhi e caricato su un furgone. Dopo alcune ore mi sono ritrovato nella prigione di Diffa. Poi mi hanno portato qua».

Mamadou ha diciassette anni ed è nato nella regione di Borno, nel Nord Est della Nigeria. «Sono stato avvicinato diverse volte dai terroristi, volevano diventassi uno di loro. Un giorno mi dissero che per me avevano in mente una “missione sacra”. Volevano farmi esplodere all’aeroporto di Diffa. Raccontai tutto alla mia famiglia e il giorno dopo scappammo in Niger». In «salvo» a Diffa, però, Mamadou ha commesso un grave errore: rivelare la sua storia ai nuovi vicini di casa. «Hanno spifferato tutto ai poliziotti e quelli mi hanno creduto uno di Boko Haram. Mi hanno arrestato e condotto qui. Nessuno vuole dirmi che fine farò, non ho notizie dei miei genitori. Lo giuro, sono innocente».

Si sta facendo buio e l’orario di visita è terminato. Alcuni ragazzini mi pregano di tornare con notizie fresche su Cristiano Ronaldo e Messi. Rispondo loro che l’indomani dovrò fare ritorno in Italia. Nessuno è sicuro di dove si trovi il nostro paese. «Ma lì si gioca a calcio?», ci chiede uno che indossa la maglia del Milan col numero 8 di Gattuso.

Luca Salvatore Pistone

ARCHIVIOMC
• Marco Bello, Califfato made in Africa, MC 10/2016.
• Marco Bello, Occidente proibito, nell’ambito del dossier Jihad Africana, MC 11/2012.




Rd Congo: Ripartire dalle donne (vittime di violenza)

testo di Luca Salvatore Pistone |


L’Est di uno dei paesi più ricchi d’Africa non trova pace. Nonostante la presenza delle Nazioni unite, decine di milizie imperversano. I civili subiscono ogni sorta di vessazione. Mentre il mondo sta a guardare o, meglio, si gira dall’altra parte.

La guerra nel Nord della Repubblica democratica del Congo (Rdc) è un abominio. Covava da lungo tempo, ma è con il genocidio ruandese del 1994 che, nell’immenso stato dell’Africa centrale, si è scatenata la catastrofe. Vertiginosa diffusione di gruppi armati, negligenza delle autorità, saccheggio di risorse naturali sono solo alcuni degli ingredienti di quello che gli esperti definiscono «conflitto a bassa intensità». Una barbarie, che si protrae da oltre due decenni (di cui MC ha più volte parlato, ndr).

La prima vittima di tanta violenza? La donna. Seni amputati, clitoridi tagliati e ani sventrati sono le firme dei macellai. In Congo il corpo della donna è diventato un campo di battaglia la quale è lecito infliggere dolore, umiliazione, terrore.

Goma

Raggiungiamo Goma, il capoluogo della provincia del Nord Kivu, via terra dal Ruanda. Lasciati i bagagli in albergo, la prima cosa che facciamo è recarci al comando regionale della Monusco (Missione dell’Onu per la stabilizzazione nella Repubblica democratica del Congo). Bisogna muoversi per tempo per trovare posto a bordo di uno dei suoi aerei diretti a Bunia, capoluogo della provincia di Ituri, prima meta del nostro viaggio.

Sbrigata la burocrazia dell’Onu e strappata a un funzionario indiano la promessa che saremo inseriti al più presto nella lista dei passeggeri, ci rechiamo all’appuntamento con Caleb in un bar con terrazza sul lago Kivu. Il tramonto contribuisce a rendere il paesaggio ancora più mozzafiato.

«Finalmente ci conosciamo!». Quarantacinque anni, alto, pochi denti in bocca, Caleb è un simpaticone. Giornalista, ha collaborato con prestigiose testate internazionali. È lui il nostro fixer (la persona che negli scenari di guerra o di crisi, assiste il giornalista che si muove sul campo). «Fidati di me, per capire come le cose vanno in Congo bisogna parlare con le donne».

La casa delle donne

La mattina seguente Caleb passa a prendermi con il suo fuoristrada. In meno di mezz’ora raggiungiamo il villaggio di Bulengo. Continuiamo per un paio di chilometri di strada sterrata e, nascosta da una fittissima vegetazione, troviamo un’enorme villa. Siamo alla Maison des femmes. Ci accolgono una ventina di donne con altrettanti bambini. Terminati i convenevoli, tutte tornano alle loro attività. C’è chi si dedica alla tintura di stoffe per abiti femminili, chi all’intreccio di cestini di plastica riciclata e chi all’allevamento di polli e maiali.

Justine Masika è la presidente di Synergie des femmes pour les victimes des violences sexuelles (Sfvs), una piattaforma nata nel 2002 che raggruppa 35 piccole Ong locali con sede a Goma. «Sfvs gestisce il progetto Maison des femmes. Teniamo dei corsi di formazione professionale e, grazie al microcredito, contribuiamo all’avvio di piccoli esercizi commerciali. Qui le nostre assistite parlano dei traumi che hanno vissuto. Capiscono di non essere sole e che si può andare avanti. Operiamo sulle conseguenze dello stupro, ma ci siamo rese conto che è necessario intervenire alla base di questo male, e cioè lavorare sulle cause che rendono la violenza sessuale un fenomeno così diffuso».

Justine ha un bel da fare. Alla porta del suo ufficio bussano in continuazione le sue collaboratrici per farle firmare pile di scartoffie. «Per porre un freno a questo crimine bisogna combattere l’impunità di cui godono gli stupratori, coinvolgere maggiormente i politici e gli investitori stranieri per mettere fine al saccheggio delle materie prime e, quindi, ai conflitti per il sottosuolo che dilaniano il nostro Congo. Occorre anche capire che gli stupri non distruggono solo il fisico di chi li subisce, ma l’intera società. Le donne, dopo essere state abusate, vengono considerate colpevoli per ciò che è successo loro: vengono ripudiate dai mariti e i figli restano abbandonati a se stessi».

Sfvs si assume le spese per la riparazione chirurgica di fistole retto-vaginali, dei test per l’Hiv e dei trattamenti per malattie sessualmente trasmissibili. Ha istituito venti consultori dove vengono invitate sia le vittime che i loro familiari, allo scopo di far capire a questi ultimi che la «gogna» perpetrata anche da loro non è la via giusta. La sezione per la difesa legale fa pressioni presso le Corti, dinanzi alle quali vengono portati i casi delle donne stuprate, e ha avviato un’intensa campagna per la creazione di tribunali che si occupino esclusivamente di violenze sessuali.

Il dolore

È mezzogiorno. Può avere inizio il douleur (dolore), come Justine chiama l’orario dei colloqui dello psicologo del centro con le vittime di violenza sessuale.

Provengono tutte dalla zona di Masisi, una città del Nord Kivu nota per essere il centro di conflitti che vedono coinvolti almeno 140 piccoli gruppi armati irregolari. «Mettetevi comodi. Vedrete quanto in basso può arrivare l’uomo», ci annuncia Justine.

La prima a entrare è Judithe, di 57 anni. Dieci anni fa dovette assistere all’assassinio del marito e dei due figli, fatti a pezzi col machete. «Il nostro villaggio fu attaccato dai miliziani Mai Mai. Piangevo e quelli mi violentarono uno dopo l’altro, picchiandomi a sangue. La mia comunità mi ripudiò».

È il turno di Mamy, di 35 anni, madre di tre bambini: «Ero andata al pozzo per prendere dell’acqua e ho incontrato degli uomini armati. Mi hanno detto che potevo scegliere tra la vita e lo stupro. Quando vieni stuprata vieni marchiata a vita. Il tuo uomo si sente umiliato e ti caccia via di casa. Per l’intero villaggio sei come morta o una prostituta. Io invece nella disgrazia sono stata fortunata perché mio marito ha capito la situazione e mi ha tenuta con sé».

Therèse ha da poco compiuto 15 anni ed è al settimo mese di gravidanza. Sorride solo quando pensa a Julie, il nome che ha scelto per sua figlia. Per più di un mese è rimasta nelle mani di criminali nella foresta. «Quando mi volevano venivano nella capanna in cui mi avevano rinchiusa. Lo facevano a turno, anche in due, per più volte al giorno. Ero la donna di tutti. Mi costringevano pure a cucinare per loro. Poi un giorno all’improvviso mi bendarono e mi riportarono all’ingresso del mio villaggio».

Chantal ha 19 anni e tra un mese partorirà: «Al mio villaggio non c’è una sola famiglia che non abbia una donna violentata. Io ho tre cugine che sono state abusate. La mia famiglia è in ginocchio, nessuno ci rivolge più la parola».

Secondo le stime delle Nazioni unite, nella regione si verifica uno stupro ogni trenta minuti. Una pratica che non accenna a placarsi.

Ringraziamo la Maison des Femmes e torniamo alla macchina. Regna il silenzio. A infrangerlo, una volta immessi sulla strada asfaltata, è Caleb: «Adesso capisci come siamo messi? In Congo la donna è il campo di battaglia». Mi squilla il cellulare e sul display compare il nome del funzionario della Monusco. È stato di parola: tra un paio di giorni potremo volare su Bunia.

Bunia

Un’enorme distesa bianca e blu. È così che Bunia appare dall’alto. Poi, a mano a mano che l’aereo plana, ci si rende conto di come migliaia di teli di plastica dei colori dell’Onu abbiano inghiottito l’intera città. Sono le tende degli sfollati provenienti da tutto l’Ituri, la martoriata provincia di cui Bunia è capoluogo.

Ituri, un vasto territorio di circa 65mila chilometri quadrati nel Congo Nord orientale, è da lungo tempo teatro di abominevoli scontri tra due etnie, gli Hema e i Lendu. I primi storicamente pastori, i secondi agricoltori. Le rivalità tra i due gruppi risalgono al periodo coloniale, quando i belgi favorirono gli Hema, creando non poche disparità che i governi succedutisi fino ai nostri giorni non hanno voluto e saputo limare.

Le dispute vere, quelle sfociate nel sangue, sono iniziate negli anni Settanta in concomitanza della promulgazione di leggi sulla distribuzione delle terre che avevano avvantaggiato gli Hema. Picchi di violenza si sono registrati nel 1972, 1985, 1996, 2001 e 2003, mentre scontri minori si sono protratti fino al 2007. Negli anni Novanta gli sfollati raggiunsero la cifra record di 400mila. Le varie missioni di stabilizzazione dell’Onu nella Rdc non sono riuscite a fermare i massacri, registrando peraltro un alto numero di morti tra i propri militari. Negli ultimi mesi hanno avuto luogo nuovi scontri con almeno una ventina di morti tra i civili, e le rappresaglie, fomentate da gruppi armati vicini alle due etnie interessati dalle ricchezze del posto, sembrano non avere fine.

Un mare di sfollati

L’Onu ritiene che gli sfollati dovuti a quest’ennesimo incidente, sparsi in campi ufficiali e irregolari soprattutto a Bunia, o rifugiatisi nel vicino Uganda, siano 340mila, circa l’8% dell’intera popolazione della provincia.

Per motivi di sicurezza dobbiamo alloggiare a Bunia, dove ha sede una base della Monusco, gestita dai contingenti marocchino e bengalese. Il responsabile dell’ufficio stampa della missione, un sergente marocchino, ci dà un lasciapassare per raggiungere autonomamente Djugu, la terza città per estensione di Ituri, divenuta uno degli epicentri delle violenze, a patto di tornare a Bunia prima di sera. Un percorso di 70 chilometri su strada sterrata con buche che inghiottirebbero una jeep. Caleb scorre la rubrica di uno dei suoi tre Iphone e contatta Richard, un autista locale. «Tutto ok, domattina alle 4 in punto ci passa a prendere con un pick up».

Richard spacca il minuto. Lasciamo Bunia e a ogni curva rimaniamo a bocca aperta per la bellezza del territorio. Colline verde smeraldo, cascate azzurrissime, fiori mai visti prima. Il viaggio procede liscio e in meno di tre ore siamo alle porte di Djugu.

La città bruciata

Il colore che domina in città è il nero: non c’è un solo edificio o catapecchia che non sia stato incendiato. La cenere è ovunque. Per la loro opera di devastazione sia gli Hema che i Lendu si servono di «serbatoi incendiari», ovvero serbatoi di motociclette lanciati a come molotov contro le case di quelli che ritengono nemici.

Pochissime le persone che incontriamo per strada. Nessuno ha voglia di parlare con noi e così decidiamo di proseguire per un’altra ventina di chilometri fino a Fataki, una piccola località sotto l’amministrazione di Djugu dove è attivo l’unico ospedale del circondario.

Da una stanza provengono urla strazianti di una giovane. Yvonne sta per dare alla luce il suo primogenito. Il dottor Bavi, il giovane direttore dell’Ospedale di Fataki, ci chiede se vogliamo assistere ma decliniamo l’offerta, rimanendo al di qua della tenda che delimita la sala parto. Ephala, la madre della ragazza, è seduta su una sedia in un angolino. Quella che tra pochi minuti diverrà nonna ha appena trent’anni. «Prima è toccato a me, adesso a lei. A sedici anni fui violentata, Yvonne a quattordici. Mia figlia nacque in seguito a quello stupro, come il figlio che ora sta partorendo. Spero sia un maschio, così non potrà essere violentato come noi».

Prendiamo la direzione per Bunia e siamo in hotel prima di sera, come promesso al sergente marocchino.

I campi profughi

Il giorno seguente ci viene assegnata una scorta di caschi blu bengalesi per visitare il Site1 e il Site2, i due campi ufficiali per sfollati di Bunia, uno a poche centinaia di metri dall’altro. Gli chiedo il perché di una simile misura di sicurezza, apparentemente eccessiva, e lui non mi lascia diritto di replica: «Un poliziotto è stato ucciso all’interno del Site1. Tranquillo, avrete massima libertà di movimento».

Il Site1 è il campo più grande della regione. Sorto lungo la recinzione dell’Ospedale Generale di Bunia, ospita circa diecimila sfollati in stragrande maggioranza di etnia Hema. Nel Site2, nato poco dopo su un terreno messo a disposizione dalla Diocesi di Bunia, ce ne sono quasi novemila.

È la Ong congolese Lasi (Ligue anti-sida en Ituri), diretta dal pastore Ignaci Bingi, ad aver ricevuto dal governo provinciale l’incarico di gestire gli aiuti al Site1 elargiti dal Pam (Programma alimentare mondiale) e Oxam (Oxford committee for famine relief). Per distribuire meglio le derrate alimentari, il pastore ha personalmente diviso il campo in dieci blocchi, facendo eleggere dalla comunità un rappresentante per ogni blocco. «Gli sfollati mi riferiscono tutto ciò che non va nel campo in modo che io possa portare le loro rimostranze a chi di dovere. È gente esausta, che ha perso tutto ciò che aveva, incattivita. Una bomba a orologeria insomma».

A occuparsi invece del Site2 sono Caritas Congo e Unicef (Fondo delle Nazioni unite per l’infanzia). Di scuole non ce ne sono e così l’unico spazio aggregativo che i bambini possono frequentare è un piccolo centro costituito da quattro pareti di legno all’interno delle quali alcuni animatori li intrattengono con balli e canti. «Tantissimi dei nostri sfollati sono minori – dice Clementine Pelosi, funzionaria Unicef – e tantissimi sono orfani perché i loro genitori sono stati uccisi durante gli scontri».

I due campi sono un distillato di atrocità. Testimonianze verbali e testimonianze visibili sulla loro pelle. La storia di Grace e Rachel appartiene a queste ultime. Non lascia molto spazio alla fantasia. Due bambine, sorelle, rispettivamente di undici e due anni. Da pochi giorni sono uscite dal reparto di chirurgia dell’Ospedale generale di Bunia, dove erano state condotte due mesi prima in fin di vita.

A raccontarcela è loro zia Charlotte: «I Lendu hanno attaccato Tchee, il nostro villaggio. Hanno violentato davanti agli occhi di Grace e Rachel la loro madre, mia sorella. Sempre davanti ai loro occhi hanno ucciso i loro genitori e i tre fratelli più grandi. I Lendu, non soddisfatti, si sono divertiti coi machete. Hanno tagliato parte del braccio sinistro di Grace e l’hanno ferita alla nuca. Poi sono passati a Rachel. L’hanno squarciata da guancia a guancia e da orecchio a orecchio. Io ho già i miei figli a cui badare, come posso sfamarle? Sapete che nessuno le sposerà in queste condizioni?». Grace è appoggiata alla sua spalla mentre Rachel dorme tranquillamente tra le sue braccia.

Accanto a me un casco blu bengalese. Ha gli occhi lucidi. Infila in tasca a Grace una merendina. Si è fatto buio, dobbiamo andare.

Luca Salvatore Pistone


Dieci anni dal «Rapporto Mapping»

Il genocidio senza storia

Il primo ottobre 2020 ricorrevano i 10 anni dalla pubblicazione del «Rapporto Mapping» dell’Alto commissariato delle Nazioni unite per i diritti umani (Unhchr) sulla Repubblica democratica del Congo.

Per capire meglio di cosa si tratta, occorre fare un passo indietro. Nel 1994, al termine del genocidio in Ruanda, durato 100 giorni senza che la comunità internazionale intervenisse, il Fronte patriottico ruandese (Fpr) di Paul Kagame assunse il controllo del paese (milizia a maggioranza Tutsi anglofona, ndr). Nella speranza di salvarsi dalle violenze dell’Fpr, deciso a vendicarsi del genocidio subito dagli Hutu, circa due milioni di ruandesi di etnia Hutu si rifugiarono nell’allora Zaire di Mobutu. Questi era malato, stanco e ormai abbandonato dagli alleati.

Con il genocidio in Ruanda, l’invasione dello Zaire da parte di quest’ultimo era solo questione di tempo e, con la scusa di inseguire i genocidari hutu, si è concretizzata con la «Prima guerra del Congo» che si è combattuta fra il 1996 e il 1997 e che ha messo fine al regime di Mobutu. Per non destare sospetti durante l’invasione, è stato messo a capo dell’avanzata un cittadino zairese, Laurent-Désiré Kabila che è diventato presidente nel paese nel 1997. Nel 1998 Kabila ha intimato ai ruandesi di ritornare a casa loro e così è iniziata la «Seconda guerra del Congo», detta anche Guerra mondiale africana, che, con milioni di vittime, si è conclusa nel 2003 con un governo di transizione guidato da Joseph Kabila, al potere dal 2001, dopo l’assassinio di Laurent-Désiré Kabila.

In seguito alla scoperta di molte fosse comuni nel 2005, l’Unhchr decise di investigare, e mandò i suoi esperti che indagarono sul decennio 1993-2003 producendo il Rapporto Mapping, uno studio molto dettagliato che sarà pubblicato il 1 ottobre 2010, ma subito messo nel cassetto, in seguito a pressioni di Paul Kagame e dei suoi alleati. Questo rapporto denunciava la morte di 6 milioni di persone e individuava 617 massacri classificabili come crimini di guerra, crimini contro l’umanità e, alcuni, come crimini di genocidio. Tutti crimini imprescrittibili.

Oggi sono in tanti, congolesi e amici del Congo, a chiedere la verità su questo dramma. Nel decimo anniversario del Rapporto Mapping, il dottor Denis Mukwege (cfr. Mc aprile 2018), Premio Nobel per la Pace 2018, ha lanciato, insieme alla società civile congolese ed esponenti della diaspora, una campagna di sensibilizzazione per chiedere alle Nazioni unite l’applicazione delle raccomandazioni di quel rapporto. In particolare, la creazione di un Tribunale penale internazionale ad hoc per giudicare i crimini commessi nella Rd Congo negli ultimi decenni, crimini, lo ricordiamo, che avvengono tuttora nel silenzio, seppure sotto gli occhi della comunità internazionale. Nessuno si illuda però. La strada per arrivare alla verità e alla giustizia è davvero molto lunga e piena di insidie. Ricordiamoci che le responsabilità non si limitano al solo Ruanda ma toccano potenze mondiali ed esponenti della politica congolese. E soprattutto, non dimentichiamoci i troppi interessi economici in ballo.

John Mpaliza*

*Attivista per i diritti umani e per la pace
FB: facebook.com/johnmpaliza/ (ospite di MC giugno 2016)




Moria è bruciata

testo e foto di Alberto Sachero |


Dopo la devastazione del campo profughi nell’isola di Lesbo, cambierà qualcosa per i migranti?

Il campo di Moria sull’isola di Lesbo, il più grande d’Europa arrivato a contenere circa 20mila persone a inizio 2020, è stato per anni un periferico limbo in cui l’Europa ha parcheggiato i migranti, permettendo solo a pochi di completare l’iter di richiesta di asilo politico.

Moria è andato a fuoco il 9 settembre 2020. Gli abitanti del campo hanno perso il poco che avevano e sono fuggiti per non perdere anche la vita.

Sembra che ad appiccare il fuoco siano stati i migranti stessi. Nel campo erano stati individuati 35 casi di Covid-19, e per questo motivo era ogni giorno più blindato, fino alla completa chiusura.

Alcune persone hanno quindi dato fuoco alle tende, per evitare di essere rinchiusi a tempo indeterminato.

Moria bruciata

Arrivato sull’isola di Lesbo mi reco a vedere cosa resta di Moria (foto 1 – di apertura). Dopo cinque giorni dall’incendio, un forte odore di ulivi carbonizzati e plastica bruciata aleggia ancora nell’aria. Ovunque tende bruciate, letti, biciclette, bottiglie di acqua in plastica e ogni tipo di effetto personale. Tutto andato in fumo.

Incontro alcuni abitanti che ancora riempiono sacchi neri con quello che sono riusciti a salvare dalle fiamme. Poco più avanti, due ragazzi afghani sono saliti su un ulivo e stanno cercando di tagliare dei cavi dell’alta tensione per costruire delle corde per trainare le loro «slitte» con a bordo il poco che gli è rimasto.

L’esodo intrappolato

Fuggendo dal rogo, gran parte dei migranti si è diretta in verso Mytilini, il principale centro dell’isola di Lesbo (foto sopra). La strada però è stata bloccata dalla polizia greca che non voleva che arrivassero in città. Sulla strada che collega Mytilini e Moria, con dei bus messi di traverso, sono stati creati due blocchi, distanti circa 1,5 Km tra di loro, in modo da intrappolare le persone nella strada e non farle muovere. Sono stati chiusi i supermercati, ufficialmente per ragioni di sicurezza, in realtà per mettere in difficoltà i migranti e non permettere loro di acquistare cibo e acqua per sopravvivere.

I fuggiasci da Moria si sono costruiti ripari di fortuna, con teli, rami e paglia. Li hanno piazzati sui marciapiedi della strada, nei parcheggi dei supermercati chiusi, nei boschi adiacenti, sopra i tetti, in resti fatiscenti di vecchie costruzioni e sotto tir parcheggiati (foto qui). Tutto ciò con temperature sopra i 30 gradi.

Il governo greco, col benestare dell’Europa, non ha mosso un dito per assisterli, si è limitato a costruire in fretta e furia un altro campo per rinchiuderli il più velocemente possibile e renderli nuovamente invisibili.

Molte Ong sono così arrivate sull’isola e moltissimi giovani volontari indipendenti hanno portato il loro sostegno da tutta Europa. Mancavano solamente le istituzioni. Osteggiati dalla polizia greca, che spesso non li faceva accedere all’area o li faceva attendere ore al di fuori, hanno portato cibo, acqua, vestiti e medicinali a 13mila migranti. Questi, con una calma incredibile, hanno formato code lunghe più di un chilometro aspettando fino a due ore sotto il sole cocente, per assicurarsi un pasto o qualche bottiglia di acqua (foto 3, qui sotto).

Condizioni disumane

Mi dirigo verso la zona a circa due chilometri a Nord della città di Mytilini con Sia, una volontaria greca che deve portare dei farmaci a una donna afghana. La polizia non ci permette di entrare. Dobbiamo fare un lungo giro sulla collina per aggirare gli altri due posti di blocco e finalmente, dopo un’ora di cammino, giungiamo sul posto. L’impatto visivo è molto forte: migliaia di persone sistemate in accampamenti di fortuna, buttate per terra in condizioni disumane; interminabili code per il cibo; uomini, donne, qualche anziano e migliaia di bambini ovunque. Si stima che siano circa 13mila persone di cui 4mila sotto i 18 anni, tantissimi molto piccoli o addirittura neonati (foto 4, qui sotto).

Protezione negata

Inizio a parlare con la gente. Un ragazzo mi dice che circa l’80% di loro proviene dall’Afghanistan, un paese distrutto dalla guerra, dai Talebani, dai Daesh, dall’intervento statunitense, dai continui attentati. Mi dice in perfetto inglese: «Sono scappato, non avevo altra scelta, e ora devo arrivare in Europa, indietro non posso tornare, mi ucciderebbero». Ci sono anche Iraniani, Iracheni, Somali, Yemeniti, tutte persone che fuggono da guerra persecuzione o povertà, che avrebbero il sacrosanto diritto di chiedere protezione e accoglienza.

Una madre, con in braccio due bimbi, mi dice: «Uno è mio, ha dodici giorni. È nato qui, e dopo cinque giorni di vita siamo scappati dal campo in fiamme. L’altro ha cinque mesi, è di una mia amica in ospedale a Mytilini con grossi problemi di salute, l’ho adottato, almeno per il momento, poi si vedrà».

I bambini tengono allegra la drammatica situazione sulla strada, con i loro sorrisi e la loro spensieratezza. Sono purtroppo abituati a vivere in guerra e povertà, ma la loro voglia di ridere e di giocare vince quasi sempre sulla tristezza e dà agli adulti un motivo di speranza per un futuro migliore.

Indietro non si torna

La sera vado in un locale indicatomi da alcuni volontari, in cui ci sono parecchie persone da tutta Europa. Lì mi vengono segnalati altri locali di «destra», in cui i volontari non sono ben accetti. Il governo greco è di destra, e l’isola di Lesbo è piena di fascisti che fanno ronde. Ci sono stati moltissimi episodi di aggressioni a profughi, volontari e anche giornalisti e fotografi. Le bandiere nere sono numerose e ben visibili sulle strade isolane.

Il secondo giorno mi reco da solo nella zona in cui sono bloccate le persone. La polizia mi ferma di nuovo. Rientro in paese, incontro un gruppo di afghani che fanno la spesa e che tornano al loro rifugio. Mascherina, occhiali da sole e borse della spesa mi permettono di superare il posto di blocco. La famiglia afghana che mi ha aiutato a entrare, mi ospita. «Come Alberto, this is our house». Padre, madre e due figli. Mi offrono del cibo, anche se ne hanno poco. Ringrazio e cerco di dire che ne hanno più bisogno loro. Mi meraviglia la loro dignità, presenza e pulizia. Non so come fanno, buttati a terra in quel modo con poco cibo e scarse possibilità di lavarsi. Io che dormo in una camera con bagno privato sono molto meno presentabile.

Il figlio maggiore mi racconta che vivevano in una zona di Kabul. Da una parte i Talebani, dall’altra il Daesh. Non riusciva ad andare a scuola per le continue sparatorie, il padre lavorava saltuariamente. Hanno quindi deciso di partire per l’Europa. In due anni sono arrivati a Lesbo, dopo aver lavorato per pochissimo denaro ed essere stati rinchiusi nei campi turchi. «Non abbiamo scelta, indietro non possiamo tornare».

«No Photo, no photo»

Il terzo giorno, dopo esser nuovamente «rimbalzato» al posto di blocco, riesco ad entrare grazie ai ragazzi, tutti molto giovani e pieni di voglia di fare, di una Ong. Mi consigliano di «infilarmi» tra di loro nel momento in cui la polizia concede alla Ong di entrare nella zona. Così accade, dopo circa due ore, con il capo dei poliziotti che raccomanda ai volontari «No photo, no photo». I governi europei non vogliono che si mostri quel che sta succedendo a 13mila persone bloccate in strada dalla polizia in tenuta antisommossa e tenute in condizioni disumane, senza cibo, riparo, servizi e assistenza. La sopravvivenza di questa gente è stata garantita esclusivamente dal lavoro straordinario svolto dalle Ong e dai volontari, che si sono fatti in quattro per portare viveri, acqua e beni di prima necessità.

Il nuovo campo prigione

Tutto quello che ha fatto l’Europa è stato di dare soldi alla Grecia per costruire un nuovo campo (foto 6, sopra).

I migranti sono poi stati lasciati privi di cibo e riparo per una settimana, per costringerli a entrare nel nuovo campo. In quei giorni ho assistito personalmente a dialoghi tra funzionari greci e migranti in cui i primi esortano i secondi a prepararsi per entrare nel nuovo campo. Ma questi ultimi rispondono di no, che non volgliono essere rinchiusi in un nuovo campo prigione.

Tutte le mattine ci sono manifestazioni, con in testa centinaia di bambini, che fanno la spola tra un blocco e l’altro della polizia, urlando «Asadi» (libertà in lingua farsi), «We don’t go in the new camp» e «Freedom» (foto 7, qui).

Davanti al rifiuto della gente, i funzionari cercano di convincerla che solo nel nuovo campo di Kara Tepe troverà ristoro, tende, farmaci e WiFi. Dai migranti ancora risposta negativa. Alla seconda risposta negativa, dato che i migranti mostrano di fidarsi più dei volontari e dei giornalisti che dei poliziotti e funzionari greci, questi provano a convincerli che il governo vuole solo il loro bene, mentre Ong e giornali vogliono solo usarli.

Infine, visto che con le buone non ottengono niente, iniziano a minacciare: «O entrate nel campo o la vostra richiesta di asilo non verrà processata».

Il giorno successivo, dopo aver sigillato l’area tenendo fuori tutti, in primis i giornalisti, viene messo in atto un vero e proprio rastrellamento. Ingenti forze di polizia in tenuta anti sommossa armate fino ai denti, passano lentamente intimando ai migranti di recarsi nel nuovo campo. Le persone a questo punto cedono e formano code interminabili per la registrazione. È vietato accedere con cinture, accendini e qualsiasi tipo di oggetto appuntito, come in galera.

Il nuovo campo di Kara Tepe viene riempito da circa 10mila «ospiti». Sorge in un’area in riva al mare, già zona militare contaminata da residui bellici e pallottole inesplose, certo luogo non ideale per le migliaia di bimbi che in quella terra giocano. L’area è nota per essere molto fredda e piovosa nella brutta stagione.

Le famiglie sono ammassate in grossi tendoni in plastica, caldi in estate e freddi in inverno. Duecento in ogni tenda su letti a castello, contro ogni regola anti Covid. I bagni sono in tutto venti.

L’unica buona notizia è che gli abitanti potranno uscire dalle 8.00 alle 20.00, con obbligo di rientro. Almeno per ora.

Spero di sbagliarmi ma il mio presentimento è che con gli inevitabili casi di Covid positivi, il campo sarà presto sigillato.

Rientrato in Italia, il 23 settembre apprendo alla radio che è stata approvata la bozza per il nuovo «Patto di solidarietà» sul tema migranti: verranno stanziati dall’Europa più soldi per i paesi periferici come Italia e Grecia e saranno finanziati e agevolati i rimpatri forzati.

Solidarietà tra i paesi europei nel cacciare i poveracci, non solidarietà verso gli esseri umani.

Alcuni amici afghani mi informano che, come era prevedibile, le prime piogge autunnali hanno completamente inondato il campo e le tende, che il cibo è scarso e di pessima qualità, e che si fanno code in continuazione, per mangiare, per uscire e rientrare al campo, per andare in bagno.

Moria è bruciata, cambierà qualcosa per i migranti?

No, anzi, sì. Sarà ancora più duro per loro richiedere asilo ad una «fortezza» Europa sempre più arroccata e solidale solo con i propri interessi economici e con la protezione dei propri confini.

Alberto Sachero