Privato non è bello


Beni comuni persi dalla comunità a favore dei singoli. Questo sono le privatizzazioni. Anche l’antica Roma distingueva tra ambito «pubblico» e ambito «privato», ma quest’ultimo prese il sopravvento quando, nel Settecento, gli inglesi permisero ai grandi proprietari di recintare le terre collettive.

Capita a molti politici di condannare certe scelte, quando sono all’opposizione, e di perseguirle, quando sono al governo. Uno degli ultimi casi riguarda la presidente del Consiglio Giorgia Meloni che, nel 2018, scriveva sui social: «Poste [italiane] è un gioiello che deve rimanere in mano pubblica». Passata dall’opposizione al governo, in un’intervista televisiva rilasciata nel gennaio 2024 la stessa Meloni cambiava opinione prevedendo la possibilità di procedere a privatizzazioni comprendenti anche Poste italiane. Scelta puntualmente ufficializzata il 26 gennaio 2024 dal Consiglio dei ministri.

«Privatus» versus «publicus»

Da qualche decennio le privatizzazioni sono diventate pratica corrente di tutti i governi, sia quelli di destra che di sinistra, forse perché i margini di differenza fra le due sponde ideologiche si stanno restringendo sempre di più. Nel contempo, però, va precisato che, dietro questa parola, si racchiudono vari concetti, assai diversi fra loro per meccanismi e portata politica.

Da un punto di vista etimologico, privatizzare deriva da privatus, parola che, nell’antica società romana, indicava la condizione dei singoli individui in contrapposizione allo Stato definito publicus. Ma è bene ricordare che, dalla stessa radice, proviene anche il verbo «privare» che significa togliere, sottrarre. E si scopre che, presso gli antichi, il soggetto di riferimento era lo Stato che considerava la «roba» dei singoli come qualcosa che era stato sottratto alla sua potestà.

Una concezione che ritroviamo ancora oggi nel verbo privatizzare che si riferisce ai beni comuni persi dalla comunità a favore di singoli. Un fenomeno che ebbe un grande impulso nell’Inghilterra del Seicento e del Settecento quando il Parlamento autorizzò i grandi proprietari terrieri a recintare le terre che, fino ad allora, avevano lo status di proprietà collettiva (enclosures acts). Un processo tutt’altro che terminato considerato che la collettività continua a essere depredata delle sue proprietà e delle sue attività in nome delle motivazioni più varie.

Lo Stato e le crisi

Per una comprensione più articolata dei processi di privatizzazione è bene tenere a mente che, nel corso del tempo, l’idea di Stato ha avuto profonde modificazioni, con cambiamenti anche nella tipologia dei beni posseduti e delle attività svolte. Per quanto riguarda le proprietà, una categoria di beni tradizionalmente posseduti dagli Stati sono sempre stati quelli naturali: mari, fiumi, laghi, coste. Però, con l’avanzare del modello capitalista, lo Stato si è ritrovato anche proprietario di attività industriali, non per scelta ma come rimedio ai processi di autodistruzione che spontaneamente il capitalismo tende a mettere in atto. Emblematica la grande crisi che investì il mondo industrializzato nel 1929 o quella del 2008 che coinvolse l’intera finanza internazionale. Benché molto diverse fra loro, entrambe hanno avuto in comune il crollo di valori finanziari che mettevano fortemente a rischio il sistema bancario, nei confronti del quale i governi si sono sempre sentiti in dovere di intervenire in caso di cattiva parata. Nel 1929 la crisi riguardò il valore dei titoli azionari, ossia dei titoli attestanti la proprietà delle aziende. Titoli che le banche possedevano a piene mani. Il problema è che, se i titoli crollano, anche le banche vacillano perché risultano impoverite e, nella paura di non poter riprendere ciò che hanno depositato, molti risparmiatori corrono in banca per riprendersi i propri soldi. Ma così facendo trasformano il rischio in realtà perché nessuna banca è in grado di restituire in poco tempo tutti i soldi ricevuti in deposito.

Per il capitalismo il sistema bancario rappresenta la spina dorsale e nessun governo può permettersi di assistere inerme al suo naufragio. Perciò, dopo la crisi del 1929, molti governi si organizzarono per salvare le proprie banche. Ciascuno con il proprio programma. Il governo di Mussolini optò per due strategie: nazionalizzare le banche più traballanti e acquistare i titoli deteriorati posseduti da tutte le altre. A questo scopo, nel 1933 venne creato l’Istituto di ricostruzione industriale (Iri) e lo Stato italiano si trovò maggiore azionista, se non azionista unico, di decine di complessi industriali attivi nei settori chiave del paese: armame-

nti, telecomunicazioni, siderurgia, meccanica. Nelle intenzioni, l’Iri doveva essere liquidato di lì a poco, ma sopravvisse e nel dopoguerra procedette a ulteriori salvataggi divenendo il maggiore gruppo italiano che comprendeva aziende chimiche e meccaniche, siderurgiche e alimentari.

Privato versus pubblico. Foto Wesley Tingey-Unsplash.

Il vento ideologico cambia

Nel trentennio successivo alla seconda guerra mondiale, in tutta Europa dominava un pensiero politico favorevole all’intervento dello Stato in economia. Non a caso in quel periodo, in Italia nacque l’Eni, di totale proprietà pubblica, per l’estrazione di gas e petrolio, mentre l’intero comparto dell’energia elettrica venne portato sotto controllo pubblico tramite l’Enel. Ma, a partire dagli anni Ottanta, il vento ideologico cambiò e anche in Italia ci furono pressioni per spogliare lo Stato delle sue attività produttive. L’annuncio al mondo della finanza venne dato in circostanze carbonare, niente po’ po’ di meno che a bordo di un panfilo di sua Maestà la Regina d’Inghilterra. Era il 2 giugno 1992, festa della Repubblica, quando nel porto di Civitavecchia attraccò lo yacht Britannia per fare salire a bordo vari dirigenti dello Stato italiano, fra cui Mario Draghi, direttore generale della Banca d’Italia. A bordo erano già presenti rappresentanti della finanza londinese pronti ad accogliere la delegazione italiana. Questa, durante una gita che aveva come meta l’isola del Giglio, avrebbe dovuto relazionare sulle prospettive di privatizzazione in Italia. L’evento venne confermato da Mario Draghi nel corso di un’audizione alla Commissione bilancio nel marzo 1993, ma venne descritto come un banale convegno.

Meno imprese pubbliche

Le prime privatizzazioni avvennero nel 1993 e riguardarono alcune imprese alimentari che videro Nestlé come principale acquirente. Più avanti fu la volta dell’attività telefonica, petrolifera, elettrica, automobilistica. Talvolta attraverso la cessione di tutte le quote, come è avvenuto nel caso di Cirio (Iri), talvolta attraverso la cessione di quote parziali come nel caso di Eni, Enel, Poste e varie altre.

L’ultimo rapporto Istat certifica che, nel 2020, le società a partecipazione pubblica sono 7.969, precisando che alcune ricadono in questa categoria perché possedute in tutto o in parte da ministeri, mentre altre vi ricadono perché partecipate da enti locali, o dalla Cassa depositi e prestiti (Cdp), una banca particolare controllata dal ministero dell’Economia. Considerato che, in Italia, le imprese sono 1,6 milioni, le società a partecipazione pubblica rappresentano solo lo 0,5% del totale. Con la prospettiva che continuino a calare, dal momento che, dal 2012 al 2020, hanno registrato una flessione del 25%.

Fino a ora abbiamo valutato le privatizzazioni usando come criterio quello della proprietà. Ma il concetto di privatizzazione ha significati più ampi e comprende anche le finalità dell’impresa. Prendiamo, ad esempio, Ferrovie dello Stato. Da un punto di vista della proprietà è una società pubblica perché posseduta interamente dal ministero dell’Economia. Ma, da un punto di vista delle finalità, è come una qualsiasi società privata perché il suo fine non è il servizio pubblico, ma il profitto. Quando si ha come obiettivo il servizio pubblico si accetta di avere anche dei bilanci in perdita, magari perché ciò serve a mantenere bassi i prezzi dei biglietti o perché serve a tenere aperte anche delle tratte poco frequentate. Se si ha per obiettivo il profitto, si fanno scelte che privilegiano i più facoltosi rinforzando il raccordo ad alta velocità di città importanti, mentre si mantengono in cattivo stato le tratte locali frequentate dai pendolari. Una politica che, purtroppo, non si riscontra solo nell’ambito dei trasporti, ma anche di servizi ancora più essenziali come l’acqua.

Il caso dell’acqua

Prima del 1990 gli acquedotti erano gestiti da aziende municipalizzate, strutture autonome da un punto di vista tecnico operativo, ma un tutt’uno con i Comuni da un punto di vista economico e politico. L’azienda municipalizzata faceva pagare un prezzo per i servizi che forniva, ma l’ammontare era deciso dal consiglio comunale in base a criteri sociali. E se l’incasso non bastava per fare fronte a tutte le spese o agli investimenti da effettuare, provvedeva il Comune  con integrazioni di altra natura. Semplicemente perché l’acqua non era considerata una merce, ma un diritto da tutelare. Nel 1990 questa impostazione cominciò a essere smantellata tramite norme che spostavano la gestione dalle aziende municipalizzate ad aziende pubbliche. Da un punto di vista linguistico la differenza è impercet-

tibile, ma da un punto di vista giuridico la differenza è abissale.

L’azienda pubblica, pur essendo di proprietà del Comune, diventa un corpo a sé stante, una sorta di figlio adulto che deve arrangiarsi da solo. D’ora in avanti non può più ricorrere a mamma Comune: deve coprire tutte le spese da sola con i proventi delle sue vendite. I prezzi li decide lei stessa non più secondo criteri di equità sociale, ma secondo logiche di contabilità di bilancio. Per di più è una Spa, una Società per azioni. Per legge il suo compito è garantire profitti agli azionisti. Un cambiamento totale di prospettiva: la municipalizzata guardava alla gente, la Spa guarda agli azionisti. Potremmo dire «all’azionista» visto che il capitale è del Comune. Ma la Spa ha la caratteristica che le quote si possono vendere, e altri soci possono aggiungersi.

Le leggi che seguirono aprirono l’ingresso ai privati e le multinazionali dell’acqua calarono come cavallette per entrare nelle società pubbliche costituite per gestire gli acquedotti. Tanto per citare i casi più clamorosi, Suez è penetrata in Acea, azienda del Comune di Roma, controllando un pacchetto azionario che oggi è al 23%. Veolia, invece, è stata a lungo in Acqualatina, azienda dei comuni della provincia di Latina, con una quota del 49%, ceduta a Italgas nel luglio 2023. Ma, ad argini rotti, è successo di tutto: la compagine degli azionisti delle società pubbliche si è allargata a banche e affaristi, alcune aziende pubbliche si sono fuse fra loro, altre si sono compenetrate in un groviglio che non permette di capire chi possiede e chi è posseduta. Alcune sono addirittura finite in borsa com’è il caso della romana Acea, dell’emiliana Hera, della lombarda A2A. Acea la ritroviamo addirittura in Honduras a gestire l’acquedotto di San Pedro Sula, come se fosse una multinazionale qualsiasi.

Prima gli azionisti

La motivazione addotta per vendere le società pubbliche ai privati, è stata la necessità di fare soldi per pagare il debito pubblico. I fatti hanno dimostrato che si è trattato di un’operazione inutile perché ha procurato solo gocce rispetto a un oceano. La motivazione addotta per chiudere le municipalizzate e fare gestire i servizi pubblici a società per azioni aperte ai privati è stata l’efficienza. Ma i fatti dimostrano che a guadagnarci sono stati gli azionisti, non i cittadini.

La verità è che i processi di privatizzazione sono figli di un progetto ideologico teso ad affermare la supremazia del mercato sulla logica dei beni comuni e sui diritti dei cittadini. Un processo fortemente promosso dall’Unione europea che ha posto il mercato e la concorrenza a fondamento del proprio ordinamento. Tant’è che condiziona ogni sua concessione all’attuazione di riforme tese a consolidare il processo di mercantilizzazione dell’economia e della società. Lo stesso Pnrr è stato un’occasione utilizzata in questa direzione. Prima o poi i cittadini europei si accorgeranno dell’inganno e pretenderanno un’altra Europa.

Francesco Gesualdi

Privato versus pubblico. Foto Call-me-Fred_Unsplash.




Scandalo in spiaggia


In Italia ci sono 8.970 chilometri di coste. Circa un terzo sono balneabili. Di queste la metà sono date in concessione dallo Stato. Sempre ai soliti e a prezzi ridicolmente bassi. Nel frattempo, i cittadini pagano e le poche spiagge libere sono nel degrado.

C’era una volta una lite tra lupi che oscurava un altro tipo di contenzioso: quello tra lupi e agnelli. Così si potrebbe riassumere la vicenda andata in scena negli ultimi anni e che ha come oggetto la gestione delle spiagge italiane.

Le regole europee

Per la prima parte della vicenda, quella riguardante la lite fra lupi, la storia si può fare iniziare nel 2006 allorché l’Unione europea (Ue) varò una direttiva, la numero 123, passata alla storia come direttiva Bolkestein, in onore del Commissario che la elaborò.

Oggetto della direttiva è l’integrazione dei servizi nel mercato comune europeo. Obiettivo facile da enunciare, ma difficile da attuare perché i servizi non si possono separare dalle imprese che li offrono.

Nel caso di auto, biciclette, caciotte e qualsiasi altro tipo di manufatto, il mercato comune si crea permettendo la libera circolazione dei beni senza coinvolgimento delle imprese produttrici. I produttori possono doversi uniformare a regole comuni in materia di igiene, sicurezza, imballaggi, ma niente di più.

Spiagge, uno scandalo italiano. Foto Gianni Crestani – Pixabay.

Se, invece, parliamo di servizi bancari, di trasporti, di telecomunicazioni, di ristorazione, o addirittura di assistenza sanitaria, istruzione, insomma di tutte quelle attività che procurano un beneficio nel momento stesso in cui sono prodotte, il libero mercato si può creare solo permettendo alle imprese produttrici di muoversi da un Paese all’altro. Se l’impresa francese vuole aprire un ristorante a Roma, deve avere la possibilità di trasferirsi dalla Francia all’Italia, magari con personale francese se lo ritiene utile. Oppure potremmo immaginare un’impresa di facchinaggio polacca che decide di trasferirsi in Spagna, Germania, o qualsiasi altro Paese dell’Unione per gestire l’attività di magazzino di grandi complessi commerciali. Ma con quale personale può farlo: quello locale o quello del Paese di origine? E pagando i dipendenti secondo quali livelli salariali? E con quali regole contributive? Ecco alcuni quesiti che il trasferimento dei servizi apre nell’ambito di una lista ben più lunga che comprende aspetti giuridici, fiscali, sociali, salariali e molto altro. Tematiche a cui la direttiva Bolkestein ha voluto rispondere creando regole comuni valide per tutta l’Unione. Mantenendo sempre come faro il principio della concorrenza, tanto caro all’ordinamento europeo.

Inizialmente si temeva che la Bolkenstein potesse essere il cavallo di Troia per imporre in tutta l’Unione la privatizzazione dei servizi pubblici, ma il punto 8 della premessa chiarisce: «È opportuno che le disposizioni della presente direttiva relative alla libertà di stabilimento e alla libera circolazione dei servizi si applichino soltanto nella misura in cui le attività in questione sono aperte alla concorrenza e non obblighino pertanto gli Stati membri a liberalizzare i servizi d’interesse economico generale, a privatizzare gli enti pubblici che forniscono tali servizi o ad abolire i monopoli esistenti per quanto riguarda altre attività o certi servizi di distribuzione».

Del resto, in altre parti del testo, si precisa che la direttiva non si applica ai servizi di interesse generale menzionando specificamente la sanità e i trasporti.

Per la verità, nel testo non si fa mai espresso riferimento neanche alle spiagge o alle attività balneari, ma esse rientrano nell’ambito di applicazione della direttiva perché si tratta di attività turistiche svolte su concessione, ossia su autorizzazione delle autorità pubbliche che concedono l’uso di beni appartenenti alla collettività. Nel caso specifico le spiagge.

I beni del demanio statale

In gergo i beni di proprietà pubblica si definiscono demaniali, parola derivante dal latino dominium, «dominio», che il francese antico ha trasformato in demaine, a indicare tutto ciò che è sottomesso all’autorità statale. Un elenco che, per quanto riguarda l’Italia, è racchiuso nell’articolo 822 del Codice civile italiano: «Appartengono allo Stato e fanno parte del demanio pubblico il lido del mare, la spiaggia, le rade e i porti; i fiumi, i torrenti, i laghi e le altre acque definite pubbliche dalle leggi in materia; le opere destinate alla difesa nazionale». Ma nel 1942 il Codice della navigazione, articolo 36, stabilì che «L’amministrazione marittima, compatibilmente con le esigenze del pubblico uso, può concedere l’occupazione e l’uso, anche esclusivo, di beni demaniali e di zone di mare territoriale per un determinato periodo di tempo». Un altro provvedimento tornò sul tema nel 1993, stabilendo che le concessioni avevano la durata di quattro anni. Termine esteso a sei anni da una legge del 2001 che però fece anche di più. Da una parte previde la possibilità di rinnovo automatico a ogni scadenza. Dall’altra stabilì che, in caso di nuovi bandi, i soggetti già in possesso di una concessione erano privilegiati rispetto agli altri. Così in Italia si è formata una casta di concessionari balneari talmente blindata da impedire l’ingresso a ogni nuovo aspirante.

Una situazione non condivisa dalle istituzioni europee che a più riprese hanno chiesto allo Stato italiano di uniformarsi al diritto europeo e in particolare alla Bolkestein secondo la quale sia il rilascio di nuove concessioni, sia il rinnovo di quelle in scadenza, debbono seguire procedure pubbliche trasparenti e imparziali tali da consentire a nuovi operatori di concorrere su un piano paritario.

Nel 2009 ci fu una prima iniziativa della Commissione europea che minacciò l’Italia di una pesante multa se non avesse modificato la normativa. Ma la lobby dei gestori balneari era potente e per vari anni lo Stato italiano si è esibito in un penoso teatrino che ha mandato in scena il varo di nuove leggi che facevano finta di cambiare il quadro normativo mentre tutto rimaneva immutato. In certi casi peggioravano addirittura la situazione, come fece il primo governo Conte che, nel dicembre 2018, estese le concessioni in vigore fino al 2033.

Ue-Stato: la saga infinita

Nel frattempo, anche la Corte di giustizia europea e la magistratura italiana sono state costrette a pronunciarsi sulla questione dando sempre torto all’Italia. Nel 2022 il governo Draghi tentò di mettere la parola fine sulla vicenda varando una legge che faceva scadere tutte le concessioni al dicembre 2023. Ma nel febbraio 2023 la legge nota come «Mille proroghe» ha rinviato la scadenza di un altro anno, al dicembre 2024. Al che la Commissione europea è sbottata e nel novembre 2023 ha mandato al governo italiano una nuova missiva dandogli due mesi di tempo per uniformarsi alla direttiva Bolkestein. Insomma, la saga continua, difficile dire quando andrà in onda la puntata finale.

A gennaio 2024 il governo Meloni non aveva ancora detto come intendeva risolvere la questione. Stretto fra le pressioni dei concessionari italiani e le minacce della Commissione europea, il problema del governo Meloni è capire come uscirne senza scontentare nessuno. Ma in cuor suo sa che la lite fra lupi è ormai stata vinta da quelli europei.

L’unico modo per sparigliare le carte sarebbe quello di abbandonare i lupi e prendere le difese degli agnelli, ossia dei cittadini che chiedono di considerare le spiagge beni comuni non privatizzabili da mettere gratuitamente a disposizione di tutti. Come succede in Spagna dove le spiagge sono tutte libere, con possibilità per i privati di allestire i propri servizi a pagamento solo sui terreni di retrovia.

Canoni ridicoli, evasione, lavoro nero, abusi

In Italia ci sono spiagge in abbondanza. L’Ispra (Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale) certifica che su 8.300 chilometri di coste, 3.270 sono rappresentate da spiagge sabbiose o ghiaiose. Ma la maggior parte di esse sono accessibili solo a pagamento perché sono controllate da un’industria balneare che nessuno sa quantificare con esattezza.

Secondo il sistema delle Camere di commercio, nel 2021 gli stabilimenti balneari in Italia ammontavano a 7.173, ma il dato non torna con i numeri forniti dal Sid, il Sistema informativo del demanio, secondo il quale nello stesso anno le concessioni balneari erano 12.166. Una media di quattro stabilimenti ogni chilometro di spiaggia.

Anche il giro d’affari dell’industria balneare rimane un mistero: le valutazioni cambiano a seconda del tipo di impresa inclusa nel settore.

Le stime, pertanto, oscillano fra i 2 e i 15 miliardi di euro l’anno. È certa, invece, l’esiguità dell’incasso che lo Stato ottiene dalle concessioni. Una media di 95 milioni l’anno, ha calcolato la Corte dei conti. Un ben magro bottino considerati anche gli episodi di illegalità riscontrati nel settore balneare. Il riferimento non è tanto all’evasione fiscale e al lavoro nero, non documentabili, ma alla presenza di tratti di litorale occupati da muri e cancelli nonché edifici costruiti abusivamente, come denuncia anche il Rapporto spiagge di Legambiente del 2022. Una situazione inimmaginabile in Francia dove l’80% della lunghezza e l’80% della superficie della spiaggia deve essere libera da costruzioni per sei mesi l’anno. Non a caso gli stabilimenti vengono montati e smontati a ogni stagione. Inoltre, nel territorio francese, i comuni, che sono gli enti preposti al rilascio delle autorizzazioni e delle concessioni, sono obbligati a informare la collettività di qualunque progetto e di qualunque nuovo soggetto che intenda gestire le spiagge. Al tempo stesso i cittadini possono effettuare proposte sulla corretta gestione del patrimonio costiero pubblico.

Spiagge, uno scandalo italiano. Foto GMaiga – Pixabay.

Beni comuni trascurati

L’Italia è fra i paesi europei con le più alte quote di spiagge date in concessione.

Legambiente segnala che la percentuale di costa sabbiosa gestita da stabilimenti privati è mediamente del 43% con regioni che arrivano molto più su. Succede, ad esempio, in Liguria, Emilia Romagna e Campania, dove quasi il 70% delle spiagge è occupato da stabilimenti balneari.

Nel comune di Gatteo, in provincia di Forlì e Cesena, tutte le spiagge sono in concessione, ma anche a Pietrasanta (Lucca), Camaiore (Lucca), Montignoso (Massa), Laigueglia (Savona) e Diano Marina (Imperia) siamo sopra il 90%.

Alla fine, per la libera balneazione, rimangono solo pochi metri quadrati, spesso nei pressi di aree degradate. In effetti la libera balneazione non è solo un problema di estensione, ma anche di qualità delle spiagge. Scrive Legambiente: «In molti Comuni le uniche aree non in concessione sono quelle vicino allo scarico di fiumi, fossi o fognature dove al massimo ci si può sdraiare a prendere il sole, non certo a fare il bagno dal momento che la balneazione è vietata perché il mare è inquinato. Ma nessuno controlla che le spiagge libere non siano relegate in porzioni di costa di «serie B», mentre i numerosi cittadini che vogliono fruirne meri- terebbero di trovarle almeno in luoghi monitorati e balneabili».

Il 13 dicembre 2022, in occasione dell’assemblea nazionale di Confesercenti, la ministra del Turismo, Daniela Santanchè, sostenne che le spiagge vanno affidate ai privati perché «se uno va a vedere le spiagge libere, in posti anche meravigliosi, ci sono i tossicodipendenti, rifiuti e nessuno che pensa a tenerle in ordine».

La ministra dimentica che, in quanto rappresentante della Repubblica, avrebbe l’obbligo di elaborare proposte capaci di tenere insieme decoro e godimento dei beni comuni da parte di tutti. Quanto alla tossicodipendenza non è certo con la repressione e con le recinzioni di epoca previttoriana che si risolve il problema. Soprattutto la ministra dovrebbe ricordarsi dell’articolo 41 della Costituzione secondo il quale l’iniziativa privata è libera, ma non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale.

Francesco Gesualdi

 




Se è vendibile, appartiene al mercato

testo di Francesco Gesuladi |


Ci sono due logiche: una liberista e una solidaristica. La prima guarda al profitto, la seconda alla dignità delle persone. Per quest’ultima sono nati i diritti umani e lo stato sociale. Uno stato, però, che diventa sempre più ristretto. Come dimostrato, in Italia, dalla vicenda dell’acqua.

Nella logica liberista la separazione dei compiti fra mercato ed economia pubblica è determinata da un criterio molto semplice: tutto ciò che è vendibile appartiene al mercato, tutto ciò che è indivisibile è assegnato al comparto pubblico. Che si tratti di cioccolatini o cure mediche, di cravatte o di acqua, di servizi alberghieri o  istruzione, non fa differenza:  nella misura in cui si tratta di beni e servizi parcellizzabili, e quindi vendibili a singoli soggetti, il mercato li rivendica come suoi. Col solo obiettivo di permettere alle imprese che li commercializzano di realizzare un profitto. Se invece si tratta di cura del territorio, di difesa dei confini, di mantenimento dell’ordine pubblico, ossia di servizi  non acquistabili da individui singoli, ma godibili obbligatoriamente in forma collettiva, allora sono lasciati alla dimensione pubblica.

Al contrario, nella logica solidaristica il criterio usato per stabilire cosa competa all’ambito pubblico e cosa al mercato non è economico, ma etico: tutto ciò che condiziona la dignità della persona appartiene alla comunità, tutto il resto può appartenere al mercato. La dignità è un concetto ampio che può essere espresso come l’insieme delle condizioni necessarie per permettere a chiunque di condurre una vita che possa definirsi umana. Condizioni che spaziano dalla politica (il godimento della libertà e della possibilità di partecipare alla vita democratica) alla fede religiosa (la libertà di professare il proprio credo); dall’ecologia (la possibilità di vivere in un ambiente sano) all’economia (la possibilità di soddisfare i bisogni di base). Aspetti che vanno garantiti a chiunque e per questo sono definiti diritti. Da un punto di vista etimologico, diritto viene da dirigere, verbo molto vicino a stabilire. Se ne può dedurre che diritto può essere tradotto «ciò che è stabilito dalla legge universale». E ciò che è stabilito è la possibilità per ogni individuo di godere di una serie benefici, tutele, garanzie, indipendentemente da ricchezza, razza, età, sesso. L’esistenza come unico criterio di ammissibilità.

L’incompatibilità tra diritti e mercato

Nel 1215, Giovanni Senzaterra, re d’Inghilterra, pone la prima pietra dei diritti politici con l’emanazione della Magna Charta, ma bisogna aspettare il 1948 quando i diritti sociali sono riconosciuti e inseriti nella Dichiarazione dei diritti umani adottata dalle Nazioni Unite. L’articolo 25 recita: «Ogni individuo ha diritto a un tenore di vita sufficiente a garantire la salute, il benessere proprio e della propria famiglia, con particolare riguardo all’alimentazione, al vestiario, all’abitazione, alle cure mediche e ai servizi sociali necessari. Ha diritto alla sicurezza in caso di disoccupazione, malattia, invalidità, vedovanza, vecchiaia o in ogni altro caso di perdita dei mezzi di sussistenza per circostanze indipendenti dalla sua volontà».

I diritti non si garantiscono però con i proclami: essi esigono un’organizzazione adeguata. Per parte sua, il mercato è una grande macchina, capace di garantire di tutto: beni fondamentali e beni di lusso, oggetti comuni e oggetti rari, prodotti leciti e prodotti illegali, mezzi di pace e mezzi di guerra. Con le sue migliaia, milioni di imprese di ogni dimensione e settore, da un punto di vista dell’offerta è ineguagliabile. Ma ovunque ci sono regole, e anche il mercato ha le sue. La regola principale è che si può chiedere di tutto, ma per ottenerlo bisogna pagare. Scopriamo così che il mercato non è per tutti. Il mercato è solo per chi ha soldi: chi ha denaro da spendere è accolto, corteggiato, riverito; chi non ne ha è  rifiutato, escluso, disprezzato.

Per definizione, i diritti sono universali e inalienabili. Appartengono a tutti per il fatto stesso di esistere. Per questo non sono appannaggio di una macchina selettiva come il mercato. Non dipendono neanche dalla benevolenza, perché ciò che spetta di diritto non può essere affidato al buon cuore. I diritti non si mendicano. I diritti nascono con la persona, e il loro rispetto si pretende dalla comunità che deve farsene carico attraverso un patto di solidarietà collettiva. Ed ecco la sostituzione del meccanismo del prezzo con il meccanismo della fiscalità che rompe qualsiasi relazione diretta fra ciò che si dà e ciò che si riceve. Sul fronte del dare chi più guadagna più versa. Sul fronte del ricevere, chi più ha bisogno più riceve. Per questo il meccanismo della solidarietà esige anche un altro principio che è quello della gratuità.

Lo stato sociale

Principi ripresi dalla nostra Costituzione che, all’articolo 2, definisce la solidarietà «dovere inderogabile», mentre all’articolo 53 sancisce che «il sistema tributario è informato a criteri di progressività». Del resto dopo la seconda guerra mondiale in tutta Europa si fa strada la formula socialdemocratica che vuole il capitalismo addomesticato alle esigenze sociali. La sua espressione più alta si manifesta nei paesi scandinavi negli anni Settanta: salari alti, forme di assunzione stabili, ma soprattutto scuola, sanità e previdenza per tutti. Agli imprenditori è riconosciuta libertà di investimento e accesso al profitto, ma la priorità ce l’hanno i diritti. Di qui uno stato forte che organizza una solida rete di previdenza sociale contro disoccupazione, invalidità, vecchiaia. Uno stato forte che avoca a sé la gestione dei servizi fondamentali, non solo scuola e sanità, ma anche acqua, energia, trasporti, telefonia. Uno stato che all’occorrenza non si fa scrupolo a nazionalizzare le imprese private di pubblica utilità.

Contro lo stato sociale

Nel 1962, in Italia si procede alla nazionalizzazione del servizio elettrico e nasce l’Enel. Negli anni Ottanta il vento cambia. Mantenere lo stato sociale costa. Richiede una tassazione elevata. Fra i ceti ricchi cresce il malumore, c’è insofferenza per la pressione fiscale e c’è rabbia per l’impossibilità di mettere le mani su settori appetibili di esclusiva competenza pubblica. Decidono di passare al contrattacco. Hanno i soldi, posseggono quotidiani e riviste, addirittura televisioni, possono organizzare un’offensiva in grande stile contro il modello socialdemocratico. Denigrano lo stato, lo accusano di inefficienza, parassitismo. Attaccano i diritti, si scagliano contro l’ugualitarismo che indurrebbe a scarso impegno lavorativo. Rilanciano le vecchie parole d’ordine: mercato, concorrenza, privato. L’opinione pubblica sbanda, ha qualche esitazione, poi si lascia convincere. Il primo sfondamento avviene in Inghilterra. Nel 1979 i conservatori vincono le elezioni, Margaret Thatcher, la «Lady di ferro», diviene Primo ministro (incarico che rivestirà fino al 1990). Un decennio durante il quale taglia le tasse sui redditi più alti, inasprisce le tasse sui consumi, notoriamente pagate dai più poveri, e soprattutto privatizza: telefoni, acqua, gas, energia. Blair, che le succede, benché laburista, completa l’opera privatizzando le ferrovie. Destra e sinistra unite dalla medesima fede neoliberista.

Storia della privatizzazione dell’acqua

In Italia l’ondata delle privatizzazioni coinvolge anche l’acqua, non quella in bottiglia che già  era nelle mani dei mercanti, ma quella degli acquedotti. Neanche Mussolini aveva osato tanto. Lui, anzi, aveva fatto costruire vari acquedotti fra cui il completamento di quello pugliese. Dal 1903 gli acquedotti, e molti altri servizi di pubblica utilità, erano gestiti dai comuni secondo la formula delle aziende municipalizzate, entità a metà strada fra l’azienda e l’ufficio tecnico, in ogni caso strutture senza fini di lucro. Una formula introdotta dal governo di Giovanni Giolitti, che pur essendo un liberale convinto, sosteneva che certi servizi non potessero essere delegati ai privati. Una convinzione che avrebbero conservato anche i governanti moderni se non avessero ceduto alla pressione di cui le imprese sono state capaci.

L’offensiva sull’acqua è partita in sordina a inizio anni Novanta, con modifiche di legge su questioni tecniche, di quelle barbose che capiscono solo gli avvocati e i ragionieri. È proprio di quei cambiamenti che bisogna avere paura. Fondamentalmente la strategia per fare passare gli acquedotti da una gestione pubblica a una privata è stata pensata in due tempi: prima la fase di preparazione del campo, poi l’attacco finale. Il primo obiettivo era fare cambiare mentalità, scardinare l’idea del Comune-comunità che si fa carico dei bisogni fondamentali secondo logiche di solidarietà, per rimpiazzarla con quella del Comune-bottegaio che vende servizi secondo logiche di mercato. E, per farlo, si è cominciato a cambiare la struttura giuridica degli strumenti economici a disposizione dei comuni. È stata l’aziendalizzazione, la privatizzazione ombra, citata nella precedente puntata. I bracci operativi fino ad allora utilizzati dai comuni per gestire i loro servizi erano le aziende municipalizzate, strutture autonome da un punto di vista tecnico operativo, ma un tutt’uno col Comune da un punto di vista economico e politico. L’azienda municipalizzata faceva pagare un prezzo per i servizi che forniva, ma l’ammontare era deciso dal consiglio comunale in base a criteri sociali e se l’incasso non bastava per fare fronte a tutte le spese o agli investimenti da effettuare, provvedeva il Comune con integrazioni di altra natura.

Nel 1990 s’incrina questa logica istituendo le aziende speciali. Da un punto di vista linguistico la differenza è impercettibile, ma da un punto di vista giuridico è abissale. L’azienda speciale, pur essendo di proprietà del Comune diventa un corpo a se stante, una sorta di figlio maggiorenne che deve arrangiarsi da solo. D’ora in avanti non può più ricorrere alla mamma Comune: deve coprire tutte le spese da sola con i proventi delle sue vendite. I prezzi li decide lei stessa non più secondo logiche di equità sociale, ma secondo logiche di contabilità di bilancio. Per di più è una Spa, società per azioni. Per legge il suo compito è garantire profitti agli azionisti. Un cambiamento totale di prospettiva: la municipalizzata guardava alla gente, la Spa guarda agli azionisti. Potremmo dire «all’azionista» visto che il capitale è del Comune, ma la Spa ha la caratteristica che le quote si possono vendere, e altri soci possono aggiungersi. Le leggi che seguirono aprirono l’ingresso ai privati con le multinazionali dell’acqua che calarono come cavallette per entrare nelle società pubbliche costituite per gestire gli acquedotti. Così oggi abbiamo mostri come Acea, Hera, A2A, aziende quotate in borsa a partecipazione mista pubblico privato che si comportano come delle multinazionali qualsiasi. E a nulla è valso la schiacciante vittoria del sì ai referendum del 2011 che, di fatto, ha bocciato la gestione privatistica dell’acqua e soprattutto la possibilità di fare profitti sull’acqua. Alla volontà popolare sono stati contrapposti cavilli giuridici che hanno avuto la meglio. Non per la forza dei loro argomenti, ma per la debolezza della nostra resistenza.

Francesco Gesualdi
(seconda parte – fine)

In quanto diritto umano, l’acqua non può essere privatizzata. Foto: Manuel Darío Fuentes Hernández-Pixabay.

 




Le perdite allo stato, i profitti ai privati

Testo di Francesco Gesualdi |


Nelle privatizzazioni, la lotta è tra statalisti e liberisti. Nella realtà, il ragionamento dei liberisti è più opportunista: «no» all’intervento dello stato quando le cose vanno bene, «sì» quando le cose vanno male. La vicenda Autostrade-Benetton.

La vicenda del Ponte Morandi ha riacceso i riflettori sulle privatizzazioni, anche se alla fine tutto si è trasformato in un processo alla famiglia Benetton, piuttosto che in una riflessione sul principio in sé delle privatizzazioni. Privatizzare, la parola stessa lo dice, significa «rendere privato ciò che è pubblico». Un concetto di per sé semplice, ma complicato dal fatto che le modalità di passaggio ai privati sono molteplici e che la stessa privatizzazione si presta a molteplici interpretazioni. Volendo schematizzare, il termine può riferirsi a tre diversi scenari: la privatizzazione totale, la privatizzazione parziale, la privatizzazione ombra, di cui, però, parleremo meglio nella prossima puntata.

Liberisti e interventisti

La privatizzazione totale si ha quando lo stato vende definitivamente una sua proprietà o una sua attività a un soggetto privato totalmente indipendente. Se lo stato debba gestire o meno servizi e attività produttive ha sempre rappresentato un tema di grande contesa che ha diviso economisti e forze politiche in schieramenti contrapposti: di qua i liberisti, che vogliono limitare la presenza dello stato ai soli ambiti che tutti hanno interesse a mantenere collettivo (magistratura, polizia, difesa dei confini, anagrafe); di là gli interventisti, che pretendono di estendere la presenza dello stato a tutti quegli ambiti che condizionano la dignità dei cittadini: sanità, istruzione, alloggio, acqua, rifiuti, trasporti e molti altri. Così in teoria. Di fatto i liberisti hanno sempre avuto un atteggiamento oscillante (e opportunista): di assoluta opposizione all’intervento dello stato quando le cose per loro vanno bene, ma di richiesta di protezione in caso di mala parata. Della serie: «privatizziamo i profitti, socializziamo le perdite».

Nascita e morte dell’Iri

Quando nel 1929 le economie di tutto il mondo entrarono in crisi con fallimenti a catena di banche e imprese produttive, tutti invocarono l’intervento dei governi per salvare il salvabile. Richiesta accolta anche da Mussolini che, nel 1933, istituì l’«Istituto per la ricostruzione industriale», in sigla Iri, incaricato di sottrarre al fallimento i principali gruppi bancari e industriali che spaziavano dalla siderurgia alla produzione energetica, dalle costruzioni navali a quelle automobilistiche. Quando lo stato italiano si ritrovò proprietario dei maggiori stabilimenti industriali, pensava di detenerli in maniera transitoria, tanto quanto sarebbe bastato per superare la burrasca. Invece, la situazione si stabilizzò e nel dopoguerra il fondo venne rafforzato attribuendogli l’incarico di pilotare lo sviluppo economico del paese. In particolare, avrebbe dovuto sostenere lo sviluppo del Mezzogiorno e potenziare la viabilità ritenuta fondamentale per la crescita dell’economia italiana. Non a caso, nel 1950, venne costituita la Società autostrade che, partendo dall’autostrada del Sole, costruì l’intelaiatura autostradale italiana. Negli anni Settanta, l’Iri fu chiamato nuovamente a svolgere funzioni di salvataggio di imprese in crisi e si indebitò in maniera pesante. Il che fu poi usato come pretesto per avviare un processo di smantellamento dell’ente che si concluse nel 2000 con la sua liquidazione. Così tornarono in mani private aziende che, oltre a svolgere servizi importanti come la telefonia e la gestione autostradale, garantivano rendite sicure dal momento che erano in una posizione di monopolio, ossia di operatori senza concorrenti che, oltre ad avere un mercato sicuro, potevano fare i prezzi che volevano. Tesi confermata dalla Corte dei Conti che, in un rapporto del febbraio 2010, segnala come, nel caso delle utilities (energia, trasporti, telecomunicazioni), «l’aumento della profittabilità delle imprese regolate sia attribuibile in larga parte all’aumento delle tariffe» piuttosto che a investimenti migliorativi.

Il caso autostrade

Complessivamente, dal 1991 al 2001, la vendita delle proprietà pubbliche ha fruttato allo stato 97 miliardi di euro. Sarà stato davvero un affare per il popolo italiano? I sostenitori del «sì» ritengono che sia stato conveniente perché ci siamo sbarazzati di aziende in perdita che procuravano soltanto debiti e perché abbiamo raggranellato qualche soldo per ripagare il nostro debito pubblico. Ma non tutte le aziende dismesse erano in perdita, mentre l’effetto sul debito pubblico è stato solo del 7%. Purtroppo, non si può fare a meno di constatare che, dietro al fenomeno delle privatizzazioni, c’è stata anche una buona dose di scelta ideologica. In effetti a partire da fine anni Settanta del secolo scorso, l’idea statalista cominciò a retrocedere per fare posto a quella liberista che vuole il mercato protagonista assoluto del sistema economico e perfino sociale. Prova ne sia che il processo di privatizzazione coinvolse l’intero mondo industrializzato con il suo apice nel 1999, anno in cui gli introiti da vendite delle proprietà pubbliche, raggiunsero i 140 miliardi di dollari a livello mondiale. Purtroppo, anche l’Unione europea spinse in questa direzione pretendendo dai paesi membri l’applicazione di trattati europei fondati su regole che antepongono i meccanismi di mercato all’interesse collettivo.

In Italia, l’ubriacatura liberista risucchiò nel tritacarne delle privatizzazioni molti beni e molti servizi. Fra i pochi sfuggiti, le infrastrutture stradali che sono rimaste di proprietà pubblica: le autostrade, infatti, appartengono al governo centrale per il tramite del ministero dei Trasporti. In effetti, la Società autostrade, che l’Iri mise in vendita nel 1999, ormai era solo una società di gestione, la quale, per esercitare la propria attività, doveva ottenere una concessione da parte del governo che continuava a possedere il bene autostradale. E fu così che, contestualmente alla privatizzazione totale della società, avvenne la privatizzazione parziale del bene, per la possibilità concessa alla società privatizzata di gestire gran parte della rete autostradale. In seguito, la concessione venne rinnovata più volte secondo modalità fortemente criticate dalla Corte dei Conti che, in un suo rapporto dell’ottobre 2019, parla di scarsa trasparenza, scarsa correttezza giuridica, scarsa correttezza economica. Il risultato è che, su un totale di 6.700 km di rete autostradale, oltre l’85% sono stati affidati a società private e solo il 15% sono rimasti in carico ad Anas, la società di proprietà pubblica adibita alla cura delle strade. Le società concessionarie private che gestiscono circa 5.700 km, oggi sono 25, ma la parte del leone la fa «Autostrade per l’Italia», che da sola controlla oltre il 50% della rete in concessione, fra cui l’Autostrada del Sole, l’Autostrada Adriatica, la Firenze-Mare.

Oltre a precisare l’ambito delle autorizzazioni, le concessioni definiscono i diritti e i doveri dei concessionari compresi gli investimenti che devono realizzare ai fini migliorativi e gli innalzamenti tariffari che possono operare per recuperare il capitale investito e garantirsi un guadagno. Come segnala la stessa Corte dei Conti, i rendimenti inseriti nelle concessioni autostradali sono stati fissati a livelli molto alti, in certi casi addirittura oltre il 10%, provocando una costante lievitazione delle tariffe e quindi dei profitti delle società concessionarie. E si vede. Nel 2017, l’anno prima che il Ponte Morandi crollasse, Autostrade per l’Italia aveva realizzato ricavi per quasi 4 miliardi di euro, di cui 2,5 utilizzati per spese di gestione, 465 milioni versati allo stato per il canone di concessione e più di un miliardo distribuito agli azionisti come profitti. Ed è qui che entrano in scena i Benetton che, per il tramite di Atlantia, detengono l’88% di Autostrade.

Le autostrade sono un simbolo del fallimento delle privatizzazioni in Italia. Foto: Schwoaze-Pixabay.

Lo stato e i Benetton

Nel 1999, quando la società venne messa in vendita, i Benetton si limitarono a comprarne il 30%, non avendo altri soldi da spendere. La quota restante la comprarono nel 2003 a debito, dopo che una riforma del diritto societario aveva introdotto un meccanismo che permette di comprare le aziende a debito potendosi sbarazzare del debito stesso. Il meccanismo si chiama leverage buyout, in tutto e per tutto un gioco di prestigio finanziario. L’imprenditore che intende effettuare l’acquisto lo fa attraverso una società creata ad hoc che, oltre a rappresentare lo strumento giuridico della compra-vendita, ha anche il compito di raccogliere prestiti presso terzi. Poi, ad acquisto avvenuto, la società acquirente viene fusa con la società acquistata, per cui il debito passa a quest’ultima con tutti gli obblighi che ne derivano. Nel caso specifico la famiglia Benetton creò la società NewCo28 per raccogliere prestiti pari a 6,5 miliardi di euro necessari a completare l’acquisto di Autostrade per l’Italia. Ad acquisto effettuato, NewCo28 venne incorporata in Autostrade e il debito lo stanno ancora pagando gli automobilisti attraverso i pedaggi.

Dopo la caduta del Ponte Morandi molti hanno capito che andava processato non solo chi si era reso colpevole di negligenze, ma l’intero sistema delle concessioni decisamente troppo a favore delle società di gestione. Invece di riconoscere questa necessità e proporre una riforma complessiva sul modo di gestire le autostrade, il governo ne ha fatto una questione di mala gestione da parte dei Benetton e ha annunciato di voler revocare la concessione rilasciata a loro favore, forse con l’intento di correggere almeno le storture più eclatanti. Se si fosse riusciti a togliere la concessione ai Benetton, così era il ragionamento, il governo avrebbe potuto indire una nuova gara e stipulare una nuova concessione su basi totalmente diverse con il nuovo concessionario.

Fin da subito si è però capito che la revoca era una strada impraticabile per le enormi penali che lo stato avrebbe dovuto pagare. Così, per due anni non è successo nulla, almeno in apparenza. In realtà, dietro le quinte governo e impresa hanno continuato a interloquire per trovare un’altra soluzione: il ridimensionamento dei Benetton in Autostrade, in modo da fare passare il potere decisionale a nuovi soggetti disposti a rivedere i termini della concessione. A luglio 2020 è arrivato l’annuncio: i Benetton hanno accettato di vendere una parte cospicua delle loro quote in Autostrade a una cordata diretta da Cassa depositi e prestiti, banca controllata dal ministero del Tesoro e finanziata dal risparmio postale. Tuttavia, i particolari dell’accordo, compreso il prezzo di vendita, non sono stati annunciati: saranno pattuiti in privato fra le parti. Dunque, ci sarà ancora da attendere per capire se l’operazione si tradurrà in una bacchettata ai Benetton o in un ennesimo regalo a loro favore. Visti i trascorsi, è meglio non farsi troppe illusioni.

Francesco Gesualdi
(prima parte – continua)