Geremia, il più tormentato dei profeti


Tra i profeti ci sono personaggi molto diversi. Tutti mettono al centro del loro messaggio la fede e l’affidamento a Dio, ma ciascuno vive la propria vocazione in modo singolare. Ci sono quelli decisi, sicuri di sé, generosi e convinti alla Isaia («“Chi manderemo?”. “Eccomi, manda me!”», Is 6,8), e altri molto più travagliati come Geremia. Geremia di tormenti ne ha moltissimi, ed è proprio questo che ce lo rende più simpatico, moderno ed esemplare.

Lo sfondo storico

I profeti, lo sappiamo, sono gli autori biblici che più dialogano con il mondo nel quale sono inseriti. Il «ministero profetico» consiste esattamente nella capacità di inserire il messaggio divino in situazioni storiche concrete, cogliendo come Dio reagirebbe a quelle condizioni, che lettura offrirebbe di quei contesti. È quindi chiaro che una conoscenza precisa dello sfondo storico in cui i profeti agiscono è più che necessaria.

Il problema è che i profeti ci hanno lasciato libri scritti per lo più in forma poetica, frequentemente allusiva ed evocativa più che descrittiva, spesso difficili da interpretare in modo corretto. D’altronde, è esattamente quello che riscontriamo nella nostra poesia o persino nei commenti politici dei nostri tempi. Di questi, però, conosciamo tutti i particolari, così che capiamo le allusioni, anche minime, e tutto diventa più facile. Della storia antica, invece, non riusciamo più a ricostruire le situazioni, se non le grandi linee.

È una fortuna che i capitoli 34-45 del libro di Geremia offrano un contesto storico un po’ più preciso che aiuta a comprendere meglio le parti poetiche.

Lo sfondo generale del tempo di Geremia, dunque, è questo: nel 721 a.C. cade il regno di Israele del Nord per mano dell’impero neoassiro. Nel 701 a.C. s’interrompe miracolosamente l’assedio di Gerusalemme prima della caduta della città. L’impero neoassiro va in crisi e viene sostituito da quello neobabilonese, altrettanto espansionista (arriverà a conquistare anche l’Egitto). All’inizio del VI secolo a.C. si fa forte la pressione anche sulla Giudea, che in effetti cadrà nel 587 a.C., dopo una prima sconfitta e accordo di vassallaggio nel 597 a.C.

In Giudea emergono due visioni diverse della realtà e su come affrontare il pericolo. Una, più religiosa, sostiene che, come aveva già fatto più di un secolo prima, Dio salverà il suo tempio, che è sacro («Tempio del Signore è questo!», Ger 7,4). Un’altra, più mondana, crede invece che la salvezza verrà dall’accordo politico con l’Egitto. Entrambe sono convinte che occorra difendere l’autonomia della Giudea contro i babilonesi. Bisogna solo resistere: che si tratti di Dio o dell’Egitto, qualcuno arriverà a salvarci.

Un messaggio inaudito

È su questo sfondo che Geremia si trova inviato a portare un messaggio inaudito: «Volete essere fedeli al Signore? Lasciate che il suo tempio venga distrutto. Dio non interverrà più a salvare il vostro regno. Vi chiede di lasciare che la storia prosegua sulle sue strade, e che voi scopriate modi nuovi di relazionarvi con lui» (cfr. 5,7-19; 7,3-16; 42,9-22).

Un messaggio come questo ha una forza che va contro tutte le credenze del tempo.

Il tempio di Gerusalemme non era semplicemente il luogo dove pregare o offrire sacrifici, come oggi è per noi una chiesa, sia pure essa la più grande o centrale come San Pietro o qualche santuario famoso in tutto il mondo. Il tempio era «il luogo che Dio si è scelto dove porre la sua dimora in mezzo agli uomini» (Dt 16,11, fra gli altri), l’unico luogo della presenza di Dio nel mondo.

Se dobbiamo ipotizzare un parallelo per capirci, era qualcosa di più vicino a quello che per noi è l’Eucaristia, piuttosto che al semplice edificio sacro.

Immaginiamo un profeta cristiano che dica che, per essere fedeli a Dio, occorre lasciar profanare l’Eucaristia. Il messaggio di Geremia è simile a questo.

Ma è anche un messaggio che arriva subito prima della guerra e durante l’assedio. È facile che il profeta venga percepito dai suoi contemporanei come un disfattista, che non collabora con lo sforzo militare. E per questo verrà, infatti, minacciato («Non profetare nel nome del Signore, sennò morirai per mano nostra», Ger 11,21), imprigionato (Ger 37-38) e alla fine addirittura deportato a forza in Egitto, il nemico di coloro ai quali Geremia invitava ad arrendersi (Ger 43,1-7).

Non è un caso che la tradizione vuole Geremia morto martire. Il suo libro o altri scritti biblici non ne dicono niente, ma sarebbe coerente con la sua esperienza.

Una persona tormentata

Già il contesto e il messaggio di Geremia ci hanno messo di fronte a una situazione complessa, faticosa.

Ma a tutto ciò si aggiunge anche la personalità del profeta, che non è un combattente e non vorrebbe essere dove si trova né dire ciò che deve proclamare. Si ritiene troppo giovane e incapace di parlare in pubblico (Ger 1,6), è costretto ad annunciare al suo popolo che subirà violenza e oppressione e per questo, quando le cose vanno ancora bene, viene preso in giro (Ger 20,8) e gli viene fatto notare che ciò che annuncia non si compie (17,15). Viene rifiutato dalla sua famiglia (12,6) e si lamenta più volte della propria sorte, che non avrebbe desiderato: «Ahimè, madre mia, che mi hai generato uomo di litigio e discordia!» (15,10). Eppure, ribadisce di non aver voluto annunciare il lutto e la distruzione, ma di essere semplicemente stato mandato da Dio a farlo (17,16).

In una letteratura e in un mondo culturale che non erano abituati a cogliere e quindi a narrare le lotte interiori, Geremia appare dilaniato dal desiderio di rinunciare al proprio mandato  di parlare a nome di Dio, un compito che sente scaturire da dentro sé: «Mi hai sedotto, Signore, e io ho lasciato che tu mi seducessi. Mi hai violentato, sei stato più forte di me. Mi dicevo che non avrei più pensato a te, non avrei più parlato in nome tuo, ma nel mio cuore c’era come un fuoco ardente, trattenuto nelle mie ossa; mi sforzavo di contenerlo, ma non potevo» (20,7-9).

Emerge il ritratto di un uomo mite e timido che è costretto ad annunciare un messaggio duro e luttuoso, non viene creduto e viene schernito, e si mortifica ancora di più per la propria sorte. È un uomo passionale e delicato che vive in un tempo di guerra e crudeltà. L’uomo sbagliato nel tempo sbagliato.

Il sogno di Geremia

Certo, Geremia non annuncia soltanto distruzione e morte. Nutre un sogno che prende poco alla volta forma ed esplode nel capitolo 31. Il sogno è quello di un’alleanza nuova tra Giuda e Israele da una parte e il Signore dall’altra. Senza dubbio un’alleanza c’era già stata, scaturita dalla liberazione dal potere oppressivo dell’Egitto, il che suona quasi come ironico per chi sperava proprio da quel paese la salvezza contro i babilonesi, ma quella alleanza era stata infranta proprio da Israele. Per questo serve un’alleanza nuova che non sia una riedizione di quella vecchia. Geremia la immagina non scritta sulla pietra, ma nel cuore, sull’organo che secondo gli ebrei era la sede delle decisioni: «Porrò la mia legge dentro di loro, la scriverò sul loro cuore (ossia “penseranno spontaneamente come Dio, si sintonizzeranno naturalmente con lui”)», «non dovranno più istruirsi l’uno con l’altro, invitandosi a conoscere il Signore, perché tutti mi conosceranno, dal più piccolo al più grande» (Ger 31,33-34).

Geremia sogna una umanità capace di entrare in armonia profonda con Dio, al punto da non avere più bisogno di maestri, di mediatori, di motivatori. E allora, finalmente, Dio perdonerà tutto, non ricorderà più il peccato, perché si troverebbe davanti un’umanità amante, pronta a vivere in intimità con lui. E quello che Dio vuole non è essere ubbidito ma amato, e non vede l’ora di perdonare e riprendere a vivere insieme in comunione.

Il sogno di Geremia prosegue: il Signore, che ha disposto gli astri e garantisce il succedersi del giorno e della notte, promette che si dimenticherà della sua alleanza solo quando anche le leggi di natura non funzioneranno più, cioè mai.

Geremia sogna quell’armonia profonda di cui non ha mai potuto godere, cogliendo che proprio e soltanto quella è anche il sogno di Dio, che minaccia costantemente vendetta e punizione, ma sempre spera di non doverle mettere in pratica.

Il messaggio di Geremia

C’è allora qualcosa che questo complicato e sofferente profeta può affidare anche a noi oggi?

Quello che Geremia vuole, un rapporto con Dio senza mediatori, senza sacerdoti, senza tempio, senza legge, è l’intuizione di un rapporto con il Signore immediato, senza strumenti e quindi anche senza garanzie, ma profondo e spontaneo. Non come due soci in affari, ma come due innamorati.

Geremia sogna una relazione fatta non di certezze, di assicurazioni, ma di fiducia, in cui l’uomo impari finalmente a vivere pienamente, senza nulla che possa illudere di poter tenere Dio sotto controllo, ma fidandosi soltanto della sua promessa che ci sarebbe stato sempre. Semplicemente un rapporto di amore, di affidamento reciproco.

E Geremia predica questo sogno in uno dei momenti più cupi della storia d’Israele, nella consapevolezza di essere la persona sbagliata, nel dramma personale di non sentirsi a posto. Se Osea riceve da Dio l’invito a confidare in lui e amarlo anche fuori dagli schemi attesi, Geremia non si vede neppure spiegare la missione, ma la deve vivere senza capirla fino in fondo. Anche in questo caso, però, ha senso fidarsi semplicemente di Dio, affidarsi a lui, comprese scelte concrete come comprare un campo mentre sta arrivando un esercito invasore (Ger 32) o invitare gli esiliati del 597 a cercare il bene nella terra nella quali sono stati deportati (Ger 29), senza temere che questo significhi tradire il Signore. Proprio mentre l’esercito della terra in cui vivono sta marciando contro la patria nella quale erano nati.

Geremia coglie un Dio che si fa trovare ovunque, anche quando tutto sembra andare male, anche quando si ha l’impressione di essere sbagliati e al posto sbagliato. Anche in quelle situazioni, è Dio l’autentico e unico pastore di Israele (Ger 23,1-8), che resta presente e vigila sui suoi, come rassicura la prima visione dell’intero libro (Ger 1,11-12): Dio veglia, Dio c’è. «Tu continua solo ad aver fede» (Mc 5,36).

Angelo Fracchia
(Camminatori 09 – continua)




Osea, profetizzare con la vita


Ci sono alcuni artisti dei quali diciamo che fanno arte con la loro stessa vita, con le loro scelte, con il loro stile personale. Succede anche nel mondo biblico che alcuni profeti annuncino il volto di Dio con le proprie azioni. Lo fanno Geremia ed Ezechiele, che a volte si mettono a fare gesti strani, enigmatici, per introdurre le loro predicazioni. Ma, secoli prima di loro, succede in modo straordinario e sconvolgente anche a un altro profeta, forse meno noto ma che affascinerà molto i redattori biblici.

Un libro complicato

Il profeta Osea ha il privilegio di un libro dedicato interamente a lui. Un libro, però, che è discretamente difficile. La sua parte più ampia, dal capitolo 4 in poi, è in poesia, come succede spesso alla profezia ebraica, e allude, in modo a volte stringatissimo, a vicende che gli ascoltatori devono conoscere bene. Come succede alle canzoni contemporanee, non solo non c’è bisogno di spiegare tutti i particolari, ma addirittura è meglio mantenere un po’ di ambiguità, perché siano gli ascoltatori a completare il discorso, facendolo così più proprio.

Osea vive e profetizza nel regno di Israele del Nord, intorno alla capitale Samaria e al suo tempio di Betel, nella seconda metà dell’VIII secolo a.C. È un periodo delicato, che si chiude nel 721 a.C. con la distruzione del tempio e l’annessione dello stato allo spietato impero neoassiro. È probabile che prima della distruzione del tempio alcuni sacerdoti e scribi siano riusciti a fuggire a Gerusalemme, portandosi dietro tradizioni, storie e anche manoscritti, tra cui forse anche i capitoli dal 4 al 14 del nostro libro, che in effetti in alcuni passaggi sembra scritto in una lingua strana e non sempre comprensibile in tutti i dettagli.

Quando si fa un trasloco, però, anche in situazioni molto meno drammatiche di quelle vissute dagli antichi scribi, si coglie l’occasione per liberarsi di ciò che non interessa più, e si sceglie di trasportare solo ciò che si ritiene ancora prezioso. Evidentemente, il libro di Osea è tra i tesori che i fuggiaschi samaritani non vogliono perdere e, una volta arrivati a Gerusalemme, ne spiegano il valore ai sacerdoti locali. Qualcuno, per renderlo più comprensibile, aggiunge un’introduzione in prosa, in un linguaggio che è molto più facile da capire di quello del testo in poesia.

Un matrimonio difficile

«Va’ e prenditi per moglie una prostituta» (Os 1,2). Così inizia il libro di Osea, non proprio un grande punto di partenza per un matrimonio, tanto più in un mondo come quello ebraico ossessionato dalla purità anche nei legami coniugali perché ritiene che i figli non sono semplicemente i discendenti dei genitori, ma sono iscritti in una trasmissione della benedizione divina che risale fino ad Abramo. Offuscare quella linea di trasmissione significa, in ultimo, offendere anche Dio. Eppure è Lui a chiederlo al profeta di sposare una prostituta spingendolo a vivere la propria vita in un modo apparentemente lontano dai precetti divini.

Fin dall’inizio, però, si chiarisce che la posta in gioco non è «soltanto» la vita di una persona, infatti il versetto continua così: «perché il mio paese continua a prostituirsi» (Os 1,2). Insomma, il testo ci suggerisce subito che il matrimonio di Osea è un’immagine del rapporto di Dio con il suo popolo. Al profeta viene chiesto di sposare una prostituta perché è Dio stesso a trovarsi sposato a un popolo infedele. Quello che farà Osea sarà un’immagine dell’intenzione divina. Il profeta annuncia il messaggio divino con la propria stessa vita.

Quell’intuizione di partenza prosegue nei figli, che ricevono nomi certo non troppo beneauguranti: il primo viene chiamato Izreèl (Os 1,4), come la valle nella quale fu distrutto dai filistei l’esercito ebraico di Saul (1 Sam 29,11; 2 Sam 4,4), o in cui si trovava la vigna che un re desiderava e che la sua regina, Gezabele, riuscì a strappare al legittimo proprietario facendolo ingiustamente condannare a morte (1 Re 21) e dove la stessa Gezabele venne uccisa e abbandonata ai cani (2 Re 9). Non un posto di buon auspicio, insomma, ma un luogo in cui si sono verificati episodi di ingiustizia che Dio vuole vendicare (Os 1,4-5), proprio come ci aspetteremmo da un Dio severo e giusto.

Dopo Izreèl nascono poi anche Non-amata e Non-popolo-mio (Os 1,9).

Un matrimonio improbabile segnato da rapporti difficili anche con i figli, immagine di un Dio che evidentemente non è contento del suo popolo e che inizia a pensare di doverlo punire. D’altronde, è diritto e, sostanzialmente, quasi dovere di un capofamiglia farsi rispettare anche con le cattive.

Una soluzione «divina»

La possibilità di un castigo severo e inflessibile aleggia in tutto il libro. In fondo, è ciò che ci si aspetta che faccia un marito, proprietario della moglie, ed è ciò che solitamente si pensa che dobba fare Dio. Quante volte persino noi, moderni ed evoluti, ci diciamo che se Dio ci fosse e fosse attento a noi, certe ingiustizie non le sopporterebbe.

Anche Dio, verrebbe da pensare, è tentato da una soluzione violenta e chiara (Os 2,11-15) che forse non lo rallegrerebbe, ma almeno lo vendicherebbe.

E invece Egli trova una soluzione diversa. Non quella che l’uomo si aspetterebbe, ma quella che meglio corrisponde al cuore.

«La condurrò nel deserto», là dove non ci sono distrazioni, dove si può essere soli, come lo erano Dio e il suo popolo durante i quarant’anni di peregrinazione verso la terra promessa, «e parlerò al suo cuore», cercando di convincerla, di farsi ascoltare e ubbidire. «La sedurrò» (Os 2,16). «E in quel giorno non mi chiamerai più “mio signore”», o, per usare il termine ebraico che può suonare familiare persino a noi, «non mi chiamerà più “mio baal”». «Baal» era il modo con cui i Cananei, molto diffusi e importanti nel nord d’Israele, si riferivano al loro dio, che poi coincideva con il modo con cui la moglie parlava al marito, riconoscendolo a lei superiore e suo «capo». «In quel giorno non mi chiamerai più “mio signore” ma “mio uomo”» (Os 2,18), come un’innamorata, che riconosce in colui che ha di fronte non il suo padrone, ma il suo amato, una persona con la quale sta in rapporto alla pari.

E, siccome impostare in questo modo il rapporto amoroso significa per Dio (e per Osea) non avere certezze (un padrone può imporre la sua volontà, un amante no), da qui in poi Dio si mette ad attendere una risposta, e a sognare.

Dio immagina di mettere pace in tutta la natura (2,20), sogna una relazione fatta di «giustizia e diritto», unendo l’aspetto più formale, esteriore, legale (diritto) e quello più profondo di equilibrio nel rapporto, di profonda sintonia e correttezza (giustizia). Poi ancora immagina «amore» (il termine indica l’affetto gratuito, disinteressato, dei genitori verso i figli) e «benevolenza», atteggiamenti che rimandano però alle viscere, ai sentimenti più diretti, spontanei, passionali e intimi. Dio sogna, cioè, che la realtà esteriore del matrimonio dica quella più interiore del desiderio di vivere insieme, e che l’attrazione si esprima anche in dono gratuito e generoso.

«A Izreèl risponderanno il grano, il vino nuovo e l’olio» (Os 2,24), così che la valle diventata sinonimo di maledizione si riempirà di quei doni agricoli che, secondo i cananei, era baal a garantire. «Amerò Non-amata, e a Non-popolo-mio dirò “Popolo mio”, ed egli mi dirà “Dio mio”».

È un sogno. Dio sta immaginando un matrimonio di totale amore. Sta sognando, perché ancora in attesa di una risposta.

Un amore senza condizioni

Tutti noi sogniamo un amore incondizionato. O, più egoisticamente, di essere amati senza condizioni. Anche se, nella storia, viviamo anche di patti: «Se non mi sei fedele, se non mi ami, anche io mi disamorerò».

Il libro di Osea, la vita di Osea, ci dicono che Dio non ha intenzione di mettere condizioni. Ne è tentato, come tutti gli amanti, e ipotizza la punizione vendicativa. Ma decide di essere troppo innamorato per mettere a rischio questa relazione.

Nel capitolo 11, in poesia, Osea fa ripercorrere a Dio la storia con il suo popolo, al quale ha insegnato a camminare tenendolo per le ascelle, da dietro, come un papà che non vuole abbandonare ai pericoli il figlio ma desidera che impari a camminare con fiducia nei propri mezzi (11,3), e che ha preso in braccio per baciarlo sulla guancia (11,4): «Li traevo con legami di bontà, con vincoli d’amore».

Certo, si è trovato di fronte ingratitudine e tradimento (11,2). Ma di fronte alla possibilità, che sarebbe reale, di punirlo (11,6-7), si lascia intenerire: «Come potrei abbandonarti? Come potrei trattarti come Admà e Seboim?» (le due città distrutte insieme a Sodoma e Gomorra, cfr. Dt 29,22). Dio si sente struggere le viscere all’idea di fare del male al proprio figlio (Os 11,8). «Io sono Dio, e non uomo» (Os 11,9), e questa affermazione, che potremmo anche interpretare dicendo che di sicuro, se decide di punire, punirà, diventa invece la premessa per affermare che lui non castigherà. Dio ha deciso, è dalla parte della vita del suo popolo. Parlerà al suo cuore, tenterà di sedurlo, ma non gli farà del male.

Tutto questo Osea lo intuisce, chissà se in sogni o visioni, o semplicemente continuando a meditare sul volto di Dio che emerge dalla storia d’Israele. E capisce che se Dio è così, quella è l’immagine precisa dell’amore vero. Perché, di fronte a una donna che continua a prostituirsi anche da sposata (Os 3,1), Osea si sente chiamato a fare non ciò che gli altri pensavano che dovesse fare (costringerla, denunciarla e piuttosto farla lapidare, mostrando chi era il capo), ma ciò che Dio farebbe, amando incondizionatamente, persino senza essere corrisposto allo stesso modo, senza essere capito (in fondo, Gomer, la moglie, potrebbe pensare di aver fatto il suo «dovere», dandogli tre figli).

Un’intuizione abissale

Tutto ciò sarebbe già tantissimo. Ma può darsi che ci sia dentro persino di più.

Osea vive e profetizza nel nord d’Israele, dove è più forte la presenza delle popolazioni di religione cananea, che, stando a quanto riusciamo a ricostruire, prevede anche la prostituzione sacra come atto religioso. Perché mai una donna sposata e con figli, amata dal marito, dovrebbe tornare a prostituirsi? Può darsi che il libro di Osea suggerisca addirittura che Gomer, la moglie, sia una cananea, e che continua a frequentare quegli altri dèi.

Osea sarebbe chiamato ad amare una donna infedele e di un’altra religione, e, facendolo, «rappresentare» Dio stesso, il quale non sarebbe allora attento ai doveri religiosi, a riti o formule di fede, ma al rapporto d’amore. Quasi come se dicesse: «Non mi importa neppure se non vuoi essere tra i miei fedeli; ma amami».

Capiamo quanto il libro e la vicenda di Osea possano aver sconvolto gli antichi fedeli. Abituati (un po’ come noi, se siamo sinceri…) a pensare a un Dio potente, inflessibile e giudice severo ma giusto. Sono invece messi davanti a un cuore amante, che vuole essere amato. A costo di trascurare convenzioni, norme e «buone abitudini». E si trovano davanti un profeta che decide di vivere come Dio, un Dio che, nella vita di Osea, si mostra fragile, pronto ad ammettere che non smetterà di amare e di attendere con paziente ansia una risposta.

Da parte di Dio non ci sono incertezze: sarà Lui stesso a guarire Efraim dalle sue infedeltà (14,5), a far fiorire il popolo e a porsi per lui come un cipresso sempreverde (14,9; il cipresso era la pianta tipica dei luoghi della prostituzione sacra a Baal, ndr.). Capita che nel Primo Testamento si paragonino i giusti ad alberi radicati lungo corsi d’acqua (Sal 1,3; Sir 50,8), ma mai altrove si ricorre a queste immagini per definire Dio. È come se qui si volesse anticipare che Dio non solo garantirà sempre la sua protezione, ma addirittura che si farà presente in mezzo a loro come un uomo. Con Gesù quell’immagine e quel desiderio di comunione misericordiosa prenderanno il loro volto definitivo.

Angelo Fracchia
(Camminatori 08 – continua)




Samuele, modello del «chiamato»


In qualsiasi percorso vocazionale e in tutte le proposte pastorali e catechetiche per ragazzi e giovani prima o poi si deve per forza incontrare la storia del ragazzo Samuele, esempio di disponibilità ad ascoltare la chiamata di Dio anche senza comprenderla
appieno.

L’episodio della chiamata divina nel cuore della notte, rivolta a un ragazzo che non la capisce, e tuttavia dice sì sulla fiducia, è senz’altro impressionante, ed è giustamente apprezzato e utilizzato. Tuttavia è l’intera vita di Samuele che si muove sulla linea della fiducia, dell’ascolto, della disponibilità serena a rimettersi in discussione per continuare a essere un tramite autentico e trasparente dell’intenzione divina.

Se si ricordano i modelli di fiducia in Dio offerti dal Primo Testamento, Samuele non può restarne fuori. Sarà anche per questo che è difficile dire se sia più un profeta o un sacerdote, visto che, normalmente, i due ruoli non coincidono. Forse è anche per questo che ci sono ben due libri biblici che prendono il nome da lui.

Un Dio in ascolto dell’umanità

Sembra peraltro di poter dire, in sintonia con tanti altri personaggi della Bibbia, che anche per Samuele è Dio stesso a mettersi, fin dal principio, in ascolto fiducioso dell’umanità e, soprattutto, dell’umanità più piccola, sofferente e addirittura, secondo i criteri della cultura del tempo, insignificante.

Si narra, infatti, all’inizio del Primo libro di Samuele, che il padre, Elkana, aveva due mogli, una delle quali, Anna, era sterile. L’intera famiglia compiva ogni anno un pellegrinaggio al tempio di Silo, a una quarantina di chilometri a nord di Gerusalemme, costruito ben prima di quello della città santa. Non è difficile capire che la dimensione rituale di quelle occasioni poteva diventare oppressiva e umiliante per chi, come Anna, non era nelle condizioni ideali per il rito.

Il testo di 1 Samuele (1,4-7) ci racconta qualcosa che possiamo integrare con la nostra immaginazione: nel momento del pasto sacro, quando si tratta di dividere l’agnello che è stato offerto in sacrificio, Elkana dà a Peninna, la moglie fertile, la parte che lei deve condividere con i figli e le figlie. Questa, ovviamente, è molto più grande di quella, pur «speciale», riservata ad Anna che, presa in giro dall’altra moglie, si sente ancor più umiliata nella sua infertilità e, quindi, piange e si rifiuta di mangiare.

Elkana, allora, le rivolge le parole più affettuose e tenere che si possano leggere nella Bibbia uscite dalla bocca di un marito: «Perché sei triste? Non sono io forse per te meglio di dieci figli?» (1,8). In una società in cui la donna serve solo a partorire e vale in proporzione al numero dei figli, Anna è sposata a un uomo che la ama così com’è.

Questo però non basta a confortare la donna, che si reca subito al tempio, nell’ora in cui tutti stanno riposandosi per il cibo e per il vino. Lì, nascosto nell’oscurità, c’è solo Eli, il sacerdote capo, che la vede pregare da sola e non a voce alta, ossia con modalità che non erano consuete, e la rimprovera, immaginandola ubriaca (1,12-16). Quando però lei, delicatamente, gli spiega che è solo afflitta, ottiene in cambio l’augurio che il Signore la ascolti (1,17).

Poco dopo Anna resta incinta di Samuele e si impegna, come aveva promesso nella preghiera, a offrirlo non appena svezzato al Signore, perché lo serva nel tempio.

E un’umanità in ascolto di Dio

Ma servire il tempio non significa ancora essere ciò che Samuele diventerà. Il libro biblico fa notare che Dio raramente si fa sentire in quei giorni (1 Sam 3,1). Sono tempi senza una bussola, incerti, come quelli in cui viviamo noi (e come sono la maggior parte dei tempi umani). Per questa ragione, probabilmente, il tempio di Silo non è solo un punto di riferimento religioso ma anche politico.

A guidarlo è lo stesso Eli, sacerdote ormai anziano che, come intuiamo dal racconto biblico, immagina di passare ai propri figli non solo il proprio ruolo spirituale ma anche di potere politico, benché essi non siano proprio degli stinchi di santo.

Samuele è al suo servizio nel tempio, luogo nel quale vive e dorme. Una notte sente una voce che lo chiama. Si alza e va subito da Eli, che lo rimanda a dormire. Quando però il ragazzo va da lui una seconda e una terza volta («Eccomi: mi hai chiamato?»), Eli intuisce che sta succedendo qualcosa che lui, sacerdote, non aveva previsto e forse neppure desiderava.

Pur sorpreso, indica a Samuele la strada da percorrere in docilità e attenzione: «Se succederà ancora, risponderai: “Parla, Signore, perché il tuo servo ti ascolta”» (1 Sam 3,10). Anche Eli, stimolato dall’atteggiamento di Samuele, si mette in ascolto e accoglie la novità, pur intuendo che questa comporterà poi l’estromissione della sua famiglia dal tempio. Si mette a disposizione di un progetto che non lo coinvolge più (3,17-18).

Eli è il «vecchio» che deve essere superato, e, anziché abbarbicarsi al suo potere, sa fare spazio a ciò che sta crescendo. Intorno al fiducioso Samuele cresce la fiducia.

Il gioco dell’affidarsi

In effetti il ruolo che Eli ha ricoperto e che sognava di trasmettere ai figli viene invece assunto da Samuele: è come se il bambino che non sarebbe dovuto neppure venire alla luce fosse chiamato a diventare la nuova, definitiva guida di un popolo ancora piccolo, riprendendo l’antica tradizione di essere un «giudice», ossia un capo politico con motivazioni religiose, come all’inizio della storia di Israele in Canaan (1 Sam 7).

Dio, in seguito, prenderà di nuovo per mano Samuele e lo porterà su strade che non’immagina, invitandolo a fidarsi e a guidare un processo che non conosce ancora e che non sa dove condurrà, e che in fondo non condivide.

Anche Samuele, infatti, come Eli, è tentato dall’idea di lasciare in eredità ai propri figli il proprio ruolo di giudice e guida (1 Sam 8,1-3). I suoi due figli, però, non si comportano come lui, e mettono il loro interesse personale, non quello di Dio, al centro.

Se si guida a nome di Dio un popolo, non lo si fa per diritto ereditario, ma perché si è scoperto e si vive il rapporto con Lui.

Per reazione, il popolo che Samuele sta gestendo decide di diventare come gli altri dotandosi di un re e facendosi «un nome tra le genti» (8,4-5). Israele sceglie di non farsi più guidare da Dio, con l’incertezza di un capo nominato di volta in volta, e preferisce la sicurezza di un re con una linea dinastica. Un re che, quindi, lo condurrà in guerra, lo tasserà, lo sottometterà alle sue angherie. Israele preferisce essere servo di un uomo piuttosto che affidarsi a Dio (1 Sam 8,11-18).

Non è un caso che Samuele tenti di ostacolare questo progetto, che vede come un tradimento del Signore da parte del suo popolo.

Di nuovo, però, egli viene preso per mano da Dio, che lo convince a cedere: «Ascolta la voce del popolo, qualunque cosa ti dicano, perché non hanno rigettato te, ma hanno rigettato me, perché io non regni più su di loro. […] Ascolta pure la loro richiesta, però ammoniscili chiaramente e annuncia loro il diritto del re che regnerà su di loro» (1 Sam 8,7-9).

Dio entra nello stesso gioco di ascolto e di fiducia a cui egli stesso ha chiamato Eli e Samuele. Nonostante il popolo non ascolti il suo ammonimento e continui a domandare un re, il Signore non si tira fuori, e incarica Samuele di gestire la situazione ungendo come sovrano, quindi con la ratifica divina, chi sostituirà Samuele stesso, il giudice-sacerdote, nel suo ruolo di guida politica.

Il Dio di Israele, sapendo che la scelta del suo popolo è sbagliata, si lascia tuttavia incatenare alle scelte dei suoi amati, e continua a guidarli, pur avendo minacciato il contrario (lo ammetterà in 1 Sam 12,13-14).

Instabile o fedele?

A essere scelto da Dio come re richiesto dal popolo è Saul, della tribù di Beniamino, la più piccola delle tribù d’Israele. È interessante la scena dell’incontro tra il futuro re e Samuele. Il testo racconta che Saul non sta minimamente pensando al regno, e lo presenta mentre vaga alla ricerca delle asine del padre, smarrite mentre erano al pascolo (1 Sam 9). Nel suo vagare arriva dove si trova «il veggente» e decide di chiedere a lui un’indicazione. Il «veggente», però, lo invita a fermarsi, lo rassicura sulle asine e il giorno dopo lo unge re, prima di fargli intuire che lui pure, nuovo re, dovrà fidarsi e lasciarsi condurre, anche a «fare il profeta» insieme ad altri profeti (1 Sam 10,5-6).

Saul inizia a guidare gli israeliti in battaglia, principalmente contro i Filistei, con esiti altalenanti, ma la scelta divina, si scopre, non è ancora definitiva. Dio volta le spalle a Saul, colpevole di confidare soprattutto nei propri mezzi, e invita di nuovo Samuele ad adeguarsi alla sua volontà e ad andare a ungere un altro re.

E questo nuovo re è tanto improbabile che, quando Samuele si presenta alla casa di Iesse (1 Sam 16) per sceglierlo tra i suoi figli, perfino Iesse si dimentica di lui. Quando infatti Samuele dichiara che non si metterà a tavola a mangiare finché non saranno passati davanti a lui tutti i suoi figli per benedirli e scoprire chi tra essi è stato scelto da Dio, Iesse li presenta al profeta uno dopo l’altro, scordandosi del più piccolo, Davide, che in quel momento è fuori casa al pascolo.

Il secondo re di Israele diventerà tanto importante che nella futura storia del suo popolo fungerà da modello per qualunque regalità e che verrà ricordato come colui che donerà un suo discendente che regnerà per sempre.

Ma tutto questo Samuele non lo vedrà con i suoi occhi, perché morirà lasciando nella sua terra due re, entrambi unti da lui, che combattono tra loro. Morirà senza avere la certezza di aver compiuto le scelte giuste, di aver ascoltato correttamente la parola di Dio.

L’insegnamento di Samuele

Se vogliamo tirare le fila di ciò che abbiamo incontrato, troviamo una costante che rintracciamo in tutte le storie di fede nel Primo e anche nel Nuovo Testamento, e forse una sorpresa non indispensabile, dunque ancora più interessante.

Samuele entra in un gioco di dialogo con Dio, ne viene sorpreso, lo difende, viene invitato a maggiore elasticità, viene condotto su scelte e strade che non avrebbe fatto sue. Il tutto sempre in una condizione di ascolto profondo tra lui e Dio. La fede, insomma, non è tanto questione di obbedienza alle regole, ma di relazione. Una relazione che richiede ascolto e fiducia, soprattutto quando muove a compiere scelte non condivise, o addirittura nuove scelte che appaiono diverse o contrarie a quelle precedenti.

La sorpresa è che tutto ciò parte da una donna sterile che entra con Dio proprio in una relazione di fiducia di questo tipo, nella quale si sente libera di sfogarsi in modo autentico.

La ciliegina sulla torta è che i genitori del più grande sacerdote e giudice della storia d’Israele sono due persone che, contro le aspettative della loro cultura, si amano davvero, al punto che Elkana si affligge per la sofferenza di colei che, secondo le convenzioni del suo tempo, non stava facendo il proprio dovere (dargli cioè dei figli).

Là dove trova umanità autentica, vera, che ama, Dio entra più volentieri.

Angelo Fracchia
(Camminatori 07 – continua)