Albert Einstein, Tra Nobel e famiglia
La vita del grande fisico tedesco non è stata facile. Problemi familiari, invidie, incomprensioni, accuse (anche di comunismo) non sono mai mancati. Lo ricordiamo a cent’anni dall’assegnazione del premio Nobel (ma non per la sua teoria della relatività).
Il 9 novembre 1922, il Comitato per il premio Nobel per la fisica decise di assegnare, con un anno di ritardo, il premio per il 1921 ad Albert Einstein «per i suoi servizi alla fisica teorica, in particolare per la sua scoperta della legge dell’effetto fotoelettrico».
Il premio assegnato al fisico tedesco venne conferito con un anno di ritardo perché nel 1921 la Reale Accademia delle scienze svedese non aveva ritenuto alcun candidato meritevole del premio, riservandosi il diritto di rivedere la propria posizione in seguito. Fu Allvar Gullstrand, uno dei cinque membri che doveva valutare le candidature, a nutrire particolare ostilità nei confronti della teoria della relatività di Einstein, ancora di difficile comprensione. Naturalmente gli accademici svedesi erano imbarazzati per non aver ancora concesso il massimo onore a uno scienziato così popolare che, dal 1910 al 1922, era stato nominato
annualmente come candidato (ad eccezione del 1911 e del 1915) senza mai ottenere il premio. Fu un altro membro della Reale Accademia delle scienze, Carl Wilhelm Oseen, a trovare la soluzione: dato che non si riusciva a laureare Einstein per la sua teoria della relatività, lo propose per il suo articolo scritto, sempre in quell’annus mirabilis 1905, sull’effetto fotoelettrico.
Einstein apprese la notizia del conferimento del premio il 13 novembre 1922 mentre stava per imbarcarsi a Shanghai diretto verso il Giappone. Con lui c’era la seconda moglie Elsa Löwental, che era anche sua cugina di primo grado. Gli anni felici passati con Mileva Marić, la prima moglie da cui aveva divorziato nel 1919, erano ormai dimenticati e mentre Einstein trovava nuovo slancio nella sua vita privata e scientifica, l’ex coniuge arrancava a Zurigo con i loro due figli Hans Albert ed Eduard (a cui, in seguito, sarebbe stata diagnosticata una forma di schizofrenia).
Tra Svizzera e Serbia
Il centenario del Nobel ad Albert Einstein è l’occasione per ripercorrere i passi compiuti a Berna dall’allora felice coppia Einsten-Marić che lo stesso Albert aveva soprannominato, prendendo spunto dal proprio cognome, «Una pietra» (da «ein», una, e «stein», pietra).
I due si erano conosciuti – lei ventenne lui diciassettenne – nel 1896 all’Istituto politecnico svizzero di Zurigo (oggi Istituto federale svizzero di tecnologia, Eth). La Svizzera era uno dei pochi paesi in Europa dove alle donne era permesso studiare materie scientifiche, ma l’amore sbocciato con Albert non le permise di conseguire il diploma: nel 1902 Mileva rimase incinta e nello stesso anno, a Novi Sad, la città in cui abitava la famiglia di lei e dove si era recata per partorire, nacque una bambina a cui venne dato il nome di Lieserl. Poco dopo, della figlia si
persero le tracce: c’è chi dice che morì, chi invece afferma sia stata data in adozione. Da parte loro, i coniugi Einstein non ne fecero più cenno pubblicamente (l’ipotetica lettera alla figlia scritta da Einstein che circola su internet è un falso).
Nel 1902 Albert, che non aveva potuto seguire la fidanzata in Serbia, si trasferì a Berna occupando un posto nell’Ufficio federale della proprietà intellettuale. Il novello fisico rimase immediatamente estasiato dalla città, tanto da scrivere a Mileva: «Berna è deliziosa, è una di quelle città in cui vivere è confortevole e dove si può vivere bene come a Zurigo».
Einstein vi sarebbe rimasto per i successivi sette anni (traslocando sette volte), ma in questa piccola cittadina sembrava avesse trovato il suo equilibrio vitale. Pertanto, dopo aver acquisito una certa stabilità economica, chiese alla sua amata di tornare in Svizzera e di sposarlo. Lei acconsentì e nel 1903 divenne la signora Einstein.
Passarono i successivi due anni, forse i più tranquilli e felici della loro vita, in un bell’appartamento in via Kramgasse 49, dalle cui finestre era possibile osservare lo Zytglogge, il famoso orologio medioevale che si dice abbia ispirato ad Einstein l’idea della relatività del tempo. Albert lavorava sei giorni alla settimana all’ufficio brevetti, dalle 7 alle 18 anticipando l’uscita alle 17 solo al sabato. Tornava a casa e si rimetteva al lavoro sulla piccola scrivania cercando di completare le sue teorie (la leggenda che Einstein lavorasse alle proprie idee durante gli orari d’ufficio e di nascosto dal suo superiore sembra sia infondata).
Gli Einstein sembravano veramente «una pietra»: affiatati e innamorati, incontravano amici, discutevano di fisica. Nel 1904 ebbero un altro figlio, Hans Albert, e le aspirazioni di Mileva di poter conseguire il diploma e intraprendere la carriera di scienziata si dileguarono definitivamente.
Nell’appartamento di Kramgasse 49, mentre il marito continuava le sue ricerche, Mileva puliva, riassettava, cucinava, accudiva il piccolo Hans.
Poi arrivò il famoso 1905, l’annus mirabilis. In pochi mesi, dal 18 marzo al 27 settembre, Albert Einstein collezionò una serie di straordinari successi pubblicando i suoi articoli sulla più prestigiosa rivista scientifica di allora, gli Annalen der Physics.
Iniziato con l’articolo sull’effetto fotoelettrico che gli sarebbe valso il Nobel, l’annus mirabilis terminò il 27 settembre 1905 con la pubblicazione de L’inerzia di un corpo dipende dal contenuto di energia? in cui compare la famosa relazione tra energia e massa collegandola a un suo precedente articolo pubblicato nel giugno 1905 sulla relatività ristretta.
Contributi ignorati?
La paternità degli articoli che resero famoso Einstein non fu mai messa in discussione fino a quando, nel 1969, Desanka Trbuhovi-Gjuri scrisse una biografia di Mileva Marić in cui asseriva che il contributo della moglie serba nelle teorie di Einstein fosse stato decisivo.
Nonostante non si siano mai trovate prove definitive su questa tesi, da quel volume nacque una fiorente letteratura che sarebbe sfociata anche in serie televisive che rivalutavano la collaborazione scientifica di Mileva alle scoperte del marito.
Oggi, gli studiosi sono pressoché unanimi nell’asserire che la Marić non destreggiasse sufficientemente la matematica per poter assumere un ruolo decisivo nel lavoro di Einstein. Del resto nell’abbondante carteggio di Einstein, in cui compaiono le lettere anche della moglie, non vi sono indicazioni di un coinvolgimento diretto di Mileva.
I rapporti tra i coniugi erano ancora ottimi quando gli Annalen pubblicarono i lavori del fisico tedesco, quindi perché, si chiedono in molti tra storici e scienziati, negli scritti originali della relatività ristretta, Albert Einstein avrebbe ringraziato l’amico Michele Besso per «essere rimasto accanto nel mio lavoro sul problema qui discusso e di cui gli sono debitore per i numerosi e valenti suggerimenti» senza citare la moglie?
Forse, accanto al supporto dato dalla moglie, la grande ingegnosità della mente di Einstein potrebbe essere stata stimolata dalla ricchezza culturale di Berna e dall’atmosfera di tranquilla operosità che la cittadina emanava.
Le passeggiate che sicuramente lo scienziato faceva sulle colline circostanti e nel Rose Garden, dove ancora oggi c’è una panchina con una sua statua, potrebbero aver stimolato la sua visione. Le caffetterie che si aprono sull’arteria principale furono teatro di discorsi con gli amici scienziati. Probabilmente fu in uno di questi locali che Michele Besso introdusse all’amico i lavori di Ernst Mach, decisivi per la futura visione fuori dagli schemi della fisica che accompagnò Albert.
Gli «anni felici trascorsi a Berna», come Einstein avrebbe descritto in seguito quello sprazzo di vita passata nella capitale svizzera, sarebbero rimasti sempre impressi nei ricordi dello scienziato.
A Berna si consolidò anche lo stretto sodalizio con il matematico Conrad Habicht e il filosofo Maurice Solovine. I tre, ai quali talvolta si aggiungeva anche Besso, si riunivano spesso prima nell’appartamento di Gerechtigkeitsgasse al 32 e poi in Kramgasse 49 per discutere non solo di fisica, ma anche di religione, politica, filosofia. Mileva, a quanto avrebbe scritto Solovine, si limitava a osservare: portava in tavola gli stuzzichini (in genere, salsicce, formaggio, frutta), serviva il caffè, il tè senza partecipare alle discussioni. L’Akademie Olympia (Accademia Olimpia), come venne chiamato il gruppo dagli stessi partecipanti, giocò un ruolo essenziale nella formazione eclettica di Einstein. Nel salotto di casa, col sottofondo dello sferragliare dei tram scandito dai battiti dello Zytglogge, i tre discutevano i temi trattati da David Hume, John Stuart Mill, Henri Poincaré, Baruch Spinoza. Di tanto in tanto, Einstein dilettava gli amici suonando il suo violino.
Nel 2005, la casa in cui gli Einstein abitarono venne trasformata in museo, la «Einsteinhaus», mentre il Museo storico di Berna dedicò un’intera sezione alla coppia.
Maldicenze e invidie universitarie
Berna fu davvero il palcoscenico dove si dipanarono gli anni più spensierati di Einstein. Con la locale università il rapporto fu invece più conflittuale che collaborativo.
Forse Einstein si risentì per il rifiuto ricevuto il 28 ottobre 1907 dalla facoltà dell’ateneo bernese della sua domanda per l’abilitazione all’insegnamento in Fisica teorica. La ricusazione non fu motivata dal rigetto delle sue teorie, come è stato recentemente ipotizzato, ma da un cavillo burocratico: Einstein non aveva presentato la tesi di abilitazione. La espose qualche settimana più tardi perché il 27 febbraio 1908 la stessa università invitò il fisico a una lezione di prova con alcuni studenti. La sua esposizione non sembra fosse stata apprezzata dagli studenti: molti trovarono i suoi concetti interessanti, ma spiegati in modo poco comprensibile e tanti abbandonarono il corso prima della sua conclusione.
Alla fine, ad Einstein venne proposto una Privatdozent che gli permetteva di diventare un docente privato esterno e senza paga, che avrebbe potuto tenere lezioni nelle aule dell’università raccogliendo le tasse di iscrizione ai suoi corsi.
L’esperienza fu però un fallimento: «L’università è un letamaio. Non insegnerò lì, sarebbe una perdita di tempo», scrisse a Michele Besso.
Come molti suoi colleghi, Einstein non riusciva a esprimere con concetti chiari e semplici le sue idee che risultavano astruse al corpo studentesco.
La gloriosa epopea bernese della famiglia Einstein terminò il 6 luglio 1909 quando, a seguito dell’accoglimento della sua domanda di insegnamento al Politecnico di Zurigo, rassegnò le sue dimissioni dall’Ufficio brevetti di Berna e, assieme a Mileva e a Hans Albert, si trasferì a Zurigo.
Qui, a differenza di Berna, il suo essere ebreo lo portò a subire maldicenze da parte dei suoi colleghi. Altra città e altri tempi per il futuro premio Nobel per la fisica.
Piergiorgio Pescali
L’uomo, la religione, le idee
Einstein, ebreo e pacifista
Albert Einstein nacque a Ulm, nella regione tedesca del Württemberg, il 14 marzo 1879 da una famiglia ebrea ashkenazita (da «Ashkenaz», il nome ebraico della regione del Reno, dove gli ebrei di lingua yiddish si stanziarono nel medioevo). A Monaco, dove la famiglia si era trasferita, Einstein frequentò le scuole cattoliche, ma fu un altro ebreo di origine lituana, Max Talmud, a scoprire il suo talento per le materie scientifiche. La passione per la scienza allontanò Einstein dalla religione: in una lettera del 1929 indirizzata a un rabbino, scrisse di credere a un Dio in armonia con gli esseri viventi più che al Dio trascendente della tradizione ebraica.
Questa sua idea di essere supremo panteistico spinoziano lo portò ad abbracciare il suo pacifismo che, assieme al sionismo, ebbe un peso determinante nella vita sociale dello scienziato (nella sfera privata, invece, Einstein non fu così mite e fu un padre assente nella vita dei figli).
Poche volte nella sua vita, Einstein trasgredì la sua vena pacifista: la lettera inviata a Roosevelt in cui chiedeva al presidente Usa di avviare un programma per sviluppare la bomba nucleare, fu una parentesi dovuta al terrore di vedere Hitler trionfare in Europa.
Il Time fu implacabile nel dedicargli la copertina del 1° luglio 1946 in cui lo ritraeva accanto a un fungo atomico. In realtà, l’appellativo di «padre della bomba atomica», che per anni lo rincorse con suo disappunto, fu del tutto ingiustificato, visto che si rifiutò di collaborare al «progetto Manhattan», il programma di ricerca e sviluppo che portò alla produzione dell’arma nucleare. Il suo impegno per il disarmo e per il dialogo tra Usa e Urss gli procurò guai negli Stati Uniti fino a essere accusato di simpatie comuniste.
La nascita dello stato di Israele fu salutata da Einstein con favore, ma rimase sempre scettico sulla partizione tra arabi ed ebrei. L’unica volta che visitò la Palestina fu nel 1922, al ritorno da un viaggio in Giappone. Nel 1952, alla morte di Chaim Weizmann, il suo amico e primo ministro israeliano David Ben-Gurion gli offrì la presidenza dello stato, che il fisico rifiutò.
L’ultima sua grande incursione pubblica fu la firma del «manifesto Russell», la dichiarazione del 1955 (anno in cui Einstein morì) che, partendo dalla constatazione del pericolo posto dagli arsenali nucleari, chiamava i potenti della Terra a cercare una soluzione pacifica dei conflitti. La pubblicazione del manifesto portò anche alla fondazione del movimento Pugwash che si prefigge l’eliminazione delle armi di distruzione di massa nel mondo.
Piergiorgio Pescali
Righi-Einstein e l’effetto fotoelettrico
L’effetto fotoelettrico, motivo del conferimento del premio Nobel per la fisica ad Albert Einstein nel 1922, era già noto da tempo. Fu l’italiano Augusto Righi nel 1888 a dare il nome di fotoelettrico al fenomeno di emissione di elettroni che avviene quando un metallo è colpito da una radiazione elettromagnetica. Quello che Einstein fece, nel suo lavoro intitolato «Un punto di vista euristico sulla produzione e trasformazione della luce», fu di spiegarlo correttamente ipotizzando che la luce fosse formata da piccole particelle, i fotoni, che, trasportando una certa quantità di energia, potevano eccitare gli elettroni di un atomo. Se l’energia trasmessa dai fotoni fosse stata sufficientemente alta, gli elettroni avrebbero potuto liberarsi dal legame che li teneva uniti al loro nucleo.
Grazie al suo articolo, scritto a Berna il 17 marzo 1905 e pubblicato dagli Annalen der Physics il successivo 9 giugno, venne dimostrato che la luce, o meglio i fotoni, potevano comportarsi sia come onde che come particelle. (PP)
Il libro
Piergiorgio Pescali, autore di questo articolo e storico collaboratore di MC, ha pubblicato recentemente un nuovo libro sulla guerra in Ucraina: Il pericolo nucleare in Ucraina, Mimesis Edizioni, Milano 2022.