Malaria: meglio, ma non basta


Il 25 aprile è la giornata mondiale della malaria, malattia che, nei primi due mesi del 2023, ha già provocato la morte di circa 65mila persone. La pandemia da Covid-19 ha peggiorato le cose ma, anche dopo il ritorno dei servizi sanitari alla normalità, il mondo rischia di mancare l’obiettivo che si era dato per il 2030: ridurre i casi di malaria dagli attuali 60 a 6 ogni mille persone a rischio.

Secondo l’ultimo rapporto sulla malaria dell’Organizzazione mondiale della sanità, i decessi causati da questa malattia nel mondo non sono aumentati nell’ultimo anno considerato (2021): sono anzi diminuiti a circa 619mila, contro i 624mila del 2020@.

Il risultato non era scontato, perché la pandemia da Covid-19 ha determinato fra il 2020 e il 2021 l’interruzione di servizi di diagnosi, cura e prevenzione contro l’infezione, facendo tornare i decessi ai livelli del 2012, e interrompendo così un ventennio di decremento quasi ininterrotto che aveva visto il suo dato migliore nel 2018, anno in cui morirono per questa malattia poco meno di 567mila persone.

I casi di malaria, si legge ancora nel rapporto, sono continuati ad aumentare tra il 2020 e il 2021, anche se a un ritmo molto più lento rispetto al 2019-2020 e si sono attestati a circa 247 milioni nel 2021, rispetto ai 245 milioni nel 2020 e ai 232 milioni nel 2019.

Quasi la metà delle infezioni sono avvenute in soli quattro paesi: Nigeria (26,6%), Repubblica democratica del Congo (12,3%), Uganda (5,1%) e Mozambico (4,1%). Sempre quattro paesi hanno avuto poco più della metà delle morti per malaria a livello globale: ogni cento decessi, 31 sono avvenuti in Nigeria, 13 in Congo Rd, 4 in Tanzania e altrettanti in Niger.

Dei decessi globali fra i bambini di età inferiore ai 5 anni, 2 su 5 sono avvenuti in Nigeria.

A causare la malaria è un parassita trasmesso attraverso la puntura di zanzare del genere Anopheles (vedi box sul fondo). Un motivo di preoccupazione che il rapporto Oms segnala è la diffusione anche in Africa, negli ultimi dieci anni, della Anopheles stephensi, zanzara capace di adattarsi e diffondersi nei contesti urbani. Originaria dell’Asia meridionale e della penisola arabica, è in grado di trasmettere sia i parassiti P. falciparum che P. vivax e ed è resistente a molti degli insetticidi utilizzati nella prevenzione della malaria.

da www.paginemediche.it

Covid e cambiamento climatico

Secondo il rapporto dell’Oms, le interruzioni dei servizi essenziali contro la malaria durante la pandemia di Covid-19 hanno riguardato soprattutto la distribuzione delle zanzariere trattate con insetticida e il numero di diagnosi e di trattamenti della malattia.

Nel 2020, nei 46 paesi nei quali erano state pianificate campagne di distribuzione, i sistemi sanitari nazionali e i loro partner sono riusciti a distribuire solo poco più di 200 milioni di reti protettive contro i 270 milioni previsti.
In Congo Rd, Eritrea e India, la percentuale non ha raggiunto il 60%; in Kenya non ha superato il 2%, mentre Costa d’Avorio e eSwatini non hanno effettuato alcuna distribuzione.

Nel 2021, i paesi che avevano in programma tali distribuzioni erano 43 e le zanzariere da distribuire 171 milioni. Ne sono state distribuite 128 milioni, cioè solo tre quarti: otto paesi non hanno raggiunto il 60% (Benin, Eritrea, Indonesia, Nigeria, Isole Salomone, Thailandia, Uganda e Vanuatu) e sette paesi (Botswana, Repubblica Centrafricana, Ciad, Haiti, India, Pakistan e Sierra Leone) non hanno distribuito nessuna delle zanzariere previste.

Quanto alle mancate diagnosi, se nel 2018 e 2019 i test effettuati nei paesi dove la malaria è endemica erano stati rispettivamente 392 e 450 milioni, nel 2020 sono diminuiti a 398 milioni e nel 2021 si sono fermanti a 435.

Il calo registrato nel 2020, precisa il rapporto, è stato dovuto principalmente al minor numero di test effettuati nella regione africana (10,5 milioni in meno) e nella regione del sud est asiatico (38 milioni in meno, di cui 37 milioni in India).

Un altro elemento di preoccupazione, rileva il rapporto, è l’effetto potenziale del cambiamento climatico sulla diffusione della malattia. «Nonostante le incertezze su come inciderà sulla malaria, è certo che il cambiamento climatico avrà un effetto sulla distribuzione geografica e sull’intensità e stagionalità delle malattie trasportate da un vettore», come appunto le zanzare.

Lo scorso febbraio, il New York Times riportava uno studio realizzato dagli studiosi del «Centro per le scienze della salute globale e della sicurezza» dell’Università di Georgetown, negli Stati Uniti, secondo il quale «nel secolo scorso le zanzare che trasmettono la malaria nell’Africa subsahariana si sono spostate ad altitudini più elevate di circa 6,5 metri all’anno e si sono allontanate dall’Equatore di 4,7 chilometri all’anno»@.

Un ecologo dell’università della California a Los Angeles, intervistato nell’articolo, ha sottolineato l’importanza di raccogliere dati per capire esattamente come e quanto velocemente le zanzare e altri animali portatori di malattie si stiano muovendo nel mondo. Ci si aspetta che i climi più caldi siano vantaggiosi per le zanzare perché esse, così come i parassiti che trasportano si riproducono più velocemente a temperature più elevate.

© Yofre Morales – disinfestazione contro malaria

Malaria e anemia, la banca del sangue di Dianra

La malaria porta con sé diverse complicanze, che sono più gravi nei bambini e neonati, nelle donne incinte e nelle persone anziane. Fra queste c’è l’ipoglicemia, una riduzione patologica dei livelli di glucosio nel sangue, che dà sintomi come sudorazione, tremori, debolezza e, quando è grave, anche confusione, convulsioni e coma@.

C’è poi l’anemia che si manifesta perché il parassita invade i globuli rossi per riprodursi e ne provoca la distruzione. Nei casi di anemia grave, spiega il dottor Stéphane Gnanago – medico del centro di salute Joseph Allamano gestito dai Missionari della Consolata a Dianra, in Costa d’Avorio – la distruzione dei globuli rossi determina un ridotto «apporto di ossigeno agli organi e ai muscoli e può portare a insufficienza respiratoria, collasso cardiocircolatorio e arresto cardiaco». In contesti come quello di Dianra, uno dei motivi dell’aggravarsi degli effetti della malaria, come l’anemia, è la reazione tardiva da parte dei pazienti: «Le famiglie portano i bambini al centro di salute solo all’ultimo minuto», spiega il dottor Gnanago, «dopo aver tentato di curarli con rimedi tradizionali. E quando arrivano qui, i bambini sono già in condizioni gravi».

Il programma nazionale di lotta alla malaria in Costa d’Avorio, commenta padre Matteo Pettinari, missionario della Consolata responsabile del centro di salute di Dianra, fornisce test e trattamenti per la malaria in modo gratuito. Ma se i pazienti aspettano troppo prima di andare al centro, le terapie di base non sono più sufficienti. Per questo, continua padre Matteo, «avere a disposizione le sacche di sangue e poter effettuare trasfusioni ci permette di salvare vite: delle 579 sacche di sangue di cui il nostro centro ha potuto disporre nel 2022, solo 9 sono state usate per le donne ricoverate in maternità mentre 570 sono andate ai pazienti del dispensario. Di queste, 556 sono state usate per curare bambini in anemia severa: un’enormità».

© AfMC / Dianrà, Costa D’Avorio

Neisu, ordinaria emergenza

Nel 2021 l’ospedale Nôtre Dame de la Consolata di Neisu, nella Repubblica democratica del Congo, ha effettuato 2.778 test per la malaria, una media di oltre 7 al giorno. La malattia è risultata la prima voce fra le patologie diagnosticate sia in consultazione esterna – 2.482 casi su 4.885 pazienti, il 50,8% dei pazienti visitati – che in medicina interna: 220 pazienti ricoverati su 1.139, il 19%, dati 2021.

In pediatria, la malaria grave e la malaria grave anemica sono di gran lunga la principale causa di ricovero, con, rispettivamente, 732 casi (il 34%) e 520 (24%) su 2.155 bambini ospedalizzati. Su 30 bambini deceduti in pediatria nel 2021, per due la causa è stata la malaria grave e per 15 la malaria anemica grave. Circa tre donne su dieci fra quelle accolte in maternità avevano la malaria.

«L’ospedale», spiega il responsabile Ivo Lazzaroni, missionario laico della Consolata, «è integrato nella sanità pubblica congolese dal 2007, e aderisce ai programmi di prevenzione del sistema sanitario nazionale.

Ogni mese, i 12 infermieri titolari degli altrettanti centri di salute sul territorio vanno a Isiro, capoluogo della provincia dell’Alto Uélé, consegnano i dati sulla malaria e sulle altre patologie monitorate ai funzionari della zona di salute (zone de santé, in francese, articolazione territoriale del Ssn congolese, ndr) e ricevono zanzariere e farmaci (ad esempio il Coartem, a base di artemisina) da portare a Neisu per l’ospedale e i centri».

Le zanzariere sono destinate alle donne incinte, che le ricevono nel corso delle formazioni loro offerte durante le consultazioni prenatali, in cui le ostetriche spiegano alle donne che questi oggetti «non devono venire regalati ai bambini per farci le reti delle porte di calcio», scherza Ivo, «ma sono fondamentali per la loro salute».

E queste formazioni purtroppo non bastano: «Anche noi – spiega Ivo – siamo alle prese, come Matteo, con famiglie che vengono molto tardi a portare i bambini in anemia severa. Purtroppo non abbiamo l’autorizzazione dalla zone de santé a fare le trasfusioni direttamente nei centri e posti periferici, quindi le donne devono portare il bambino all’ospedale. Ma le distanze sono grandi: il nostro centre de santé più lontano è a oltre 60 chilometri dall’ospedale e non è facile per queste madri trovare un passaggio in moto per venire di corsa. Per questo accade a volte che il bambino muoia nel tragitto o poco dopo l’arrivo in ospedale».

Ikonda, restare comunque in guardia

«Qui nella regione di Njombe la malaria non è endemica», spiega padre Marco Turra, responsabile del Consolata Ikonda Hospital, in Tanzania. «I pochi pazienti che abbiamo affetti da questa malattia vengono dalle zone calde, soprattutto da Mbeya e Morogoro. L’anno scorso abbiamo fatto il test a 4.660 pazienti e solo 134 sono risultati positivi», meno del 3%. «Ora che ci troviamo nella stagione delle piogge», continua padre Marco, «solo il mese scorso abbiamo avuto 14 casi: è una malattia molto legata a fattori climatici».

Non essendo Njombe una regione endemica, spesso il problema viene sottovalutato: «Si pensa prima ad altre malattie, poi, se la febbre non passa, si considera anche l’ipotesi di malaria. A volte invece non ci si fida dei test e, in presenza di sintomi compatibili vengono somministrate le terapie. Di recente abbiamo avuto un paziente con una patologia polmonare proveniente da questa regione. All’inizio non si è pensato alla malaria, poi invece è risultato positivo. Ora è guarito».

© AfMC – prelievo di sangue per test malaria al Catrimani, Roraima, Brasile

Aumento dei casi in Amazzonia

La malaria è fra le malattie protagoniste anche del peggioramento delle condizioni di vita del popolo indigeno yanomami, che vive nell’Amazzonia brasiliana e con il quale i Missionari della Consolata lavorano da metà degli anni Sessanta. Durante un’intervista con un’emittente televisiva brasiliana@ padre Corrado Dalmonego, missionario della Consolata che lavora nella missione di Catrimani, nella Terra indigena yanomami da quindici anni, ha ricordato che «nel 2022 si sono registrati 21mila casi di malaria fra gli indigeni yanomami, e l’anno prima erano circa 20mila. Ma nel 2013-2014 i casi erano duemila: sono decuplicati. E alla malaria vanno aggiunte le malattie respiratorie e gastrointestinali».

Fattori responsabili di questa emergenza sanitaria, così definita lo scorso 20 gennaio dal nuovo governo basiliano guidato da
Inacio Lula da Silva, sono l’invasione delle terre indigene da parte dei cercatori d’oro e la corruzione, che ha distratto le risorse finanziarie destinate ai servizi sanitari per le terre indigene: entrambi fenomeni favoriti dal disinteresse e dall’aperta ostilità del governo di Jair Bolsonaro nei confronti delle comunità originarie dell’Amazzonia brasiliana.

Chiara Giovetti

© AfMC / Trasfusioni di sangue a bambini affetti da conseguenze della malaria


Che cos’è la malaria e come la affrontiamo

La malaria è una malattia umana febbrile acuta causata dal parassita Plasmodium che viene trasmesso attraverso le punture delle zanzare femmine infette del genere Anopheles. Due delle cinque specie di plasmodi responsabili della malaria sono particolarmente pericolose: Plasmodium falciparum, il parassita che causa più morti e anche il più diffuso nel continente africano, e Plasmodium vivax, la specie dominante nella maggior parte dei paesi al di fuori dell’Africa subsahariana.

I primi sintomi – febbre, mal di testa e brividi – di solito compaiono da 10 a 15 giorni dopo la puntura infetta; possono essere lievi e per questo difficili da riconoscere. Senza trattamento, la malaria da P. falciparum può progredire in malattia grave o perfino causare la morte entro 24 ore.

La diagnosi avviene con l’individuazione al microscopio dei parassiti nel sangue del paziente (la cosiddetta goccia spessa) oppure, ove il microscopio non sia disponibile, attraverso test antigenici rapidi, che individuano appunto un antigene, cioè una sostanza estranea al nostro organismo – in questo caso una specifica proteina – prodotta dal parassita nel nostro sangue.

La prevenzione avviene attraverso la profilassi comportamentale, che mira a evitare il contatto con la zanzara vettore del parassita e che si basa sull’utilizzo di zanzariere trattate con insetticida e di insetticidi da spruzzare negli ambienti. C’è poi la profilassi con farmaci antimalarici, che prevede l’assunzione di un ciclo completo di questi farmaci nei momenti di maggiore esposizione al rischio di contrarre la malattia, che si sia o meno già infetti.

Infine, dall’ottobre 2021, l’Oms ha anche raccomandato l’uso del vaccino contro la malaria Rts, S/AS01 per i bambini nelle aree con trasmissione da moderata ad alta della malaria da P. falciparum. La prima parte della sperimentazione di fase 3 (2009-2014) del vaccino ha mostrato una diminuzione di oltre la metà dei casi di malaria nel primo anno dopo la vaccinazione e una riduzione del 40% nei 4 anni successivi. Nella seconda parte della sperimentazione di fase 3 (2017-2020) i partecipanti hanno ricevuto il vaccino appena prima del picco della stagione della malaria: la sua efficacia nel prevenire la malattia è stata intorno al 75%.

Il miglior trattamento disponibile indicato dall’Oms, in particolare per la malaria da P. falciparum, è la terapia combinata a base di artemisinina (Act). Altri principi attivi usati sono la clorochina, la meflochina e numerosi altri di cui l’Oms tiene una lista aggiornata nella quale indica anche quali sono consigliati nelle diverse regioni del mondo.

I motivi di preoccupazione relativi alla malaria – resistenze delle zanzare agli insetticidi e del parassita ai principi attivi nelle terapie, mutazioni genetiche nel parassita che inficiano l’affidabilità dei test e la diffusione delle zanzare Anopheles in zone in cui non erano presenti – sono monitorati dall’Oms e consultabili nella «mappa delle minacce»@.

Chi.Gio.

Fonte: Oms

 

 




La società-supermercato: lavora, guadagna, spendi


Nelle società attuali, il baratro della povertà è sempre incombente. Per tutti. Una possibile soluzione sarebbe il reddito universale. Tuttavia…

Nella società del supermercato, la possibilità di sprofondare nella povertà è sempre in agguato. Per tutti. Basta una ristrutturazione, una delocalizzazione, una recessione mondiale e tutto vacilla. In particolare vacillano i posti di lavoro che rappresentano la base della sopravvivenza per la maggior parte della popolazione.

Il discorso è vecchio: da quando l’economia è finita sotto il dominio dei mercanti, che hanno assunto anche il ruolo di produttori, è stato fatto ogni sforzo per espropriare le persone di qualsiasi modo di provvedere a se stesse, in modo da costringerle a non avere altra soluzione se non quella di vendere il proprio lavoro in cambio di un salario. Così è stata costruita la società del supermercato che funziona secondo l’imperativo: «lavora, guadagna, spendi».

Profitti e guerra tra poveri

Le imprese hanno un rapporto di odio con il lavoro perché esso è un diretto antagonista dei profitti. Per questo, fin dal sorgere della rivoluzione industriale le imprese si sono organizzate per abbattere il costo del lavoro, attraverso la doppia strategia dell’eliminazione e della riduzione: l’eliminazione del lavoro umano; la riduzione dei salari. La politica dell’eliminazione passa dallo sviluppo tecnologico con l’obiettivo di avere una predominanza della macchina sull’umano fino a creare linee produttive totalmente gestite da robot. La politica della riduzione salariale è più articolata e arriva fino a comprendere truffe, angherie, eversione contributiva. In questo, l’Italia è maestra: il 10,5% della ricchezza prodotta annualmente è ottenuta in nero.

L’arma prediletta per vincere la partita della riduzione salariale è però l’innesco della guerra tra poveri. Considerandolo una merce al pari di un cavolo o di un cappotto, il sistema pretende che anche il lavoro umano sia sottomesso alla legge della domanda e dell’offerta. Di qui l’interesse affinché il numero di persone che chiede lavoro sia sempre più alto dei posti disponibili. In altre parole, il mercato ha interesse a mantenere cronicamente un alto tasso di disoccupazione. I sindacati lo sanno: quando fuori dalle fabbriche c’è una lunga fila di persone che chiedono di essere assunte, non c’è nessuna speranza di far crescere i salari che anzi scenderanno. E se, fino a ieri, la strategia per creare disoccupazione era l’automazione, con la globalizzazione si è aggiunto

il trasferimento della produzione in altri paesi. Approfittando di un mondo terribilmente disuguale a causa di iniquità secolari, le imprese hanno cominciato a trasferire le produzioni meno qualificate e a più alta intensità di mano d’opera in paesi dove i salari sono dieci, venti, addirittura trenta volte più bassi che nei vecchi paesi industriali. E mentre in Europa, America del Nord, Giappone, si andavano perdendo milioni di posti di lavoro, un nuovo tipo di concorrenza si è impadronita del mondo. È la concorrenza fra lavoratori: i cinesi contro gli indonesiani, i bengalesi contro i cambogiani, gli italiani contro i polacchi, tutti contro tutti in un’assurda corsa al ribasso per accaparrarsi i pochi posti disponibili. Con grande soddisfazione della classe padronale che ora ha buon gioco a ricattare i lavoratori più pretenziosi, tacciandoli addirittura per privilegiati.

L’incubo della povertà. Foto Alĕs Kartal – Pixabay.

Da diritto a privilegio

La trasformazione dei diritti in privilegi è forse la forma più raffinata di manipolazione lessicale attuata dall’1% dell’umanità per soggiogare il restante 99%.

I risultati li conosciamo. Mentre in Italia la disoccupazione è attestata all’8% e quella giovanile attorno al 24%, la stabilità del lavoro non esiste più. Il contratto a tempo indeterminato è diventato un sogno irraggiungibile che in ogni caso deve prima passare per le forche caudine di innumerevoli contratti temporanei che permettono alle imprese di sbarazzarsi di chiunque provi a rivendicare i propri diritti. È tornato il lavoro a cottimo, il lavoro a chiamata, il subappalto, il falso lavoro autonomo che libera le imprese committenti dall’obbligo dei versamenti assicurativi e contributivi. In conclusione, se un tempo i poveri erano essenzialmente i senza lavoro, oggi se ne trovano tanti che, statisticamente parlando, sono classificati come occupati. Sono i cosiddetti «working poors», persone povere nonostante lavorino. Una definizione coniata dall’Organizzazione internazionale del lavoro negli anni Novanta per denunciare il lavoro malpagato nel Sud del mondo, che oggi, però, coinvolge anche il mondo ricco, con tassi preoccupanti.

I criteri di misurazione della povertà tengono conto di vari aspetti, fra cui il salario orario, le ore di lavoro, il carico familiare, per cui fornire un indicatore semplificato di livello di povertà è praticamente impossibile. Tuttavia, un rapporto del ministero del Lavoro, pubblicato nel novembre 2021, informa che, in Italia, un quarto dei lavoratori ha una retribuzione individuale bassa e più di un lavoratore su dieci si trova in situazione di povertà (cioè, vive in un nucleo con reddito netto equivalente inferiore al 60% della mediana). A questo va aggiunto che, secondo l’Istat, in Italia 8,8 milioni di individui (14,8% della popolazione) sono classificati come «poveri relativi», cioè hanno un livello di consumo inferiore al 50% della media nazionale. Di questi, oltre la metà (5,6 milioni di individui) sono addirittura «poveri assoluti», ossia non riescono a soddisfare neanche i bisogni fondamentali.

Contro la povertà

Questi dati ci dicono che urgono interventi contro la povertà che, a mio avviso, debbono muoversi su tre piani.

Il primo è quello del «tamponamento»: chi non dispone dei mezzi per vivere deve essere soccorso in maniera appropriata dalla struttura pubblica che deve organizzare l’aiuto in una logica di redistribuzione. Paolo Acciari e altri ricercatori hanno appurato che, in Italia, la quota di ricchezza privata posseduta dal 50% più povero (circa 25 milioni di individui) è retrocessa  dall’11,7%  nel 1995 al 3,5% nel 2016. Nello stesso periodo la quota dell’1% più ricco è salita dal 16% al 22% con beneficio soprattutto per lo 0,01% posto all’apice della piramide, appena 5mila individui, che hanno visto la propria quota crescere dall’1,8% al 5% del patrimonio totale. Tradotto in termini monetari, ciascuno di loro è titolare di un patrimonio medio pari a 83 milioni di euro, un valore 473 volte più alto della media nazionale.

Uno stato serio tiene l’attenzione costantemente puntata sul livello delle disuguaglianze e interviene tramite il fisco, il sostegno ai più poveri e il rafforzamento dei servizi, per riequilibrare le cose. In Italia le risorse per soccorrere i più poveri ci sono. Bisogna semplicemente avere il coraggio di andarle a prendere dove si trovano, ossia nelle tasche dei ricchi. Molto spesso, invece, si preferiscono fare operazioni stile capitalismo compassionevole che soccorre i poveri tramite l’apertura di nuovo debito pubblico. Esattamente come hanno fatto gli ultimi governi che hanno finanziato il reddito di cittadinanza a debito, ossia buttando il peso finanziario sulle spalle delle generazioni future. Scelta «vigliacca» di chi non vuole inimicarsi nessuno e governa alla giornata senza un progetto di società di lunga durata.  Dopo il soccorso, deve venire il sostegno all’autonomia e se decidiamo che la via dell’autosostentamento è quella del lavoro salariato, allora bisogna intervenire affinché il lavoro sia dignitoso. Non può essere, come succede oggi, che al senza reddito sia imposto l’accettazione di qualsiasi lavoro, qualcunque esso sia, sotto minaccia di sospensione di ogni forma di assistenza. Questa politica non fa altro che perpetuare la povertà. Al senza reddito bisogna offrire delle proposte di lavoro, ma deve trattarsi di lavoro dignitoso. Ecco perché il secondo piano di intervento di lotta alla povertà è l’imposizione alle imprese di nuove regole in materia di assunzione, di licenziamento, di tutela delle libertà sindacali e anche di salario minimo. In Italia abbiamo retribuzioni contrattuali, quindi legali, anche di cinque euro l’ora e chiunque le percepisca è condannato alla povertà, anche se lavora a tempo pieno. Dunque, va fissata per legge una soglia di salario minimo, sufficiente, come dice l’articolo 36 della Costituzione, ad «assicurare al lavoratore e alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa».

Contemporaneamente, bisogna intervenire per ridurre, per legge, l’orario di lavoro, in modo da ripartire fra tutti il lavoro esistente. Le macchine stanno espellendo persone dai posti di lavoro e se di lavoro ne serve di meno dobbiamo ridurre la giornata lavorativa in modo da includere tutti. Keynes lo aveva già detto quasi cento anni fa. Tuttavia, sta crescendo anche il movimento di chi vorrebbe ripartire il reddito anziché il lavoro.

L’incubo della povertà. Foto Wilhan José Gomes – Pixabay.

Il reddito universale

È la proposta del reddito di base universale: un assegno dello stesso importo staccato a favore di tutti, vita natural durante, indipendentemente dall’età, dal sesso, dalla situazione occupazionale e perfino dalla ricchezza. Una proposta che ha il merito di dichiarare tutti i cittadini uguali perché riconosce a tutti il diritto di ricevere un minimo vitale senza dover fornire nessuna altra giustificazione se non quella di esistere. Positiva anche perché porrebbe fine all’apartheid nei confronti dei lavori domestici e di cura della persona, che oggi non hanno alcuna considerazione sociale. Per di più potrebbe operare miracoli sul piano della qualità della vita, sia per la ritrovata sicurezza nei confronti della precarietà generata dal mercato, sia per la recuperata libertà di poter dedicare del tempo allo studio, al fai da te, alle relazioni affettive e sociali.

Il reddito di base potrebbe però essere letale per le casse pubbliche. È stato calcolato che, per garantire in Italia un reddito universale di 10mila euro all’anno, una cifra di poco superiore alla linea della povertà relativa, non a tutti, ma ai soli maggiorenni, ci vorrebbero 480 miliardi di euro, l’85% delle entrate tributarie. Che significherebbe la scomparsa dello stato come agente economico, col risultato di una società più insicura perché lascerebbe i cittadini soli di fronte ai bisogni fondamentali che non possono essere affrontati individualmente: alloggio, istruzione, sanità, infrastrutture. La conclusione sarebbe che chiederemmo allo stato di immolarsi sull’altare di un’azione redistributiva a esclusivo vantaggio del mercato, perché avremmo cittadini con più capacità di consumo individuale, ma totalmente sprovvisti di solidarietà collettiva, con grande gioia di banche e assicurazioni.

Servizi pubblici gratuiti

Personalmente, piuttosto che inseguire sogni impossibili, preferirei utilizzare le risorse disponibili per rafforzare i servizi pubblici da garantire gratuitamente a tutti. Non solo istruzione e sanità, ma anche acqua, energia, alloggio, trasporti. Una scelta che avrebbe un doppio vantaggio: per la sicurezza delle persone, e per l’occupazione. Per la sicurezza, perché quando si ha la garanzia dei bisogni fondamentali, non serve molto altro denaro per vivere. Per l’occupazione perché per produrre servizi serve personale. Il che smonta lo stereotipo secondo il quale solo le aziende private creano occupazione. In realtà, se la comunità si convincesse che è suo dovere garantire i bisogni fondamentali a tutti, diventerebbe il più importante motore di lavoro. La conclusione è che, se la comunità decidesse di diventare imprenditrice di se stessa per i bisogni fondamentali dei cittadini, libererebbe tutti dalla povertà e offrirebbe a tutti un’occupazione garantita.

Francesco Gesualdi




La crisi dell’acqua ora è globale


I fiumi dell’Amazzonia sono inquinati dal mercurio, in Africa orientale quattro stagioni delle piogge consecutive non hanno avuto precipitazioni sufficienti. Di siccità e di lotta agli sprechi idrici si parla da almeno sessant’anni, ma ora la crisi è davvero planetaria.

«L’Africa orientale è in agonia, flagellata dalla più avara siccità degli ultimi 15 anni. Da Gibuti attraverso l’Etiopia fino al Sudan meridionale, lungo la Somalia, il Kenya e l’Uganda, la terra è una fornace bianca, come ossa decrepite». E ancora: «L’inclemenza delle stagioni che, da qualche anno in Kenya e da due anni in Tanganyika non accenna a finire, ha gettato intere popolazioni nella terribile condizione di non potersi sfamare. Lunghi periodi di siccità hanno bruciato i raccolti; successive piogge torrenziali hanno travolto ogni cosa nella loro furia. […] le stagioni hanno perso quella regolarità propria dei paesi tropicali».

Ognuno di questi virgolettati potrebbe riferirsi alla difficile situazione in cui si trova l’Africa orientale in questo momento; invece, il primo è preso da un articolo del Newsweek, The grim famine of 1980, apparso nell’agosto del 1980 e pubblicato in una libera traduzione su Missioni Consolata nel dicembre dello stesso anno, mentre il secondo viene da un articolo pubblicato su Missioni Consolata nell’aprile del 1962, sessanta anni fa.

Ma le assonanze con l’oggi non si limitano al Corno d’Africa: anche in Italia, chi ha almeno quarant’anni potrebbe avere avuto un déjà vu ascoltando le raccomandazioni diffuse dal ministero della Transizione ecologica su come evitare lo spreco di acqua@  nei mesi della scorsa estate, in cui l’Europa ha vissuto la più grave siccità degli ultimi 500 anni.

Le indicazioni, infatti, ricordavano quelle delle campagne degli anni Ottanta, che erano spesso promosse dagli enti locali: «Potabile, non sprecabile», recitavano ad esempio i poster affissi lungo le strade di una città emiliana. Addirittura del 1977 era la campagna di Pubblicità progresso «A difesa dell’acqua»@ che mostrava – proprio come l’articolo su MC del 1962 – i due opposti volti della crisi idrica: l’eccesso e la scarsità di acqua.

Questi precedenti non servono a ridimensionare il problema, al contrario: danno la misura del suo aggravarsi dopo decenni di azioni poco incisive. Se le emergenze idriche erano già tali decenni fa, quando il cambiamento climatico non era, come ora, un fenomeno conclamato con effetti planetari e la popolazione mondiale era la metà di quella odierna, è chiaro il motivo per cui oggi tante fonti istituzionali, accademiche e giornalistiche parlano senza mezzi termini di crisi idrica globale.

Siccità in Kenya, dove anche gli elefanti muoiono di sete. Nei dintorni d Isiolo, Nord del Kenya.

I numeri della crisi

Secondo il più recente rapporto di UNWater, il meccanismo di coordinamento delle agenzie Onu che si occupa di acqua e sanificazione, sono 2,3 miliardi gli abitanti del pianeta che vivono in zone con stress idrico, nelle quali cioè si estrae il 25% o più delle risorse rinnovabili di acqua dolce. Di questi, 733 milioni abitano in territori in cui lo stress idrico è alto (fra il 75 e il 100% delle risorse rinnovabili estratte) o critico (oltre il 100%). Le persone che vivono in aree dove si registra una grave scarsità fisica di acqua per almeno un mese all’anno sono quattro miliardi, poco meno di metà della popolazione mondiale@.

Il rapporto cita le stime di Acquastat, il portale statistico dell’agenzia Onu per l’alimentazione e l’agricoltura, Fao, secondo le quali «il prelievo globale di acqua dolce era probabilmente di circa 600 chilometri cubi all’anno nel 1900 ed è aumentato a 3.880 chilometri cubi all’anno nel 2017. Il tasso di aumento è stato particolarmente elevato (circa il 3% all’anno) durante il periodo dal 1950 al 1980, in parte a causa di un maggiore tasso di crescita della popolazione e in parte per il rapido aumento dello sfruttamento delle acque sotterranee, in particolare per l’irrigazione. Il tasso di incremento è oggi di circa l’1% annuo, in sintonia con l’attuale tasso di crescita della popolazione» mondiale e, mentre esso si è stabilizzato nei paesi sviluppati, continua ad aumentare nelle economie emergenti e nei paesi a medio e basso reddito.

UNWater raccoglie anche i risultati dei monitoraggi sull’obiettivo di sviluppo sostenibile dell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite che riguarda l’acqua, cioè l’Obiettivo 6, che mira a garantire a tutti l’accessibilità e la gestione sostenibile dell’acqua e dei servizi igienico sanitari@.

Secondo questi monitoraggi@, sul pianeta una persona su quattro non ha accesso a servizi di acqua potabile gestiti in maniera sicura e 2,3 miliardi di persone non hanno a casa propria servizi ai quali lavarsi le mani con acqua e sapone.

Inoltre, mancano dati sulla qualità dell’acqua a cui accedono tre miliardi di esseri umani: questo significa che tutte queste persone sono potenzialmente a rischio, poiché la salubrità dei fiumi, laghi e bacini sotterranei da cui attingono l’acqua che usano non è verificata e l’utilizzo di queste risorse idriche potrebbe esporle a inquinanti come batteri fecali, metalli pesanti, pesticidi, solventi e altre sostanze chimiche contaminanti.

Garimpo Rio Madeira / © Alberto César Araújo – Amazonia Real

Il mercurio nei fiumi dell’Amazzonia

Fra i metalli pesanti responsabili dell’inquinamento di laghi e fiumi vi è il mercurio utilizzato nell’estrazione dell’oro: esso si amalgama all’oro separandolo dalla pietra e viene poi vaporizzato per lasciare libera la pepita.

Secondo il rapporto del 2018 dell’agenzia Onu per l’ambiente, Unep@, le attività artigianali e su piccola scala di estrazione dell’oro erano nel 2015 a livello globale il settore da cui derivava la quota più ampia delle immissioni di mercurio nell’aria (838 tonnellate su 2.220, il 37,7%). In America Latina, la quota era più che doppia: sul totale di 409 tonnellate per il continente, 340 tonellate venivano dalle attività minerarie artigianali su piccola scala, raggiungendo l’83%@.

L’Amazzonia vive una situazione particolarmente difficile da questo punto di vista: nel giugno 2021, le Nazioni Unite condannavano in un comunicato stampa@ gli attacchi dei minatori abusivi alle comunità indigene Munduruku, nel Pará, e Yanomami di Palimiú, in Roraima, ed esprimevano preoccupazione per gli alti livelli di contaminazione da mercurio registrati nella zona, specialmente nel pesce, che fornisce l’80% delle proteine nell’alimentazione delle popolazioni locali@.

«Per i popoli indigeni dell’Amazzonia», spiegava padre Jean-Claude Bafutanga, missionario della Consolata che lavora a Baixo Cotingo, Roraima, in un articolo sulla rivista Missões lo scorso marzo@, «la sopravvivenza stessa dipende dall’acqua dei fiumi e degli igarapé», cioè i piccoli corsi d’acqua tributari del Rio delle Amazzoni. Negli ultimi tempi, si legge nell’articolo, con l’invasione dei minatori in Amazzonia, l’acqua del fiume Catrimani e degli altri fiumi della regione si è inquinata, creando problemi di salute alle popolazioni autoctone che bevono continuamente le acque di questi fiumi e mangiano il pesce che in essi vive. Si registrano oggi nei villaggi indigeni malattie e condizioni prima molto più rare: «Cancro, dolori di stomaco continui, impotenza, bambini nati con malformazioni, morti premature per cause non chiare».

Per questo, conclude il missionario, le comunità della zona tengono così tanto a raccogliere fondi per scavare pozzi artesiani, che garantiscono un’acqua più pulita di quella dei fiumi.

In cerca di acqua nel Baxio Cotingo, Roraima, Brasile

Il Kenya e la sua siccità pluriennale

L’Integrated food security phase classification (Ipc) è un’iniziativa che riunisce agenzie governative, agenzie Onu, Ong e altri partner per monitorare le crisi alimentari sul pianeta. Per indicare la gravità della situazione Ipc usa una scala con cinque fasi che descrivono la difficoltà dei nuclei famigliari a soddisfare il proprio bisogno di cibo.

La scala va dalla fase 1, in cui la difficoltà è minima o non c’è, alla fase 5, denominata «catastrofe», in cui è impossibile per le famiglie procurarsi cibo sufficiente. Le fasi intermedie sono:
– la 2, fase di stress,
– la 3, di crisi, e
– la 4, di emergenza.

Secondo Ipc, lo scorso settembre in Kenya 3,5 milioni di persone si trovavano in una condizione di insicurezza alimentare acuta, con 2,7 milioni di persone in fase 3 e poco meno di 800mila in fase 4. (Vedi su Nigrizia  il testo «Kenya: alla Cop 27 l’eco del dramma climatico»).

L’insicurezza alimentare, si legge nell’analisi pubblicata da Reliefweb, il servizio informazioni dell’Ufficio Onu per il coordinamento degli affari umanitari@, è causata da un combinarsi di diversi shock, primo fra tutti la quarta stagione delle piogge consecutiva con precipitazioni insufficienti. Si aggiungono poi i conflitti locali per le risorse e l’aumento dei costi del cibo a causa della guerra in Ucraina. Le contee più colpite sono Isiolo, Turkana, Garissa, Mandera, Marsabit, Samburu, Wajir e Baringo, zone in cui vivono prevalentemente popolazioni che si dedicano alla pastorizia. Per i mesi da ottobre a dicembre, Ipc prevede un ulteriore peggioramento, con una proiezione che stima a 4,4 milioni le persone in fase di crisi, emergenza o catastrofe.

«Gli ultimi due anni sono stati pessimi», riporta da Isiolo, nel centro del Kenya, padre Joseph Kihwaga, missionario della Consolata, «non ha piovuto per niente. Molti animali sono morti, le persone hanno fame. Anche gli animali selvatici soffrono per questa situazione. Abbiamo dovuto allontanare degli elefanti che, attirati dall’acqua del nostro pozzo, sono arrivati dentro al complesso della missione distruggendo recinto e campi coltivati. Finora sono due le persone uccise da elefanti che vagavano fuori dal parco di notte. C’è paura anche per i bambini, che escono quando è ancora buio per andare a scuola e rischiano di incontrarli».

Loyangallani, El Molo Bay, Ol Molo Village. L’isola di Komote nel 2009.

Padre Mark Githonga, missionario della Consolata a Loyiangalani, sul lago Turkana (Nord del Kenya), scrive confermando che il governo ha imposto il coprifuoco a causa dei conflitti tribali locali. «Qui non piove da quattro anni», riferisce, «eppure il lago Turkana si è ingrandito@, inondando le zone costiere dalle quali le comunità locali, specialmente di etnia El Molo, erano solite pescare».

Sullo sfondo l’isola di Komote come è oggi, 2022

Il cibo, continua padre Mark, arriva qui portato da commercianti provenienti dalla zona centrale del paese. I prezzi però sono proibitivi a causa dei costi di trasporto e di stoccaggio e per le condizioni di insicurezza legate ai conflitti tribali. Le comunità che vivono sull’isola di Komote (nelle due foto qui sotto del 2009 e del 2022, ndr) sono fra quelle più in difficoltà, perché non c’è più abbastanza acqua pulita da incanalare negli impianti idrici che raggiungono l’isola dalla terraferma.

Non va meglio ad Adu, vicino a Malindi, città costiera bagnata dall’Oceano Indiano: «Nei sei anni dal 2016 a oggi, solo nel 2018 abbiamo avuto precipitazioni sufficienti», scrive padre Urbanus Mutunga. Le soluzioni tentate dal governo e da diverse Ong non sono bastate: ci sono vasche per raccogliere l’acqua piovana, ma sono vuote dal 2018, mentre il programma nutrizionale nelle scuole non esiste più, e così i tassi di abbandono scolastico aumentano. «C’è una migrazione di massa dai villaggi verso le città di Malindi, Lamu e Mombasa, le persone vanno a cercare lavoro e cibo ma spesso si trovano costrette a fare lavori umili o a prostituirsi per sopravvivere».

Chiara Giovetti


Acqua dolce

Sulla terra ci sono in totale 1,4 miliardi di chilometri cubi di acqua: un volume che possiamo immaginarci come una sfera dal diametro di 1.400 chilometri, la lunghezza del Madagascar.

Di quest’acqua il 97,5% è salata, il 2,5% è acqua dolce.

Solo l’1,2% di questa acqua dolce è facilmente fruibile (in superficie) per l’uomo, il resto è sottoterra (30,1%) oppure in forma di ghiaccio (68,7%).

Il 70% dell’acqua dolce disponibile è usata per l’agricoltura, il 19% per l’industria e l’11% per l’uso domestico.

Vedi il video, in inglese con sottotitoli in italiano, realizzato dal World water assessment programme (Wwap)@, programma dell’Unesco finanziato dal Governo italiano e con sede a Perugia@.

 

 




Per una salute che arriva al cuore


Le foreste del Nord Ovest del Congo sembrano l’ultimo posto al mondo dove ci sia bisogno di un centro di cardiologia. Eppure, povertà, violenze, guerre, cibo inadeguato, assenza di cure e uso di bevande acoliche tradizionali creano una situazione sanitaria che ha bisogno di risposte urgenti.

L’«Hôpital notre Dame de la Consolata» a Neisu, è un ospedale rurale situato nell’aerea della chefferie Ndey, territorio di Rungu, provincia dell’Haut-Uélé nella diocesi d’Isiro-Niangara in Rd Congo. Neisu (che nelle mappe si trova ancora con l’antico nome coloniale di Egbita) è a 33 km da Isiro, il capoluogo della provincia Nord orientale.

L’area è caratterizzata da un clima tipicamente tropicale con due stagioni: stagione delle piogge e stagione secca.
La popolazione di Neisu e dintorni appartiene principalmente all’etnia mangbetu e ai Bayogo, un gruppo minoritario di Pigmei. Vive principalmente di agricoltura (arachidi, mais, banane, riso) e allevamento di bestiame (capre, suini, pecore, pollame). L’insieme della popolazione è stimata a più di 80mila abitanti.

Nella parte settentrionale della provincia si trovano miniere di diamanti – perlopiù sfruttate artigianalmente – nelle quali lavorano prevalentemente giovani fra i quali, di conseguenza, è elevata l’incidenza di malattie polmonari e, a causa dell’inevitabile promiscuità, di malattie a trasmissione sessuale, incluso l’Aids.

Le sole vie d’accesso sono le strade, ma in uno stato di completa rovina. Ai tempi coloniali esisteva anche una ferrovia a scartamento ridotto, ora totalmente fuori uso.

Ospedale di Neisu

Nasce l’ospedale

L’ospedale inizia la propria attività a fine 1982 in un capannone vicino al luogo dove si sta costruendo la nuova chiesa con l’arrivo di padre Oscar Goapper, missionario della Consolata argentino che, prima della sua partenza, ha fatto un corso base da infermiere. Padre Oscar, che intanto studia con l’aiuto di un medico locale per migliorare le sue conoscenze sanitarie, fonda un primo dispensario per rispondere al grave abbandono sanitario di tutta la zona. Presto questo diventa «l’Ospedale Nostra Signora della Consolata».

Nel 1986 padre Oscar si iscrive all’università di medicina a Milano continuando a lavorare a Neisu, e riesce, nel 1994, a laurearsi in medicina a pieni voti. L’ospedale fiorisce, ma nel 1998, in piena guerra civile, tutti devono scappare in foresta per salvarsi. Ritornati all’ospedale all’inizio del 1999, riprendono in pieno il servizio per rispondere a una situazione disastrosa.

Contagiato da un’infezione di un paziente che stava curando, padre Oscar muore improvvisamente il 18 maggio 1999. Ma l’ospedale, così necessario in quella zona fuori del mondo, continua la sua attività. La sua fama si estende progressivamente, cosicché i pazienti vengono dalla città di Isiro e da altri centri della provincia per essere curati. Alcuni, attirati dalle infrastrutture e anche dalle possibilità di scolarizzazione per i figli, decidono di stabilirsi a Neisu dopo la propria guarigione.

Ospedale di Neisu – Dipinto con padre Oscar e suor Irene

Alcuni dati

L’ospedale Nostra Signora della Consolata di Neisu ha una capacità d’accoglienza di 190 posti letto, più venticinque letti nella nuova maternità.

Impiega cinque medici, cinquanta fra infermieri e tecnici di laboratorio e radiologia, ed altri quaranta impiegati (servizio amministrativo, addetti alla lavanderia, alle cucine, alla manutenzione alle riparazioni tecniche ecc.).

I servizi offerti dall’ospedale comprendono: ambulatorio, farmacia ospedaliera, laboratorio analisi, radiologia, centro nutrizionale (Centre Bolingo), servizio di medicina preventiva di comunità, unità operative di medicina, chirurgia, pediatria, ginecologia, ostetricia e un nuovo reparto di cardiologia. Inoltre, garantisce terapie e cure preventive (salute materna e infantile, educazione sanitaria, salute comunitaria), oltre a cure per la malaria che diventa epidemica in alcuni periodi dell’anno.

Il bacino di utenza dell’ospedale è di 70mila persone, ma numerosi sono gli afflussi dalle zone confinanti.

Presenza sul territorio

L’ospedale assicura, inoltre, la supervisione del settore Ovest dell’area sanitaria di Isiro, nella collettività di Ndey, Mongomasi e Medje-Mango, circa 1.800 km2, per una popolazione di circa 60mila abitanti, con una rete di sei dispensari e sei postazioni sanitarie che coprono dieci aree diverse. Questi dispensari si trovano in piena foresta e sono un punto di riferimento e consolazione per la molta popolazione che vive lontana da Neisu. Vista l’impraticabilità delle strade, raggiungere questi posti diventa sempre più impegnativo per l’ospedale, e anche costoso per il mantenimento dei vari equipaggi, delle attrezzature necessarie, le medicine e il carburante.

L’ospedale non riceve energia elettrica da fuori e per il funzionamento delle attrezzature mediche viene utilizzato sia il generatore centrale, alimentato a gasolio, sia l’energia fotovoltaica autoprodotta. Segue le politiche e i programmi sanitari del paese, ma non riceve finanziamenti pubblici dal governo e quindi è interamente supportato, a livello economico, dai Missionari della Consolata, con l’aiuto di amici e benefattori. Le entrate dell’ospedale decisamente non bastano a coprire le spese per le medicine (acquistate in Uganda), per gli stipendi e gli alimenti per il centro nutrizionale e la manutenzione.

Ospedale di Neisu

Come vive la gente

La vita nel villaggio, qui a Neisu, in piena foresta, è molto diversa dalla vita nella cittadina d’Isiro. La gente è più povera, vive sulla soglia della sopravvivenza, fa tanta fatica a pagarsi alimenti, medicine, vestiti, e ancor di più a provvedere libri, quaderni e divise scolastiche per i bimbi. Spesso pagano le fatture e le medicine dell’ospedale, anziché in denaro, con prodotti agricoli locali: riso, fagioli, mais. Tutto questo serve poi per il centro nutrizionale e per i poveri che visitiamo ogni giorno. In molti casi, e sono troppi, vista la miseria di certe situazioni, concediamo dei crediti. Di fronte a situazioni d’urgenza, l’unica via possibile è dare un credito per poter salvare una vita. Questi crediti difficilmente si recuperano, ma in certe contingenze è sempre meglio «perdere» (denaro) che lasciare una vita abbandonata alla sua triste sorte.

Altri, non avendo la possibilità di pagarsi tutta la fattura dell’ospedale, lasciano in pegno qualche oggetto, casseruole, piccoli vestiti o una vecchia moto quasi inutilizzabile. Ogni anno, il nostro ospedale si riempie soprattutto di bambini, i più vulnerabili, ma anche di adulti e anziani, colpiti da malaria.

Molti arrivano dai villaggi vicini, ma anche da quelli distanti una sessantina di km. In troppi casi, i pazienti arrivano in situazioni d’emergenza, soprattutto i più piccoli, con anemia severa, per la quale serve subito una trasfusione. Purtroppo, anche in questi casi, molti non hanno i soldi per pagare il sacchetto di sangue, che resta così a carico dell’ospedale.

Il rapporto annuale 2021 documenta che abbiamo curato circa 2.500 persone colpite da malaria e fatto 1.260 trasfusioni.

Ospedale di Neisu

Cardiologia, perché

I malati di cardiopatia e d’ipertensione, in questi ultimi anni sono in continuo aumento e costituiscono una grande sfida a livello sanitario, vista la mancanza di ospedali e medici specializzati in cardiologia, anche nella più vicina città di Isiro.

Le cause principali delle malattie cardiache sono le seguenti:

  • Stress. Il livello socioeconomico basso e l’instabilità politica non permettono alla popolazione di assicurarsi una stabilità di vita, e sono diffuse la precarietà e l’incertezza.
  • La famiglia allargata. Essa domanda che ognuno si prenda cura di tutti i suoi componenti, per cui molti, già in giovane età, devono impegnarsi a cercare i mezzi per un futuro migliore.
  • Le abitudini alimentari. Povere in proteine e troppo ricche di grassi e sale. In primo luogo l’eccessiva consumazione di olio di palma, ricco di colesterolo.
  • L’eccessivo e sregolato consumo di bevande alcoliche di preparazione locale. Il metodo di produzione delle stesse non rispetta minimamente i principi della giusta distillazione, per cui è impossibile quantificare i gradi acolici presenti in esse, che sono spesso molto elevati.
  • Il consumo della noce di cola, che è un forte eccitante.

Queste sono alcune tra le cause più comuni, e sempre in aumento già in giovane età. Abbiamo ricoverato studenti tra i 13 e i 20 anni con problemi cardiologici. Purtroppo molti non sopravvivono.

Ospedale di Neisu

Il nuovo reparto

Grazie alla donazione di una famiglia torinese, nel maggio scorso, abbiamo terminato di costruire un padiglione per la cardiologia, composto da una stanza con una decina di posti letto per uomini, un’altra simile per sole donne, con servizi igienici esterni, lo studio medico e due stanze private con servizi igienici e doccia in camera. Tutto con una cinta di protezione.

Vista la mancanza di cardiologi e medici specialisti in generale, nello scorso mese di aprile abbiamo inviato a Kinshasa, la capitale del paese, per una formazione in cardiologia, una nostra dottoressa e due infermiere, che ad oggi sono ancora in formazione.

Questa è la situazione.

  • Nel 2020 abbiamo trattato 168 pazienti con problemi cardiaci e 108 con ipertensione.
  • Abbiamo ricoverato in medicina interna 64 pazienti con problemi cardiaci e 46 per ipertensione.
  • In terapia intensiva: 14 pazienti con cardiopatie e 13 ipertensione. In questo servizio, sui 72 decessi, 12 sono avvenuti per problemi cardiaci.
  • In medicina interna, su 1.234 ricoverati, 110 sono pazienti con problemi cardiaci e ipertensione. Il 30% dei decessi in medicina interna sono legati a cardiopatie.

Ospedale di Neisu

Ospedale di Neisu

Richiesta d’aiuto

Ora abbiamo bisogno di equipaggiare questa cardiologia.
Finora siamo riusciti a comperare un elettrocardiografo e un ecodoppler. Avremmo bisogno di un monitor, un concentratore d’ossigeno, un holter pressorio ed un piccolo gruppo elettrogeno che ci servirà per far funzionare tutte le apparecchiature mediche necessarie per le varie diagnosi di cardiologia. Più eventuali condensatori di ossigeno per quando il grosso gruppo elettrogeno dell’ospedale è spento. Visti i costi elevati del carburante per far funzionare il generatore centrale dell’ospedale, questo piccolo generatore è indispensabile soprattutto nel pomeriggio o nelle urgenze notturne.

Per il funzionamento saranno necessari 1.500 litri di carburante all’anno. Ci sarebbe utile anche un altro monitor per il reparto di terapia intensiva, visto che ne siamo tutt’ora sprovvisti. Tutte queste apparecchiature e il carburante (il cui prezzo è ormai imprevedibile anche qui da noi) saranno acquistate a Kampala (Uganda).

Come missionari siamo chiamati a essere portatori di speranza, quella speranza che è la tenera ala che sostiene la nostra fede, speranza che ci fa credere nei sogni di altre persone, sogni che non possono spezzarsi in giovane età.

Ivo Lazzaroni
amministratore dell’ospedale


Amici Missioni Consolata

Progetto cardiologia

Sosteniamo gli Amici Missioni Consolata che si impegnano a raccogliere i circa 15mila euro necessari all’acquisto dei macchinari per il reparto di cardiologia di Neisu.

Donazioni attraverso la  Fondazione MCO specificando: «Cardiologia Neisu».

Grazie.

 




Mozambico.

La baraccopoli nel Grande Hotel


Nato come hotel di lusso, utilizzato dai militari e come prigione durante la guerra, da decenni il Grande Hotel di Beira è un gigantesco palazzo occupato. Ci vivono centinaia di famiglie, adattandosi in ogni possibile spazio.

Beira. Come entri nella stanza buia e spoglia, in un angolo a sinistra, a lato dell’armadio, vedi un albero di Natale. È là tutto l’anno, durante la stagione delle piogge e in quella secca. «L’ho comprato due anni fa al mercato del Goto (il più grande mercato della città, nda) perché volevo che i miei tre figli sentissero l’atmosfera del Natale, che imparassero a sognare», mi dice Ilaria con aria soddisfatta mentre guardo l’abete incuriosito.

Un pomeriggio di qualche settimana fa l’ho trovata seduta per terra sul balcone, all’ingresso della sua stanza, in compagnia di due amiche. Stavano guardando delle fotografie. «Ce le siamo fatte scattare quest’anno, il primo di gennaio, da uno dei fotografi ambulanti in piazza del municipio. Volevo che fosse di buon auspicio per il nuovo anno per me e i miei figli». Ho guardato la serie di foto: avevano messo i vestiti buoni. Lei e la figlia si erano fatte fare una nuova acconciatura. Tutti e quattro avevano l’aria fiera e soddisfatta. Sapevano che stavano facendo qualche cosa di insolito e speciale.

Qualche giorno dopo l’ho incrociata per caso nella zona commerciale della città: «Sono venuta a comprare delle stoffe per me e le mie amiche per celebrare tutte assieme il primo di maggio».

Quando parlo con Ilaria rimango sempre ammirato dalla sua forza d’animo e dalla sua determinazione nel creare dei piccoli momenti di gioia e nel cercare di dare un futuro migliore ai suoi tre figli.

Simbolo della città

Ilaria è una dei tanti abitanti del Grande Hotel di Beira, probabilmente il più popoloso e grande edificio occupato al mondo. È uno dei simboli della città, tra le principali del Mozambico.

L’hotel incarna la storia del paese, uno dei più poveri al mondo, con un bassissimo livello di sviluppo umano, aspettativa di vita e altri indicatori socioeconomici. Fu costruito a metà degli anni Cinquanta, quando il Mozambico era una colonia portoghese, per mostrare al mondo la forza e il successo del regime fascista al potere in Portogallo dal 1933. Era un luogo di opulenza e venne concepito per essere tra gli hotel più lussuosi d’Africa. Un posto solo per ricchi, per lo più bianchi. In stile Art Déco, le facciate dalle enormi forme geometriche e ripetizioni architettoniche dovevano rappresentare la modernità. Mentre l’esterno non presentava ornamenti o motivi intricati, gli interni dai sontuosi saloni e scalinate erano fatti con materiali costosi abbastanza rari nella regione.

Il Grande Hotel era famoso in tutto il mondo, ma chiuse i battenti nel 1963, perché nei suoi otto anni di attività non fu mai redditizio, dato che pochissime persone potevano permettersi di alloggiare in una delle sue 116 camere. Negli anni seguenti aprì solo in alcune occasioni per ospitare grandi eventi, come quando soggiornarono alcuni membri del Congresso degli Stati Uniti in crociera lungo la costa dell’Africa Orientale.

Durante i 16 anni di guerra civile iniziata nel 1976, l’edificio servì inizialmente come base dell’esercito e come prigione, successivamente come campo profughi. Fu solo dopo l’abbandono dal suo scopo originale che le stanze furono riempite per la prima volta. Da allora, il Grande Hotel è diventato casa per le persone più vulnerabili, in una città che è in costante crescita ma non è in grado di costruire alloggi decenti e adeguati per chi ci vive.

Comunità autogestita

Si stima che attualmente ci vivano circa duemila persone, molte delle quali bambini e adolescenti, che occupano tutte le stanze e ogni sezione di questo enorme edificio buio e umido, comprese le scale, i lunghi corridoi e gli scantinati. I suoi abitanti vivono come una comunità autogestita, ma senza i servizi pubblici essenziali, come l’acqua e servizi igienici, l’elettricità e la raccolta dei rifiuti. Per avere una stanza bisogna pagare un affitto. Pochi euro, che per alcuni sono però proibitivi. Succede allora che qualcuno debba lasciare una di quelle che, negli anni Cinquanta, erano stanze di lusso per trasferirsi in un angoletto nei corridoi o nelle cantine.

Ilaria vive presso il Grande Hotel da quando era ragazzina. Lì ha conosciuto il suo compagno, che poi l’ha abbandonata. Lì sono nati i suoi figli. Vive al primo piano, in un «appartamentino» che un tempo era una delle suite dell’hotel. Il suo letto occupa quello che in passato era un bagno finestrato. Lo si riconosce dalle piastrelle alle pareti e dalle allacciature dell’acqua. Il figlio più grande dorme su un materasso steso sul pavimento in un piccolo corridoio.

La vita si svolge prevalentemente sul balcone, più luminoso e arieggiato. Lì si cucina, si fanno i compiti e si gioca. Si chiacchiera con gli ospiti e ci si rilassa. All’ingresso dell’alloggio Ilaria ha una piccola bancarella di frutta e verdura. A volte vende delle frittelle o delle patate dolci fritte. Abbastanza per pagarsi le spese e comprare nuovi prodotti da vendere. Ma non abbastanza per risparmiare e avere più garanzie per il suo futuro.

Vivere alla giornata

La maggior parte degli abitanti dell’hotel non ha un lavoro fisso e campa alla giornata. Così come Ilaria, all’interno e all’ingresso dell’edificio molte donne allestiscono piccole bancarelle che vendono frutta, verdura e pesce.

Nei corridoi si trovano dei piccoli saloni di bellezza, specie nel fine settimana. Si sta seduti sugli scalini o sulle sedie di plastica: passano le ore tra chiacchiere e nuove acconciature.

Alcuni degli abitanti sono pescatori, ma la maggior parte sopravvive trovando lavori occasionali, alla giornata. Il numero di pasti, così come la quantità di cibo e il condimento da accompagnare al riso e alla xima (una polenta a base di mais), dipendono da come è andata la giornata. Quando si mangia pesce fresco o carne, significa che la giornata lavorativa è andata bene o c’è qualche ricorrenza da festeggiare.

Vivendo in condizioni di estrema vulnerabilità, la malnutrizione è cronica, specialmente tra i bambini. Diarrea, Aids, malaria, scabbia, tubercolosi e altre malattie sono un problema diffuso. Ma tra vicini di casa ci si aiuta.

Manuel Antonio era un signore anziano. Aveva perso una gamba a causa di una mina, da giovane, rientrando da una partita di calcio, durante la guerra civile. «Se non fossi saltato su quella mina – mi dice un giorno con un sorriso malinconico – forse non sarei qui a raccontartela perché avrei dovuto combattere durante la guerra civile». Viveva presso il Grande Hotel dall’inizio degli anni Novanta e passava le sue giornate fuori dal panificio in piazza del municipio. Il pane e qualche moneta data dai passanti erano abbastanza per sopravvivere. È là che ci siamo conosciuti, qualche anno fa. Ultimamente però era molto debole e non riusciva ad andare fino alla piazza. E così, mentre mi fermavo a chiacchierare con lui in corridoio fuori dalla sua stanza in lamiera, spesso arrivavano dei vicini con qualche cosa da mangiare. E quando, poco tempo fa, se ne è andato a causa della tubercolosi, gli amici hanno fatto una colletta per pagare il funerale.

Negli scantinati

Moltissime persone vivono negli scantinati, che sono umidi e bui. Tra loro Josè, pescatore, con sua moglie e i quattro figli. La prima volta che sono andato a visitarlo in casa mi ha incuriosito il fatto che tutti i mobili, come ad esempio il tavolo, la struttura del letto o il piano di appoggio del televisore, erano fatti di mattoni di cemento. «Con i risparmi sto comprando del materiale per fabbricare dei mattoni. Quando ne avrò abbastanza vorrei costruire una casa fuori da qui, forse nel quartiere della Manga. Però mi mancherà la vicinanza al mare».

Il Grande Hotel si trova di fronte all’oceano, non lontano dal porto costruito dai portoghesi, da cui è cresciuta la città di Beira, su una pianura alluvionale sotto il livello del mare che la espone a inondazioni regolari.

Nell’edificio si fa pochissima manutenzione. Le infiltrazioni di acqua piovana e gli allagamenti costituiscono un problema ricorrente. In diverse aree sia all’interno che all’esterno ci sono cumuli di spazzatura. I vani degli ascensori e le scale sono diventati delle voragini, in cui occasionalmente qualcuno cade. Il palazzo è esposto ai venti, alla salsedine e all’usura del tempo. La struttura è forte e regge, tuttavia si sta lentamente deteriorando. Ogni tanto alcuni soffitti e pareti crollano, anche se le persone che ci vivono fanno del loro meglio per tenere l’edificio pulito e in sicurezza.

Il ciclone Idai del marzo 2019, uno dei peggiori cicloni tropicali che abbiano mai colpito l’Africa e l’emisfero meridionale, che ha causato enormi danni e una crisi umanitaria nella regione, ha lasciato il suo segno sia sul Grande Hotel che nella memoria di chi ci vive.

Pochi mesi dopo, la situazione si è complicata ulteriormente a causa dello stato di emergenza dichiarato a seguito della pandemia, soprattutto perché molte attività economiche formali e informali in città hanno chiuso, ed è diventato più difficile trovare un lavoro. Inoltre, per parecchi mesi i bambini non sono potuti andare a scuola. In un paese dove il sistema scolastico è già abbastanza precario e non è così raro incontrare dei ragazzi che, alla fine della scuola dell’obbligo, sanno a mala pena leggere e scrivere.

Difficile andarsene

Ultimamente, l’aumento generalizzato dei prezzi, in particolare del pane e di altri beni di prima necessità, è causa di nuovi forti disagi. Diverse persone hanno dovuto chiudere le loro bancarelle perché con i guadagni non riuscivano a coprire i costi. Ma ci si inventa sempre qualcosa per andare avanti.

Da poco un ragazzo si è costruito un piccolo chiosco, dove vende cd e offre servizi di registrazione audio per chi vuole incidere un brano musicale. Il chiosco è di fronte al cinema in lamiera che in genere proietta film di azione americani doppiati in brasiliano.

Ogni tanto qualcuno riesce a guadagnare abbastanza, oppure a studiare e a trovare un lavoro ben pagato che gli permette di uscire dal ventre del palazzo. Molti ragazzi sono determinati a studiare, come Amaral che sogna di diventare tecnico di costruzione, o Regina che vorrebbe studiare per diventare infermiera e aiutare la sua famiglia. Ma non è facile, e per la maggior parte degli abitanti del Grande Hotel il mondo fuori non è destinato a essere meno precario. Molte persone lì sono nate, hanno avuto i loro figli e, in alcuni casi, hanno visto i loro nipoti nascere e crescere.

Paolo Ghisu

Paolo Ghisu è nato e cresciuto a Trento. Laureato in economia e relazioni internazionali, ha lavorato per varie Ong e organizzazioni internazionali, in diversi paesi. Dal 2018 vive a Beira, Mozambico. Da sempre appassionato di fotografia, nel 2020 ha deciso di renderla parte della propria carriera, iniziando un percorso di formazione in fotografia e narrazione visiva. Attraverso il suo lavoro racconta storie di sostenibilità, diversità, vulnerabilità e resilienza.

Il progetto Fully booked. Vivere al Grande hotel di Beira è il primo progetto fotografico di Paolo Ghisu. Nell’ottobre del 2020 ha iniziato a frequentare regolarmente il Grande Hotel. Passo dopo passo, molti degli abitanti gli hanno aperto le porte delle loro case. Per mesi ha condiviso con loro momenti di quotidianità, fatta di costante precarietà. www.paologhisu.com

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Lavoro, globalizzazione e un salario senza dignità


La competizione esasperata tra multinazionali costringe a ridurre i prezzi di merci e servizi. Per mantenere i profitti, i datori di lavoro diminuiscono i salari. Ecco perché i lavoratori sono sempre più vittime del sistema. In Italia, si stima che gli occupati poveri siano 5,2 milioni.

Da qualche tempo anche in Italia si parla della necessità di istituire il salario minimo legale, una soglia salariale fissata per legge al di sotto della quale nessun rapporto di lavoro può scendere (1). L’esigenza nasce dalla constatazione che ormai anche da noi i rapporti di lavoro sono diventati una giungla dove ognuno fa ciò che vuole. O meglio dove i forti, ossia i datori di lavoro, possono imporre le condizioni che vogliono.

La cronaca riporta casi limite di operai pagati anche due euro l’ora come è stato scoperto presso la Venus Ark, un’impresa di confezioni di Prato, i cui titolari sono stati arrestati per sfruttamento nel settembre 2021. Ma senza arrivare ai casi di totale illegalità, più vicini alla schiavitù che allo sfruttamento, si possono prendere come riferimento le paghe dei rider (2) che, secondo una ricerca della Banca d’Italia del 2018, si aggirano attorno ai 6 euro l’ora.

Sempre meno tutele

In Italia, come nel resto d’Europa, il numero di lavoratori con un alto tasso di tutele si sta assottigliando sempre di più. A cominciare dal tipo di assunzione. Negli anni Ottanta del secolo scorso, l’assunzione abituale era a tempo indeterminato senza possibilità di licenziamento in assenza di giusta causa determinata dalla legge. Tutto ha cominciato a sgretolarsi con la globalizzazione, quel processo avviato negli anni Novanta teso a trasformare il mondo intero in un unico grande mercato nel quale merci e capitali possono spostarsi da una nazione all’altra senza vincoli o limitazioni di sorta. Un traguardo fortemente voluto dalle multinazionali che, per le dimensioni raggiunte, non potevano più accontentarsi di rimanere confinate nelle loro nazioni di origine.

La prima grande vittoria l’hanno ottenuta nel 1995 con l’istituzione dell’Organizzazione mondiale del commercio, una sorta di super governo mondiale che regola i rapporti commerciali fra paesi tenendo conto dei soli interessi delle grandi imprese. Tuttavia, proprio quando la globalizzazione ha cominciato a diventare realtà, le multinazionali hanno scoperto che il grande mercato mondiale che sognavano non esiste. Semplicemente perché le persone capaci di comprare i loro prodotti non vanno oltre il 30-40% della popolazione mondiale. Tutti gli altri sono solo zavorra, persone che a causa della loro povertà non entrano mai in un supermercato.

Così, tante multinazionali (all’incirca un milione) si stanno contendendo un mercato, tutto sommato, limitato che non ha possibilità di espansione immediata. Ne è venuta fuori una concorrenza all’ultimo sangue giocata essenzialmente sulla diminuzione dei prezzi. Ma ogni volta che questi vengono ritoccati, bisogna trovare il modo di ridurre anche i costi di produzione, altrimenti i profitti soffrono. Ecco perché, nell’epoca della globalizzazione, il lavoro è finito sotto assedio. Finché le economie erano organizzate su base nazionale, la via classica di riduzione del costo del lavoro era l’automazione, ma, in un sistema totalmente aperto, le imprese hanno scoperto anche la via della delocalizzazione, il trasferimento delle attività produttive in paesi dove la povertà morde così tanto da rendere i lavoratori disponibili a svolgere le stesse mansioni dei loro colleghi europei o nordamericani per salari anche trenta volte più bassi.

Sono sempre di più i «working poor», i lavoratori senza un salario «vivibile». Foto John R.Perry – Pixabay.

Il lavoro secondo l’Ocse

Nessuno sa quanti posti di lavoro siano stati persi nei paesi di prima industrializzazione, a causa dei trasferimenti produttivi nei paesi a bassi salari. Ma è un fatto che molti settori continuano a perdere addetti. I recenti casi di Gkn e Whirpool in Italia lo testimoniano. Già nel 1994, l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse), il centro studi dei paesi industrializzati incaricato di elaborare strategie economiche, suonò il campanello d’allarme con la pubblicazione del Jobs study, un rapporto sullo stato dell’occupazione nei paesi industrializzati. Fin dalle prime righe non faceva mistero della gravità del problema: «La disoccupazione è il fenomeno del nostro tempo che mette più paura. Ci sono 35 milioni di disoccupati nei paesi aderenti all’Ocse, mentre altri 15 hanno smesso di cercare lavoro oppure hanno accettato, contro la loro volontà, un lavoro part time. Almeno un terzo dei giovani è senza lavoro». Ma lungi dal voler rimettere in discussione la globalizzazione, la ricetta dell’Ocse si chiamava riforma del lavoro. Il ragionamento era semplice. I paesi di nuova industrializzazione attirano le imprese perché offrono costi di produzione più bassi. Dunque, se vuole fare tornare le imprese in casa propria, il Nord deve creare condizioni altrettanto allettanti. È la legge della competitività, bellezza. Ed ecco i suggerimenti: ridurre le tasse sui profitti, ridurre il peso per oneri sociali, rendere il lavoro più flessibile, ossia più disponibile ad adattarsi alle esigenze della produzione.

Lavoratori vulnerabili

Ancora oggi tutti i governi, siano essi di destra o di sinistra, usano queste misure come stella polare. E per farle digerire ai cittadini, la mettono sempre sul piano del meno peggio: «Preferite essere disoccupati che non guadagnano niente o sottoccupati che almeno 500 euro al mese li prendono?». E ponendoci sempre di fronte al dilemma della sopravvivenza, alla fine ottengono non solo il consenso dei cittadini, ma anche i loro ringraziamenti.

Secondo i calcoli dell’Organizzazione mondiale del lavoro (Oil), i lavoratori «vulnerabili», ossia precari, malpagati e in situazioni a rischio, nel mondo sono quasi un miliardo e mezzo, il 42% di tutti gli occupati. La metà di loro sono definiti working poors, lavoratori poveri, perché percepiscono compensi al di sotto dei tre dollari al giorno, la soglia limite della povertà.

Lavoratori, ma poveri

La novità è che ora i working poors abitano anche fra noi. I loro tratti distintivi sono paghe basse, discontinuità lavorativa, scarse ore di lavoro. A seconda che si prenda in considerazione un solo criterio o la combinazione di più elementi, si ottengono risultati diversi sul numero dei working poors di casa nostra. Prendendo a riferimento la sola  paga oraria, l’Istat preferisce parlare di sperequazione retributiva piuttosto che di povertà. Posta la mediana nazionale a 11,21 euro l’ora, l’Istat definisce a bassa paga chiunque riceva meno di 7,47 euro l’ora, che corrispondono a due terzi della media nazionale. Il Cnel stima che i lavoratori a bassa paga siano oltre tre milioni, il 17,9% di tutti i lavoratori dipendenti, principalmente lavoratori domestici, dell’agricoltura, delle costruzioni. Ma anche della piccola industria considerato che in settori come l’abbigliamento si applicano contratti collettivi di comodo che, per le categorie più basse, prevedono salari orari al di sotto dei 7 euro.

Un caso è rappresentato dal contratto 2015-2018 firmato fra Fedimprese e Snapel per le aziende façon (operanti per conto terzi). Un settore a prevalente presenza femminile che conferma come l’ingiustizia retributiva colpisca soprattutto le donne.

Se moltiplichiamo la paga oraria per le ore lavorate, otteniamo i compensi mensili e annuali che ci danno un’idea più compiuta delle disponibilità monetarie dei lavoratori e quindi della loro condizione economica. Ed è proprio il reddito annuale il parametro utilizzato per stabilire chi sono i lavoratori poveri, ricorrendo ancora una volta al confronto, piuttosto che ai concetti assoluti. Il valore preso a riferimento è il reddito familiare mediano che, in Italia, corrisponde a 25mila euro. Per convenzione, si definisce lavoratore povero chiunque guadagni meno del 60% di tale importo, ossia meno di 15mila euro l’anno. Quanti siano con esattezza è difficile dirlo. Secondo il Cnel (anno 2018) sono 5 milioni e 247mila, il 31% di tutti gli occupati.

Costituzione italiana e dichiarazione

Ora, però, il gioco al ribasso si sta mostrando pericoloso per il sistema stesso, e la politica, da sempre al servizio dell’economia, sta cercando un exit strategy. Ed ecco il salario minimo come via d’uscita, che però è vera soluzione solo se rispetta certi criteri. Altrimenti si trasforma in farsa come succede in molti paesi dove è fissato addirittura sotto la soglia della povertà assoluta. Valgano come esempio Haiti o il Burkina Faso dove esso si trova a meno di 50 centesimi di euro l’ora. E non va certo meglio in alcuni paesi dell’Unione europea, come la Romania dove è fissato a 2,8 euro l’ora o la Bulgaria dove si trova a 2 euro l’ora. Per contro in Germania è fissato a 9,50 euro l’ora, mentre in Lussemburgo varia dai 9,50 euro per gli apprendisti ai 15,27 per gli specializzati. Il punto è che il salario minimo non è un elemento neutro: a seconda di dove viene posizionato avvantaggia i lavoratori o le imprese, riduce le disuguaglianze o le acuisce, colma le lacune sociali o le aggrava. E poiché anche nelle democrazie, il potere è detenuto dalle classi agiate piuttosto che da quelle umili, difficilmente il salario minimo è definito secondo criteri di dignità e rispetto. Piuttosto è concepito come strumento di contenimento dell’esasperazione sociale. Prova ne sia che anche nell’Unione europea l’orientamento dominante è di fissarlo al 60% del salario mediano nazionale che è la linea di confine del lavoro in povertà.

L’alternativa è prendere sul serio l’articolo 36 della Costituzione italiana che recita: «Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa». Affermazione che fa il paio con l’articolo 23 della Dichiarazione universale dei Diritti umani, secondo il quale il lavoratore «ha diritto ad una rimunerazione equa e soddisfacente che assicuri a lui stesso e alla sua famiglia una esistenza conforme alla dignità umana ed integrata, se necessario, da altri mezzi di protezione sociale».

Sono sempre di più i «working poor», i lavoratori senza un salario «vivibile». Foto Brian Odwar – Pixabay.

Il salario «vivibile»

È proprio a partire da questi principi che sta avanzando l’idea di un salario minimo inteso come salario vivibile. Un salario, cioè, che con 40 ore di lavoro settimanale permetta al singolo lavoratore e ai suoi familiari di far fronte ai bisogni di base individuati in cibo, alloggio, vestiario, sanità, energia, trasporti, istruzione. Un conteggio sicuramente non facile perché, oltre alla composizione del nucleo familiare, la vivibilità del salario dipende anche dal tipo di clima in cui si vive, dal livello degli affitti, dalla quantità di servizi gratuiti offerti dallo stato. Tuttavia, alcune organizzazioni, fra cui la Clean clothes campaign, rappresentata in Italia dalla «Campagna abiti puliti», stanno mettendo a punto dei metodi di calcolo di salario vivibile che, pur  nella loro parzialità, offrono buoni livelli di affidabilità.
Per l’Italia i calcoli sono ancora in corso, ma si profilano cifre ben al di sopra degli attuali minimi contrattuali, almeno in alcuni settori. Del resto i contratti non sono il frutto di ciò che è giusto, ma di ciò che è possibile in base alla forza di cui si dispone. E in un momento in cui la forza sindacale è in calo a causa di alti tassi di disoccupazione e di una legislazione accomodante per le imprese, sarebbe estremamente utile per i sindacati poter contare su un salario minimo legale fissato secondo criteri di vivibilità. Non tutti, però, la pensano così, e anzi c’è chi interpreta l’intervento del legislatore   come un’indebita intromissione in un ambito di esclusiva competenza sindacale. E forse hanno ragione, ma nella storia bisogna anche saper rivedere le proprie strategie in base al mutare dei rapporti di forza: dove non possono la morale e l’etica, sono i fallimenti a indicare la strada più giusta da intraprendere.

Francesco Gesualdi

(1) Questo articolo va ad aggiornare «Per un salario dignitoso (nell’era della disoccupazione)», pubblicato su MC a novembre 2019.

(2) Sui riders si legga «Il capitalismo delle piattaforme digitali», MC, luglio 2020.




Inferno, purgatorio, paradiso

testo di Paolo Moiola |


Come non bastassero le devastanti conseguenze dell’embargo Usa, sull’isola si è abbattuta la pandemia e la penuria di beni primari. Molti cubani sono scesi in piazza per protestare contro il governo, trovando l’appoggio (interessato) del presidente Biden.

Tra Miami, cuore scintillante della Florida, e l’Avana, capitale di Cuba, ci sono meno di 400 chilometri. E oltre 60 anni di percorsi politici e culturali diversi, anzi opposti: capitalismo versus socialismo. Messa così, è facile arrivare a conclusioni tanto perentorie quanto parziali: ricchezza contro sopravvivenza, libertà contro autoritarismo.

In questi ultimi mesi, sulla piccola isola caraibica ci sono state manifestazioni antigovernative. Con immediate reazioni di giubilo tra la vasta comunità cubana di Miami e sulla maggior parte dei media (compresi quelli italiani). Per capire meglio la situazione, proviamo a ricordare qualche elemento dimenticato o – forse volutamente – trascurato.

Scolare di Trinidad con in mano «Granma», il quotidiano ufficiale dell’isola. Foto Jaume Escofet.

243 nuove misure

Iniziamo con l’embargo degli Stati Uniti, conosciuto come «el bloqueo» e vigente (con modalità variabili e crescenti) dal 1960.

Le conseguenze più disumane sono quelle derivanti dall’applicazione del Cuban democracy act del 1992 (Cda, conosciuto anche come legge Torricelli, dal nome del suo proponente).

È da questa norma che derivano le restrizioni più dure sui rifornimenti di medicine e di attrezzature medicali per Cuba. Se prima erano vietate le esportazioni dirette dagli Usa di quei beni, con la nuova legge vengono vietate anche le vendite dalle sussidiarie estere delle aziende statunitensi. Inoltre, in base al Cda, le navi che abbiano fatto scalo a Cuba non possono attraccare nei porti Usa per sei mesi. Una norma scandalosa e ingiustificabile, senza se e senza ma.

Eppure, a tanti l’argomento del bloqueo risulta indigesto: «È una scusa da sempre utilizzata dal regime per giustificarsi», affermano.

Tutto può essere, ma che l’embargo (economico, commerciale, finanziario) contro l’isola non produca effetti nefasti sulla quotidianità dei cubani è negare l’innegabile. Purtroppo, se Barack Obama aveva iniziato ad allentare le sanzioni, Donald Trump le ha rese ancora più dure introducendo altre 243 (leggasi «duecentoquarantatre») misure (e – negli ultimi giorni del suo mandato – ha addirittura inserito il paese tra gli stati sponsor del terrorismo).

Per comprendere meglio cosa possa comportare l’embargo degli Stati Uniti, prendiamo alcuni dei provvedimenti introdotti da Trump nell’ultimo anno della sua presidenza (non per amore della libertà e della democrazia, ma nel prosaico intento di guadagnare i voti della folta comunità cubana della Florida, circa 1,5 milioni di persone su un totale di 2,3 milioni presenti in Usa). Essi colpiscono le due principali entrate in dollari dell’isola: le rimesse e il turismo.

Il 26 ottobre 2020, il Tesoro Usa ha emendato il Cuban assets control regulations allungando la lista (Cuba restricted list) delle entità cubane (società, ministeri, uffici) con cui le compagnie statunitensi non possono avere rapporti. Tra queste anche Fincimex, sussidiaria di Gaesa, il conglomerato d’imprese che farebbe capo alle Forze armate rivoluzionarie di Cuba. La Fincimex è la controparte finanziaria della Western Union, l’azienda statunitense di trasferimenti di denaro.

Cubani davanti a un ufficio di Etecsa, la compagnia telefonica statale. Foto Ian Southwell.

A causa del divieto governativo, lo scorso 27 novembre la compagnia Usa si è vista costretta a chiudere i suoi 407 uffici distribuiti sull’isola, colpendo migliaia di cubani che sulle rimesse fanno affidamento.

Per quanto concerne il turismo, dopo aver proibito le crociere nel giugno 2019, il 28 settembre 2020 il Dipartimento di stato degli Usa ha reso nota una lista di 433 hotel cubani, legati o controllati dal governo de l’Avana, in cui ai cittadini statunitensi è stato fatto divieto di soggiornare. Agli statunitensi è stato inoltre proibita l’importazione di rum e sigari, i prodotti cubani più famosi.

Come sappiamo, Trump è poi uscito di scena essendo stato sconfitto da Joe Biden. Il neo presidente non ha però cambiato registro (smentendo, almeno fino a ora, le promesse fatte a settembre 2020, durante la sua campagna elettorale).

Il giorno seguente alle proteste dell’11 luglio, in una prima nota (White House statements and releases) Biden ha espresso vicinanza al popolo cubano («We stand with the Cuban people»).

Pochi giorni dopo, durante una conferenza stampa con Angela Merkel, è stato più esplicito affermando che Cuba è uno stato fallito («failed state») che reprime i suoi cittadini (fonte: Cnn).

Nella nota del 22 luglio, ha affermato che «gli Stati Uniti stanno con i coraggiosi cubani che sono scesi in piazza per opporsi a 62 anni di repressione sotto un regime comunista». Insomma, un crescendo inarrestabile di accuse da parte del nuovo presidente Usa.

Un cartellone del governo cubano contro l’embargo (el bloqueo), definito strumento di genocidio. Foto Diego Battistessa.

La battaglia del web

Consueto campo di battaglia è la narrativa: a chi credere? Al racconto fatto dagli Usa o a quella del governo de l’Avana? La connessione internet non è
risolutiva come spesso si crede. Nei giorni precedenti alle manifestazioni, molti gruppi anti castristi degli Stati Uniti hanno utilizzato i social media (Twitter, Facebook, Instagram, Telegram e WhatsApp) per incitare alla protesta antigovernativa. Quando questa è scoppiata, gli stessi social media l’hanno amplificata. Per questo il governo de l’Avana ha oscurato internet per 72 ore, salvo poi ripristinarla.

Introdotta soltanto nel 2018 e rafforzata nel luglio 2019, la connessione web è oggi presente sui cellulari di cinque milioni di cubani (fonte: Bbc).

A Cuba, opera una sola compagnia telefonica, la statale Etecsa. Lo scorso 17 agosto il governo ha pubblicato il decreto legge n. 35 e la risoluzione 105 sulle comunicazioni e la cibersicurezza per regolamentare internet. Gli avversari sostengono che le nuove norme servono per limitare la libertà d’espressione.

L’amministrazione Biden sta cercando soluzioni tecniche per sottrarre internet al controllo governativo. D’altra parte, non va dimenticato che lo strumento del web può aprire le porte all’informazione, ma molto spesso anche alla disinformazione e alle fake news.

Per dirla in altri termini, internet è uno strumento a geometria variabile: quando fa comodo, è la panacea di ogni male; quando gli interessi sono diversi, è il diavolo.

184 voti a favore

Davanti all’offensiva di Biden, il presidente cubano Miguel Díaz-Canel, l’ingegnere (nato nel 1960) che è succeduto ai fratelli Castro, ha risposto chiedendo al presidente Usa di eliminare le misure dell’embargo statunitense nei confronti dell’isola.

Una dose di «Abdala», uno dei vaccini contro il Covid-19 prodotti a Cuba.

Che esso costituisca una causa fondamentale dell’emergenza e non una «scusa» del governo de l’Avana ne è convinta anche la comunità internazionale. Lo scorso 23 giugno l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha, infatti, chiesto la fine del blocco economico, commerciale e finanziario degli Stati Uniti verso Cuba. La risoluzione si aggiunge alle 28 adottate dal 1992, quando l’organo dell’Onu ha iniziato a votare annualmente sulla questione. La condanna dell’embargo ha ottenuto questa volta 184 voti a favore, due contrari (Stati Uniti e Israele) e tre astenuti (Colombia, Brasile e Ucraina).

Nel corso del dibattito, il ministro degli esteri di Cuba, Bruno Rodríguez Parrilla, ha affermato che l’embargo è una violazione massiccia, flagrante e sistematica dei diritti umani del popolo cubano e ha aggiunto che, secondo la Convenzione di Ginevra del 1948, «esso costituisce un atto di genocidio». Si tratta, ha detto, di «una guerra economica di portata extraterritoriale contro un piccolo paese già colpito nel recente periodo dalla recessione e dalla crisi economica mondiale causata dalla pandemia, che ci ha privato di entrate essenziali come quelle derivanti dal turismo». «La pretesa di Cuba è di vivere senza l’embargo e che venga cessata la persecuzione dei nostri legami commerciali e finanziari con il resto del mondo», ha sottolineato il ministro (fonte: sito Nazioni Unite).

Una dose di «Soberana 2», uno dei vaccini contro il Covid-19 prodotti a Cuba.

A parte lo storico embargo statunitense, da un anno e mezzo su Cuba si è abbattuto anche il Covid-19 e le sue conseguenze economiche. Senza valute forti a causa del crollo del turismo internazionale, l’isola ha dovuto affrontare da sola la pandemia. È riuscita a contenerla per merito del suo sistema sanitario pubblico, povero di mezzi (scarseggiano anche le siringhe), ma dotato di un vasto e preparato capitale umano (medici, infermieri, tecnici, ricercatori). Dei cinque vaccini cubani, il «Soberana 2», il «Soberana plus» e l’«Abdala» hanno evidenziato di essere efficaci. A inizio settembre il governo de l’Avana e l’Oms hanno iniziato a discutere sull’autorizzazione internazionale degli stessi.

Vale la pena di rammentare che, nel corso del 2020, in piena pandemia, due brigate mediche di Cuba vennero a portare aiuto anche in Italia.

Yoani Sánchez e Frei Betto

Yoani Sánchez, la dissidente cubana più nota e più ricercata dai media internazionali, racconta la situazione sull’isola sul proprio sito web, tenuto con il marito Reinaldo Escobar: 14ymedio.com, assieme a cubalex.org, il più serio (e sovvenzionato) tra i siti antigovernativi.

Nei suoi articoli pubblicati sul New York Times e su la Repubblica (22 luglio), la giornalista ha commentato i fatti dell’11 luglio senza un solo cenno all’embargo, come non esistesse e non sortisse effetto alcuno. A lei noi preferiamo di gran lunga il brasiliano Frei Betto, frate domenicano, teologo (della liberazione) e scrittore, da 40 anni frequentatore dell’isola.

In una sua lunga e appassionata lettera, il religioso ha scritto: «Se in Brasile sei ricco e vai a vivere a Cuba, conoscerai l’inferno. Non potrai cambiare auto ogni anno, acquistare abiti firmati, viaggiare spesso all’estero per le vacanze. […] Se appartieni alla classe media, preparati a vivere il purgatorio. Nonostante Cuba non sia più una società nazionalizzata, la burocrazia persiste, bisogna pazientare nelle code ai mercati, molti prodotti disponibili questo mese potrebbero non essere trovati nel prossimo a causa dell’instabilità delle importazioni».

«Se, invece, sei uno stipendiato, un povero, un senzatetto o un senzaterra, preparati a conoscere il paradiso. La Rivoluzione ti garantirà i tre diritti umani fondamentali: cibo, salute e istruzione, ma anche alloggio e lavoro. Potresti rimanere con l’appetito per non riuscire a mangiare ciò che più ti piace, ma non avrai mai fame. La tua famiglia avrà istruzione e assistenza sanitaria – compresi gli interventi chirurgici complessi – totalmente gratuiti, in quanto questi servizi sono un dovere dello stato e un diritto di ogni cittadino».

Il cardinale Jaime Ortega Alamino, morto nel 2019, è stato per oltre tre decenni una figura chiave a Cuba. Foto Diario de Cuba.

Il ruolo della Chiesa

La Chiesa cattolica di Cuba ha sempre rivestito e riveste un ruolo fondamentale sull’isola, come unico interlocutore credibile con il potere centrale.

«Non possiamo chiudere gli occhi o girare lo sguardo». Così iniziava il comunicato dei vescovi cubani del 12 luglio, il giorno seguente alle manifestazioni di protesta sull’isola. In esso i vescovi hanno criticato immobilismo e imposizioni, reclamando invece un ascolto reciproco. Nel corso della sua esistenza, l’ex leader cubano Fidel Castro (1926-2016) ha incontrato tre pontefici: Giovanni Paolo II nel gennaio 1998, Benedetto XVI nel marzo 2012 e Francesco nel settembre 2015. In queste visite, l’affermazione più emblematica è stata, forse, quella pronunciata da Giovanni Paolo II, il 25 gennaio 1998: «Che Cuba si apra al mondo e il mondo si apra a Cuba».

Tutti i viaggi papali sono stati organizzati dal cardinale Jaime Ortega, arcivescovo di l’Avana per quasi 36 anni (1981-2016), poi sostituito dal cardinale Juan de la Caridad García Rodríguez. Ortega, scomparso nel luglio 2019, è stato un protagonista assoluto della storia dell’isola, ma le sue posizioni concilianti non sono mai piaciute ai cubani espatriati, in particolare a quelli residenti in Florida. Costoro sono arrivati al punto di accusare il prelato di «ripulire la faccia al regime» (lavar la cara al régimen).

Dall’altra parte, mons. Ortega trovava un interlocutore preparato. Fidel conosceva infatti la dottrina cattolica e la Chiesa. In gioventù, aveva studiato per anni negli istituti dei gesuiti: prima al collegio Dolores a Santiago, poi a quello di Belén all’Avana.

La sua posizione religiosa è stata oggetto di varie interpretazioni. Una delle più originali è, senza dubbio, quella dello storico Loris Zanatta, che lo ha definito «l’ultimo Re cattolico», come recita anche il titolo di un suo libro (Salerno editrice, Roma 2020). «Fidel – vi si legge tra l’altro – è innanzitutto gesuita, poi rivoluzionario, infine marxista». «Non è strano – scrive ancora – che il monarca comunista del XX secolo sia erede ideale dei monarchi cattolici del passato: crebbe su un’isola che fu Spagna per secoli, in un ambiente familiare e sociale ispanico e cattolico».

Oggi a Cuba ci sono governanti diversi, sicuramente meno carismatici dei precedenti. Anche le circostanze storiche sono radicalmente mutate. Per tutto questo, mai come oggi, il futuro dell’isola non è pronosticabile. L’unica certezza è che non sarà facile.

 Paolo Moiola

Papa Giovanni Paolo II con Fidel Castro nella visita a Cuba del gennaio 1998.

Papa Francesco con Fidel Castro nella visita a Cuba del settembre 2015. Foto Alex Castro.

Papa Benedetto XVI con Fidel Castro nella visita a Cuba del marzo 2012. Foto L’Osservatore Romano.




Noi e Voi

Ai nostri missionari

Invio la foto della targa che è stata collocata nella Villa Pisani di Biadene (Tv), nel corridoio di entrata al teatro Binotto, in ricordo della loro scuola/seminario nell’immediato dopo guerra, su iniziativa di Fondazione Contea.

Gino Merlo
dell’associazioneAvi di Montebelluna (Tv) – 14/06/2021

Grazie per la segnalazione del bel gesto della Fondazione Contea. Anche se abbiamo lasciato Biadene, dove siamo stati dal 1949 al 1981, il cuore di molti missionari è sempre legato a quel luogo, così caro a tanti, soprattutto per l’affetto e la sintonia vissuti con la comunità locale.

Ringraziamo con due immagini: una visione del complesso della villa dove quella che era la chiesa è ora il teatro, e una foto di gruppo dei seminaristi del 1951-52.


Un dossier per agire

Problemi ambientali, soluzioni sociali

Si scrive sostenibilità, si pronuncia equità: così potrebbe essere sintetizzato il dossier infografico realizzato dal Centro nuovo modello di sviluppo in collaborazione con Riccardo Mastini, ricercatore in ecologia politica all’Università autonoma di Barcellona, e che ha per titolo Problemi ambientali, scelte sociali. Siamo abituati a pensare che la questione climatica, e più in generale la problematica ambientale, richieda solo interventi di carattere tecnologico, tutt’al più nuovi stili di vita; in realtà impone anche scelte di carattere fiscale e di spesa pubblica, perché questione ambientale e questione sociale sono intimamente intrecciate fra loro.

Degrado ambientale e tenore di vita

Per cominciare, la responsabilità del degrado ambientale è diversificata in base al tenore di vita. Basti dire che a livello mondiale il 10% della popolazione più ricca è responsabile del 49% di CO2 emessa. L’1% da solo è responsabile addirittura del 15%. Per contro, il 50% più povero contribuisce solo al 7% delle emissioni globali. Le stesse disparità le riscontriamo anche a livello di singole nazioni. Nell’Unione europea l’impronta pro capite di anidride carbonica dell’1% più ricco corrisponde a 55 tonnellate all’anno. Quella del 50% più povero è undici volte più bassa.

Nel valutare quali misure assumere per porre un freno alle emissioni di anidride carbonica, occorre considerare che nella nostra società c’è chi può decidere come vivere e chi invece lo deve subire. Chi si trova in povertà non può scegliere se vivere in centro o in periferia, se mangiare biologico o cibo spazzatura, se avere la casa coibentata o ad alta dispersione termica. Deve semplicemente adottare lo stile di vita meno dispendioso. Che non è automaticamente il meno impattante.

Povertà e ambiente

Molti poveri, ad esempio, sono costretti a vivere in periferia dove gli affitti sono generalmente più bassi, ma dove, contemporaneamente, mancano servizi essenziali (scuole, negozi, presidi medici) e trasporti pubblici. Di conseguenza l’auto si rende indispensabile con inevitabile aumento dell’impronta di carbonio. E arriviamo all’assurdo che al di sotto di certi livelli di reddito, l’impronta ambientale non è determinata dalla ricchezza, ma dal livello di povertà che non lascia possibilità di scelta come invece hanno i facoltosi.

Se sei così ricco da poterti permettere un’automobile di alta cilindrata, allora sei anche sufficientemente ricco da poterti permettere una vita senza automobile. I soldi ti permettono di scegliere il tuo stile di vita, e se finisci per condurne uno ad alto impatto ambientale, ne sei responsabile. Non altrettanto per i più poveri la cui mancanza di libertà annulla anche la responsabilità per le conseguenze che la loro vita arreca all’ambiente.

E a dimostrazione di come per i più poveri non esista una diretta correlazione fra impronta di carbonio e responsabilità, c’è il fatto che molti di loro hanno chiaro che investire in incrementi di efficienza per la propria casa, per i propri elettrodomestici e per la propria vettura può fare la differenza. Molti sanno che a parità di consumi, una famiglia che vive in una casa ben coibentata e utilizza elettrodomestici e veicoli ad alta efficienza energetica può arrivare a produrre fino a tre volte meno emissioni climalteranti rispetto a una famiglia costretta a utilizzare beni a bassa efficienza. Ma pur sapendolo non investono in innovazione perché non hanno i soldi per farlo.

Fisco che compensa

Le proteste dei gilet jaunes vanno lette in questa prospettiva. Vogliono dirci che le misure fiscali per ridurre il consumo di benzina e di elettricità si trasformano in misure contro i poveri se non sono accompagnate da maggiori servizi e da adeguati contributi alle ristrutturazioni.

Considerato il ruolo centrale giocato dalla collettività per il raggiungimento di una sostenibilità che non lasci indietro nessuno, è fondamentale garantirle tutto il denaro che serve per lo svolgimento delle proprie funzioni. Per questo il sistema fiscale assume importanza strategica, tanto più che non serve solo a raccogliere denaro per le casse pubbliche, ma anche a ristabilire equità fra cittadini e a orientare i comportamenti di famiglie e imprese affinché le loro scelte di consumo e di produzione non entrino in rotta di collisione con l’interesse generale.

Ecco perché è arrivato il tempo di porre con forza una seria riforma del fisco coerente con l’articolo 53 della Costituzione. Ossia che ogni forma di ricchezza (reddito, patrimoni, eredità) siano tassati secondo criteri di progressività e cumulo. Ricordandoci che i tre individui più ricchi d’Italia possiedono la stessa ricchezza del 10% più povero, ossia sei milioni di persone. Disuguaglianze che pesano come macigni e che paghiamo su tutti i piani: umano, sociale e ambientale.

Centro nuovo modello  di sviluppo

A proposito delle «briciole dei ricchi»

Gentile redazione,
mi è capitata tra le mani una copia del numero di giugno della vostra rivista (oserei dire nostra, perché ho appena fatto una donazione per riceverla a casa) e mi è piaciuta moltissimo.

Ho letto, ad esempio, gli articoli sul Sudafrica, e sono rimasto impressionato favorevolmente dalla lucidità e onestà intellettuale con le quali scrivete di quel paese che un pochino conosco tramite un amico sudafricano. Siete davvero in gamba! Ma tutta la rivista è davvero «ok».

In ultimo ho letto l’articolo di Francesco Gesualdi: «Le briciole dei ricchi e la giustizia sociale», alla fine della lettura ho pensato di scrivervi qualcosa nel merito. Senza la pretesa che lo pubblichiate. Vedete voi!

A proposito del capitalismo compassionevole

Nel merito: sono d’accordo su tutta la linea rispetto al «capitalismo compassionevole», al fatto che in realtà il capitalismo internazionale non vuole «lacci e lacciuoli» come si diceva anni fa quando l’amministrazione Clinton negli Usa per prima (forse) ha tolto questi lacci permettendo, di fatto, qualsiasi cosa al capitalismo internazionale, senza parlare poi dell’aggressività dei fondi sovrani cinesi, ecc.

Sono molto d’accordo sulla redistribuzione equa degli utili per una democrazia economica (e non solo) vera e inclusiva in tutto il mondo. Ho qualche perplessità sulle modalità necessarie per raggiungere l’obiettivo. Mi riferisco alla classica idea di tassare i ricchi, anche con una patrimoniale, per, appunto, redistribuire. Idea che sarebbe assolutamente condivisibile (anche qui se vivessimo ancora nel ‘900 con gli stati che da soli o quasi potevano determinare in buona parte il proprio divenire economico e sociale).

Purtroppo, non è più possibile ragionare in questi termini: tassazioni importanti e patrimoniale finirebbero soltanto per favorire la «fuga» di imprese e capitali all’estero. Paradisi fiscali compresi, anche quelli di casa nostra, nella stessa Unione europea.

Il potere delle multinazionali e dei grandi gruppi di investimento internazionali è tale che nessuno stato (tolti forse gli Usa da un lato e la Cina dall’altro che non sono realmente interessati al problema) ha il potere di condizionarli in un modo o nell’altro. Gruppi di potere quasi occulti quali il Bildenberg (occulti nel senso che nessun giornalista può o osa dire che cosa si dicono quando si riuniscono per decidere i nostri destini in base al loro interesse) di fatto condizionano le scelte politiche degli stati in un senso o nell’altro.

La globalizzazione è solo, o quasi, per i «ricchi». Noi poveri da un lato e la cosiddetta classe media (che non può scappare all’estero) dall’altro, la subiamo. Ad esempio, una nuova patrimoniale colpirebbe, alla fin fine, questi ultimi già sufficientemente vessati.

Altre soluzioni? Magari chiudere il mercato e creare una forma di autarchia europea contro la Cina. Certo (tolto un periodo di assestamento magari doloroso) non avremmo bisogno di nessuno per avere e produrre quello che ci serve e nel contempo potremmo mantenere rapporti il più possibile equi e paritari con il Terzo Mondo. Ma non credo sia possibile. Anche i nostri capitalisti o grandi imprese, per il loro interesse, vogliono la globalizzazione e vogliono i mercati aperti nei confronti della Cina (ad esempio la variante Covid Delta sta bloccando i porti cinesi e ne sentiremo le conseguenze), infatti ormai, per il guadagno di pochi, siamo legati a loro a doppio filo.

C’è anche la tassazione dei giganti del web… ma non scherziamo! Condizionano anch’essi gli stati a loro piacimento con l’aiuto degli Usa (e non solo) che fanno finta di volerli tassare.

Una soluzione forse praticabile sarebbe di trattenere in Italia (parlando di casa nostra) le imprese, abbassando la tassazione in cambio di assunzioni che compenserebbero almeno in parte le perdite dell’erario ma favorirebbero l’occupazione. Niente di nuovo, mi direte. Ma paesi come l’Irlanda, la Svizzera e molti altri hanno tratto grande benefico da scelte del genere.

Mi spiego. Se ad un’impresa (che, vivaddio, magari paga le tasse) che deve versare, ad esempio, tre milioni l’anno allo stato, si dicesse: un milione tienitelo ma devi assumere in modo che due milioni lo stato li veda rientrare con le tasse sui nuovi dipendenti? È noto che in Italia (per motivi di mentalità e di costo del lavoro) si tende ad avere meno dipendenti che in altri paesi.

Mi rendo conto che detta così si tratta di una proposta un po’ naif. Ma ci si potrebbe ragionare magari insieme ad una vera riforma della Giustizia, della Pubblica amministrazione, ecc.

Non sono un esperto. Non sono sicuramente all’altezza di chi ha scritto l’articolo. In sintesi, volevo solo dire che, a parer mio, certe ricette non funzionano più e bisogna avere il coraggio di pensarne di nuove!

A voi, pensatori ed economisti non asserviti, sta di aiutarci. A noi la presa di coscienza e la lotta non violenta ma decisa per mondo più giusto e solidale.

Grazie anche solo se qualcuno leggerà questa lettera. Avanti così con la vostra bellissima rivista!

Marcello Poggi
Genova, 14/06/2021




Il ghetto dei miracoli

testo e foto di Amarilli Varesio |


In un quartiere malfamato della capitale un giovane musicista ha un’idea geniale. Crea uno spazio per lottare contro il degrado dando lavoro ai giovani. Qui la plastica trova una seconda vita, e gli ortaggi fioriscono in bottiglie e scarpe vecchie.

Un bambino a torso nudo fa rotolare abilmente il cerchio della ruota di una bicicletta su un sentiero di spazzatura senza farlo cadere. Corre su un pianoro di rifiuti compatti, schivando taniche rotte, cumuli di stracci, galline e mucche che pascolano alla ricerca di scarti alimentari. Otto anni fa, questo luogo era per metà una palude e per l’altra un parco giochi per i bambini di Kwamokya (uno degli slum più grandi di Kampala, la capitale dell’Uganda). Il ghetto, come lo chiamano gli stessi abitanti del quartiere, si trova incastonato tra le colline della città, all’ombra di lussuosi grattacieli e supermarket, come l’Acacia Mall.

«Ogni volta che alziamo lo sguardo, ci ricordiamo da dove veniamo», commenta Patrick Mujuzi, il fondatore di Ghetto research lab (Grl). L’uomo indossa degli stivali di plastica bianchi sporchi di fango, e un cappello di lana rossa che non riesce a trattenere tutti i suoi dreadlocks. È musicista, produttore musicale e professore di storia e religione. Mi racconta come Kwamokya sia diventato famoso nel paese negli ultimi anni poiché vi è cresciuto Robert Kyagulanyi (conosciuto come Bobi Wine), 39 anni, musicista reggae e principale oppositore dell’attuale presidente Yoweri Museveni (al potere da 36 anni, oggi al sesto mandato) alle elezioni presidenziali del gennaio 2021. Prima delle votazioni, i caccia volavano bassi, vicini alle case, per spaventare i moltissimi sostenitori del «presidente del ghetto», e la polizia reprimeva violentemente qualsiasi manifestazione di protesta. A Kwamokya, attaccare volantini di Museveni sulle case, anche se si era oppositori, era diventata una strategia per proteggersi quando la polizia faceva irruzione.

Il cancello del Ghetto research lab a Kwamokya, Kampala. (Foto Amarilli Varesio)

Arriva la polizia

Nel gennaio 2021, la polizia è andata anche al Ghetto research lab per cercare i sostenitori di Bobi Wine. Patrick ricorda bene quella sera. Fuori dal cancello i poliziotti avevano trovato un ragazzo che fumava marijuana e quello era diventato il pretesto principale della loro visita. «Ci hanno fatti uscire tutti dalla sede e hanno chiesto chi fosse il capo. Mi hanno indicato. Noi eravamo una quindicina e loro il doppio, tutti armati di bastoni e pistole. Mi hanno strappato due dreadlocks e poi mi hanno picchiato, calciandomi tra le gambe e sulla testa. Poi mi hanno trascinato di peso fino alla sede della polizia. Sono rimasto tre giorni all’ospedale. Fortunatamente ho delle conoscenze politiche. Alcuni parlamentari hanno chiamato i poliziotti che avevano organizzato l’attacco e hanno ordinato loro di liberarmi immediatamente. Mi hanno rilasciato, ma per quei fatti nessuno è stato condannato».

L’impunità della polizia è una storia ben conosciuta agli abitanti del ghetto. Quasi ogni sera, i poliziotti si muovono in gruppo per il quartiere con il warrag (l’alcol) in una mano e la pistola nell’altra. Picchiano chiunque attraversi il loro cammino, a meno che non ricevano dei soldi. A quel punto ti ringraziano.

«Per fare una perquisizione dovrebbero avere un mandato. Io conosco la legge. Mica sono tutti stupidi nel ghetto, dicevo loro. Ma più parlavo, più mi picchiavano».

Dopo quell’episodio, una volta uscito dalla clinica, Patrick per sicurezza, non si è fatto vedere nel quartiere per qualche giorno.

Ora, il bambino a torso nudo corre con la ruota sotto il braccio per scampare al temporale torrenziale che si è aperto sopra di noi senza preavviso.

Ci dirigiamo verso la sede in bambù di Ghetto research lab, che sorge su un angolo della discarica. In questa zona, il governo non permette di costruire strutture permanenti per via della vicinanza alla linea dell’elettricità che arriva da Jinja, la città che sorge presso le sorgenti del fiume Nilo. Nonostante la terra appartenga al governo, Grl paga un affitto di 9 milioni di scellini ugandesi (2.108 euro) all’anno a un uomo che si ritiene il padrone della zona.

Il capannone in bambù è circondato da piante di papaya, banana, seneci nel pieno della fioritura che traboccano da scarpe bucate appese alle pareti e vecchi pneumatici, di misure diverse, impilati e pieni di terra. In questi ultimi crescono pomodori, fragole, spinaci.

All’interno della sede, l’ambiente è fresco e ventilato. Anatre e galline scorrazzano libere tra le macchine da cucito, che vengono utilizzate per insegnare il mestiere ai giovani del quartiere, e tra le gambe della gente. C’è chi, spaparanzato sulla poltrona, guarda un film sul televisore comune, chi lava i vestiti a mano. Per una decina di persone, Grl è diventata la propria casa.

Patrick si mette a preparare la colazione a base di cipolla, pomodori, avocado e zenzero per tutti. Nel 2008, una volta finita l’università, aveva deciso di raggiungere il fratello a Kwamokya per dargli una mano con lo studio di registrazione e ne era diventato il manager. «Attraverso quel lavoro, sono entrato in contatto con moltissime persone del quartiere e ho capito, tramite loro, cosa vuol dire vivere nel ghetto. Non riuscivo a fare pranzo perché sapevo che loro non avevano mangiato. Tanti ragazzi rubavano i cellulari, mentre le ragazze si prostituivano perché avevano fame. Erano guidati dalla disperazione. I miei amici mi davano pochissimi soldi per registrare le canzoni, molti erano senza lavoro. Piano piano ho capito che dovevo creare un posto dove poter connettere le idee e realizzare dei progetti per dare lavoro ai giovani. Così, mi sono messo a pensare, e nei rifiuti del ghetto ho visto la soluzione per dare il pranzo ai miei amici».

Imparare sbagliando

È il 2013 quando Patrick crea un gruppo con i ragazzi che frequentano lo studio di registrazione. Sono in 24. L’obiettivo è quello di promuovere la propria musica e, allo stesso tempo, trovare delle soluzioni per risolvere i problemi dello slum, come la disoccupazione giovanile e la degradazione ambientale, attraverso l’idea che «si impara facendo e sbagliando».

Per sfamare i suoi amici, Patrick decide inizialmente di occuparsi di agricoltura urbana. Lui sperimenta e, se le tecniche funzionano, le trasmette ai ragazzi. «Raccoglievamo buste di plastica e vecchi sacchi. Li riempivamo di terra e vi coltivavamo piante o fiori. Per esempio, riempivamo di terra un sacco di 50 kg e lo bucavamo su tutta la lungehzza per infilarvi semi di cipolle e pomodori. Facevano inoltre in modo che l’acqua bagnasse anche le piante che crescevano in fondo». Patrick e il gruppo realizzano concime naturale con gli scarti vegetali, saponi naturali e sistemi di acqua ponica (un sistema di coltivazione in assenza di terreno, unito all’allevamento dei pesci). Ben presto, alcuni giornali locali si interessano a quelle attività alternative che vengono portate avanti nel ghetto.

Grazie alla visibilità ricevuta, il gruppo partecipa a delle esibizioni artistiche ed esegue la pianificazione dei giardini urbani per alcuni privati. Ma l’indipendenza economica è ancora lontana perché le entrate non sono stabili.

Nel frattempo, Patrick organizza anche giornate di pulizia del ghetto. «All’inizio raccoglievamo la plastica e la bruciavamo perché, all’epoca, non avevamo altre idee. Ci mettevamo a bordo strada con le casse e i microfoni e raccontavamo alle persone che passavano quello che stavamo facendo. Ma poi ho capito che bruciare la plastica impattava lo strato d’ozono. Dovevamo trovarne un uso alternativo intelligente».

Il Grl ha costruito la propria sede su parte della discarica di Kwamokya. (Foto Amarilli Varesio)

Bagni di plastica

Mentre si salta da una sponda a un’altra dei canali che scandiscono i vicoli angusti tra le case, non bisogna lasciarsi ingannare dalla solidità apparente del terreno. Nascosti sotto sottili strati di terra mista a plastiche varie, rimangono acquattate le cosiddette «flying toilets», i sacchetti di plastica in cui la gente chiude i propri bisogni, lasciati per strada, al riparo da occhi indiscreti. Patrick sa che l’igiene è una delle sfide più grandi di Kwamokya.

Dopo due anni, finalmente, il gruppo trova una soluzione economica e soddisfacente per ridurre l’inquinamento da plastica nel ghetto: i bottle bricks, mattonelle derivate dalla fusione delle bottiglie. «Mi ci è voluto del tempo per arrivarci. Dopo aver trovato l’idea giusta, ho scoperto che in Asia c’erano tante case costruite con i mattoni di plastica, ma dentro c’era la terra, non altra plastica». Intanto, nel 2016, Patrick e i suoi amici si registrano ufficialmente come Ghetto research lab, un’organizzazione non profit che ha l’obiettivo di formare i giovani su pratiche sostenibili, e aiutarli a diventare economicamente indipendenti. Poi, nel 2018, la Lupererial foundation, una fondazione gestita da un ricco indiano, proprietario di moltissimi lodges turistici in Uganda, dona 15 milioni di scellini ugandesi a Grl, raccolti tramite una «goat race» (gara di capre, tipica di certi gruppi etnici, ndr), per costruire due bagni pubblici. Vengono coinvolte decine di madri single che abitano nelle baracche attorno alla discarica. Le donne raccolgono e riempiono 35mila bottigliette con sacchetti di plastica. «Il governo voleva chiudere una scuola di Kwamokya perché non aveva le latrine per gli studenti. Grazie a questo progetto, quei bambini possono continuare a studiare».

Attualmente, però, la fusione delle bottiglie di plastica per la creazione delle mattonelle è in sospeso, per via dei fumi neri e tossici che vengono emanati nel processo. Il gruppo sta cercando di costruire delle macchine che non producano emissioni. A ogni modo, da ogni fallimento nascono nuove idee. Infatti Grl impara a realizzare le compost toilet da un’organizzazione americana, Give Love. «Avevano costruito delle compost toilet nella regione del Karamoja, nel Nord Est dell’Uganda, ma il progetto era fallito, perché la gente non le usava. Un amico che lavorava con loro me li ha fatti conoscere, convinto che, grazie a me, in Kwamokya quel progetto sarebbe decollato». Grl costruisce, quindi, delle compost toilet per un gruppo di 40 disabili di Kwamokya. «Per loro, andare in bagno era un grosso problema. Le latrine erano lontane ed era complicato raggiungerle. Ciascuno, adesso, ha un bagno in casa. Noi andiamo da loro una volta a settimana per raccogliere il loro «oro», e gli diamo il cesto pulito indietro. Dopo un anno, possiamo vendere il concime a cinquemila scellini al chilo».

Un’università dove sporcarsi le mani

La conversazione con Patrick viene interrotta per l’ennesima volta da un nuovo visitatore. Manu, un rifugiato congolese, saluta Patrick, che ricambia il saluto col pugno chiuso. Poi si allontana col prototipo di sacco solare che purifica l’acqua in quattro ore, ricavato da bottiglie di plastica. Al Grl, le idee e le sinergie sono molte e la voglia di offrire maggiori opportunità di lavoro ai giovani è il sogno più grande di Patrick. «Vorrei che il Grl diventasse un’università, ma non come quelle che conosciamo tutti. Vorrei che fosse un posto per tutti, anche per chi non ha soldi, nel quale sono necessarie solo la curiosità e la voglia di sporcarsi le mani. Un professore universitario, che poco tempo fa è morto di Covid, mi ha donato dieci ettari di terreno da utilizzare per dieci anni. Questo è il secondo anno che non lo uso. Il mio sogno è di implementare su scala maggiore quello che facciamo qui, creare un centro di ricerca più grande dove insegnare la pratica agli studenti che imparano solo la teoria, le “Muzungu things” (cose da bianchi, nda)».

La mamma di Patrick viene ad avvertirci che il pranzo è pronto. Si è sistemata con le pentole e i tavoli dentro il Grl perché l’affitto di un locale (tipo ristorante di strada) è troppo caro per lei. Nella pentola fumante sta cucinando il matoke, il frutto del platano, avvolto nelle sue foglie. Di fianco a lei, svetta una pianta di marijuana rigogliosa e il contrasto è immediato. Quasi leggendomi nella mente, Patrick risponde al mio sguardo divertito. «Sono un lavoratore sociale, ho a che fare con i giovani del ghetto. Questa è la ragione per cui fumo e per cui ho i dreadlocks. Solo diventando come loro, i giovani si avvicinano e ti ascoltano. Solo così si è in grado di cambiarli. Io spiego loro che si può lavorare anche fumando».

D’un tratto, vediamo i ragazzi accalcarsi attorno al televisore e commentare le scene con tono indignato. Il telegiornale mostra le immagini appena riprese dell’attentato contro il ministro del Lavoro e dei trasporti. Katumba è sopravvissuto all’attacco, ma gli assassini hanno ucciso la figlia e l’autista. Patrick scuote la testa amareggiato. «Sento che devo entrare in politica, questo sentimento cresce ogni giorno dentro di me. Tra qualche anno chiamerò i media per dire che sto arrivando. Bobi Wine mi ha ispirato, ma non è quella la mia motivazione principale. Io so che qui in Uganda entrare in politica equivale a morire. Non voglio abbandonare i miei figli (si riferisce ai giovani del centro, ndr). Ma mi stanno provocando. E sento che le persone voterebbero per me, anche se non sono un uomo ricco, ma la gente mi conosce. Se Bobi Wine non vince nei prossimi anni, allora quando questo presidente morirà, ci proverò».

Amarilli Varesio

Il negozio dove vengono esposti i saponi naturali e i vestiti creati dalle allieve del corso di cucito del Grl. (Foto Amarilli Varesio)




Perù: 1821-2021. Duecento anni sono pochi

Sommario

 

 


Il maestro venuto dalle Ande

Le elezioni e un bicentenario difficile

Prima la pandemia con 200mila morti, poi un’elezione che ha portato il paese sull’orlo di un golpe  «trumpismo andino») e di una guerra civile. Il Perù festeggia il bicentenario (1821-2021) della propria indipendenza in un clima molto teso.

Era il 28 luglio del 1821 quando il generale José de San Martín, uno dei liberatori delle Americhe, da un palco in piazza Mayor (Plaza de Armas) di Lima proclamò l’indipendenza dall’impero spagnolo. Nell’anno della pandemia, il Perù celebra non soltanto il bicentenario della propria indipendenza da Madrid, ma anche l’inizio di un nuovo quinquennio presidenziale.

Le elezioni dell’11 aprile e del 6 giugno sono state vinte dal maestro Pedro Castillo, atipico e imprevisto candidato della sinistra. Secondo l’organismo elettorale peruviano (Onpe), la differenza in suo favore è stata di 44.176 voti. Pochi, ma sufficienti per un sistema democratico che rispetti il «principio di maggioranza». Keiko Fujimori, la candidata della destra, figlia prediletta dell’ex presidente e dittatore Alberto Fujimori (in carcere con una condanna di 25 anni per violazione dei diritti umani e corruzione), non ha però accettato la sconfitta dando il la a una lunga sequela di ricorsi legali al Tribunale elettorale nazionale (Jurado nacional de elecciones, Jne) e di pesanti azioni di disturbo (tentativi di corruzione del Jne, dichiarazioni golpiste di ex ufficiali delle Forze armate, manifestazioni di piazza, ecc.).

Eppure, anche gli osservatori dell’Organización de estados americanos (Oea) hanno sancito la regolarità del processo elettorale. Mentre Ned Price, portavoce del Dipartimento di stato degli Stati Uniti, si è felicitato con le autorità peruviane per «aver amministrato in sicurezza un altro turno di elezioni libere, giuste, accessibili e pacifiche, anche nel mezzo delle importanti sfide dovute alla pandemia di Covid-19» (22 giugno).

(Photo by Ernesto BENAVIDES / AFP)

Pedro Castillo

Il vincitore, José Pedro Castillo Terrones, maestro elementare, sindacalista e rondero (persona appartenente a gruppi rurali di autodifesa, ndr), ha prevalso principalmente nel Perù rurale, quello dimenticato dallo stato (soprattutto nei campi – fondamentali – della sanità e dell’istruzione) e impoverito da un sistema economico ingiusto.

Come abbiamo accennato all’inizio, la sua è stata una vittoria di stretta misura, ma ottenuta in condizioni proibitive. Contro di lui, candidato proveniente da Puña (Chugur, Cajamarca), un paesino della sierra (come è chiamata in Perù la regione delle Ande) dove anche le donne indossano un sombrero, è stata infatti orchestrata una campagna di disinformazione a tutto campo, sia in patria che all’estero (qui, sotto la guida del premio Nobel Mario Vargas Llosa). In Perù, si sono schierati contro Castillo i gruppi imprenditoriali, la classe medio alta di Lima, la quasi totalità dei media (per l’80 per cento appartenenti al gruppo de El Comercio) e quella parte di popolazione urbana abbagliata dall’assistenzialismo dei fujimoristi (finanziatori di «comedores» e «vasos de leche»). Castillo è stato chiamato «terruco» (terrorista) e «serrano» (peruviano di serie B), ma ha resistito a bugie e offese, rispondendo con grande moderazione.

Keiko Fujimori

La sconfitta, Keiko Fujimori, leader di Fuerza popular, è tuttora in libertà condizionata. Nell’aprile 2020 era stata rilasciata dalla prigione dove scontava la carcerazione preventiva a seguito di una lunga serie di capi d’accusa. Sconfitta nel segreto dell’urna (per la terza volta di seguito nella sua carriera politica), la signora Fujimori ha scatenato le sue truppe: un centinaio di avvocati, appartenenti agli studi più prestigiosi del Perù, e i suoi sostenitori, tra cui La Resistencia (un gruppo violento di matrice fascista), che protestavano per le strade di Lima. L’unico argomento utilizzato per attaccare l’avversario è stato il suo (presunto) comunismo. Se i seguaci di Keiko hanno mostrato cartelli del tipo «No al fraude comunista de la Onpe» o «Mi familia le dice no al comunismo», quelli di Castillo hanno issato cartelli che ricordavano l’essenza della democrazia: «Mi voto se respeta» (visto che i voti questionati sono quelli delle zone rurali, dove ha vinto il maestro).

L’azione destabilizzante di Keiko Fujimori non si spiega soltanto con la sua sete di potere, caratteristica probabilmente ereditata dal padre. Si spiega soprattutto sulla base dei suoi legami (anche finanziari) con l’oligarchia peruviana che domina il paese – materialmente e culturalmente – fin dal 1821.

Keiko Fujimori (Photo by Miguel Yovera / ANADOLU AGENCY / Anadolu Agency via AFP)

Il nuovo colonialismo

Il colonialismo non è finito con una data sui libri di storia. Ne ha parlato molto Aníbal Quijano, sociologo peruviano scomparso nel 2018. Il professore è andato oltre quel concetto generico per parlare di «colonialidad» (colonialità), intesa come «modello di potere».

Senza però fare ricorso al pensiero accademico, è sufficiente riportare quanto affermato in un’intervista da Eduardo Adrianzén, drammaturgo molto conosciuto nel paese: «C’è ancora una mentalità coloniale che non vuole considerare alla pari il cittadino amazzonico, andino o il peruviano che non è di una grande città o che non vive secondo i valori di questa. Il pensiero culturale egemonico-urbano-limegno pretende di essere l’unico e il solo corretto e proprio qui sta il problema, ed è per questo che vedi le élite dei dinosauri disperate perché non vogliono perdere il controllo. […] Oserei dire che il cittadino limegno medio ha quattro filtri che si attivano appena incontra qualcuno: il colorimetro (il colore della pelle), il vestimetro (i vestiti che indossa), l’odorimetro (l’odore che emana), il parlometro (come parla, se è istruito o no)» (La República, 27 giugno). Non si tratta di esagerazioni: il Perù è un paese razzista. «È un razzismo sotterraneo, ma che diventa esplicito sui social network», ha spiegato il sociologo Farid Kahhat (Bbc News, 2 luglio).

Golpe, stallo e resistenza

Per spiegare la situazione peruviana si è parlato di un «golpe lento», di un «trumpismo andino», paragonando il Perù agli Stati Uniti di Trump. Tutto vero com’è vera una pandemia che, soprattutto per carenze strutturali, ha già fatto oltre 200mila morti e mandato sul lastrico quell’enorme fetta di popolazione che vive di lavoro informale.

Le prime conseguenze dell’estenuante stallo politico sono state quelle solite, pesanti ma quasi noiose nella loro prevedibilità: svalutazione del sol, la moneta nazionale, rispetto al dollaro, caduta della Borsa (per mano degli immancabili speculatori), fuga di capitali (dei ricchi, ovviamente). Più una conseguenza più piccola, ma significativa: una decina di giornalisti delle televisioni Canal 4 (America Tv) e Canal N si sono dimessi o sono stati licenziati per non aver seguito la linea editoriale della proprietà (il citato gruppo de El Comercio) che imponeva di appoggiare Keiko Fujimori. Tanto di cappello – anzi, di sombrero (come quello sempre indossato da Castillo) – per questi giornalisti peruviani. Anche la Chiesa cattolica (approfondimento a pag. 39), dopo essere stata molto suggestionata dalla propaganda contro il (presunto) comunismo del vincitore, ha seguito la via indicata da papa Francesco chiedendo di riconoscere senza ulteriori indugi la vittoria di Pedro Castillo.

Dal 28 luglio 2021

Sono trascorsi duecento anni dall’indipendenza del Perù dalla Spagna, ma il processo di liberazione non è terminato. Come abbiamo visto, i retaggi del colonialismo (e della colonialidad) sono ancora ben presenti e radicati nel paese andino. Premesso questo, il 28 luglio 2021 segna un nuovo inizio, che sarà difficile, complicato, imprevedibile. Per ora è questa la sola certezza.

Paolo Moiola


Da una parte (e dall’altra)

La Chiesa cattolica peruviana e le elezioni

Sacerdoti e vescovi erano schierati in maggioranza contro il maestro Castillo. Poi, la rotta è stata corretta per merito dell’intervento (silenzioso) di papa Francesco.

Sono stati mesi complicati anche per la Chiesa cattolica peruviana, istituzione molto influente nel paese andino. Vescovi e sacerdoti sono intervenuti nel dibattito elettorale sia dai pulpiti delle chiese che da quelli dei social media. E sovente si sono schierati, scegliendo una parte.

Le avvisaglie di una lotta senza esclusione di colpi iniziano già a marzo quando il padre Jaime Ruiz del Castillo, missionario spagnolo e vicario generale della diocesi di Moyobamba (San Martín), fa parlare molto di sé per le feroci critiche all’«abortista» Veronika Mendoza, all’epoca principale candidata della sinistra, e per l’appoggio a Rafael López Aliaga (Renovación popular), membro dell’Opus Dei.

Un imprevisto di nome Castillo

Dopo il primo turno elettorale, celebrato l’11 aprile, la situazione cambia con il passaggio al secondo turno di Keiko Fujimori e, soprattutto, di Pedro Castillo, vincitore inatteso ed esponente di una sinistra vecchia maniera.

Si tratta di un cambiamento importante del quadro generale visto che Pedro Castillo e Keiko Fujimori hanno posizioni molto simili, se non coincidenti, sulle tematiche dirimenti in ambito religioso: aborto, matrimonio omosessuale, diritti Lgbt, eutanasia non rientrano nelle agende programmatiche dei due contendenti.

Tra vescovi e sacerdoti l’opposizione al maestro Castillo si concentra sulla sua adesione al marxismo, immediatamente declinato come adesione al comunismo duro e puro. E questo nonostante le ripetute smentite pubbliche dell’interessato: «Non siamo comunisti, non siamo chavisti, non siamo terroristi. Siamo lavoratori come ognuno di voi» (Andina, 28 aprile).

Una battaglia ideologica

Visto il clima esasperato, tra il primo e il secondo turno elettorale, la Conferenza episcopale peruviana (Cep) si unisce al Coordinamento nazionale per i diritti umani (Cnddhh), all’associazione civile Transparencia e all’Unione delle Chiese cristiane evangeliche del Perù (Unicep) per proporre ai due candidati l’accettazione di un accordo denominato «Proclama cittadino: giuramento per la democrazia», un patto in dodici punti per il rispetto della democrazia, delle istituzioni e dei diritti umani. Il 17 maggio, entrambi i contendenti firmano l’accordo durante un incontro pubblico trasmesso dalle televisioni. Il proclama, lodevole nelle intenzioni, non sortisce però gli effetti sperati e non abbassa i toni del confronto elettorale.

Nello stesso giorno, durante l’omelia nella parrocchia di Santa Mónica, a San Isidro, ricco distretto di Lima, il padre Pablo Augusto Meloni Navarro, sacerdote e medico, ricorda ai fedeli che «il comunismo è intrinsecamente perverso», come già aveva affermato papa Pio XI nell’enciclica Divini Redemptoris del 1937. Senza mai citarne il nome, il padre critica lo slogan «palabra de maestro» utilizzato da Pedro Castillo (di professione maestro), affermando che il solo maestro è Gesù Cristo.

Il 24 maggio, monseñor José Antonio Eguren Anselmi, arcivescovo di Piura e Tumbes e membro del Sodalicio de Vida cristiana, in una lettera aperta scrive tra l’altro: «Lo faccio come un qualsiasi peruviano, che non vuole per il suo paese che il totalitarismo comunista distrugga la nostra libertà, i nostri diritti e la nostra indipendenza».
Lo stesso giorno, in favore di telecamere, Keiko Fujimori si reca alla sede della Cep per incontrare monseñor Miguel Cabrejos, presidente della stessa e del Consejo episcopal latinoamericano (Celam).

Il giorno seguente, la Cep rende pubblica una Carta al pueblo de Dios in cui, al punto 6, si condanna il comunismo come «un sistema perverso» e, al medesimo tempo, «il capitalismo selvaggio che riduce l’essere umano al consumismo e alla ricerca del profitto a ogni costo».

Lo stesso 25 maggio, nell’infuocato dibattito interviene anche padre Omar Sánchez Portillo, segretario generale della Caritas di Lurín, molto presente su YouTube con omelie e interviste. Il sacerdote lamenta che il clero e i fedeli stiano zitti davanti al pericolo comunista che comprometterebbe il futuro del Perù e che è nemico della Chiesa come sancito dal numero 2.425 del Catechismo della Chiesa cattolica (che rifiuta sia il «comunismo ateo» sia «il capitalismo che privilegia il mercato sulla persona», ndd).

Il 30 maggio, a una settimana dal secondo turno elettorale, monseñor Javier del Río Alba, arcivescovo di Arequipa, afferma: «Sappiamo tutti che il marxismo-leninismo è un’ideologia atea. Di conseguenza, tutto il programma e tutte le idee partono dalla negazione dell’esistenza di Dio; e sappiamo anche che, per questa ideologia, la religione è considerata come un nemico che deve scomparire». Il prelato specifica che la firma sul «Proclama cittadino» non significa che la Chiesa cattolica appoggi il candidato Pedro Castillo.

Il crocefisso di Keiko

monseñor Pedro Barreto

Dopo i risultati del secondo turno e davanti all’escalation di recriminazioni (soprattutto da parte di Keiko Fujimori), interviene monseñor Pedro Barreto, cardinale e gesuita, arcivescovo di Huancayo e primo vice presidente della Cep, il più conosciuto e aperto tra i vescovi del paese: «Invito tutti i cittadini e i partiti politici ad aspettare e rispettare scrupolosamente i risultati ufficiali di questo secondo turno. Mettere in discussione e parlare di frode, di golpe, insomma di tante altre cose, è irresponsabile e non possiamo accettarlo» (9 giugno).

A stemprare la situazione ci pensa papa Francesco incontrando a Roma prima (il 16 giugno) monseñor Cabrejos e, il giorno seguente, monseñor Carlos Castillo Mattasoglio, arcivescovo di Lima. Il pontefice invia una benedizione speciale «perché ci sia pace, unità e si trovino le vie migliori per risolvere i problemi del Perù, pensando sempre agli emarginati e ai poveri». Circolano foto con grandi sorrisi e abbracci. Viste le divisioni create dalle elezioni, quello di papa Francesco è un intervento necessario ma non sufficiente.

Il 26 giugno Keiko Fujimori, brandendo un crocefisso, prega in Plaza Bolognesi davanti ai suoi sostenitori: «Signore Dio onnipotente, Signore Gesù, ti chiediamo, oggi che il nostro paese è così polarizzato, diviso, pieno di paura e incertezza, che tu ci dia forza, speranza, amore, gioia, fede nel nostro futuro. Oggi siamo qui riuniti perché vogliamo conoscere la verità, vogliamo giustizia elettorale e che il popolo venga rispettato».

Lo stesso giorno, in Plaza San Martín, non lontana da quella dell’antagonista, Pedro Castillo, vincitore (virtuale) delle elezioni, si dimostra più laico e, per l’ennesima volta, ripete: «Non siamo chiavisti, non siamo comunisti, siamo democratici», ribadendo che il suo obiettivo politico è «non più poveri in un paese ricco, parola di maestro».

Correzione di rotta e mediazione

Sempre il 26 giugno, la Cep dirama un comunicato in cui, al punto 2, si dice di rispettare il risultato indicato dagli organi elettorali. Quattro giorni dopo è mons. Carlos Castillo a parlare stigmatizzando l’utilizzo dei simboli religiosi e il ritardo nella proclamazione del vincitore (Vatican News, 30 giugno). È un’evidente correzione di rotta, che fa infuriare la destra fujimorista (Aldo Mariátegui, Perú21, 2 luglio). Pertanto, vista la situazione pericolosamente polarizzata, è molto probabile che papa Francesco dovrà far sentire ancora la sua voce.

Paolo Moiola


Perù, tempi di maccartismo

La conversazione

Dopo le elezioni del 6 giugno, abbiamo conversato con Wilfredo Ardito Vega, professore all’Università Pontificia di Lima, esperto di diritti umani e scrittore. Ecco cosa ci ha raccontato.

«È difficile capire cosa ha vissuto il Perù in questo ultimo anno e mezzo», esordisce Wilfredo Ardito Vega, da noi raggiunto via WhatsApp nella sua casa di Lima. Noto professore universitario e scrittore, il nostro interlocutore non vuole iniziare a rispondere su elezioni e politica senza prima aver ricordato i 200 mila morti causati dal virus nel suo paese, cifre che portano il Perù ad avere il record del più alto tasso di mortalità per Covid-19 al mondo.

(Photo by Carlos MAMANI / AFP)

Sono 44.176 voti in più

Professore, andiamo alla situazione politica. Secondo l’organismo elettorale (Onpe), tra i due candidati alla presidenza ci sono stati 44.176 voti di differenza. Pochi, ma questa è la democrazia. Perché Keiko Fujimori e i suoi alleati stanno facendo di tutto per sovvertire il risultato elettorale? È una mossa disperata o un preciso disegno politico?

«Perché Keiko e i suoi alleati non vogliono la democrazia: vogliono il potere. Per questo hanno usato e stanno usando tutti i mezzi a loro disposizione, dalle campagne di destabilizzazione sui social network all’incitamento al golpe. Gestiscono diversi scenari contemporaneamente: annullare i voti, annullare tutte le elezioni, generare terrore nella popolazione. Bisogna però distinguere diversi settori: il partito di Fujimori, chiamato Fuerza popular, in pratica una mafia legata a gruppi malavitosi; i settori della destra conservatrice, dove sono presenti uomini d’affari, militari e alcuni leader religiosi; infine, c’è un settore, formato principalmente da gente di classe media e alta, fortemente influenzato dai media come la televisione (America, Willax) e il gruppo de El Comercio (si veda tabella a pag.43, ndr), che crede davvero che il Perù debba essere salvato dal comunismo. Va notato che costoro identificano il comunismo con Sendero Luminoso, il gruppo maoista assetato di sangue che causò molte morti negli anni Ottanta».

Lei non parla di «lotta politica», ma di «maccartismo» (sviluppatosi negli Usa negli anni Cinquanta, fu un’avversione esasperata verso persone ritenute comuniste, ndr). Come spiega l’utilizzo di un termine tanto pesante?

«Lotta politica vuol dire usare mezzi legali per arrivare al potere, significa dibattito e idee. In Perù, si è aperta una scena violenta in cui molte persone che hanno votato per Keiko non solo attaccano in modo razzista e classista coloro che hanno preferito Castillo, ma anche quelli della propria classe sociale, se essi hanno votato per il maestro, se hanno votato in bianco, nullo o non votato. Tutti sono accusati di essere comunisti, terroristi e nemici del paese. C’è una violenza molto grande nelle reti sociali e in altri spazi con insulti e attacchi a familiari, amici di scuola, colleghi di Università e di lavoro. Hanno anche stilato liste per non comprare in negozi tenuti da “comunisti” o “traditori di classe”. Sui social network viene chiesto esplicitamente di protestare davanti alle case di artisti, giornalisti, politici che non hanno votato per Keiko fino a quando loro e le famiglie non lascino il paese. Il linguaggio dell’intolleranza è tipico dei peggiori momenti della Guerra fredda, ma la cosa patetica è che nessuna delle persone vessate è comunista, ma gli aggressori sono convinti che lo siano».

Giustizia: carcere sì, carcere no

La magistratura ha chiesto che la signora Fujimori torni in carcere. Prima di queste elezioni, lei ha affermato che la pratica giudiziaria della «carcerazione preventiva» verso Keiko e verso altri era una misura esagerata. La sua critica dipende dal fatto che lei è un difensore dei diritti umani e un garantista?

«Sì, è così. Come difensore dei diritti umani, mi sembra che l’applicazione della carcerazione preventiva nel nostro paese sia attuata in modo sproporzionato. Anche nel caso di Keiko Fujimori, all’inizio la misura mi sembrava esagerata, ma ora, dopo tutte le azioni golpiste che il suo gruppo sta promuovendo, penso che sarebbe stata una misura giustificata.

Il pubblico ministero, infatti, aveva già chiesto un intervento sul partito di Fuerza popular per aver costituito un’organizzazione criminale sotto la facciata di un’organizzazione politica. Il provvedimento non era però stato accolto dai giudici in quanto alcuni avevano ritenuto che potesse essere percepito come una persecuzione politica. Tuttavia, i fatti di oggi evidenziano che sarebbe stato un provvedimento necessario e che questo gruppo non avrebbe mai dovuto partecipare alle elezioni».

(Ad aprile 2020, la signora Keiko è stata messa in libertà condizionata; a giugno 2021, il pubblico ministero ha chiesto il suo ritorno in carcere per violazione della stessa, ma la misura non è stata concessa, ndr).

Il Perù è un paese con grandi potenzialità, ma con grandi o enormi diseguaglianze. Le diversità programmatiche tra Castillo e Keiko sono proprio sull’economia: il primo è per un cambio importante (che fa paura all’oligarchia), la seconda è per la continuità con l’attuale sistema di libero mercato. È così?

«In verità, il principale cambiamento che Castillo propone si riferisce a una nuova Costituzione che sostituisca quella approvata nel 1993 da Fujimori (Alberto, padre di Keiko Fujimori, ndr). Sul piano economico, vuole che le società estrattive paghino per i loro profitti e vuole anche porre fine all’interferenza dei gruppi del potere economico nelle decisioni della politica. Tuttavia, mi sembra che la sua forza più grande sia rendere visibili i discriminati e gli esclusi, la cui miseria è stata accresciuta dalle decisioni prese da Vizcarra (presidente da marzo 2018 a novembre 2020, seguito da Merino per soli cinque giorni e, infine, da Sagasti, ndr) per cercare di combattere la pandemia. Provvedimenti sproporzionati e disastrosi, ma accettati con calma dai settori medio e alto. Per i poveri si è invece evidenziata la lontananza dello stato dai loro problemi».

(Photo by ERNESTO BENAVIDES / AFP)

Quel «comunista» di Pedro Castillo

Quasi nove milioni di voti a testa. Lima (11 milioni di abitanti) ha però votato in larga misura per Keiko Fujimori, mentre il Perù rurale e andino ha votato per Castillo. Si può dire che esistano due paesi diversi?

«Il Perù è una società molto complessa. Nelle proteste avvenute a Lima in favore di Keiko, alcuni giovani avevano magliette con scritte in inglese (Better dead than red, No commies) che mostravano la loro assoluta distanza dagli altri peruviani, ma erano convinti che fosse un modo efficace di esprimersi. Gli abitanti di Lima sono più suscettibili alle campagne mediatiche dei gruppi di potere. Sono stati terrorizzati da settimane di immagini nei media che mostravano la crudeltà della vita in Venezuela e Cuba. I mega cartelloni stradali pro Keiko non facevano riferimento direttamente a lei, ma alla democrazia versus il comunismo. Se a questo si aggiungono razzismo, classismo e centralismo, Castillo non era più visto come un uomo di sinistra, ma come un mostro. Va aggiunto che, sebbene la popolazione di Lima abbia sofferto molto per la pandemia, l’impatto economico sul resto del paese è stato atroce. Le persone che sentono di aver perso tutto (letteralmente) sono più aperte al cambiamento. Allo stesso modo, non l’intero Perù sostiene Castillo. Come successo a Lima, anche sulla costa Nord, dove ci sono le città più sviluppate (Piura, Chiclayo, Trujillo), ha vinto Keiko».

La religione e la famiglia peruviana

Lei sostiene che la sinistra moderata di Veronika Mendoza ha perso perché ha insistito troppo su temi (aborto, unioni omosessuali, eccetera) che ai peruviani non interessano per nulla. È così?

«In realtà, pochi considerano Mendoza come moderata o più moderata. I media l’hanno presentata ugualmente vicina al chavismo e al comunismo. La differenza principale con Castillo è che lei era una candidata più vicina ai settori urbani, ma ha commesso troppi errori. In un contesto di pandemia, disoccupazione e crisi economica, la sua insistenza sui diritti sessuali e riproduttivi è sembrata del tutto fuori luogo. Inoltre, ha ignorato i sentimenti religiosi della maggior parte della popolazione, duramente colpita dalla chiusura dei luoghi di culto. Le persone di fede ritengono che, nei governi di Vizcarra e
Sagasti, siano stati presenti gruppi ideologici per imporre l’ideologia di genere e osteggiare la religione. Questa convinzione sarebbe confermata, secondo costoro, dal fatto che i centri commerciali hanno aperto i battenti sette mesi prima delle chiese e per entrare in un luogo di culto sono stati stabiliti requisiti di biosicurezza molto più severi che per entrare in un mercato o in una banca. A ciò va aggiunto il grande rifiuto che esiste tra i peruviani all’aborto e la presenza di forti movimenti di ricusazione dell’ideologia di genere, soprattutto nei settori evangelici. Mendoza era associata a tutte queste idee ed è per questo che è stata vista, al primo turno, come una candidata contro il cristianesimo. Castillo invece si è presentato con una prospettiva più vicina alla maggioranza dei peruviani sostenendo la famiglia tradizionale. Ecco perché, sui temi (fondamentali) della famiglia e della religione, lui è stato visto da molti peruviani come un moderato. A tal punto che molti peruviani bianchi hanno persino giustificato il loro voto per Keiko dicendo che Castillo è un candidato contro i diritti civili. Un pretesto per nascondere il loro pregiudizio nei suoi confronti».

Un paese razzista

Lei è anche un esperto di razzismo. Castillo è stato chiamato non soltanto «terruco», ma anche con il termine offensivo di «serrano». Il Perù è ancora un paese razzista?

«Il Perù è un paese estremamente razzista nei confronti della popolazione indigena e degli afro-peruviani. Per i bianchi dell’alta borghesia è un affronto totale che Castillo possa essere presidente. Sono disgustati nel vederlo indossare un cappello, nel sentire come parla, nel vedere il colore della sua pelle. Per questo lo paragonano a un animale, insistono che è ignorante e il loro disprezzo è rivolto anche ai suoi elettori.

È vero che ci sono stati altri presidenti con tratti andini come Alejandro Toledo, Ollanta Humala e Martín Vizcarra, ma la differenza sociale è abissale: Toledo era insegnante negli Stati Uniti, Humala ha studiato alla costosa scuola francese di Lima, Vizcarra vive nel quartiere più ricco di Lima. In Perù, al razzismo si affiancano classismo e centralismo, motivo per cui Castillo è molto più andino degli altri presidenti».

La Chiesa cattolica e la «minaccia» del comunismo

La Chiesa cattolica è un soggetto ancora importante in Perù? Come si è schierata in questa contesa tra Castillo e Keiko?

«La Chiesa cattolica ha molto peso nel nostro paese e tradizionalmente ha parlato molto contro la corruzione. Purtroppo, negli ultimi mesi, ha emesso pronunciamenti in cui non accenna a questo problema e, invece, pensa a condannare il comunismo come se questa minaccia fosse reale (il riferimento è al comunicato del 24 maggio, ndr). In questo modo, molti cattolici hanno creduto che il voto per Keiko fosse il voto cattolico. Ci sono diversi sacerdoti e vescovi che hanno seguito questa linea in modo abbastanza esplicito e la signora Fujimori di solito cita Giovanni Paolo II e Dio nei suoi comizi. Pochi altri sacerdoti religiosi, molti meno in verità, hanno messo in guardia sui problemi della povertà e dell’ingiustizia sociale. Le dichiarazioni anticomuniste della Chiesa sono state ampiamente respinte dagli elettori di Castillo, per i quali è stato deplorevole che un’istituzione così credibile abbia preso sul serio un argomento assurdo. Insomma, secondo me, la Chiesa ha perso molta credibilità da quando ha firmato quel pronunciamento. Peggio ancora, i vescovi hanno accolto Keiko Fujimori e hanno fatto una sessione fotografica amichevole (lo scorso 24 maggio, ndr), come se il suo ruolo negli scandali della corruzione fosse sconosciuto. Non c’è stato un incontro simile con Castillo, ufficialmente perché non si è presentato. D’altra parte, Castillo ha incontrato diversi leader evangelici e in vari eventi ha invitato i pastori a predicare durante il raduno».

Quindi, Castillo è legato a qualche Chiesa evangelica?

«Non mi piace molto mettere etichette. Comunque, la sua appartenenza religiosa non si sa con certezza, mentre la moglie e le figlie dovrebbero essere evangeliche».

(Photo by ERNESTO BENAVIDES / AFP)

Il machete, il crocifisso e l’arroganza di Vargas Llosa

A Lima sono arrivati dalla sierra gruppi di ronderos per difendere la vittoria di Castillo. Da parte sua, tra un reclamo e l’altro, Keiko ha esibito il crocifisso alla folla dei suoi sostenitori. Cosa ne pensa?

«Personalmente non ho visto alcun rondero con machete e non capisco perché qualcuno dovrebbe preoccuparsi. Il crocifisso è una nuova dimostrazione che Keiko ha perso tutto il pudore e vuole il supporto della gente a qualsiasi costo. Penso che quel gesto sia stato troppo anche per i cattolici».

Il premio Nobel Mario Vargas Llosa, neo fujimorista, però non demorde. Sui giornali di mezzo mondo continua a ripetere che c’è stata una frode elettorale e che il Perù è in pericolo.

«Vargas Llosa non è stato mai un buon politico. Non capisce il Perù né lo vuole capire. E si circonda solamente di un’élite arrogante come lui».

Il futuro sarà complicato

Nell’ultimo anno e mezzo, il suo paese ha vissuto prima la crisi pandemica e ora anche la crisi politica. Come vede il futuro?

«Il Perù che conoscevo nel 2019, prima della pandemia, è in frantumi. Miseria, fame, malnutrizione, disuguaglianza sono avanzate come mai prima in pochi mesi. Ci sono molte persone che hanno perso tutti i contatti con gli altri, perché vivono in isolamento. Per i bambini, gli adolescenti e gli anziani sono stati tempi particolarmente duri. Sarà molto difficile per la società peruviana rialzarsi, anche in quelle aree personali o familiari, dopo tanti danni. Molti paesi hanno affrontato situazioni drammatiche nel corso della loro storia, ma sono andati avanti, perché avevano chiaro in mente che la società doveva essere ricostruita. In Perù, la situazione è più complicata: ci sono mafie che vogliono assumere il potere e che potrebbero frenare qualsiasi tipo di ricostruzione».

Lei insegna all’Università Pontificia di Lima, una delle più prestigiose del paese. Se i suoi alunni le domandassero qualche commento sulla situazione del Perù, cosa risponderebbe?

«Direi loro che hanno dovuto vivere momenti molto difficili ma che debbono metterli da parte per non essere sopraffatti dallo scoramento. Sopravvivere in Perù è un compito difficile e ogni giorno ci sono nuove sfide. Direi loro di lasciare gli schermi dei computer, di uscire dalle loro stanze, di parlare con altre persone, di allenarsi e combattere per recuperare una condizione umana. Molti ragazzi, che nella pandemia hanno perso i loro familiari o che dovranno lasciare il college, hanno necessità di un trattamento psicologico. Come ho già detto, non sappiamo se il paese potrà essere ricostruito. Però, è importante lottare per preservare la propria integrità psicologica, fisica e morale».

 Paolo Moiola


I padroni delle notizie


NOTE:

(1) Il gruppo, appartenente alla famiglia Miró Quesada, è egemonico, detenendo il 78% della stampa peruviana. E, elemento fondamentale, raccoglie la quasi totalità della pubblicità per la stampa, le televisioni e il web (anche attraverso il sito perured.pe). A fine giugno, Juan Ricardo Macedo Cuenca, giudice costituzionale, ha dichiarato che la concentrazione dei media nelle mani del Grupo El Comercio viola la Costituzione.
(2) Per ricordare la vicinanza a Keiko Fujimori, è popolare la trasformazione di alcuni nomi: El Komercio, Keiko21, ecc.
(3) A giugno una decina di giornalisti peruviani sono stati licenziati o si sono dimessi per aver contestato la linea editoriale pro-Keiko delle televisioni appartenenti al Grupo El Comercio.
(4) América Televisión è la più importante rete televisiva commerciale del Perù. L’alleanza con la messicana Televisa le consente di trasmettere telenovelas, molto seguite nel paese.
(5) Emittente televisiva di estrema destra di proprietà della famiglia Wong, che deve la sua fortuna ai supermercati. In Perù, vige un capitalismo dominato da una ventina di famiglie guidate dai Brescia e dai Romero.
(6) Secondo il Digital News Report 2021, in Perù il sito del quotidiano El Comercio è il più visitato.
(7) Il quotidiano ospita le opinioni di Mario Vargas Llosa. Il premio Nobel è uomo di destra. Si è schierato apertamente con Keiko Fujimori e ha sostenuto l’ipotesi della frode elettorale.
(8) È la rivista dell’«Instituto de defensa legal» (Idl), editore anche dell’emittente Ideele Radio e del sito investigativo idl-reporteros.pe.

FONTI:

Reuters Institute, «Digital News Report 2021»;
OjoPublico-Reporteros sin fronteras, «Media ownership monitor, Perù»;
Pedro Maldonado, «Un pulpo de los medios de comunicación», Ideele Revista, n. 234.

A cura di Paolo Moiola
(Luglio 2021)


(Photo by ERNESTO BENAVIDES / AFP


Il nuovo colonialismo e l’arte di arrangiarsi

Il fenomeno delle «invasioni»

Le «invasioni» di terre sono una caratteristica del Perù, soprattutto a Lima. È l’arte di arrangiarsi del popolo dimenticato e impoverito. È la risposta all’ingiustizia storica perpetrata da un’élite che si comporta esattamente come i colonialisti scacciati 200 anni fa.

Il Perù ha raggiunto l’indipendenza 200 anni fa, ufficialmente il 28 luglio del 1821. Tuttavia, almeno fino a oggi, il paese è stato costruito sulla base della (ristretta) visione del mondo che aveva e ha il piccolo gruppo dell’oligarchia peruviana, quell’élite criolla (i criollos sono i creoli, persone di origine europea nate nelle colonie dell’America Latina) discendente dei bianchi che hanno sempre gestito il potere.

Un potere che prima, al tempo della colonia spagnola, questa élite esercitava attraverso la corte dei viceré e poi, a partire dall’inizio della repubblica, si è ritrovata a gestire in proprio. Ancora oggi, il Perù è nelle mani di un gruppo ristretto (una dozzina di famiglie, conosciute come i «12 apostoli»), erede dell’élite originaria, che detiene il potere economico, sociale e culturale e definisce pertanto come deve essere il paese.

La Lima bianca e l’altra Lima

Questa élite bianca, urbana, installata principalmente a Lima (capitale per quasi 300 anni del più prestigioso viceregno dell’America Latina), ha guardato sempre al mondo occidentale come modello, dando però le spalle al resto del paese. Questo storicamente spiega come le grandi necessità della popolazione delle periferie e dell’interno del paese siano state sempre ignorate se non addirittura criminalizzate, alla luce dell’accusa di perturbare l’ordine e la pace.

Alla fine degli anni Cinquanta, questo modello ha causato le prime migrazioni dalle zone rurali alle città e soprattutto a Lima. Migrazioni definite «invasiones» dall’élite aristocratica, i cui antenati, per ironia della storia, secoli prima avevano invaso il Perù.

Fiumi di persone che scappavano dal sistema feudale del latifondismo si sono dovute conquistare uno spazio vitale per iniziare una nuova vita, occupando i terreni della desertica costa peruviana, fuori della capitale, adeguandosi a costruire ripari che avessero la parvenza di quattro pareti e un tetto. Si iniziavano così a costituire quei cinturoni di baraccopoli (asentamientos humanos, pueblos jóvenes, barriadas) abitate da esclusi e impoveriti. Esclusi e impoveriti che ancora oggi sono ignorati o criminalizzati dalla Lima bianca.

La mancanza di una vera e propria politica di stato, dovuta all’assenza di una visione realistica del paese, ha fatto sì che Lima (come tutte le maggiori città) crescesse inglobando le baraccopoli, legalizzando con successivi titoli di proprietà l’informalità delle «invasiones». Di conseguenza, oggi queste costituiscono la maggior parte del territorio di Lima metropolitana.

La particolare storia demografica della città lo dimostra: dalla fine degli anni cinquanta, Lima è passata da poco piú di un milione di abitanti ai quasi 11 milioni di oggi. Il tutto su un paese che, con una superficie quattro volte l’Italia, ha una popolazione totale di circa 31 milioni di persone. Pertanto, un terzo della popolazione del Perù vive a Lima: al centralismo politico, economico e finanziario ha fatto seguito il centralismo demografico.

Questo fenomeno di «invasiones» dalle regioni andine ed amazzoniche del Perù alle città e soprattutto alla capitale, non si è mai fermato del tutto, ma ha solo alternato periodi di maggiore o minore flusso. Ultimamente alla migrazione interna, si è aggiunta anche la necessità di case per i discendenti dei primi migranti e, in parte, anche dei migranti venezuelani, che in Perù sono più di un milione di persone.

Le invasioni, come e perché

Le ultime occupazioni, in ordine di tempo, di terreni desertici liberi avvengono proprio in concomitanza con il primo turno delle elezioni politiche generali.

Domenica 11 aprile, circa tremila persone, spinte dalla necessità di un tetto sotto cui vivere, occupano un’area nella zona conosciuta come Lomo de Corvina a Villa El Salvador, uno dei 43 distretti di Lima metropolitana, anch’esso fondato e auto costruito dal nulla sulle terre sabbiose a Sud della capitale nel maggio del 1971.

Si tratta di intere famiglie, provenienti questa volta non dall’interno del paese, ma da altre zone popolari di Lima che, disperate per non poter più pagare l’affitto per la perdita del lavoro (informale, di solito la vendita ambulante di qualsiasi oggetto commerciabile) a causa della pandemia, hanno approfittato del contesto elettorale, quando gran parte della polizia era occupata a garantire la regolare realizzazione della consultazione.

In questi giorni, di notte, centinaia di persone arrivano per occupare un terreno che appartiene all’impresa mineraria Luren. Il direttore generale dell’’azienda, Alejandro Garland, chiede alle autorità di intervenire e sgombrare subito gli invasori, avvertendo anche che l’area non è edificabile e che si tratta di una zona sismica.

Dopo quattro giorni, gli «invasori» hanno già diviso la zona occupata e ciascuno di loro ha già separato e delimitato il proprio spazio, dormendo sulle stuoie sistemate sul suolo sabbioso della collina, in tende o baracche montate alla meno peggio, scavando buche da adattare a latrine per le necessità immediate, organizzando una olla común («pentola comune»), cucinando comunitariamente il poco cibo che hanno potuto portare con sé e illuminando la notte con candele e lumi a petrolio.

La maggior parte di loro sostiene che questo gesto disperato è stato fatto per la necessità di un luogo dove vivere con la propria famiglia. «Sono venuto qui perché non potendo più lavorare, non ho più i soldi per pagare l’affitto. Se c’è un proprietario, perché non si è mai occupato di questa zona abbandonata?». Una donna assicura di avere il sostegno degli abitanti della zona, perché si ridurrebbero i casi di rapina o aggressione. Pertanto, chiede al proprietario di venire a parlare con tutti per trovare insieme una soluzione. «Vogliamo un posto dove vivere. Siamo disposti a lottare affinché ci lascino questo spazio. Non abbiamo denaro perché abbiamo perso tutto a causa della pandemia. Supplichiamo la polizia di non attaccarci».

«Non siamo trafficanti di terreno, siamo soltanto persone con grandi necessità», aggiunge un’altra persona per rispondere alle accuse di essersi messi nelle mani della delinquenza organizzata.

Attorno alla zona occupata ci sono circa 150 soldati che sorvegliano il terreno, oltre alla polizia nazionale del Perù. Questa ha assicurato che il ritiro avverrà in maniera pacifica, mentre il ministro dell’Interno, José Elice Navarro, ha detto che stanno cercando il dialogo pacifico con tutti.

Neppure il tempo di affrontare questa situazione che alcuni giorni dopo, la mattina del 13 aprile, nel Morro Solar, appartenente al distretto di Chorrillos, un altro dei 43 di Lima metropolitana, quasi 1.500 agenti di polizia arrivano per sfrattare migliaia di persone (si parla di oltre novemila). Molti occupanti si ritirano, ma un gruppo di cittadini continuano a scontrarsi con la polizia per tutta la giornata.

Secondo il reportage di Tv Perù, la televisione pubblica del paese, la polizia è entrata con i lacrimogeni per cercare di obbligare gli occupanti ad abbandonare la zona. Alcuni di loro, però, hanno iniziato a lanciare pietre e altri oggetti contundenti, per impedire alla polizia di sfrattarli dai terreni che già avevano lottizzato per costruire le proprie abitazioni. Alla fine, la polizia è riuscita a prevalere evacuando gli occupanti e impedendo un ulteriore accesso al luogo.

«Al fondo hay sitio»

Va detto che le invasiones avvenute in questo periodo elettorale sono solo alcune delle centinaia che accadono ogni anno fin dagli anni Cinquanta. Prima per sfuggire al latifondismo, poi – a partire dagli anni Ottanta – alla violenza del conflitto armato interno tra Sendero Luminoso (e, in minor parte, Mrta) e le forze armate e la polizia del Perù. E, ultimamente, anche per la migrazione climatica e come conseguenza delle concessioni di varie zone del paese alle grandi imprese multinazionali impegnate nell’estrazione di minerali, gas e petrolio.

Storicamente, in Perù non c’è mai stata una vera e propria politica di urbanizzazione e di uso del territorio. Le invasiones, la pratica dell’occupazione dei terreni, rimangono quindi come l’unica strada della popolazione disperata che, per altro, molte volte diventa vittima della mafia dei trafficanti di terreni.

Costoro occupano i terreni liberi, li lottizzano e garantiscono agli interessati che, in cambio di una certa somma di denaro, presto avranno un regolare titolo di proprietà. Normalmente questa mafia agisce in collaborazione con funzionari dei municipi dove avvengono le invasiones. Se l’occupazione ha buon esito, questi signori possono guadagnare migliaia di dollari in poche ore.

Le invasioni sono però l’unica maniera per ottenere uno spazio in cui vivere, presentandosi davanti alle autorità a occupazione compiuta. E molte volte esse, quando i terreni non hanno un particolare valore, tollerano la situazione, frenando così le tensioni sociali. Questa prassi ribadisce semplicemente la cosiddetta politica a doppio standard: lotti per autocostruzione senza alcun tipo di assistenza e servizio (acqua, elettricità, fognature, strade) per i più poveri, mentre si garantisce un’autentica formalità, crediti e zone urbanistiche di alto livello per i settori medio-alti della popolazione.

Un solo esempio basta per capire il paradosso: su una collina a Sud di Lima c’è un muro lungo circa dieci chilometri che divide vari insediamenti umani della zona d’invasione di Pamplona Alta (nel distretto di San Juan de Miraflores) dal quartiere Las Casuarinas (appartenente al distretto di Santiago de Surco), una delle zone più esclusive del Perù. È universalmente conosciuto come il «muro de la vergüenza» (della vergogna).

Secondo un recente rapporto pubblicato da Periferia (un’organizzazione peruviana specializzata in soluzioni urbane con un approccio ecologico) e Wwf Perù, quasi la metà della popolazione urbana del Perù (45,9%) vive in baraccopoli, in alloggi scadenti o con servizi idrici e igienico-sanitari assenti o inadeguati.

La gente povera afferma che l’unica politica abitativa in Perù è l’«arte dell’arrangiarsi» e, con amara ironia, ripete uno slogan ormai famoso: «Al fondo c’è spazio. Chi arriva prima se lo prende».

Giovanni (Gianni) Vaccaro


Hanno firmato questo dossier

  • Paolo Moiola – giornalista, redazione MC.
  • Wilfredo Ardito Vega – giurista, professore presso la Pontificia Universidad Católica del Perú (Pucp) di Lima, è esperto in diritti umani. Scrittore, è autore di vari libri, tra cui anche tre romanzi.
  • Giovanni (Gianni) Vaccaro – nato in Sicilia, vive a Lima dall’agosto del 1992. Con la moglie Nancy e i quattro figli ha deciso di vivere a Tablada de Lurín, periferia Sud della capitale peruviana, dove è responsabile dell’«Asociación de desarrollo solidario “Yachay Wasi de Tablada”». È rappresentante in Perù per la Focsiv.