Malawi. Bagnato dal Lago



Dalla dittatura alla democrazia

Breve storia del paese bagnato dal grande lago

Da colonia britannica a paese indipendente. Dal partito unico, con un presidente padrone, al percorso verso la democrazia. Fino alle ultime elezioni, ripetute per brogli.

È una calda domenica pomeriggio di inizio novembre. Da qualche minuto, ci siamo lasciati alle spalle le vie affollate e rumorose di Lilongwe, la capitale del Malawi. Abbiamo imboccato una larga strada dall’asfalto grigio e siamo saliti di qualche decina di metri rispetto al resto della città. Ai due lati della via che percorriamo, giardini dall’erba verde appena tagliata e grandi alberi creano delle isole d’ombra sotto il sole battente.

A un certo punto, a intervalli regolari, iniziano a diramarsi alcune vie secondarie, al fondo delle quali notiamo edifici bianchi, sobri e imponenti. Sono le sedi dei ministeri del governo malawiano. Passiamo accanto al ministero dell’Educazione. Poi a quello della Giustizia. Più avanti, ci sono le indicazioni per la Difesa e gli Affari esteri. E, infine, ecco gli uffici del Presidente, del suo vice e le strutture dove si riuniscono i membri del gabinetto.

Siamo appena saliti sulla Capital Hill, la collina capitale. Poco più in là, c’è la sede del potere legislativo, il Parlamento. Costruito grazie a finanziamenti cinesi, è anch’esso un edificio imponente. Vi si giunge percorrendo un lungo viale fiancheggiato da prati verdi, aiuole e alberi. La struttura bianca a semicerchio si eleva sopra una grande scalinata, e culmina con una cupola centrale.

Vicino al Parlamento si trova un mausoleo. È la tomba di Hastings Kamuzu Banda, presidente dittatore del Paese tra il 1963 e il 1994. Fu lui a fare di Lilongwe la nuova capitale del Malawi nel 1975 (al posto di Zomba). E proprio perché la città fosse pronta ad accogliere i vertici politici del Paese, fin dagli anni Sessanta, Banda aveva avviato la costruzione di Capital City, la città nuova. Ancora oggi cuore della vita politica nazionale, culmina proprio su Capital Hill.

L’ascesa di Banda

Banda fu una figura politica cruciale per il Malawi. Sostenitore delle lotte indipendentiste, divenne un personaggio politico di primo piano con l’approssimarsi della decolonizzazione, un leader a cui affidare i primi passi del nuovo Malawi indipendente. Appena giunto al potere, però, iniziò a mostrare i suoi tratti autoritari, fino a diventare a tutti gli effetti un dittatore.

Nato durante il periodo coloniale britannico (1891-1964), Banda lasciò il suo Paese in giovane età per lavorare nella vicina Rhodesia del Sud (l’attuale Zimbabwe). Si spostò poi in Sudafrica e, infine, negli Stati Uniti, dove conseguì una laurea in medicina.

Iniziò a essere direttamente coinvolto nelle vicende politiche del suo Paese solo alla fine degli anni Quaranta, quando un gruppo di coloni bianchi propose di creare una federazione che riunisse alcuni dei territori controllati dai britannici nell’area. Nel 1953, nonostante l’opposizione della popolazione africana e dei suoi leader, Rhodesia del Nord (l’odierno Zambia), Rhodesia del Sud e Nyasaland (il Malawi, da «nyasa», «lago» in chiyao) furono uniti nella Federazione della Rhodesia e del Nyasaland.

A quel punto, sotto le crescenti pressioni dei nazionalisti malawiani, Banda decise di rientrare nel suo Paese. Fu immediatamente posto alla guida del Nyasaland african congress (Nac), movimento nazionalista nato nel 1944. Ben presto, Banda iniziò a viaggiare per tutto il Malawi. I suoi discorsi contro quella che definiva la «stupid federation» (letteralmente, la «federazione stupida») infuocavano gli animi e stimolavano i sentimenti indipendentisti. Tanto che, nel marzo 1959, il governo coloniale lo incarcerò per un anno e dichiarò lo stato di emergenza.

Ma nell’agosto 1961, Banda si riprese la scena politica. Il suo movimento – denominato Malawi congress party (Mcp) – vinse le elezioni, ottenendo la maggioranza nel Consiglio legislativo. Due anni dopo, Banda divenne Primo ministro di un Paese che si stava avvicinando all’indipendenza.

Il Malawi, un «kwacha»

Il Nyasaland divenne indipendente il 6 luglio 1964 con il nome di Malawi. Pochi mesi prima, si era sciolta la Federazione della Rhodesia e del Nyasaland. Per Banda fu una vittoria politica di rilievo. Egli infatti sosteneva che, all’interno della Federazione, il Malawi fosse costantemente relegato in disparte, perché considerato l’«ultima ruota del carro», più povero e arretrato rispetto agli altri due Stati con i quali era federato.

Per Banda, invece, il Malawi era paragonabile a un «kwacha» («sole nascente» in chichewa, la lingua ufficiale del Paese insieme all’inglese). E, solo una volta liberatosi dall’ombra degli ingombranti vicini, sarebbe sorto, come un sole, consolidandosi sul piano politico, sociale ed economico.

Quattro erano i principi che, secondo Banda, avrebbero guidato il Paese in questo percorso: unità, disciplina, obbedienza e fedeltà. Ma se durante il suo governo si registrò qualche progresso in ambiti come istruzione e salute, molti altri furono i passi indietro sul piano della libertà di espressione, dei diritti umani e della democrazia.

Già nell’agosto 1964, Banda affrontò il malcontento di molti dei suoi ministri, irritati dalla sua attitudine autocratica e dalla tendenza a non consultarli prima di prendere delle decisioni. Anche l’orientamento del dittatore in politica estera era causa di tensioni: il Malawi fu uno dei pochi Paesi africani a mantenere relazioni diplomatiche con il Sudafrica dell’apartheid e con i coloni portoghesi in Mozambico. D’altronde, Banda divenne ben presto un fidato alleato degli Stati Uniti in un’area calda per le logiche della Guerra fredda. Dunque, tre ministri furono cacciati il 7 settembre. Altrettanti si dimisero nei giorni successivi. La maggior parte lasciò rapidamente il Malawi, temendo per la propria vita.

Il partito unico

Dal 1966, il Malawi divenne uno Stato a partito unico con l’Mcp unico movimento legale. Qualsiasi voce di dissenso era rapidamente incarcerata o messa a tacere per sempre. Nel 1970, Banda divenne il presidente a vita dell’Mcp e, un anno dopo, fu nominato capo di Stato a vita del Malawi. L’ala paramilitare del suo partito, gli Young pioneers, contribuì a creare un clima di terrore che persistette fino ai primi anni Novanta.

Fu instaurato un profondo culto della personalità del dittatore. Ogni edificio doveva esporre una fotografia di Banda sul muro e nessun’altra immagine poteva essere più grande della sua. Prima di una qualsiasi proiezione cinematografica, veniva trasmesso un video del presidente che salutava la popolazione. Poi iniziava il film, che doveva aver superato l’ispezione preventiva dell’organo di censura. Accadeva che alcune scene venissero rimosse perché politicamente inaccettabili. Ma era anche possibile che venissero eliminate alcune pagine da riviste come «Newsweek» e «Time». C’erano solo una stazione radio, un quotidiano e un settimanale. Tutti attentamente controllati dal governo e utilizzati per la sua propaganda.

Fu introdotto un rigido codice di abbigliamento per le donne, che non potevano indossare pantaloni o vestiti al di sopra del ginocchio. Mentre agli uomini era vietato lasciarsi crescere i capelli oltre il mento. Se uno straniero non rispettava questo requisito, la sua chioma era immediatamente tagliata, prima di uscire dall’aeroporto.

Ogni fede religiosa era attentamente controllata perché non costituisse una minaccia al culto della personalità del dittatore. Le Chiese dovevano essere approvate dal governo. Alcuni movimenti, come i Testimoni di Geova, furono duramente perseguitati e dovettero abbandonare il Paese.

Venti di democrazia

Nei primi anni Novanta, in tutto il Malawi iniziarono a crescere le voci di dissenso contro le politiche autoritarie di Banda. Sul piano internazionale, con la fine della Guerra fredda, l’Occidente cominciò a spingere affinché molti Paesi del Sud globale – fino a quel momento governati da regimi autoritari allineati con l’una o l’altra parte – avviassero una transizione democratica.

Dunque, sotto pressioni domestiche e internazionali, nel 1993, Banda legalizzò gli altri partiti politici. Le prime elezioni multipartitiche si tennero l’anno successivo e furono vinte dall’United democratic front (Udf). Il suo leader, Bakili Muluzi, formò un governo di coalizione con l’Alliance for democracy e divenne il primo presidente eletto democraticamente nel Paese dopo trent’anni. Cinque anni più tardi, Muluzi fu riconfermato.

L’Udf rimase primo partito anche nel 2004, seppure senza la maggioranza assoluta in Parlamento. Il suo candidato, Bingu wa Mutharika, fu quindi sostenuto da un governo comprendente diversi movimenti che fino a quel momento avevano fatto parte dell’opposizione. Riconfermato, in quanto candidato del Democratic progressive party (Dpp), Mutharika morì di infarto nel 2012. Il suo posto fu preso dalla vicepresidente ed esponente del People’s party Joyce Banda (senza legami di parentela con l’ex dittatore) che però uscì sconfitta dalle elezioni del 2014. A imporsi fu Peter Mutharika, fratello di Bingu e nuovo leader del Dpp.

La tornata del 2019, invece, fu duramente contestata. Inizialmente, la vittoria fu attribuita a Mutharika, anche se di poco. A febbraio 2020, però, la Corte costituzionale annullò il voto, denunciando irregolarità e frodi. Due mesi dopo, la sentenza fu confermata anche dalla Corte suprema che indisse nuove elezioni per il 2 luglio. Era la prima volta che un risultato elettorale veniva messo in discussione. E poi ribaltato, dato che a vincere fu un candidato dell’opposizione, Lazarus Chakwera,  esponente dell’Mcp e attuale presidente del Paese.

Aurora Guainazzi


Religioni che convivono

Protestanti, cattolici e musulmani

Il paesaggio scorre veloce fuori dal finestrino mentre ci dirigiamo verso sud. Superiamo una moschea e suor Ornella, madre superiora della missione sacramentina di Mtande (alla periferia di Lilongwe), commenta: «In passato, in questa zona, c’erano solo i musulmani. I cristiani sono arrivati da poco».

Stiamo attraversando il distretto di Mangochi, l’area del Paese dove, ancora oggi, c’è la maggiore presenza di seguaci dell’islam (il 73% della popolazione). Portata dai mercanti arabi intorno al XV-XVI secolo, la religione musulmana si è poi diffusa tra gli Yao, il maggiore gruppo etnico sulle sponde meridionali del lago Malawi. Gli Yao erano abili commercianti: scambiavano con i mercanti arabi della costa, ma anche con i portoghesi in Mozambico. A loro vendevano avorio e schiavi. «Proprio per sfuggire alla schiavitù – dice suor Ornella – molti abitanti del luogo si convertirono all’islam. La maggioranza dei mercanti, infatti, era musulmana e tendeva a non schiavizzare membri della stessa fede».

I primi missionari cristiani arrivarono alla fine dell’Ottocento, sulla scia delle esplorazioni di David Livingstone. Nel 1875, a Cape Maclear, sulla punta di una piccola penisola sul lago, nacque la prima missione che, però, in sei anni riuscì a convertire un solo musulmano. Anche negli anni successivi, in quest’area il cristianesimo faticò a diffondersi, mentre diventava la religione predominante nel resto del Paese. «La fede cristiana qui ha preso piede solo recentemente, anche grazie all’attivismo degli ultimi vescovi», dice suor Ornella.

Oggi, il pluralismo religioso è un valore cardine del Malawi. La Costituzione definisce il Paese come uno Stato laico, dove è proibita qualsiasi discriminazione su base religiosa e tutti sono liberi di professare il proprio culto. A garanzia di ciò si pongono soprattutto le istituzioni giudiziarie. Recentemente, ad esempio, una sentenza della Corte suprema ha imposto al ministero dell’Educazione di far sì che i bambini della comunità rastafariana possano frequentare la scuola senza dover tagliare i dreadlock, simbolo del movimento religioso. Il mondo musulmano invece sta attendendo che venga riconosciuto, alle bambine che lo desiderano, il diritto a indossare l’hijab negli istituti scolastici. È proprio per questa attenzione alla libertà di culto che Freedom house (un’organizzazione che studia democrazia e diritti umani nel mondo) ha attribuito al Malawi il massimo del punteggio nell’indice sulla libertà religiosa.

La tolleranza d’altronde è sempre più un valore intrinseco alla società locale. Lo testimonia anche un’indagine dell’agosto 2021 di Afrobarometer (una rete panafricana che svolge studi statistici sul continente). A oltre il 62% degli intervistati «piace molto» avere dei vicini appartenenti a un’altra fede, mentre un altro 16% ha dichiarato che gli «piace alquanto». Solo il 10% ha risposto negativamente.

Anche suor Leonia, madre superiora della missione delle Suore sacramentine a Monkey Bay, conferma: «Nella nostra zona (il distretto di Mangochi, ndr), ci sono tante fedi, ma di solito le persone convivono senza problemi. Abbiamo tanti protestanti, dei presbiteriani e qualche anglicano. Poi ci sono i cattolici. E ovviamente i musulmani».

In tutto il Paese, oggi, secondo il World religion database (un database sulla distribuzione delle religioni nel mondo), il cristianesimo è professato dall’80% della popolazione – con un’ampia fetta di protestanti (38%) e cattolici (33%) – mentre i musulmani sono il 14%. Ci sono poi piccole percentuali di rastafariani, indù, ebrei e sikh.

A.G.

Lo spettro della carestia

La siccità ha portato i prezzi degli alimenti alle stelle

La produzione agricola per l’esportazione resta un pilastro dell’economia. Con conseguente forte dipendenza dai mercati esteri e dal meteo. Come accaduto per la grande siccità del 2024.  Mentre il 90% della gente vive di agricoltura di sussistenza.

«Quello è tabacco», dice suor Leonia indicando – quasi imbarazzata – le coltivazioni di fronte a noi. «Non volevo coltivarlo – prosegue la religiosa sacramentina -, ma mi hanno convinta a farlo perché, se le piante crescono bene, poi il raccolto di solito è redditizio».

Produrre tabacco non è semplice e richiede molto lavoro manuale. Prima, viene seminato in grandi orti, dove gli agricoltori se ne prendono cura quotidianamente. «Vedi – suor Leonia indica dei lavoratori assiepati attorno a un punto del terreno – stanno bagnando le piantine. Lo fanno tutti i giorni». Poi, «verso fine novembre, con l’arrivo delle prime piogge, le spostano nei campi dove hanno maggiore spazio per crescere e irrobustirsi». Con la cimatura – l’eliminazione della testa di fiore – e la rimozione dei germogli secondari, viene facilitata la crescita di foglie forti, e si ottiene un tabacco di migliore qualità. È un lavoro lungo e minuzioso che si protrae fino al momento del raccolto, intorno al mese di febbraio.

Suor Leonia volge lo sguardo verso una struttura di legno che corre lungo un lato del campo e aggiunge: «Una volta raccolte, le piante sono disposte su quei bastoni e lasciate essiccare all’aria aperta». Generalmente per un paio di mesi, in attesa che inizino le procedure di vendita, tra marzo e aprile.

Il settore agricolo

Suor Leonia non ha deciso di coltivare il tabacco per caso. Il Malawi è il sesto esportatore mondiale di questa commodity, il secondo in Africa dopo lo Zimbabwe. Con guadagni pari a 435 milioni di dollari nel 2022, il tabacco – la cui esportazione è iniziata nel 1893 – è stabilmente il primo prodotto commerciato dal Paese, seguito da altre materie prime agricole come tè, arachidi e legumi secchi.

D’altra parte, il settore primario contribuisce al 30% del Pil e impiega oltre l’80% della forza lavoro. La produzione di commodities, introdotte in epoca coloniale, continua a essere ancora oggi un pilastro dell’economia nazionale. Sia che vengano coltivate nelle grandi piantagioni, sia che siano frutto del lavoro dei piccoli agricoltori. Infatti, se dalle prime deriva il 30% della produzione agricola del Paese, i secondi sono responsabili del restante 70%.

Ma – come in tanti altri Stati africani dipendenti dall’esportazione di materie prime – anche il Malawi spesso si trova in balìa delle fluttuazioni dei prezzi sul mercato internazionale e dei cicli di espansione e contrazione della domanda e dell’offerta. Allo stesso modo è sovente alla mercé di disastri naturali che possono causare la perdita della quasi totalità del raccolto. Ne sono un esempio le inondazioni del 2002, che devastarono il settore agricolo e spinsero il presidente a dichiarare lo stato di emergenza nazionale a causa della carestia.

Anno critico

Quello che è successo nel 2024 non è stato tanto diverso. «Quest’anno, la pioggia è finita troppo presto, a febbraio», racconta suor Leonia, mentre camminiamo per i suoi terreni. Volge lo sguardo tutt’intorno e continua: «Così abbiamo perso tutto il raccolto di grano. Se avessimo avuto dell’acqua di riserva, avremmo potuto bagnarlo. Ma non l’avevamo».

Dopo tre anni di precipitazioni troppo abbondanti dovute ai cicloni tropicali Ana, Gombe e Freddy, il Malawi ha iniziato a fare i conti con le conseguenze di El Niño. Un fenomeno climatico che tendenzialmente avviene ogni cinque anni e provoca il riscaldamento dell’acqua superficiale dell’Oceano Pacifico centrale. Quando si verifica, El Niño ha un impatto in tutto il mondo, ma soprattutto causa violente precipitazioni in America centro meridionale, uragani nel sud del Pacifico e prolungati periodi di siccità in Africa subsahariana.

Così tra marzo e aprile 2024, gli agricoltori malawiani – stima il governo – hanno raccolto il 45% in meno di mais rispetto alla media degli ultimi cinque anni. Si è quasi dimezzata la disponibilità di un cereale essenziale per la dieta locale, coltivato da nove famiglie su dieci. Sono proprio queste famiglie che vivono di agricoltura di sussistenza – oltre ai piccoli proprietari terrieri – ad aver risentito maggiormente della siccità a causa della mancanza di riserve idriche e impianti di irrigazione.

Persi grano e mais, anche il raccolto di riso è stato molto magro. «Appena ho capito che quest’anno non saremmo riusciti a raccogliere il grano, ho detto “vado vicino al lago a preparare il campo per il riso”», racconta suor Leonia. «Ma ci sono state delle alluvioni in Tanzania e il fiume Ruhuhu (immissario tanzaniano nel lago Malawi, ndr) ha portato tanta acqua nel lago che si è “gonfiato”, inondando le risaie». Proprio nel momento del raccolto che, così, è diventato impossibile.

Rischio carestia

In Malawi, il 90% della popolazione vive di agricoltura di sussistenza, coltivando mais, riso e legumi. Ma fino a marzo 2025 non ci saranno nuovi raccolti. Non a caso, l’Integrated food security phase classification (Ipc, uno strumento utilizzato a livello internazionale per identificare i livelli di insicurezza alimentare) ha stimato che, tra marzo e ottobre 2024, circa 4,2 milioni di persone (su una popolazione di 21 milioni) si trovavano in condizione di insicurezza alimentare acuta. Cioè erano incapaci di produrre autonomamente il cibo necessario per la sopravvivenza quotidiana. Tra ottobre 2024 e marzo 2025, il numero crescerà a 5,7 milioni.

D’altra parte, già a ottobre, suor Leonia parlava apertamente di carestia: «Tanti nelle campagne non hanno più niente da mangiare e hanno iniziato a rubare i manghi sugli alberi». Le scorte di grano – accumulate nei silos fuori dalla capitale – sono finite da tempo. «Una buona parte – dice suor Ornella – è stata venduta all’estero dal governo per ottenere la liquidità necessaria per rispettare le scadenze sul debito». Debito estero che attualmente ammonta a circa  3,39 miliardi di dollari.

Prezzi alle stelle

Quel poco di grano presente nel Paese costa moltissimo. La farina per il pane è introvabile. Al mercato ci sono solo pomodori, verze, manghi e banane.

È proprio la mancanza di generi alimentari di prima necessità la principale causa della crescita costante dell’inflazione, arrivata a toccare il 34% negli ultimi mesi del 2024.

E se i prezzi dei beni di base – soprattutto alimentari – continuano ad aumentare, lo stesso non si può dire dei salari. Con una paga giornaliera di 4mila kwacha (2 euro), la maggior parte dei malawiani, a fine giornata, non ha il denaro sufficiente per assicurare un pasto alla propria famiglia. Basti pensare che una piccola anguria al mercato costa 5mila kwacha (2,50 euro). Uguale è il prezzo di cinque limoni o di un casco di banane. Per non parlare del costo dei legumi o, ancor peggio, della carne e del pesce.

Ma anche il prezzo dei fertilizzanti è più che triplicato. «Fino all’anno scorso, un sacco da dieci chili costava 30mila kwacha (circa 15 euro). Ora è salito a 90mila (45 euro), ma può raggiungere tranquillamente anche i 120mila (60 euro)», spiega suor Leonia. Se si considera che «per un ettaro di terreno, di solito, utilizziamo quattro sacchi di fertilizzante», diventa subito evidente che i costi sono cospicui. Cifre, che per la maggior parte degli agricoltori locali, sono insostenibili già in una situazione di normalità. Figuriamoci l’anno dopo aver perso quasi la totalità del raccolto.

Aurora Guainazzi


Bambini a rischio: è emergenza

Visita a un centro per la lotta alla malnutrizione

È lunedì mattina quando entriamo nel piccolo centro per la lotta alla malnutrizione alla periferia di Monkey Bay. I suoi locali sono gremiti di mamme e bambini di ogni età. «Lunedì e martedì sono i giorni più affollati», ci spiega Patience, la responsabile dei magazzini e della pulizia della struttura. «C’è appena stato il weekend e il lavoro di due giorni si è accumulato. Poi domani (il 15 ottobre, ndr) siamo chiusi perché è la Festa della Mamma. Quindi in realtà tutta questa settimana sarà impegnativa». Mentre parliamo, ci avviciniamo a una giovane mamma, il cui bambino di pochi mesi dorme avvolto in un telo sulla sua schiena. Lo tengono monitorato perché a rischio malnutrizione. Azioni di questo genere sono la quotidianità nel piccolo centro ormai diventato un punto di riferimento per i villaggi del circondario. A maggior ragione negli ultimi mesi, quando la fame ha iniziato a diffondersi sempre di più.

Nel distretto di Mangochi, già a ottobre 2024, secondo l’Ipc, il 35% della popolazione si trovava in una condizione di «crisi» alimentare. Essendo in grande difficoltà nell’assicurarsi la quantità minima di cibo necessaria per la sopravvivenza quotidiana, si collocava al terzo livello (su cinque) del sistema di allerta utilizzato internazionalmente per identificare le situazioni di insicurezza alimentare. A marzo 2025, il 5% degli abitanti passerà alla fase successiva, quella di «emergenza», una condizione in cui la mancanza di cibo è talmente marcata da causare un elevato rischio di mortalità e consistenti livelli di malnutrizione.

Tra i più a rischio, ci sono i bambini. Soprattutto se vivono nelle aree rurali e non hanno la possibilità di raggiungere i villaggi più grandi, dove si trovano le strutture per la lotta alla malnutrizione. Perciò, in tutto il Paese, si sta diffondendo sempre di più la pratica di realizzare degli screening nei villaggi più isolati, così da identificare ed eventualmente prendere in carico le situazioni più gravi.

È con questo obiettivo che una mattina ci rechiamo nel villaggio di Matwi. Per raggiungerlo, abbandoniamo presto la strada asfaltata e percorriamo qualche chilometro di sterrato, tra buche e tanta polvere. Siamo circondati dai campi e ogni tanto ci imbattiamo in qualche casa isolata. Quando arriviamo al villaggio, mamme e bambini sono già radunati sotto il portico del piccolo asilo comunitario. Osservano attentamente il personale medico mentre scarica il materiale dal fuoristrada e prepara le postazioni per la misurazione del peso, dell’altezza e della circonferenza del braccio. Prima di iniziare, Diana, un’infermiera, spiega in chichewa il motivo dello screening e l’importanza di realizzarlo. Poi, invita le mamme a recarsi con i loro bambini verso la bilancia, appesa, poco più in là, a una trave del soffitto. Uno alla volta, i teli colorati che avvolgono i piccoli vengono appesi e il loro peso annotato. Pian piano, inizia a formarsi una piccola folla anche intorno ai punti adibiti alla misurazione dell’altezza e della circonferenza del braccio. Infine, bambino per bambino, i dati raccolti vengono incrociati, identificando eventuali situazioni critiche. Il sollievo sul volto di molte madri, quando viene comunicato loro che per il momento non ci sono problematiche, è evidente. D’altronde, a Matwi, i generi alimentari scarseggiano ormai da mesi e non è facile assicurare anche solo un pasto al giorno ai propri figli.

L’Unicef (l’agenzia delle Nazioni Unite per l’infanzia), già a maggio 2024 – quando era chiaro che il Malawi si preparava ad affrontare mesi duri – aveva avvertito che più di mezzo milione di bambini sotto i cinque anni era a rischio malnutrizione acuta. Mentre 3,3 milioni avrebbero avuto bisogno di assistenza alimentare di base.

A.G.


Missione scuola

Ricerca di un’istruzione di qualità

L’educazione è la loro vocazione. Le Suore sacramentine hanno cinque missioni nel Paese. Qui l’istruzione è limitata e i tassi di abbandono scolastico sono elevati. E le bambine sono le più penalizzate.

È un caldo e assolato sabato pomeriggio quando accompagniamo suor Teresa nella scuola primaria della missione di Monkey Bay. Ne è la direttrice e ce la mostra con orgoglio. Superiamo il grande cancello di ferro battuto che separa la missione dagli edifici scolastici. Alla nostra sinistra sorge un piccolo altare in ricordo di Geltrude Comensoli, la fondatrice delle Suore sacramentine. Alla nostra destra c’è la scuola. È composta da tre edifici lunghi e bassi, paralleli gli uni agli altri, dove trovano spazio le classi, gli uffici del personale, la direzione, alcuni laboratori e una biblioteca.

Entriamo nell’ufficio di suor Teresa. Sulla scrivania c’è un computer, circondato da libri e fogli. «È periodo di esami» dice, mentre cerca qualcosa in una pila. Ci porge un pezzo di carta e continua: «Questa, ad esempio, è la prova di inglese». Si guarda attorno, adocchia un altro plico in fondo alla stanza e ne pesca un altro foglio. «Questo invece è l’esame di chichewa». Fissiamo la pagina senza capire nulla, ma affascinati dal vedere per iscritto la lingua che da qualche settimana sentiamo continuamente intorno a noi. Suor Teresa, nel frattempo, ha recuperato altre prove: rapidamente, ci passa gli esami di matematica, arti espressive, scienze e life skills.

Queste ultime suscitano la nostra curiosità. Ma quando domandiamo cosa siano, suor Teresa resta quasi stupita. Guardiamo insieme gli esami e nel frattempo ci spiega: «Le life skills sono competenze trasversali che guardano allo sviluppo dei bambini in ogni ambito della vita. Ad esempio, insegniamo loro strategie per rafforzare l’autostima, li spingiamo a prendere autonomamente delle decisioni o a risolvere i problemi. Affrontiamo anche temi come lo sviluppo delle relazioni sociali e i rapporti di genere». L’obiettivo è che bambini e ragazzi siano in grado di interagire correttamente e attivamente con chi li circonda.

Usciamo dall’ufficio e continuiamo il nostro giro. Entriamo nelle classi. Sono sobrie, ma funzionali. Dietro alla cattedra c’è una grande lavagna nera, mentre i banchi di fronte sono disposti in modo ordinato. Arriviamo all’ultimo edificio. «Qui ci sono i laboratori», spiega suor Teresa. Apre la porta di una stanza piena di cartelloni e oggetti di ogni genere: «Questo, ad esempio, è quello di scienze». Poco oltre c’è il laboratorio di informatica: uno spazio spoglio con un vecchio computer addossato alla parete. «Abbiamo solo quello – dice – ma è già qualcosa».

Vocazione istruzione

Le Suore sacramentine (nate a fine Ottocento a Bergamo) operano in Malawi dagli anni Settanta. In questo piccolo Paese, hanno creato cinque missioni (a Balaka, Lilongwe, Monkey Bay, Namwera e Ntcheu), ognuna con le proprie peculiarità. Ma con un tratto comune: l’istruzione è diventata fin da subito la loro vocazione. In particolare, le suore pongono un’attenzione particolare alle ragazze, spesso più svantaggiate rispetto ai loro coetanei maschi nell’accesso alla scuola. Infatti, se il tasso di istruzione femminile, rilevato dalla Banca mondiale nel 2022, era pari al 65%, quello maschile era superiore di sei punti percentuali.

Da qui la decisione di alcune missioni – Monkey Bay nel caso della scuola primaria, Namwera per la secondaria – di concentrarsi esclusivamente su bambine e ragazze. Il motivo ce lo spiega bene suor Leonia durante una delle nostre conversazioni: «Educare la donna in questa zona (Monkey Bay, ndr) è molto importante, perché, se lo fai, vedi già una mentalità diversa. Adesso non ci sono tante donne che hanno studiato. Perciò, vogliamo dare loro questa possibilità, anche solo perché possano organizzare le loro case come si deve». Le piacerebbe avere delle classi miste: «Sarebbe normale. Ma non possiamo fare tutto, perciò abbiamo dovuto fare una scelta».

Far funzionare una scuola delle dimensioni di quella di Monkey Bay è complesso. «Abbiamo circa 700 bambine, suddivise negli otto anni previsti dal ciclo di istruzione primaria», dice suor Teresa. «Di queste bambine – racconta invece suor Leonia – 250 si fermano a mangiare e dormire qui».

Attorno a un cortile di terra battuta, poco oltre il convento, sorgono un refettorio, le cucine e i dormitori. Le stanze sono essenziali, ma funzionali, con letti a castello e cassapanche dove le allieve possono riporre i propri effetti personali. In fondo a ogni edificio, ci sono i bagni. E cosa non scontata: acqua corrente ed elettricità sono presenti in tutte le strutture.

«Non possiamo offrire tutto questo completamente gratis, perché sennò non riusciremmo a organizzare la scuola, pagare i maestri e comprare il materiale», sottolinea suor Leonia. Per questo si chiede una retta, tentando comunque di renderla il più accessibile possibile. «Vorrei che più bambine della zona venissero a scuola. Perciò, invece di aumentare le fees (la retta, ndr), sto pensando di far sì che possano pagare di meno, sostituendo il denaro con qualcosa di materiale». Tra l’altro, già «abbiamo dei gruppi di orfane che non pagano niente. Oppure ci sono quelle che hanno solo la mamma e non il papà. In quei casi valutiamo di volta in volta».

Trovare un equilibrio non è facile. Ma suor Leonia ci tiene ad assicurare un’istruzione di qualità perché «in molti istituti, finita la giornata, i bambini se ne vanno, ma hanno appreso poco. Poco più avanti, ad esempio, c’è una scuola dove nelle classi sono in 400. Così non si impara nulla». Quello di cui parla suor Leonia non è un caso isolato: il sovraffollamento delle aule è un problema diffuso in Malawi. Soprattutto nelle scuole pubbliche dove, in media, un docente si trova a gestire 130 studenti. Ad alimentare questa situazione è la cronica mancanza di insegnanti: la retribuzione molto bassa (spesso sui 120mila kwacha al mese, circa 60 euro), a fronte di un impegno considerevole nella gestione delle classi, scoraggia molti dall’intraprendere questo mestiere.

Scarsità di scuole

Anche a Namwera, sulle montagne al confine orientale con il Mozambico, molte delle ragazze che frequentano la scuola secondaria si fermano a dormire e mangiare nelle strutture della missione. «Abbiamo 262 ragazze che vivono qui», racconta suor Ornella, la responsabile della scuola. Indica una serie di edifici che servono da dormitori. «Siamo una delle poche scuole superiori della zona e siamo riconosciuti per la qualità dell’istruzione che offriamo», sottolinea con orgoglio.

«In Malawi, l’educazione secondaria è poco diffusa», ci ha anticipato suor Ornella, madre superiora della missione di Mtande, mentre qualche ora prima percorrevamo una serie di tornanti su per la montagna. «In tutto il Paese le scuole superiori sono poche, e quelle che ci sono generalmente costano molto, anche se pubbliche. Quindi, non sono tanti quelli che se le possono permettere. I più poveri riescono ad accedervi solo se sono ritenuti meritevoli di una borsa di studio governativa».

In effetti, dati alla mano, è evidente che in Malawi l’istruzione – sia primaria che secondaria – è ancora limitata, con tassi di abbandono scolastico elevati. L’ultimo rapporto dell’Unicef, ad esempio, evidenzia che nel 2023 solo il 33% dei bambini e delle bambine aveva completato il primo ciclo di istruzione. Mentre quelli che avevano proseguito con la secondaria erano ancora meno, il 12%.

Al crescere dell’età dei ragazzi, poi, la forbice tra maschi e femmine si allarga sempre di più. Infatti, se dopo un anno di primaria, il numero di bambini e bambine che lascia la scuola è pressoché simile (il 4%), nel corso della secondaria le percentuali sono ben diverse. Le ultime statistiche del ministero dell’Educazione, relative all’anno scolastico 2023/2024, mostrano che, durante i quattro anni di superiori, il 60% di coloro che hanno abbandonato in anticipo gli studi erano ragazze. Perlopiù a causa di responsabilità familiari, tasse troppo elevate, matrimoni e gravidanze precoci. Queste due ultime condizioni, in particolare, hanno un’incidenza elevata: il 50% delle ragazze si sposa a meno di 18 anni, mentre il 29% ha già avuto almeno un figlio prima della maggiore età.

Insegnamento di qualità

Dunque, in Malawi, combattere l’abbandono scolastico e garantire un’istruzione di qualità sono delle priorità. Per farlo, le Suore sacramentine accolgono allievi fin dai primi anni di età. Dice suor Teresa: «Iniziare dall’asilo e assicurare una continuità educativa con la primaria e la secondaria è fondamentale perché i bambini ricevano una buona istruzione».

«Siamo state noi a portare l’asilo vero e proprio in Malawi», racconta invece suor Ornella. «Prima non esisteva. C’erano dei luoghi dove i bambini si riunivano qualche ora al giorno senza che però seguissero un reale percorso educativo. La scuola iniziava a sei anni con la primaria. Dopo che noi abbiamo aperto l’asilo a Ntcheu, anche nel resto del Paese hanno iniziato a nascere delle vere scuole materne». Oggi, tutte le missioni hanno un asilo che accoglie sia maschi che femmine e cerca di creare le premesse affinché ricevano un’istruzione di qualità.

Il lavoro delle Suore sacramentine è iniziato qualche decennio fa, ma sta pagando. La scuola primaria di Monkey Bay è tra le dieci migliori del Paese. La secondaria di Namwera è una delle poche del circondario a fornire un’istruzione di qualità. A Ntcheu, l’asilo continua a essere un esempio per tutto il Malawi.

Aurora Guainazzi


Il Malawi in cifre

  • Superficie: 118.480 km2 (0,4 volte l’Italia)
  • Popolazione: 21 milioni (2023)
  • Indice di sviluppo umano (posto nella classifica): 172/191 (2024)
  • Pil: 13 miliardi di dollari (2023)
  • Pil procapite annuo [PPP$]: 1.800 (2023)
  • Crescita annua del Pil: +1,9% (2023)
  • Settore agricolo in % sul Pil: 30%
  • Popolazione al di sotto della soglia di povertà (2,15 dollari US al giorno): 70%
  • Tasso di alfabetizzazione: 65% (donne), 71% (uomini)
  • Accesso alla rete elettrica: 14%.

PPP$: dollari in parità di potere d’acquisto, tiene conto dei livelli dei prezzi nel Paese.


Idee e progetti in quantità

La missione di Monkey Bay

Per raggiungere Monkey Bay da Lilongwe impieghiamo cinque ore. La strada è asfaltata, ma le buche sono numerose e di grandi dimensioni. Guidare è uno slalom continuo. Quando poi cala il buio, procediamo solo alla luce dei nostri fari. A un certo punto, l’autista si ferma e scende a controllare le gomme: senza illuminazione è ancora più difficile scorgere ed evitare gli avvallamenti del terreno. Fortunatamente, non abbiamo riportato danni. Ripartiamo e dopo un’oretta arriviamo alla periferia di Monkey Bay. I fari dell’auto illuminano un cartello che indica la missione delle Suore sacramentine. Lo seguiamo e, superato il cancello, l’autista si ferma nel cortile. Davanti a noi sorge il convento. La struttura è abbastanza piccola, in confronto agli edifici di altre missioni. Ma al suo interno si nasconde una realtà estremamente dinamica, ricca di idee e progetti che spaziano dall’educazione, alla sicurezza alimentare, passando per il miglioramento delle condizioni di vita della comunità circostante.

Assicurare pasti adeguati alle bambine che frequentano la scuola e vivono nella missione non è sempre agevole, soprattutto ora che i prezzi sono cresciuti. «Abbiamo dei campi non lontano da qui – dice suor Leonia – se riusciamo a coltivarli bene, possiamo produrre grano, verdure e tante altre cose per le bambine senza doverli comprare». Ma non è facile. Un po’ per i costi di semi e fertilizzanti. Un po’ perché, mancando mezzi meccanici, «per preparare dieci ettari con la zappa ci abbiamo messo quattro mesi. Uno spreco di tempo, energia e soldi». Proprio per questo, suor Leonia sta cercando un trattore che renda più economico, rapido ed efficiente il lavoro e che le permetta anche di aiutare gli altri. Infatti immagina di metterlo a disposizione della comunità: «Ognuno potrebbe inserire la propria benzina e usarlo. Vorrei dare anche ai miei vicini la possibilità di produrre autonomamente una quantità sufficiente di cibo». Mentre per non correre, un’altra volta, il rischio di perdere il raccolto a causa della siccità, non appena avrà trovato dei finanziamenti, ha già pianificato di costruire un pozzo. Indica un bastone piantato nel terreno a poca distanza dai campi arati: lì è stata trovata l’acqua.

Suor Leonia vuole raggiungere l’autosufficienza alimentare il prima possibile perché le idee non le mancano ed è impaziente di realizzarle, una dopo l’altra. Prima di tutto, la scuola secondaria «aperta sia a ragazze che a ragazzi per dare a tutti la possibilità di ricevere un’educazione come si deve». Il terreno su cui costruirla è già stato trovato, ma è ancora da comprare: «Mi hanno chiesto 30 milioni di kwacha (15mila euro, ndr). Non li ho e spero che qualcuno mi possa aiutare a raccoglierli». Nel frattempo, sa già che «dopo la secondaria, ci sarà da pensare ai vocational training, ovvero corsi di formazione professionale, per insegnare specifici lavori. Non tutti vanno all’università e bisogna permettere a chi vuole fare qualcosa di più pratico di impararlo». Immagina qualche classe dove insegnare a cucire o a fare il muratore: «Sarebbe una cosa molto importante per chi dice che non ce la fa ad andare avanti con la scuola. Adesso, tanti non hanno un vero lavoro perché non hanno imparato nulla. Se facessimo questi corsi invece tutti saprebbero fare qualcosa».

A.G.

Ha firmato il dossier:

Aurora Guainazzi

Si occupa di Africa subsahariana sia nell’ambito della cooperazione internazionale che dell’informazione. La sua attenzione si rivolge in particolare alle dinamiche economiche, sociali e politiche della regione africana dei Grandi Laghi.

A cura di Marco Bello, giornalista, direttore editoriale di MC.




Italia. Povertà e disuguaglianze allontanano l’Agenda 2030

 

Emerge un’Italia in affanno e in ritardo nel suo cammino verso gli obiettivi di sviluppo sostenibile dell’Agenda 2030 dal rapporto 2024 dell’Asvis, l’Alleanza italiana per lo sviluppo sostenibile.

Tra i molti dati offerti, ci sono quelli che parlano dell’aumento di povertà e diseguaglianze.

Nel 2022, metà delle famiglie più povere possedeva meno dell’8% della ricchezza netta totale del Paese, il 5% delle famiglie italiane più ricche ne deteneva, invece, il 46%. Nel 2010 la quota era del 40%.

Nel 2023, 5,7 milioni di persone (il 9,8% della popolazione) si trovavano in condizioni di povertà assoluta (nel 2015 erano il 7,4%), e 13,4 milioni (il 22,8% della popolazione) erano a rischio di povertà o esclusione sociale.

Lo scenario descritto dalle 210 pagine del documento non è del tutto negativo, ma non è di certo positivo: «Dei 37 obiettivi […], solo 8 sono raggiungibili entro la scadenza del 2030, 22 non lo sono e per altri 7 il risultato è incerto», si legge nel comunicato stampa dell’Alleanza che mette in rete più di 300 organizzazioni senza scopo di lucro, provenienti dalla società civile, impegnate sui temi dello sviluppo sostenibile.

«I dati del Rapporto descrivono con chiarezza l’enorme ritardo dell’Italia nel percorso per raggiungere i 17 Obiettivi di sviluppo sostenibile dell’Agenda 2030. […] Tra il 2010 e il 2023, il Paese ha registrato peggioramenti per cinque goal: povertà, disuguaglianze, qualità degli ecosistemi terrestri, governance e partnership. Limitati miglioramenti si rilevano per sei goal: cibo, energia pulita, lavoro e crescita economica, città sostenibili, lotta al cambiamento climatico e qualità degli ecosistemi marini. Miglioramenti più consistenti riguardano cinque goal: salute, educazione, uguaglianza di genere, acqua e igiene, innovazione. Unico miglioramento molto consistente interessa l’economia circolare».

Tra gli obiettivi non raggiungibili ci sono quello di ridurre del 20% l’utilizzo di fertilizzanti in agricoltura; quello di dimezzare la disparità occupazionale tra uomini e donne; di raggiungere il 42.5% di energia da fonti rinnovabili; ridurre del 20% i consumi finali di energia; raggiungere il 30% delle aree marine e terrestri protette.

Tra gli obiettivi con andamento altalenante ci sono quello di raddoppiare il traffico merci su ferrovia e quello di azzerare il sovraffollamento nelle carceri.

Tra gli obiettivi raggiungibili nel 2030 ci sono, invece, quello di arrivare al 60% del tasso di riciclaggio dei rifiuti urbani, di garantire a tutte le famiglie la copertura alla rete internet veloce; di ridurre al di sotto del 9% la quota di giovani che non studiano, né lavorano, i cosiddetti Neet.

Nel rapporto si fa anche il confronto del percorso italiano con quello dell’Unione europea: l’evoluzione dei 17 goal dal 2010 a oggi mostra un’Italia sotto alla media.

Dal 28 ottobre e fino al 19 novembre l’Asvis promuove una campagna di diffusione dei dati del rapporto e dei suggerimenti di azioni in esso contenuti: «Un goal al giorno». Ogni giorno viene approfondito, tramite diversi materiali online, semplici da consultare e utilizzare, il punto della situazione dell’Italia rispetto ciascun obiettivo.

di Luca Lorusso




Sostenibilità neocoloniale. Minerali e transizione ecologica


Congo katanga

Sommario

I minerali del Sud globale

La corsa del Nord ricco per prendersi le risorse altrui.
Il mondo in balia dei cambiamenti climatici necessita di quantità sempre maggiori di minerali critici per la transizione ecologica. Questi sono spesso presenti nei Paesi poveri. Le logiche neocoloniali dell’economia spingono questi ultimi a perdere il controllo sulle loro risorse. Si apre così la strada a progetti di sfruttamento indiscriminato delle grandi multinazionali.

Dagli anni Cinquanta del Novecento, il cambiamento climatico e i suoi effetti sono diventati sempre più evidenti e, soprattutto, irreversibili.

Come conseguenza delle crescenti emissioni di gas climalteranti (tra cui spicca l’anidride carbonica), negli ultimi 150 anni la temperatura terrestre è cresciuta in modo graduale, ma inesorabile.

Secondo il Climate change 2023 dell’Intergovernmental panel on climate change (Ipcc) – un gruppo scientifico fondato nel 1988 per studiare i cambiamenti climatici nel mondo -, attualmente ci sono 1,1°C in più rispetto al periodo preindustriale (convenzionalmente prima del 1851).

Nel mentre, gli eventi meteorologici estremi – diretta conseguenza dell’incremento delle temperature – sono diventati sempre più frequenti.

Glaciar Perito Moreno, El Calafate, Argentina, 2016 – Foto di Agustín Lautaro su Unsplash

Summit internazionali sul clima

Società civile e classe politica di tutto il mondo hanno iniziato ad assumere reale consapevolezza del cambiamento climatico e dei suoi effetti nel 1972, quando il Massachusetts institute of technology (Mit) pubblicò il famoso rapporto «I limiti dello sviluppo». Un documento nel quale gli scienziati denunciavano come la crescita della popolazione e dell’economia mondiale – senza le adeguate misure di tutela dell’ambiente – rischiassero di portare il pianeta al collasso entro la metà del Ventunesimo secolo.

Da quel momento, c’è stato un susseguirsi sempre più frenetico di conferenze internazionali su ambiente e clima senza mai andare oltre le parole.

Si è dovuto attendere a lungo per assistere ai primi tentativi di adottare delle misure concrete per mitigare e contrastare il cambiamento climatico e i suoi effetti. E finalmente si è arrivati al 1992, quando il Summit sulla terra di Rio de Janeiro ha iniziato a cambiare l’approccio.

La conferenza brasiliana ha sancito l’entrata in vigore della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (Unfccc), il principale trattato internazionale sul clima.

Il documento – pur non essendo legalmente vincolante – impegnava i firmatari a ridurre le emissioni di gas serra e le interferenze umane nei confronti dell’ambiente.

Dal 1994 poi, i Paesi che avevano ratificato la Convenzione hanno iniziato a incontrarsi annualmente nella Conferenza delle parti (Cop), che ancora oggi rappresenta l’occasione per monitorare lo stato di avanzamento degli impegni presi e per adottarne di nuovi, questa volta obbligatori.

Durante la Cop3 in Giappone nel 1997, è stato concluso il Protocollo di Kyoto che stabiliva la necessità, entro il 2012, di ridurre le emissioni di gas serra del 7% rispetto ai livelli del 1990.

Nel 2015, invece, nel corso della Cop21, sono stati firmati i famosi Accordi di Parigi che fissavano la soglia limite dell’incremento della temperatura terrestre «ben al di sotto dei 2°C rispetto ai livelli preindustriali», oltre a esigere che il picco di emissioni di gas climalteranti venisse raggiunto entro il 2050.

Con il passare degli anni, la comunità internazionale ha impresso una graduale spinta verso l’adozione di politiche risolutive nei confronti del cambiamento climatico. Le strategie messe in atto dai diversi Stati, però, sono ancora ampiamente insufficienti. Infatti, la realizzazione degli obiettivi di Parigi resta lontana: secondo l’Ipcc, con gli impegni assunti finora dai firmatari, entro il 2100 la temperatura terrestre aumenterebbe comunque di 2,7°C rispetto ai livelli preindustriali.

I minerali del Sud globale

Anche se più lentamente di come richiederebbe il pianeta, il mondo si sta dirigendo verso la transizione ecologica. Un’evoluzione complessa che, per essere realizzata appieno, comporta un ripensamento dell’intero sistema economico e sociale mondiale al fine di sviluppare processi sempre più sostenibili.

Pannelli solari, computer, auto elettriche e pale eoliche sono solo alcuni dei dispositivi al centro del cambiamento. Non a caso, la loro domanda è in rapida ascesa, soprattutto in Occidente.

Produrli, però, richiede ampi giacimenti di minerali critici, concentrati in un numero abbastanza limitato di Paesi, soprattutto del Sud globale.

È così che il tantalio estratto in Congo Rd è diventato essenziale per i condensatori di computer e cellulari in tutto il mondo.

Il «Triangolo del litio» (l’area che comprende i deserti salati di Argentina, Bolivia e Cile) è sempre più cruciale nella catena di produzione globale di auto elettriche.

Il nichel indonesiano è invece centrale per migliorare qualità e durata delle batterie.

Strategici sono anche le terre rare abbondanti in Vietnam, il rame diffuso in Sud America e Africa subsahariana, il cobalto proveniente da Repubblica democratica del Congo e Zambia.

Il neocolonialismo delle risorse

Lo scenario appena descritto mostra il profondo intreccio che lega Nord e Sud globale. In particolare, come quest’ultimo e le sue risorse siano il mezzo con cui il primo tenta di esaltare il proprio impegno nel contrasto al cambiamento climatico e i risultati raggiunti in termini di transizione ecologica e decarbonizzazione.

Mostra anche, e soprattutto, la corsa all’accaparramento dei minerali del Sud globale da parte di Stati stranieri e aziende multinazionali. Un processo dai chiari connotati neocoloniali.

D’altronde, nel Sud globale, il colonialismo non è mai scomparso. Semplicemente, ha assunto una nuova veste. Il controllo che ancora oggi l’Occidente esercita su molte delle sue ex colonie non è più di natura politica, ma economica.

Fin dalle indipendenze, numerose aziende europee sono rimaste nel Sud globale, giustificandosi con la necessità di supportare il consolidamento delle nascenti economie indipendenti. In realtà, ciò ha permesso agli europei di insinuarsi a fondo nell’economia di Stati fragili, prendendone il controllo e appropriandosi di molte delle loro risorse.

Le condizioni di sfruttamento che le multinazionali si assicurano sui giacimenti sono estremamente favorevoli (ad esempio le tasse molto basse), e le modalità per ottenerle (spesso la corruzione di funzionari statali), alquanto discutibili.

Il più delle volte, le popolazioni locali non sono consultate e, anzi, sovente vengono espropriate in modo unilaterale delle proprie terre. Mentre la tutela dell’ambiente naturale e della salute delle persone è completamente assente.

Aurora Guainazzi

Contro le miniere in Europa

Giacimenti di minerali critici sono presenti anche in Occidente.
Sebbene siano in quantità minore rispetto a quelli del Sud globale, stanno assumendo una rilevanza sempre maggiore in un contesto mondiale nel quale Stati Uniti e Unione europea hanno iniziato a puntare all’autosufficienza.

Sia gli Usa che l’Ue, infatti, guardano allo sviluppo di giacimenti interni e alla creazione di industrie di trasformazione proprie come a una strategia per dipendere sempre meno dalla Cina.

Pechino d’altronde controlla quasi interamente la catena di lavorazione di minerali cruciali come nichel, cobalto, litio e terre rare.

Aprire miniere in Occidente, però, è decisamente più complesso che aprirle nei paesi del Sud globale.

I tempi burocratici sono lunghi (in media, in Unione europea, sono necessari quindici anni per ottenere tutte le autorizzazioni), le regolamentazioni ambientali stringenti, le tutele da garantire ai lavoratori molto maggiori, e l’opposizione della società civile locale frequente.

Proprio quest’ultima, negli ultimi anni, ha avuto un ruolo centrale in molti Paesi europei nell’ostacolare o, addirittura, nell’impedire l’apertura di siti estrattivi.

Nella regione spagnola dell’Estremadura, cospicue riserve di litio si situano a soli due chilometri di distanza dalla città di Cáceres, sito Unesco e set del film Game of Thrones (cfr. Daniela Del Bene, Miniere «green», MC ago-sett 2021).

Fino agli anni Settanta, nell’area era attiva una miniera di stagno con effetti dannosi su ambiente e salute. Non stupisce, quindi, che l’attuale progetto, la miniera di litio di San José Valdeflórez, veda l’opposizione di politica e società civile.

«Infinity lithium», l’impresa australiana che guida le operazioni, ha promesso investimenti iniziali per 280 milioni di euro e la creazione di più di 200 posti di lavoro. L’azienda sostiene che la miniera possa produrre il litio necessario per dieci milioni di veicoli elettrici e prevede un’attività di trent’anni. Ma, nel maggio 2021, il comune di Cáceres ha approvato una mozione che ha blindato la zona dal punto di vista ambientale, oltre ad aver negato un permesso operativo alla multinazionale.

Già nella primavera del 2017 la società civile si era attivata con la nascita del gruppo di cittadini Plataforma salvemos la montaña per difendere l’ambiente naturale circostante Cáceres e impedire la creazione di una miniera con inevitabili effetti dannosi su ambiente e salute.

Dopo la conclusione degli studi di fattibilità nel 2019, era stato stabilito che l’estrazione sarebbe iniziata entro venti mesi, ma – al momento – la miniera di San José Valdeflórez non è ancora entrata in funzione.

Cáceres non è l’unico caso europeo dove la popolazione ha manifestato contro le attività estrattive. In Portogallo, le proteste dei cittadini di Montalegre stanno bloccando l’apertura di sei miniere di litio.

Scene simili si sono viste in Serbia: quando nel 2022 il governo ha tentato di dare il via libera a quella che sarebbe diventata la miniera di litio più grande d’Europa, la popolazione è insorta, costringendo le autorità a fermare il progetto (cfr. Daniela Del Bene, Il litio della Serbia. Un rio rosso sangue, MC ago-sett 2023).

Questi sono solo alcuni esempi – emblematici – di manifestazioni contro le attività estrattive nel continente europeo. In alcuni casi, le proteste hanno impedito l’avvio delle attività, in altri le stanno rallentando.

L’altra faccia della medaglia, però, è che – in un mondo dove i minerali per la transizione ecologica sono sempre più urgenti – un numero crescente di multinazionali si rivolge ai giacimenti del Sud globale. Di fatto, l’alternativa più «semplice» e da cui l’Occidente cerca di trarre il massimo guadagno al minor costo possibile.

A.G.

Multinazionali estrattive

Le concessioni minerarie. Ambiente e popolazioni impoveriti.

Interi territori devastati, a volte in zone protette con biodiversità uniche. Comunità sgomberate o avvelenate. Le enormi concessioni minerarie che molti Paesi del Sud globale offrono ad aziende transnazionali del Nord non sono quasi mai un affare per gli abitanti del posto, eppure crescono di numero ovunque.

Le grandi aziende multinazionali sono spesso le principali protagoniste della corsa ai minerali critici presenti nei paesi del Sud globale. Il più delle volte sono occidentali – Usa, Canada, Regno unito, Svizzera, Australia -, ma non mancano quelle cinesi (cfr. box pag. 38).

I loro progetti estrattivi sono enormi – sia per l’estensione del territorio coinvolto, sia per i volumi di materie prime estratte – e non si curano dei danni causati a popolazione e ambiente. L’unico obiettivo è massimizzare i profitti, soddisfacendo la galoppante domanda occidentale.

Violazioni ambientali e sociali

Corruzione, frodi e cavilli legislativi sono spesso utilizzati dalle multinazionali per aggiudicarsi vaste concessioni nei Paesi del Sud globale.

Capita che le imprese ottengano permessi di esplorazione e sfruttamento in aree protette o ad alto rischio ambientale.

È successo nelle Filippine, nell’isola di Sibuyan, soprannominata «Galapagos d’Asia», che dal 1996 è un parco naturale la cui biodiversità e bellezza sono riconosciute e apprezzate in tutto il mondo.

Lì, l’impresa Altai Philippines mining corporation, succursale locale della canadese Altai resources inc, si è aggiudicata una concessione di nichel proprio all’interno dell’area protetta con danni ambientali irreversibili per una biodiversità unica.

Le attività estrattive e di lavorazione, infatti, causano una considerevole distruzione ambientale.

Lo sversamento di rifiuti tossici nei fiumi, la dispersione di metalli pesanti nell’aria, nel suolo e nell’acqua, sono azioni che minano la biodiversità, causano malattie tra la popolazione e ne mettono a repentaglio le fonti di sussistenza.

Nel gennaio 2022, un report dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha definito la città peruviana di Cerro Pasco una delle quattro «zone di sacrificio» dell’America Latina. Il documento denunciava «un’enorme cava a cielo aperto adiacente a una comunità impoverita ed esposta a elevati livelli di metalli pesanti». Già nel 2009, l’Ong Source international aveva rilevato quantità di arsenico, mercurio e cadmio ben al di sopra dei limiti stabiliti dal governo peruviano e dagli standard internazionali. Metalli che erano presenti non solo nell’acqua e nel suolo, ma anche nel cibo e negli spazi pubblici frequentati dai bambini.

Nonostante le evidenze, però, nessuna misura concreta e realmente efficace è stata ancora presa.

Le popolazioni indigene generalmente sono le più colpite dall’avvio delle attività estrattive. In molti casi sono costrette ad allontanarsi dalle proprie terre e spesso non vengono preventivamente informate e consultate sull’apertura delle miniere. In Indonesia, ad esempio, l’impresa francocinese Weda bay nickel non ha informato il popolo seminomade degli O Hongana Manyawa dei potenziali impatti negativi dell’estrazione del minerale, né l’ha consultato prima dell’apertura della miniera nel suo territorio.

E questi sono solo alcuni degli innumerevoli esempi di devastazione ambientale e sociale causata dalle attività estrattive messe in opera in modo incontrollato da multinazionali di diversa bandiera nei paesi a basso reddito.

Operaciones y trabajadores de Minera Zaldívar, ubicada en la pre-cordillera de los Andes, en la segunda región de Chile, a unos 1.400 kilómetros al norte de Santiago y 175 kilómetros al sudeste de la ciudad de Antofagasta. La mina está ubicada a una altura promedio de 3.000 metros sobre el nivel del mar. Zaldívar es una mina de cobre a rajo abierto, con pila de lixiviación.
Foto de Roberto Candia para AMSA 2023

Nessun guadagno

Se non prendiamo in considerazione le élite politiche ed economiche, i Paesi e le popolazioni locali ottengono ben poco da questo processo di sfruttamento. Quasi tutte le ricchezze sono drenate: i contratti garantiscono alle aziende condizioni estremamente favorevoli, tali da massimizzare i profitti e ridurre all’essenziale quanto lasciato nel paese di estrazione.

Ne sono il segno le poche royalty (quote di prodotto lordo) e le basse aliquote sugli utili netti che le imprese versano agli Stati concedenti.

Nel 2021, ad esempio, l’impresa Minera Panamá, sussidiaria panamense della canadese First quantum minerals, ha pagato solo 61 milioni di dollari di royalty sulla produzione di oltre 86mila tonnellate di rame. Solo con una recente revisione degli accordi (in vigore dal 2023), il governo panamense è riuscito a innalzare le aliquote dal 2% al 12% dei profitti della miniera (quindi ora corrispondenti a circa 375 milioni di dollari).

Altre aziende invece optano per l’evasione fiscale. Dichiarano guadagni molto più bassi del reale (o addirittura perdite) per versare meno imposte di quanto dovrebbero. «War on want», un’Ong inglese per la tutela dei diritti umani, ha denunciato che tra il 2010 e il 2011 solo due delle cinque compagnie minerarie attive in Zambia avevano dichiarato guadagni positivi. Ne è risultata una perdita di entrate fiscali per tre miliardi di dollari l’anno, il 12,5% del Pil annuo del Paese.

Infine, quel poco che resta nel Sud globale, spesso finisce nelle tasche di politici corrotti, invece di essere investito in politiche di welfare e crescita economica. Non è un caso che le due aree più ricche di minerali in tutto il mondo siano anche la più diseguale – il Centro e Sud America – e la più povera – l’Africa subsahariana.

Shellfish fishermen cross the Laa River which floods almost every year due to extractive industrial waste in North Morowali, Central Sulawesi.

In opposizione alle miniere

Sebbene nei Paesi del Sud sia ben più difficile, rispetto all’Occidente, impedire l’apertura di siti minerari – soprattutto in contesti nei quali la corruzione è dilagante -, non mancano esempi di mobilitazione della società civile locale. Proteste che in alcuni casi hanno avuto successo, arrivando a impedire lo sfruttamento dei giacimenti o a costringere le multinazionali a risarcire le popolazioni colpite dagli impatti ambientali e sociali.

In Madagascar, il sito di Ampasindava è considerato uno dei maggiori giacimenti di terre rare fuori dalla Cina. Ma finora la mobilitazione degli abitanti dell’area e delle associazioni per la tutela dell’ambiente – preoccupati da deforestazione, dispersione di metalli pesanti e rilascio di rifiuti tossici – è stata tale da impedire l’inizio delle operazioni estrattive.

In Sudafrica, invece, dopo un lungo processo giudiziario e complessi negoziati, la Corte suprema di Johannesburg ha stabilito che i minatori locali colpiti da silicosi e tubercolosi avevano diritto a ricevere indennizzi. Un obbligo gravante su diverse aziende – African rainbow minerals, Anglo American sa, AngloGold ashanti, Gold fields, Harmony e Sibanye stillwater – tenute a compensare migliaia di lavoratori e famiglie di minatori che, tra il 1965 e il 2018, hanno manifestato queste malattie.

Aurora Guainazzi

A number of land clearing and nickel mining activities in Towara Petasia Timur Village, North Morowali Regency, Central Sulawesi.

Aziende cinesi nel Sud globale

A fianco degli investimenti occidentali, nel Sud globale sono particolarmente diffusi anche quelli cinesi. La Cina, infatti, al di là delle terre rare, non dispone di significativi giacimenti di altri minerali critici. Tuttavia, grazie allo sviluppo di accordi tra le proprie aziende e i governi di diversi Paesi, Pechino riesce a mettere le mani su ingenti risorse che poi le sue imprese trasformano.

Ugualmente dannosi a livello ambientale e sociale, i progetti estrattivi cinesi si differenziano da quelli occidentali per la retorica.

Nei confronti del Sud globale, la Cina, infatti, ha sempre enfatizzato la ricerca di una collaborazione alla pari senza l’imposizione di condizioni di natura politica ed economica.

Dopotutto, Pechino stessa si definisce parte del Sud globale e aspira alla leadership del blocco.

Le compagnie cinesi – in cambio di concessioni per lo sfruttamento dei giacimenti – promettono investimenti per lo sviluppo economico e sociale degli Stati concedenti, oltre che fruttuosi legami commerciali. In realtà, i Paesi del Sud globale ricevono ben poco in proporzione ai benefici che la Cina ottiene dalle risorse di cui si appropria. Ad esempio, nella provincia congolese del Katanga, le aziende cinesi si sono aggiudicate lo sfruttamento di giacimenti di rame e cobalto. Di tutti gli investimenti infrastrutturali promessi in cambio, però, ben poco è stato realmente realizzato (cfr. MC marzo 2024).

Ma, in Paesi stremati dalla spirale del debito e dove la democrazia fatica a farsi strada, la retorica cinese su una collaborazione alla pari senza l’imposizione di condizionalità politiche ed economiche fa presa.

A.G.

Catene produttive locali nel Sud

Nell’attuale sistema economico internazionale, il Sud globale è spesso visto come semplice fornitore di materie prime, le quali vengono poi lavorate in altri contesti, soprattutto in Cina. In questo modo, però, i guadagni e le opportunità lavorative legati alla raffinazione dei minerali in loco sono ben pochi.

Proprio con l’obiettivo di accrescere le entrate statali e creare nuovi posti di lavoro, molti Paesi si stanno muovendo verso la creazione di filiere produttive locali, in grado di lavorare le risorse direttamente sul territorio di estrazione.

Dall’Africa, al Centro e Sud America, passando per il Sud Est asiatico, questa è una tendenza diffusa, sebbene con intensità e stati di avanzamento differenti a seconda delle eredità storiche e delle criticità locali (come conflitti e limiti infrastrutturali).

Nella «Copperbelt», la cintura del rame che corre tra Repubblica democratica del Congo e Zambia, si trovano considerevoli giacimenti di cobalto. Perciò, l’African finance corporation, un’istituzione finanziaria multilaterale, ha siglato un memorandum d’intesa con l’azienda zambiana Kobaloni energy.

Investimenti per 100 milioni di dollari permetteranno di costruire in Zambia la prima raffineria africana di cobalto entro il 2025.

Si tratterà di una delle pochissime strutture di questo genere al di fuori della Cina – che attualmente controlla il 75% della lavorazione del minerale -. Essa permetterà di produrre componenti essenziali per le batterie al litio.

Il fatto che a investire non sia un’azienda straniera ma un’impresa africana non deve stupire: nel continente è sempre più forte la volontà di difendere le proprie risorse dallo sfruttamento delle multinazionali per trarne maggiori guadagni.

Non a caso, gli Stati africani stanno collaborando in seno all’Unione africana per delineare una strategia unitaria per uno sfruttamento vantaggioso dei propri minerali critici.

In Sud America invece, Cile e Perù, oltre a essere i due maggiori produttori mondiali di rame, sono anche leader continentali nella sua raffinazione. Dati alla mano, però, si tratta di capacità limitate: solo l’11% del totale del rame estratto nei due Paesi viene realmente lavorato sul posto. La maggior parte è esportata e processata in altri Paesi, tra i quali spicca, ancora una volta, la Cina.

A fine 2022, un rapporto della Commissione cilena sul rame, infatti, denunciava che «il Paese dispone di fonditrici vecchie, poco competitive e costose».

Migliorare le strutture per la lavorazione permetterebbe di ottimizzare i processi e ridurre gli sprechi, accrescendo le entrate nelle casse statali, e creerebbe nuove opportunità lavorative.

Il Burkina Faso invece sta guardando ancora più in là. La giunta militare al potere a Ouagadougou ha infatti annunciato la costruzione, alla periferia della capitale, del primo impianto nel Paese per il recupero e il riciclo di residui. In questo modo, i metalli, contenuti negli scarti derivanti dall’estrazione dell’oro, saranno lavorati internamente e non mandati all’estero.

Anche il riciclo sta diventando una componente importante della filiera dei minerali critici: dato che l’attuale trend di crescita dell’estrazione non sarà in grado di soddisfare l’incremento – ancora maggiore – della domanda, riciclare gli scarti o le componenti minerarie di dispositivi non più funzionanti è diventata una strada attraente.

A.G.

Lavoratore della miniera che frantuma il tungsteno, Ruanda

Sopravvivere da minatori

L’estrazione artigianale dei minerali critici.

In molti Paesi del Sud globale l’estrazione artigianale delle materie prime utili alla transizione ecologica è molto diffusa, con pesanti conseguenze ambientali e sociali. Nonostante i rischi elevati e i frequenti incidenti mortali, sono milioni le persone che scavano ed estraggono. Tra loro, anche molti bambini.

Al pari dei progetti delle multinazionali, anche l’estrazione artigianale è in continua espansione. Il prezzo abbastanza elevato dei minerali, e la loro richiesta consistente, fanno sì che molti abitanti dei paesi poveri decidano di lavorare nel settore minerario. Per quanto pericoloso e poco remunerativo sia, spesso però l’estrazione artigianale è il modo più semplice per assicurarsi la sopravvivenza quotidiana.

Nel 2020, in tutto il mondo, secondo la Banca mondiale, c’erano circa 45 milioni di minatori artigianali (oltre ad altri 120 milioni di persone che dipendevano indirettamente dal settore).

Impatti sociali e ambientali

I siti di estrazione informale, dove i minatori lavorano senza permessi governativi, sono sempre più diffusi. Così come aumentano le miniere illegali, spesso aperte sulle concessioni di grandi aziende che, per svariati motivi come insicurezza o mancanza di infrastrutture, sono incapaci di sfruttare il giacimento.

I minatori artigianali non si servono di particolari tecnologie o macchinari, non dispongono di protezioni e non godono di tutele.

Racconta Viateur, cooperante congolese e analista della regione dei Grandi Laghi, area dove l’estrazione artigianale è particolarmente diffusa: «Nella miniera di Rubaya nel Nord Kivu, almeno cento minatori sono morti asfissiati dopo che una frana li aveva bloccati a una profondità di cento metri.

Le frane sono frequenti a causa dei dispositivi di sicurezza di cattiva qualità: la maggior parte delle gallerie sono sorrette da pali di legno che non sono in grado di sostenere il peso del terreno e dell’acqua nei periodi piovosi». E ancora: «La contaminazione delle acque sotterranee causa malattie legate ai metalli pesanti come disturbi del sangue e tumori». Ma anche «le malattie croniche – come polmonite, dolori articolari e mal di testa – sono diffuse: i minatori sono esposti all’assorbimento di particelle e gas. Anche i bambini sono colpiti perché partecipano allo smistamento dei minerali in superficie».

Nelle aree di estrazione artigianale, infatti, il lavoro minorile è molto diffuso: nelle sole miniere congolesi di coltan nel 2021 lavoravano almeno 40mila bambini e adolescenti. Oltre che nello smistamento dei minerali, i bambini sono impiegati anche nell’estrazione nelle gallerie più profonde e strette, dove gli adulti non riescono ad andare.

Man mano che l’attività estrattiva in un territorio si consolida, «la produzione agricola diventa sempre più difficile a causa dei residui minerari riportati in superficie che inibiscono la crescita delle piante. Questo provoca fame e malnutrizione».

Parole che valgono per la Repubblica democratica del Congo così come per tanti altri contesti dove l’estrazione artigianale – così come quella industriale delle grandi multinazionali – porta con sé una serie di conseguenze sociali e ambientali notevoli: dalla devastazione dell’ambiente, alla diffusione di malattie tra la popolazione, ai frequentissimi incidenti sul lavoro.

CONGO RD. Il cobalto si trova spesso insieme al rame e alla malachite (pietre di colore blu-verde). Pertanto, queste catene di approvvigionamento e i relativi rischi sono spesso strettamente collegati tra loro.

Per la sopravvivenza quotidiana

L’estrazione artigianale è trainata dal mercato internazionale e dalla crescente domanda di minerali critici per la produzione dei dispositivi al centro della transizione ecologica.

L’obiettivo prioritario per le popolazioni che vivono in condizioni di povertà e diseguaglianza è quello di assicurarsi la sopravvivenza quotidiana.

In mancanza di fonti di reddito alternative, soprattutto in zone remote e lontane dai centri urbani, è facile che molti decidano di dedicarsi all’estrazione mineraria. «In queste aree – ricorda Viateur – le opportunità di studio e ascesa individuale e collettiva sono limitate per l’assenza di scuole di qualità e centri di formazione al lavoro». E l’attività mineraria, particolarmente redditizia in questa fase storica, diventa una scelta facile: «A differenza dei prodotti agricoli e forestali, le risorse minerarie – come oro, diamanti e coltan – hanno un prezzo di mercato molto elevato e il trasporto su grandi distanze è facile».

Aurora Guainazzi

Congo katanga

Sudafrica. Un piano difficile da realizzare

Nel corso della Cop26 a Glasgow, il presidente sudafricano, Cyril Ramaphosa, ha presentato il Just energy transition investment plan (Jet-Ip), il piano quinquennale per la transizione ecologica del Sudafrica. Stando ai dati dell’Agenzia internazionale per l’energia, infatti, nel 2020 solo il 7% dell’energia sudafricana proveniva da fonti rinnovabili, mentre l’85% proveniva da quattordici vecchie centrali a carbone, soggette a frequenti problemi di manutenzione e blackout. Il Paese era responsabile di un terzo delle emissioni totali dell’Africa subsahariana.

Il Jet-Ip, dunque, prevede interventi per decarbonizzare economia e società attraverso lo sviluppo di una mobilità sostenibile e l’incremento delle energie verdi. Smantellare le centrali a carbone è un punto centrale: Eskom, l’azienda energetica statale, prevede che metà degli impianti cesserà di funzionare entro il 2034. Al contempo, verrà espansa e rafforzata la produzione di energie rinnovabili e idrogeno verde (nella cui esportazione il Sudafrica vuole diventare leader mondiale grazie a investimenti nelle infrastrutture portuali).

Realizzare questo piano e – più in generale – la transizione ecologica in Sudafrica, però, non vuol dire solo introdurre e utilizzare nuove tecnologie, ma anche un cambiamento profondo del sistema economico e sociale.

Il Paese è il settimo produttore mondiale di carbone e il quarto esportatore. Oltre 120mila persone lavorano nella sua estrazione o nella gestione delle centrali. Lo smantellamento degli impianti, quindi, avrà effetti sociali poco considerati da un piano che prevede semplicemente la riallocazione dei lavoratori in altri settori. Un problema non da poco in un Paese dove la disoccupazione – pari al 32%, la più elevata dell’Africa subsahariana – è da decenni un problema strutturale.

Infine, c’è il nodo dei costi, una questione emersa fin da subito a Glasgow. Il Jet-Ip prevede investimenti per 84 miliardi di dollari su cinque anni.

Durante la Cop26, il Sudafrica si è accordato con Francia, Germania, Gran Bretagna, Stati Uniti e Unione europea per 8,5 miliardi di dollari di finanziamenti. Ma perché diventassero realtà ci è voluto un anno di negoziati.

Al momento, manca ancora il 44% dei fondi. Il governo auspica di ottenerli grazie a finanziamenti di Stati stranieri, banche di sviluppo multilaterali, settore privato e filantropi. Però, la maggior parte delle risorse sono fornite sotto forma di prestiti, su cui gravano considerevoli tassi di interesse, piuttosto che in termini di sovvenzioni.

Un peso notevole per le finanze di un Paese già in profonda difficoltà economica.

A.G.

Congo RD. Il suolo del Katanga è ricco di rame e cobalto, quest’ultimo utilizzato nelle batterie dei telefoni cellulari. L’equipaggio di Fairphone ha visitato diverse parti dell’industria mineraria, dai funzionari di alto livello ai minatori artigianali. Il suolo del Katanga è ricco di rame e cobalto, quest’ultimo utilizzato nelle batterie dei telefoni cellulari. L’equipaggio di Fairphone ha visitato diverse parti dell’industria mineraria, da funzionari di alto livello a minatori artigianali. Queste foto mostrano alcuni momenti salienti di una spedizione molto riuscita, anche se accidentata, verso il cuore della cintura di rame del Congo.

Chi non può resta indietro

La transizione ecologica dal punto di vista del Sud

I maggiori responsabili del cambiamento climatico sono i Paesi del Nord, mentre quelli del Sud ne subiscono gli effetti peggiori. Il principio secondo cui «paga chi inquina», però, non è applicato, e a decidere tempi, costi e fattibilità della transizione nel Sud rimane l’Occidente.

Nonostante il cambiamento climatico coinvolga tutto il mondo e – anzi – i suoi effetti peggiori si manifestino nel Sud globale, è l’Occidente a guidare la transizione ecologica. Sono i suoi decisori politici a determinare tempi, costi e fattibilità di questo processo per tutta la Terra. Chi riesce, si adegua. Chi non ce la fa è lasciato indietro e ne paga le conseguenze.

Eredità storiche

Storicamente, la responsabilità maggiore del cambiamento climatico – in termini di emissioni di gas serra – grava sulle spalle del mondo occidentale. Il carbone prima e il petrolio poi, infatti, sono stati i cardini dell’industrializzazione e della crescita economica del Nord globale.

Piano piano poi, si sono aggiunti alcuni Paesi del Sud globale. Ma non prima degli anni Novanta. Per circa 150 anni, quindi, è stato solo l’Occidente a produrre i gas climalteranti. Oggi, questa responsabilità è condivisa con alcuni Paesi come Cina e India, ma molti altri – di fatto la maggioranza – inquinano ancora ben poco. Mentre subiscono gli effetti peggiori del cambiamento climatico.

Proprio in virtù di questa differenza storica nelle responsabilità, a Rio de Janeiro nel 1992 è stato formulato il principio delle «responsabilità comuni ma differenziate». In poche parole: chi inquina di più, paga di più. Il principio si radicava nella consapevolezza che lottare contro il cambiamento climatico era un obiettivo comune a tutta la comunità internazionale, ma riconosceva anche che era necessario differenziare il peso sui diversi Paesi a seconda del loro contributo storico all’inquinamento planetario.

Infatti, durante la Cop3 di Kyoto del 1997, sono stati stabiliti obblighi differenti nella riduzione delle emissioni a seconda che i Paesi fossero classificati come «sviluppati» o «in via di sviluppo».

A Parigi nel 2015, però, questa distinzione è venuta meno e sono state introdotte regole comuni per tutti. I contributi, determinati a livello nazionale (piani quinquennali nei quali i paesi firmatari degli accordi delineano le proprie strategie di lungo periodo in termini di transizione ecologica e decarbonizzazione), sono diventati il cardine delle politiche di lotta al cambiamento climatico.

Anche i Paesi del Sud globale si sono impegnati a presentare e aggiornare questi documenti. Ma, data l’assenza di fondi e mezzi, non deve stupire se tra ciò che questi Paesi scrivono nei piani e ciò che sono realmente in grado di realizzare c’è un abisso. Ancor di più, se si considera che a Parigi era stato stabilito che il Nord del mondo dovesse fornire risorse tecnologiche e finanziarie per sostenere la transizione del Sud. Un onere che finora, però, è stato ampiamente disatteso.

Questione di soldi e approccio

Nel tentativo di dare seguito a questo obbligo, negli anni, l’Occidente ha provato a introdurre strumenti per sostenere i piani del Sud globale, ma i fondi destinati finora, oltre a essere molto in ritardo rispetto a quanto deciso, sono insufficienti.

Alla Cop21 di Parigi, i Paesi più ricchi avevano promesso di destinare, a partire dal 2020, 100 miliardi di dollari l’anno in aiuti climatici al Sud.

Solo nel 2022 poi, alla Cop27 di Sharm el-Sheikh, è stato individuato uno strumento per canalizzare questo genere di risorse: il Fondo perdite e danni.

Un anno dopo, il meccanismo non era ancora operativo. Si è dovuta attendere la Cop28 di Dubai per raggiungere l’accordo su un finanziamento iniziale di 700 milioni di dollari entro gennaio 2024: lo 0,2% di tutte le risorse necessarie.

Il fondo è una sorta di palliativo che tenta di ammortizzare i danni, di mitigare gli effetti del cambiamento climatico. Ciò che, ancora oggi, manca sono risorse adeguate per la transizione ecologica del Sud globale. Esso, infatti, con l’esclusione della Cina, secondo il report Finance for climate action, necessiterebbe di due trilioni di dollari l’anno entro il 2030 per rispettare gli obiettivi di Parigi.

Oltre alle risorse contenute in questi fondi, molti paesi del Sud devono ricorrere ai prestiti stanziati dalle istituzioni finanziarie internazionali (tutte a guida occidentale) o da Paesi stranieri. Finanziamenti spesso molto onerosi: raramente i tassi di interesse sono inferiori al 3%, e in molti casi raggiungono picchi del 9%. Con il risultato di creare una spirale del debito senza fine.

Dunque, a determinare tempi, costi e fattibilità della transizione ecologica nel Sud globale è sempre l’Occidente. Di fatto, un’altra delle sue tante manifestazioni neocoloniali.

L’attivismo

Anche sul piano dell’attivismo, la transizione ecologica è spesso e volentieri presentata come un processo a guida occidentale.

Eppure, nel Sud globale fioriscono movimenti per la difesa dell’ambiente e la lotta al cambiamento climatico.

In occasione del Forum economico di Davos del 2020, l’agenzia di stampa statunitense «Associated press» ha tagliato l’attivista ugandese Vanessa Nakate da una foto che la raffigurava con le colleghe europee Greta Thunberg, Luisa Neubauer, Isabelle Axelsson e Lukina Tille. Un anno dopo, alla Cop26 di Glasgow, la cosa si è ripetuta. Ancora una volta, Vanessa Nakate è stata eliminata da un’immagine che così mostrava solo volti bianchi.

La Cop26 è stata considerata la più escludente di sempre. Complici la pandemia da Covid-19 e l’iniqua distribuzione di vaccini nel mondo, infatti, diversi attivisti e rappresentanti della società civile del Sud globale non hanno potuto raggiungere la Scozia per partecipare ai lavori della conferenza e far sentire la propria voce.

Tra le comunità indigene colpite dagli effetti del cambiamento climatico e dell’estrazione mineraria, sono sempre più diffusi movimenti di protesta nei confronti dell’Occidente e delle sue multinazionali. Ma l’attenzione mediatica che ricevono spesso è molto limitata. Così come poca visibilità viene data alle richieste dei leader dei piccoli Paesi insulari del Pacifico, una delle aree del mondo più a rischio a causa dell’innalzamento del livello dei mari.

Dunque, rendere la transizione ecologica realmente accessibile a tutti, oltre che ascoltare le voci provenienti dal Sud globale, è fondamentale per costruire un futuro sostenibile.

Aurora Guainazzi

Agbogbloshie è un suburbio della città africana di Accra, capitale del Ghana. Raccolta e riciclo di rifiuti tecnologici.

Hanno firmato il dossier:

Aurora Guainazzi. Si occupa di Africa subsahariana sia nell’ambito della cooperazione internazionale che dell’informazione. La sua attenzione si rivolge in particolare alle dinamiche economiche, sociali e politiche della regione africana dei Grandi Laghi.

A cura di Luca Lorusso, redattore MC.

Operaciones y trabajadores de Minera Zaldívar, ubicada en la pre-cordillera de los Andes, en la segunda región de Chile, a unos 1.400 kilómetros al norte de Santiago y 175 kilómetros al sudeste de la ciudad de Antofagasta. La mina está ubicada a una altura promedio de 3.000 metros sobre el nivel del mar. Zaldívar es una mina de cobre a rajo abierto, con pila de lixiviación.
Foto de Roberto Candia para AMSA 2023




Argentina. L’«asado» indigesto di Milei


Il miglioramento dei dati macroeconomici dell’Argentina non deve trarre in inganno. La cura del nuovo presidente è pagata per intero dai cittadini più deboli. Come dimostrano i numeri sulla povertà, che ormai riguarda oltre la metà degli argentini.

Per alcuni analisti il primo anno di Javier Milei alla guida dell’Argentina (è in carica dal 10 dicembre) è stato un successo: primo avanzo finanziario dal 2012, inflazione in discesa (lo scorso anno aveva raggiunto il 276,4 per cento), buone prospettive di crescita economica per il 2025, rapporto recuperato con il Fondo monetario internazionale (Fmi), principale creditore del Paese.

Insomma, i dati macroeconomici e le previsioni paiono indicare un miglioramento della situazione. La realtà quotidiana della gente comune sembra però dire altro.

Meno Stato, più libertà

Diciamo subito che le idee politiche ed economiche di Milei non sono per nulla rivoluzionarie: si tratta della ripresa di principi ultraliberisti già conosciuti. La sostanza della sua politica è molto semplice: meno Stato, più libertà individuale.

Autocelebratosi come «anarco capitalista», Milei ha espresso più volte il suo disprezzo per lo Stato nel corso di interviste o durante i suoi viaggi all’estero (ben 14 tra dicembre e settembre con una spesa di milioni di dollari pagati da quello Stato che tanto denigra). Per esempio, lo scorso maggio, a Madrid, nel corso di un incontro organizzato dall’estrema destra spagnola, Milei ha invitato a «difendere più che mai la vita, la libertà e la proprietà privata degli individui». Il presidente ha avvertito che «le élite globali sono state affascinate dal canto delle sirene socialiste» e ha sottolineato l’importanza di «combattere la battaglia culturale» e di salvare il mondo «rimpicciolendo lo Stato per allargare la società». E ancora: «Nonostante le grida della sinistra, il libero mercato genera prosperità per tutti, non solo per alcuni», ha affermato il presidente argentino.

I primi passi formali del neopresidente sono stati stabiliti nella Ley de bases y puntos de partida para la libertad de los argentinos (Ley ómnibus), inviata al Congresso a fine 2023. Il progetto iniziale conteneva la bellezza di 664 articoli, poi ridotti a 238. Dopo sei mesi di passaggi nel Congresso, la legge (contrassegnata dal numero 27.742) è stata approvata lo scorso 28 giugno e pubblicata il 7 luglio.

Il cuore della norma è il suo articolo 1 che dichiara l’emergenza pubblica in materia amministrativa, economica, finanziaria ed energetica per un anno. Questa condizione permetterà all’esecutivo nazionale (Milei e i suoi ministri) di prendere alcune decisioni senza rispettare tutte le procedure amministrative abituali o senza avere l’approvazione del Congresso nazionale.

Il Régimen de incentivo para grandes inversiones (Rigi) è una delle proposte più controverse.

Essa prevede benefici fiscali, doganali e valutari per 30 anni, per progetti superiori a 200 milioni di dollari, al fine di incoraggiare grandi investimenti, sia nazionali che esteri, a lungo termine. Si rivolge a settori considerati strategici per lo sviluppo del Paese, come l’energia, l’agricoltura, l’attività mineraria (compresa l’estrazione del prezioso litio) e le infrastrutture.

La legge approvata consentirà al governo di mettere in vendita alcune società pubbliche. Ma, per il momento, l’idea iniziale è stata molto ridimensionata e le aziende più importanti dovrebbero rimanere in mano allo Stato. Sia la compagnia petrolifera statale Ypf (Yacimientos petroliferos fiscales) che la compagnia aerea di bandiera Aerolíneas Argentinas continuerebbero cioè ad appartenere allo Stato, così come i media pubblici (Radio e televisione argentina). Tuttavia, il loro destino non è certo.

Un governo negazionista

Il presidente Milei si distingue anche in altri campi. Come Donald Trump e Jair Bolsonaro, nega il cambiamento climatico, considerandolo una bugia diffusa dal socialismo e dal marxismo culturale.

Inoltre, a livello nazionale sostiene che, durante la dittatura militare (1976-1983), le persone scomparse (i desaparecidos) non furono trentamila, ma meno di novemila.

Nell’attuale amministrazione nazionale i negazionisti nei confronti della dittatura ricoprono cariche apicali. Per esempio, la vicepresidente di Milei e presidente del Senato, Victoria Villarruel, ha più volte minimizzato o negato i crimini commessi in quel periodo. Nel dibattito elettorale del 2023, quando le era stato chiesto quale fosse stata la sua posizione, aveva apertamente dichiarato: «Basta mentire, non furono trentamila», riferendosi al numero dei desaparecidos.

Villarruel, 48 anni e di famiglia militare, ha dedicato la sua carriera a contrastare il consenso diffuso sulla violenza politica degli anni Settanta e sui crimini contro l’umanità. Inoltre, promuove la cosiddetta «teoria dei due demoni». In Argentina si chiama così l’idea che equipara la gravità dei crimini perpetrati da agenti statali, nell’ambito del cosiddetto «terrorismo di Stato», ad atti di violenza commessi da organizzazioni guerrigliere (come i Montoneros). Significativa la chiusura del programma «Madres de Plaza de Mayo» (l’associazione delle madri dei desaparecidos), in onda da 16 anni sulla televisione pubblica.

Una povertà dilagante

La «motosega» di Milei, uno dei simboli (buffoneschi) della campagna elettorale del neopresidente, è entrata in azione, ma meno del previsto e, comunque, soprattutto per togliere ai deboli.

Oltre ad aver tagliato il numero dei ministeri (passati da 18 a 9), una delle prime trovate del nuovo governo è stato il cambio dei loro nomi (cosa capitata anche in altri paesi, pure in Italia). Uno di essi ha una denominazione veramente accattivante: è stato, infatti, chiamato «ministerio de capital humano». Guidato da Sandra Pettovello, il ministero si occupa di «sviluppare politiche di protezione e rafforzamento per la società e, in particolare, per la popolazione vulnerabile». Così si legge sul sito, ma si tratta soprattutto di una descrizione propagandistica. Nei mesi scorsi, proprio davanti alla sede del ministero, alcune persone avevano esposto un cartello con la scritta: «No se puede ajustar con el hambre del pueblo» ovvero non si possono sistemare i conti dello Stato con la fame della gente.

A febbraio, anche monsignor Oscar Ojea, presidente della Conferenza episcopale argentina (Cea), aveva criticato la ministra per aver – tra l’altro – tagliato gli alimenti alle mense dei poveri (comedores populares). «Le famiglie si privano di molte cose. Ad esempio, una madre può rinunciare a prendere l’autobus e andare a piedi per risparmiare, ma non può assolutamente non dare da mangiare ai propri figli. Cioè, il cibo non può essere una variabile di aggiustamento. […] Come vescovi, nella pastorale con la gente semplice, abbiamo imparato che: “a nessuno è negato un piatto di cibo”. Il fatto è che nel nostro Paese nessuno dovrebbe soffrire la fame, poiché è una terra benedetta dal pane. Oggi, però, centinaia di migliaia di famiglie trovano sempre più difficile alimentarsi bene. […] L’inflazione cresce di giorno in giorno da anni e ha un forte impatto sui prezzi dei prodotti alimentari. Lo sentono chiaramente la classe media operaia, i pensionati e coloro che non vedono crescere i propri stipendi. Anche l’intero universo dell’economia popolare, dove le persone lavorano praticamente senza diritti. Pensiamo agli ambulanti, ai riciclatori, ai venditori dei mercati, ai piccoli agricoltori, ai manovali, alle sarte, a chi svolge diverse mansioni di cura e di servizio».

Affermazioni queste che trovano conferma negli ultimi dati sulla povertà, che possono cambiare di qualche punto percentuale a seconda della fonte, ma che rimangono sempre drammaticamente alti. Secondo le stime dell’Osservatorio argentino del debito sociale dell’Università cattolica argentina (Odsa-Uca), nella prima metà del 2024, la povertà ha riguardato il 52% della popolazione e l’indigenza il 17,9%. Questi dati rappresentano un aumento significativo rispetto al 41,7% e all’11,9% registrati dall’Instituto nacional de estadísticas y censos (Indec) nel 2023, e sono i valori più alti dal 2004.

Sulla stessa linea, l’indagine Unicef sulla condizione dei bambini e degli adolescenti: secondo questi dati, il reddito del 48% delle famiglie argentine non è sufficiente a coprire le spese mensili correnti (maggio 2024).

Un piatto di «asado», divenuto un lusso per molti argentini. Foto José Ignacio Pompe-Unsplash.

Bastonate ai pensionati

Ci conferma tutto questo anche padre José Auletta, da quasi mezzo secolo missionario nel paese latinoamericano. «La situazione – ci spiega – è critica, anzi disastrosa. Perón diceva, non sbagliando, che “la única verdad es la realidad”, l’unica verità è la realtà. E la realtà s’impone sulle teorie, sul “libretto di Milei”: i consumi della classe media sono in caduta libera; migliaia di posti di lavoro sono spariti; il salario minimo è caduto del 30%; la disoccupazione è in aumento».

In base all’articolo 83 della Costituzione, Milei ha posto il veto all’aumento dell’8,1% delle pensioni approvate a larga maggioranza dal Congresso. E non si è limitato a questo, ma ha anche offeso (una pratica diffusa tra gli emuli di Trump) chi aveva votato a favore dell’aumento. Milei ha definito «eroi» gli 87 congressisti che hanno appoggiato il suo veto e «degenerati fiscali» quelli che lo hanno contrastato.

Attualmente la pensione minima è di 234mila pesos (circa 220 euro). Per capire, la sola canasta basica alimentaria (paniere alimentare di base) per una famiglia di tre persone è pari a 335mila pesos (310 euro).

«Eh, sì – conferma padre Auletta – i pensionati appartengono ormai alla classe (sempre più numerosa) dei poveri. Molte delle loro medicine non vengono più passate. E Milei ha vietato l’aumento delle pensioni. E alle manifestazioni di protesta il governo ha risposto con bastonate e gas lacrimogeni».

La violenza delle forze dell’ordine è stata criticata (con parole forti) anche da papa Francesco, nel corso del Simposio dei movimenti sociali tenutosi a Roma il 20 settembre. «Invece di pagare per la giustizia sociale, [il governo] ha pagato lo spray al peperoncino», ha detto l’argentino più famoso al mondo.

«Tutto è condizionato dall’obiettivo “il deficit zero non si negozia” – spiega ancora padre Auletta -. Sebbene sia ragionevole che non si possa spendere di più di quanto si ha, il modo di portarlo avanti significa sacrificare ambiti in cui la popolazione in generale fa sempre più fatica a vivere: educazione, salute, lavoro, pensioni. Purtroppo, anche con pesanti contraddizioni: subito dopo la sua vittoria al Congresso, il presidente ha invitato a un asado nella sua residenza di Quinta de Olivos gli 87 deputati che avevano approvato (alcuni con un voltafaccia vergognoso) il suo veto all’aumento delle pensioni, alla faccia dei sacrifici richiesti.

È vero che ognuno ha pagato di tasca propria i 20mila pesos (poco meno di 20 euro, ndr) richiesti, però nella situazione in cui si vive attualmente in Argentina, per moltissimi l’asado è diventato un lusso. Come allora non essere d’accordo con la pensionata che, nei pressi della residenza presidenziale, sosteneva un cartello con la scritta “Asado per i deputati, pane e acqua per i pensionati”?».

Paolo Moiola

Manifestazione in favore della legge 26.160 (sulle terre indigene) davanti al Congresso, a Buenos Aires. Foto Maru Bleger_almargen.org.ar.


Con i popoli indigeni

I 44 anni di Endepa

L’Équipe nazionale di pastorale aborigena (Endepa) ha appena compiuto 44 anni, tutti trascorsi ad accompagnare le comunità indigene dell’Argentina. Il primo incontro degli agenti della pastorale è datato, infatti, 28 agosto 1980. Fu realizzato da persone decise a condividere con gli indigeni di questo Paese lotte, dolori e speranze. Provenienti da varie regioni, si riunirono per condividere e conoscere le diverse situazioni vissute dai popoli e rivedere le proprie pratiche e, soprattutto, per ascoltare, lasciarsi interpellare dagli indigeni. Da questo incontro scaturì un documento che rispecchiava il desiderio di costituire la pastorale indigena e si fece richiesta formale alla Chiesa cattolica argentina.

Fino a quel momento la Chiesa accompagnava le comunità indigene con molto impegno, ma in modo non articolato. Nelle diocesi le realtà indigene erano poco conosciute, non facevano parte della pastorale e non esistevano le équipe diocesane di pastorale aborigena. L’incontro del 1980 fece comprendere la necessità di unione, riconoscendo che, sebbene i popoli indigeni (se ne contano 44) fossero diversi e ognuno avesse la propria cultura, condividevano problematiche comuni. Quattro anni dopo, era l’agosto del 1984, la Chiesa creò formalmente l’Équipe nazionale di pastorale aborigena.

Oggi Endepa accompagna i popoli originari ed è il solo organismo organizzato che promuove il riconoscimento dei diritti indigeni in un Paese multietnico e pluriculturale.

Purtroppo, nel difficile momento storico che vive l’Argentina, la legge 26.160 che prevede il rilevamento tecnico catastale delle terre da restituire alle comunità indigene e impedire sfratti forzati e violenti delle stesse avanza molto molto lentamente. Con tanti intoppi giudiziari che criminalizzano i reclami delle varie comunità. Peggio ancora con questo governo che permette intromissioni di imprese che avanzano con progetti di investimenti legati allo sfruttamento delle risorse minerarie (litio, idrocarburi) e forestali.

José Auletta (Imc)

 




Kenya. Mons. Muheria sulle proteste dei giovani

Monsignor Anthony Muheria, arcivescovo metropolita di Nyeri e vicepresidente della Conferenza dei vescovi cattolici del Kenya, parla delle proteste della «generazione Z» nel Paese. «La violenza non va bene ma gridano contro la corruzione e per avere un futuro».

«Le leadership non vogliono ascoltare il grido dei giovani ma loro chiedono solo un futuro, un lavoro e la fine della corruzione». A parlare delle proteste che negli ultimi mesi hanno visto in Kenya migliaia di giovani in piazza è monsignor Anthony Muheria, arcivescovo metropolita di Nyeri e vicepresidente della Conferenza dei vescovi cattolici del Kenya.

A Roma per la visita ad limina in Vaticano e per l’incontro con Papa Francesco, il vescovo parla del suo Paese che «è arrivato davvero vicino alla rivoluzione. I ragazzi hanno assaltato il Parlamento… sono arrivati fino al Parlamento», scandisce con il volto ancora preoccupato. Un’ondata, quella della «generazione Z» del Kenya, che «era cominciata pacificamente e che poi purtroppo è sfociata nella violenza».

Il vescovo condanna questa deriva e anche il fatto che «i giovani sembrano come chiusi nei loro circoli, soprattutto sui social», ma allo stesso tempo chiede al governo e alle istituzioni di ascoltare il loro «grido».

La storia del Kenya, d’altronde, è simile a quella di molti Paesi dell’Africa dove la povertà, ma anche la corruzione nella gestione delle risorse, tolgono il futuro alle nuove generazioni.

Molti tentano il lungo viaggio per arrivare in Europa, ma altri protestano fino al sangue. «Il governo è arrivato con la milizia – racconta monsignor Muheria -, e molti giovani sono stati uccisi. Ragazzi nella maggior parte dei casi laureati, ma che non hanno un lavoro e non vedono il futuro».

La corruzione è uno dei problemi più sentiti: «Le autorità devono essere trasparenti, dare conto dei soldi che spendono. Il costo della vita e le tasse aumentano ma non le entrate delle famiglie».

Alla gente del suo Paese il vescovo però dice di non seguire la logica del male minore quando, per esempio, si va a votare. «Noi, come Chiesa, siamo molto preoccupati, perché è sempre più difficile instaurare un dialogo con questi ragazzi. Il problema è grande: come arrivare a formare e incoraggiare questa generazione? Quando c’è la disperazione deve esserci un aiuto».

Con coraggio i vescovi hanno allora avviato corsi di formazione sociale e politica con la speranza che «nel giro di dieci anni creaca una leadership che possa essere un punto di riferimento per la società».

Di fronte a un’Europa nella quale il dibattito sui migranti è sempre più acceso, il vescovo fa presente che in Africa ci sono «da oltre vent’anni milioni di sfollati interni. In Etiopia 900mila, in Uganda un milione e 700mila, da noi in Kenya i rifugiati sono 700mila. È un problema grande perché non ci sono le risorse per consentire loro di uscire dai campi. Ci sono giovani nati nei campi profughi che non sono mai usciti di lì. È come se non ci fosse una via d’uscita».

La Chiesa africana dunque lancia un appello, anche alla comunità internazionale, perché «possa essere garantita a queste persone condizioni di vita dignitose». Sono per lo più persone che scappano dalle guerre in Congo, Rwanda, Sudan, Nigeria, «e queste guerre vanno avanti da anni e la situazione politica non aiuta il loro rientro nei Paesi di origine».

C’è anche il problema degli attentati degli islamisti: «In Kenya, grazie a Dio, sono anni che non si verificano. Ma i terroristi di al-Shabaab sono sempre un pericolo anche per noi. In altri Paesi», prosegue il vescovo facendo riferimento ai recenti attacchi terroristici in Burkina Faso soprattutto contro i cristiani, «anche se i fondamentalisti sono una piccola minoranza, fanno molto rumore». Con i loro attentati minano infatti quel dialogo tra diverse fedi che «è invece molto buono», sottolinea monsignor Muheria.

C’è anche un altro «estremismo religioso», come lo definisce il vescovo Keniano: quello dei leader delle sette religiose che «pretendono di essere cristiani ma pensano solo ai soldi e fondano il loro potere sulla disperazione e sulla credulità della gente».

In questo quadro difficile c’è però una fede cristiana gioiosa e in crescita: «In Africa c’è una vera e propria esplosione delle vocazioni. Quest’anno nella mia diocesi sono entrati in seminario centocinquanta ragazzi. Ma per altrettanti non è stato possibile entrare perché non abbiamo abbastanza fondi economici per aprire le porte a tutti coloro che lo chiedono».

Manuela Tulli




Venezuela. L’ultimo azzardo di Maduro

 

Nella notte di domenica 28 luglio, il Consejo nacional electoral (Cne) del Venezuela ha annunciato il vincitore delle elezioni presidenziali in anticipo, senza attendere tutti i conteggi e senza effettuare alcuna verifica. Nicolás Maduro avrebbe vinto con il 51,2% dei voti. Cina, Russia ed Iran, paesi notoriamente a digiuno di democrazia, hanno subito inviato messaggi di complimenti al (presunto) vincitore. Se le cose rimarranno tali, Maduro, ex autista e sindacalista di 61 anni, in carica dal 2013, sarà presidente del Venezuela per la terza volta, fino al 2031.

Opposto il risultato diffuso dalla Plataforma unitaria democrática (Pud), l’alleanza che riunisce i principali partiti dell’opposizione sotto la guida di María Corina Machado, la pasionaria inabilitata a partecipare alle elezioni. Secondo gli oppositori, il loro candidato, l’ex ambasciatore Edmundo González Urrutia, avrebbe vinto la consultazione con 7,2 milioni di voti pari al 67% dei voti. Tuttavia, anche sui dati della Pud è lecito nutrire qualche dubbio.

Dunque, le due posizioni appaiono inconciliabili e – purtroppo – foriere di violenze. Poco dopo la diffusione dei risultati del Cne, nelle strade di Caracas sono iniziate proteste popolari con le pentole (cacerolazos) o con le barricate (guarimbas), mentre Maduro ha sollecitato i propri sostenitori a scendere in piazza contro «fascisti e controrivoluzionari». In questo momento, cifre non verificabili parlano di una decina di morti e un migliaio di arresti.

Secondo l’opposizione, questi sarebbero i veri risultati delle elezioni di domenica 28 luglio. Dal sito: resultadosconvzla.com.

Già nelle ore successive alle elezioni, il governo venezuelano aveva interrotto le relazioni diplomatiche con ben sette paesi dell’America Latina – Argentina, Cile, Costa Rica, Perú, Panamá, Repubblica Dominicana e Uruguay -, rei di aver espresso dubbi sulla veridicità del risultato. Più cauti nei giudizi sono stati il Brasile, il Messico e la Colombia, come anche gli Stati Uniti e l’Unione europea.

Mai tenera con il governo bolivariano, la Chiesa cattolica venezuelana – che raccoglie circa il 90 per cento dei cittadini – ha chiesto una verifica dei risultati, raccomandandosi nel contempo di evitare qualsiasi azione violenta. Per parte sua, l’«Osservatorio per la democrazia in America Latina», appartenente all’associazione delle università gesuitiche latinoamericane (Ausjal), pur criticando fortemente le modalità del processo elettorale, ha concluso che le elezioni rimangono l’unico cammino per la pace. Raggiunto via WhatsApp, un missionario della Consolata che lavora tra i Warao ci ha detto: «In questo momento siamo pieni di parole, promesse,… Tanti sanno tanto… Io credo che sia il tempo di ascoltare, fare silenzio, accompagnare, rimanere con i poveri, con il popolo che soffre».

Una verifica importante del risultato potrebbe essere effettuata controllando i registri ufficiali (i cosiddetti «actas de escrutinio») di ciascun seggio elettorale. Tuttavia, a quasi una settimana dal voto, questa verifica non è ancora arrivata. Nel frattempo, il 30 luglio il Centro Carter – organizzazione indipendente (e autorevole) con alle spalle 124 elezioni in 43 paesi e la sola ammessa come osservatore dal Cne – ha rilasciato un duro comunicato in cui si dice nero su bianco che l’elezione non è stata democratica.

Elezioni a parte, la situazione generale rimane pesante. Stando alle statistiche più recenti (fonte Encovi), oltre metà della popolazione venezuelana (51,9 per cento) vive in povertà, mentre nel 2023 l’inflazione annuale è stata del 189,9 per cento (Banco Central de Venezuela). A causa della situazione economica e politica, dal 2014 circa otto milioni di cittadini (Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, Unhcr) hanno abbandonato il Paese. La maggioranza di essi vive (o, più sovente, sopravvive) in Colombia, Perú, Stati Uniti e Brasile.

Senza voler giustificare le carenze governative, va anche detto che le sanzioni (bloqueo e medidas coercitivas unilaterales) a cui è sottoposto il governo di Caracas sono una causa primaria della grave situazione economica del Paese latinoamericano. Secondo l’Observatorio venezolano antibloqueo, organismo ministeriale, dal marzo 2015 il Venezuela è sottoposto a 930 misure sanzionatorie, in gran parte imposte dagli Stati Uniti. Le sanzioni più pesanti sono quelle sul petrolio e il gas, vera ricchezza del Paese.

Paolo Moiola




House of Mercy, casa di tutti


La Mongolia, dove il 28 giugno ci sono state le elezioni legislative, ha affrontato un inverno fra i più freddi della sua storia recente, perdendo milioni di capi di bestiame. Eppure è un Paese in crescita, tra grandi diseguaglianze e grandi opportunità. La Chiesa e i missionari ne accompagnano il cammino.

«Quando sono arrivato in Mongolia, nel 2004, Ulaanbaatar, la capitale, era una cittadina tranquilla, quasi sonnacchiosa. Poi è iniziato lo sfruttamento su scala industriale delle miniere, soprattutto di carbone, rame e oro, e l’economia è decollata».

Padre Ernesto Viscardi, missionario della Consolata classe 1951, racconta così l’inizio dei suoi vent’anni di missione in Mongolia e, anche adesso che da poco è stato trasferito a lavorare nella casa generalizia a Roma, quando parla di quei luoghi e delle persone che li abitano usa la prima persona plurale, come si fa con un paese e un popolo a cui si sente ormai di appartenere. «Certo, questa crescita ha generato anche problemi ambientali, corruzione e diseguaglianze: ma piano piano li stiamo affrontando».

Le difficoltà a cui padre Ernesto si riferisce riguardano ad esempio la contraddizione fra l’aumento delle esportazioni di carbone verso la Cina, che l’anno scorso hanno superato i 50 milioni di tonnellate@, e l’esigenza planetaria di ridurre le emissioni di gas serra per far fronte alla crisi climatica. E anche gli scandali legati alla corruzione e alla distrazione di fondi pubblici, con la vendita illegale di carbone , e le mancate restituzioni dei prestiti alla Banca di sviluppo della Mongolia da parte di aziende legate ad alcuni membri della classe politica@.

La cattedrale di Ulaanbatar il giorno della visita di papa Francesco, 14/09/2023

Un’economia in espansione

«La Mongolia», continua padre Viscardi, «è un paese giovane, in crescita economica, alla ricerca di una sua affermazione e presenza mondiale: insomma, un paese che ha un presente e un futuro». Diciannovesimo paese al mondo per superficie (è grande cinque volte l’Italia), la Mongolia ha una popolazione di 3,4 milioni di abitanti, di cui la metà vive nella capitale Ulaanbaatar. La crescita economica attesa per l’anno in corso, riportava ad aprile l’Asian development bank (Adb), è del 4%: c’è un rallentamento rispetto al 7% del 2023@, ma si tratta comunque di una crescita sostenuta, trainata dal settore minerario e dall’espansione della spesa pubblica.

È stata l’esportazione di carbone, acquistato per la quasi totalità dalla Cina che lo utilizza soprattutto per la produzione di acciaio@, a sostenere il settore minerario, ma un ruolo importante continua ad averlo anche il rame, estratto dalla più grande miniera del paese, quella di Oyu Tolgoi, di proprietà del governo mongolo per il 34% e del colosso anglo australiano Rio Tinto@ per il 66%. Altre risorse importanti sono l’oro, l’argento, il molibdeno e le terre rare@, impiegate in numerosi prodotti e tecnologie attuali, dai motori elettrici ai display ottici. Nel 2023 inoltre il gruppo francese Orano ha firmato un accordo per lo sfruttamento della miniera di uranio di Zuuvch Ovoo, nel Sud Est della Mongolia@.

Quanto al settore agricolo, riferiva sempre Adb, ci si aspetta una contrazione, perché l’inverno 2023/2024 è stato uno dei più rigidi della storia recente@, con fenomeni di freddo estremo – o dzud, in lingua mongola – che ha toccato i -47°C nelle regioni del Nord e dell’Ovest. «Sono morti almeno 4 milioni di animali», conferma padre Ernesto: «Non è stato come lo dzud del 2010, in cui ne morirono almeno il doppio, ma le perdite sono ingenti. In un paese con una media di 20 capi di bestiame per abitante, 65 milioni in totale, si fa preso a capire quanto questo settore determini la vita di migliaia di persone».

Le stime citate a fine maggio dal portale Reliefweb, quantificavano in 7,2 milioni i capi di bestiame persi, l’11% del totale. Le famiglie rimaste completamente senza animali risultavano essere 4.957 e, secondo l’Unicef, i bambini le cui esigenze di salute mentale, nutrizione e istruzione rischiavano di non venire soddisfatte erano circa 24mila.

Ulaanbaatar e la sua crescita

«Guardando Ulaanbaatar dalle colline che la circondano, fino a pochi anni fa si vedeva una coltre di smog che la copriva», racconta padre Ernesto. «Era la capitale più inquinata del mondo, ma oggi la situazione sembra migliorata, anche grazie all’uso del “carbone pulito” invece di quello grezzo». Si tratta di bricchetti di carbone lavorato in modo da ridurre le emissioni@, e sono diverse le fonti che confermano il miglioramento della qualità dell’aria della città, non solo rispetto al fumo emesso ma anche alla presenza di polveri sottili.

Il carbone viene usato dalle fasce più povere della popolazione per scaldare le abitazioni. In particolare nei cosiddetti gher district, i quartieri che si sono formati a partire dagli anni Novanta del secolo scorso con l’arrivo, dalle zone rurali e dalle steppe, di famiglie che per diversi motivi – spesso la perdita del bestiame – avevano dovuto spostarsi in città. Le gher (iurta in russo, gher in mongolo) sono le tende tradizionali, smontabili e trasportabili, nate per ospitare le famiglie di allevatori in movimento con il bestiame. A queste, si affiancano anche casette a un piano, molto essenziali. «Mentre l’elettricità arriva quasi dappertutto», continua padre Ernesto, «altri servizi come l’acqua corrente e il gas non sono disponibili nei quartieri più poveri, e le persone per scaldarsi devono bruciare carbone».

Ulaanbaatar ha raddoppiato la propria popolazione negli ultimi vent’anni e, secondo diverse proiezioni, nel 2035 raggiungerà i due milioni di abitanti.

Secondo i dati più recenti dell’ufficio nazionale di statistica (2022)@, il tasso di povertà nel paese è del 27%, supera il 35% nelle zone rurali mentre scende al 23% nelle città. Nella capitale, i poveri sono il 21,6%, una persona su cinque. Nel 2023 il tasso di inflazione è stato dell’8%, in calo rispetto al 13% dell’anno precedente, ma ancora sufficiente per erodere di molto il potere d’acquisto delle famiglie.

La mancanza di un’adeguata nutrizione e di accesso a servizi sanitari di base, l’alcolismo, i problemi di salute mentale e la violenza domestica accompagnano e, a loro volta, aggravano le condizioni di povertà.

House of Mercy, casa di tutti

È alle persone che si trovano in queste situazioni che si rivolge la House of Mercy (Casa della misericordia), un centro dove persone con diversi tipi di problemi possono trovare un rifugio: un «punto di riferimento per una molteplicità di interventi caritativi, mani tese verso i fratelli e le sorelle che faticano a navigare tra i problemi della vita», l’ha definito papa Francesco che l’ha inaugurata lo scorso 4 settembre al termine del suo viaggio apostolico in Mongolia, Paese nel quale i cristiani sono circa 1.500.

«Il discorso del papa il giorno dell’inaugurazione e benedizione della House of Mercy@ è la nostra magna carta, sintetizzando i valori fondamentali e lo stile che ispirano il lavoro del centro», spiega il cardinale Giorgio Marengo, prefetto apostolico di Ulaanbaatar, che ripercorre anche le tappe dell’ideazione del progetto.

L’immobile che lo ospita era stato per anni una scuola materna ed elementare gestita dalle suore di San Paolo di Chartres, che nel 2019 decisero di venderlo per concentrarsi sul lavoro in un nuovo edificio scolastico nel quartiere di Bayankhooshoo. Monsignor Marengo, missionario della Consolata all’epoca appena nominato vescovo, si consultò con il nunzio apostolico Alfred Xuereb e con tutte le istanze della Chiesa locale, e prese la decisione di comprare la struttura. Gli istituti e congregazioni avevano già delle loro attività nei settori della carità e dell’assistenza, per questo, continua il cardinale, «ci rendemmo conto che serviva un luogo che fosse espressione della Chiesa locale in sé, non di un ente specifico, e che aiutasse le parrocchie a concentrare in un luogo le iniziative di carità, così da “alleggerire” il loro servizio e dare anche un’immagine più corretta di quello che sono, cioè non primariamente degli spazi di erogazione di servizi ma soprattutto dei luoghi di avvicinamento alla fede».

Per avviare la ristrutturazione occorreva individuare almeno alcune delle attività da svolgere nell’edificio. «Dall’analisi della realtà», ricorda monsignor Marengo, «capimmo che dovevamo rivolgerci alle persone senza fissa dimora, spesso affette da dipendenze come l’alcolismo, che d’inverno rischiano di morire congelate se rimangono all’esterno; oppure alle madri sole con figli a carico e spesso anche vittime di violenza domestica, che hanno bisogno di un riparo; o, ancora, alle famiglie che arrivano in città dalla campagna e hanno bisogno di una sistemazione temporanea». Altri utilizzi del centro, che da fine maggio ha iniziato a offrire il servizio mensa, si definiranno con il tempo, una volta che sarà pienamente attivo, «in base alle priorità di carità che scopriremo lavorandoci».

Cibo, sanità, riparo, ascolto

Il centro si trova nel distretto di Bayangol, che ha un tasso di povertà del 15%, quindi più basso della media cittadina, ma è attraversato da forti disparità nel tenore di vita, che si manifesta nel mescolarsi di comunità urbane e rurali e nel giustapporsi di complessi residenziali di lusso, gher tradizionali, condomini dai costi abbordabili e case unifamiliari.

Al piano terra, il centro ha un ambulatorio di primo soccorso che raccoglie l’esperienza della Saint Mary’s Clinic, una piccola struttura sanitaria attiva per oltre un decennio vicino alla cattedrale. «Oggi», continua monsignor Marengo, «con l’apertura di un centro sanitario pubblico a poca distanza dalla cattedrale, ha più senso per noi trasferire le attività della clinica all’interno della House of Mercy e offrire lì un servizio di primo soccorso, per indirizzare poi i pazienti bisognosi di cure più complesse agli ospedali della città, sempre in coordinamento con le autorità pubbliche».

Oltre all’ambulatorio, il piano terra ospita la mensa, la cucina e dei locali di ricovero temporaneo, soprattutto per l’inverno, mentre al primo piano si trovano le camere di accoglienza per le donne che fuggono dalla violenza domestica o da altri pericoli e, al secondo piano, le camere per il personale, i volontari e gli ospiti a breve termine, oltre a una sala di formazione e una cappella.

«Non possiamo ancora indicare con precisione un numero di beneficiari», spiega fratel Andrew Tran Le Phuong, religioso salesiano e coordinatore del centro. «Inizieremo con un numero di persone che sia gestibile per noi in questo momento, in base alle nostre risorse umane, finanziarie e all’esperienza da acquisire. La Casa della Misericordia non è solo un centro di servizi ai bisognosi, è un luogo in cui aiutiamo i poveri a riconnettersi con la famiglia e la società».

La responsabile locale delle attività sarà Otgongerel Naidansuren Lucia, Oghi, come la chiamano tutti, una donna mongola la cui disabilità – usa protesi per camminare poiché è priva degli arti inferiori dal ginocchio in giù e delle mani – non le ha impedito di guidare, usare il computer e il cellulare e diventare una risorsa fondamentale per la Chiesa locale, con la quale lavora da 18 anni, prima in una parrocchia e, ora, al centro.

In linea con le indicazioni del Papa, la House of Mercy cercherà di avvalersi il più possibile del lavoro dei volontari laici. L’idea del volontariato, continua fratel Andrew, ha un importante elemento educativo, anche per cambiare la visione distorta secondo cui i missionari hanno molte risorse e sono qui per fornire servizi. Questo è un modo per educare le persone all’idea che non tutto è riducibile a un rapporto economico.

La collaborazione per mandare avanti il centro, riprende il cardinale Marengo, è aperta davvero a tutti: «Ai missionari e religiosi cattolici che vorranno venire a dare il loro tempo per servire i pasti, per ascoltare le persone, per fare attività con le madri e i bambini, ma anche ai nostri amici protestanti e buddisti e ai volontari internazionali. Perché questo servizio per la Chiesa non è semplicemente assistere: è manifestare la propria identità».

Chiara Giovetti


ATTIVITÀ AIUTATE DA MCO

Oltre alla House of Mercy, sostieniamo anche alcune altre attività dei missionari e missionarie della Consolata.
Il progetto Amico Saint Paul Mongolia@ ha contribuito a creare a Zuunmod, circa quaranta chilometri a sud di Ulaanbaatar, un Children and youth centre, cioè un centro per l’infanzia e la gioventù con attività di doposcuola, creando un parco giochi e sistemando gli spazi e i materiali didattici del laboratorio di lingua e musica.

Il Centro «Il sole che sorge» a Chingeltei, nella periferia Nord di Ulaanbaatar, accompagna circa una trentina di bambini nella crescita personale e nello studio, con un aiuto per fare i compiti ma anche spazi di socializzazione e apprendimento attraverso giochi, sport, attività creative come il canto, la danza e il disegno e un mini Centro ricreativo estivo portato avanti con l’aiuto di volontari locali@.

Ad Arvaiheer, città di circa 30mila persone a 437 chilometri a Sud Ovest di Ulaanbaatar, i missionari hanno diverse attività fra cui il Day care centre che ha sede in una gher attrezzata presso la missione e offre attività educativa e pasti a una trentina di bambini dai 2 ai 5 anni; un programma di doposcuola e di attività ricreative per bambini e ragazzi; un progetto di formazione in attività sartoriali per circa trenta donne della zona e altre attività che sono descritte nei dettagli sul sito dei missionari della Consolata in Mongolia@.

Chi.Gio.

 




L’economia di Gandhi


Il Mahatma propone una «vita vivibile», in cui si persegue la pace. L’economia deve essere al servizio della persona e non il contrario. Ciascuno può fare la sua parte. Ad esempio scegliendo la «povertà volontaria».

L’azione nonviolenta richiede un intervento in prima persona di ognuno.

Su questo assunto si basa il libro di Erica Cupelli.

La visione di Gandhi è illuminante ancora oggi, così come lo era, ad esempio, nell’81, quando l’economista Romesh Diwan ebbe a dire, a riguardo della crisi economica di quegli anni: «Questa crisi è stata portata in superficie a causa dell’incapacità della teoria economica di spiegare gli attuali fenomeni di stagflazione (recessione e inflazione concomitanti, ndc), produttività e altro. La questione riguarda concetti alquanto fondamentali: razionalità, massimizzazione, minimizzazione, ottimizzazione, equilibrio. Senza questi fondamenti, l’intero edificio logico dell’economia neoclassica cade».

Economia gandhiana

Il cuore dell’economia di Gandhi è già stato trattato – ma non in italiano – dall’economista Das Amritananda, secondo il quale il Mahatma suggerisce di badare all’impatto dello sviluppo tecnologico sul lavoro e sulle persone: «Aumenterà la povertà? Lo stile di vita delle persone migliorerà? Quali saranno le conseguenze per l’ambiente? Solo attraverso la realizzazione del pieno impiego i poveri diverranno membri della forza lavoro tale da permettere loro di provvedere autonomamente alla loro sussistenza con dignità».

«Lavorare meno, lavorare tutti!», è uno slogan che ricordo di aver urlato per le strade di Milano, alle manifestazioni degli anni 70 e 80. Può darsi che sia stato gettato allora quel seme che mi ha portato poi a decidere di lavorare meno, guadagnare meno, avere meno per poter scegliere di non fare un lavoro che non voglio, o che non è etico, o che sfrutta qualcuno, o che uccide (compresi gli animali), ecc.

Su questa scia ho trovato nel libro di Erica Cupelli pagine di proposte operative su come organizzare il lavoro, altro che «sogni utopici».

Trascrivo alcuni passaggi: «Gandhi propone una “vita vivibile”, in cui si persegue la pace. Per questo motivo si dovrà lavorare quanto basta per comprare il pane quotidiano, così che il resto del tempo possa essere dedicato a ciò che ha vero valore, non la ricchezza materiale, ma ciò che nobilita l’anima. Allora ci si potrà prendere cura dei propri figli, assistere le persone anziane, fare volontariato, coltivare le proprie passioni, mentre, al tempo stesso, molte più persone potranno lavorare. Il miglior lavoratore sarà dunque colui che si sente a suo agio nella semplicità, l’unica via che può portare alla felicità, fatta di affetti, emozioni, vita. Con la speranza di aver illustrato in modo adeguato i fondamenti etici dell’economia gandhiana, la sfida […] sarà quella di tradurli in concetti praticabili, pur essendo consapevoli del fatto che ciò diventerà possibile solo con una profonda e sincera trasformazione del cuore».

Otto punti, un regolamento

Ditemi se non siete d’accordo con le indicazioni qui sotto, dal paragrafo Attenzione al lavoratore: «1. le ore di lavoro non superino le 6 giornaliere e le 32 ore settimanali; 2. l’orario sarà flessibile per venire incontro alle esigenze personali di ognuno; 3. l’ambiente sia quanto più possibile naturale e pieno di luce; 4. non vi siano turni notturni, eccetto per quei lavori che, per il benessere della società, richiedono tale servizio (esempio: medici, infermieri, pompieri, poliziotti); 5. nel caso di turno notturno, una persona deve essere remunerata maggiormente rispetto a un turno normale; 6. il turno di notte deve essere svolto a rotazione e non più di una volta alla settimana per ogni lavoratore; 7. venga promossa la cultura tramite l’inserimento di biblioteche negli ambienti di lavoro; 8. siano inseriti dei corsi di aggiornamento periodici […]».

Sette punti, un programma

Gli aspetti fondamentali dell’economia gandhiana possono riassumersi in sette punti: 1. proprietà nonviolenta e comunitaria gestita tramite l’amministrazione fiduciaria, cioè la delega ad alcuni esperti interni alla comunità; 2. produzione nonviolenta e uso di tecnologie appropriate; 3. consumo consapevole e limitazione volontaria del possesso dei beni superflui; 4. lavoro nonviolento e lavoro per il pane; 5. cooperazione; 6. distribuzione nonviolenta delle risorse e uguaglianza; 7. socialismo comunitario e nonviolento.

Undici consigli, una realtà

A riprova del fatto che la proposta di questo libro per un’economia diversa non è un sogno utopico, ci sono le testimonianze della vita nei villaggi indiani ai tempi di Gandhi, Vinoba Bhave e altri: «Gli ashram divennero di fatto dei luoghi di sperimentazione diretta in cui il non possesso, l’uguaglianza, il non sfruttamento, l’amministrazione fiduciaria e la scelta di una vita semplice come espressione della povertà volontaria, caratterizzavano ogni membro».

La visione di Gandhi, sperimentata nei villaggi e negli ashram indiani, si basa su questi consigli, applicabili in ogni comunità: 1. allenamento spirituale per autodisciplinarsi; 2. decentramento; 3. valorizzazione dei punti di forza della comunità; 4. scelta e utilizzo di tecnologie che siano a servizio dell’uomo; 5. incoraggiamento al lavoro manuale; 6. cura e attenzione alla natura; 7. servizio alla comunità; 8. liberazione da ciò che vincola e rende schiavi; 9. tutela dell’eguaglianza (economica e socio politica); 10. condivisione di ciò che si ha; 11. scelta di una vita semplice.

La scelta di una vita semplice è l’espressione della «povertà volontaria», formula che mi piace di più di «semplicità volontaria», anche se può spaventare.

Riassuntino colorato

Se tutte le parole lette finora sono state troppe, le trovate riassunte nella copertina del libro, i cui colori riassumono il modello gandhiano in modo immediato: il verde (valori, cultura, società) contiene e fonda il blu (economia), e non viceversa, come scrive l’autrice Erica Cupelli: «Lo schema visualizza il modello gandhiano, che guarda il mondo secondo i valori etici che […] fondano una economia al servizio dell’uomo e non viceversa».

Cinzia Picchioni


Piccola bibliografia

  • Mohandas Karamchand Gandhi, Una grande Anima. Pensieri spirituali per la vita concreta, a cura di N. Salio e C. Toscana, Red edizioni, Como 1998, pp. 128, 7,23 €.
  • Nanni Salio (a cura di),
    Gandhi. Economia gandhiana e
    sviluppo sostenibile
    , Seb27, Torino 2000, pp. 84, 12,50 €.
  • John Ruskin, Cominciando dagli ultimi, San Paolo, Milano 2014, pp. 128, 12 €.
  • Michael J. Sandel, Quello che
    i soldi non possono comprare.
    I limiti morali del mercato
    , Feltrinelli, Milano 2015, pp. 233, 11 €.
  • Roberto Mancini, L’amore politico. Sulla via della nonviolenza con Gandhi, Capitini e Lévinas, Cittadella, Assisi 2005, pp. 296, 15,90 €.
  • Ernst Friedrich Schumacher,
    Piccolo è bello. Uno studio di economia come se la gente contasse qualcosa, Mursia, Milano 2011, pp. 310, 18 €.



Colombia. Al cuore dei poveri


In America Latina dal 1971, padre Ezio Roattino ha speso la sua vita tra i poveri e gli indigeni. In particolare in Colombia ha vissuto a fianco del popolo Nasa, imparandone la lingua, la cultura e la storia, inculturando il Vangelo.

Padre Ezio Roattino era un uomo di parte: le sue scelte, che viveva con perseveranza e responsabilità, gli hanno procurato non pochi conflitti che cercava sempre di risolvere appellandosi alla carità e alla misericordia, ma senza mai fare un passo indietro.

Alcuni indigeni che non sapevano pronunciare bene il suo nome a causa della zeta, invece di Ezio, dicevano «ecio», o direttamente «necio», che significa, fra le altre cose, testardo.

Forse, proprio per la chiarezza e consistenza delle sue convinzioni, un po’ necio in effetti lo era, ma sempre «ad maiorem Dei gloriam», come avrebbe detto Giuseppe Allamano – il fondatore della famiglia missionaria alla quale lui apparteneva -, o per il «servizio del Regno», che è lo stesso in termini più evangelici e un po’ più latinoamericani.

Perché di una cosa possiamo essere certi, l’America Latina e, in particolare, quella indigena, si era impossessata di lui, che l’ha amata fino all’ultimo dei suoi giorni, il 4 aprile 2024, quando aveva 87 anni e viveva in Italia da due anni, dove era dovuto tornare per accompagnare l’ultimo viaggio di sua sorella.

In una Chiesa missionaria

Clebrazione del “funerale” di padre Antonio Bonanomi a Toribio

Quando aveva già superato i trent’anni e cominciava a essere forse un po’ stagionato per le piazze rivoluzionarie del ’68 – era prete da quattro anni ai tempi del maggio francese -, padre Ezio ha vissuto in prima persona proprio a Roma le novità e le speranze dei primi anni subito dopo il Concilio Vaticano II, e anche l’impegno che i Missionari della Consolata hanno profuso nel capitolo straordinario del 1969 per «aggiornare» l’istituto secondo i criteri del Concilio e del suo documento Ad Gentes che metteva in prima linea lo sforzo missionario della Chiesa.

Poveri e indigeni, primo e unico amore

In America latina, dove è arrivato per la prima volta nel 1971, all’età di 35 anni, Ezio ha imparato a vivere la sua «opción por los pobres» (opzione per i poveri) e l’ha fatto in un luogo particolarmente iconico in questo senso, la favela «Morro dos telegrafos» (familiarmente «Telegrafo») a Rio de Janeiro, a pochi passi dal grande stadio del Maracaná, in un contesto di povertà, violenza e ingiustizia. Lì è andato ad abitare, soffrendo non poche penalità, ricorda il suo confratello padre Claudio Fattor, ma fedele alle sue scelte di vita.

Da allora, quello che è stato il suo primo e forse unico amore, l’America povera e, un po’ più tardi, anche quella indigena, non l’ha abbandonato mai, nonostante lui, obbedendo agli ordini dei superiori, qualche volta abbia dovuto allontanarsi da essa per brevi periodi.

Guadalupe di secondo nome

Perché padre Ezio aveva come secondo nome Guadalupe? Nel suo certificato di battesimo c’era scritto Maria, solo che Maria, in America Latina, soprattutto per il mondo indigeno, si dice Guadalupe, in riferimento alla Vergine del famoso santuario di Città del Messico.

Lui ai piedi della guadalupana ha pregato e ci è stato in diverse occasioni. La prodigiosa immagine, secondo la tradizione, si era impressa nel 1531 sulla «tilma», il mantello, di Juan Diego Cuauhtlatoatzin, indigeno convertito al cattolicesimo, mentre stava sul Monte Tepeyac. Padre Ezio l’aveva studiata nei dettagli: le fattezze indie della Madonna, il suo vestito da nobildonna, la sua gravidanza intrisa di Vangelo, l’insuperabile saggio di inculturazione del Nican Mopohua, la narrazione degli eventi del Tepeyac in lingua náhuatl, facevano parte della sua quotidianità.

Dal Brasile alla Colombia

La povertà e le sfide sociali del Telegrafo per padre Ezio non sono state altro che il punto di partenza di un viaggio che, in diversi modi, l’ha portato lontano.

Forse ci sarebbero state buone ragioni per spendere la sua vita per la gente di quella favela di Rio de Janeiro: ancora oggi, infatti, essa continua a essere una zona franca, dominata dal narcotraffico e dalla piccola criminalità, dove la polizia entra solo se in forze e bene armata.

Eppure, padre Ezio ha ripreso il suo cammino missionario ed è sbarcato nella Colombia di fine anni Settanta, di nuovo in mezzo ai poveri, ma questa volta in una zona rurale, non più in una grande città come era Rio, prima fra i campesinos, i contadini, e poi fra gli indigeni.

La sua storia, il suo impegno, forse alcune circostanze un po’ misteriose o perfino provvidenziali, gli hanno aperto gli occhi sugli ultimi degli ultimi, i più poveri di tutti: i popoli autoctoni, quelli che, in cinque secoli, hanno pagato uno dei prezzi più alti della colonizzazione europea che ha fatto pochi ricchi e tante vittime.

Da padroni del continente, i popoli nativi delle Americhe in poche generazioni sono diventati gli ultimi, e ancora oggi stanno al margine della vita, della cultura e della storia dei loro paesi. Proprio loro che sono portatori di una vita, una cultura e una storia millenaria, la più antica del «continente nuovo».

Padre Alvaro Ulcué Chocué e la causa degli indigeni

Padre Ezio si è buttato a capofitto in questa sfida così squisitamente missionaria, e nel suo nome da allora è apparsa la parola «pal» che, nella lingua nasa yuwe, quella parlata dagli indigeni presso i quali sarebbe andato, significa «padre».

L’ha presa in prestito dal padre Álvaro Ulcué Chocué, il primo sacerdote indigeno colombiano che si firmava «Nasa pal», «padre Nasa», il nome della sua etnia nella lingua della comunità nella quale era nato, alla quale apparteneva e per la quale si era fatto ordinare sacerdote.

Padre Álvaro era originario del Nord del Cauca, la regione con la popolazione indigena più grande del Paese. Qui, per la prima volta in America Latina, gli indigeni avevano cominciato a organizzarsi politicamente, anche grazie al lavoro dello stesso padre Álvaro che aveva fondato, assieme alle suore di madre Laura, il «progetto Nasa».

Padre Álvaro ha finito per pagare con la vita il suo impegno: è stato assassinato il 10 novembre 1984. Padre Ezio Roattino era stato uno degli ultimi che lo avevano visto vivo.

Nei primi giorni di novembre lo aveva accompagnato nelle due parrocchie di Toribío e Tacueyó, dove padre Álvaro era parroco, per aiutarlo nelle celebrazioni dei defunti, importanti per la cultura indigena. Poi, la sera prima dell’omicidio, Álvaro aveva accompagnato padre Ezio in macchina fino al bus che l’avrebbe riportato a Bogotá. Quando Ezio è arrivato nella capitale, la notizia della morte dell’amico l’aveva preceduto: era stato freddato al mattino da vari colpi di pistola sulla porta di un convento di suore che lui era solito frequentare, sulla via panamericana che da Santander del Quilichao va verso Popayán.

Tomba di p Alvaro Ulcue.

Padre Ezio, quasi senza dire parola, ha ripreso il bus, ha fatto a ritroso le quasi dieci ore di viaggio ed è tornato nel Cauca.

Da quel momento la sua vita e, in parte, anche quella dei Missionari della Consolata in Colombia, hanno preso una piega nuova.

Padre Rinaldo Cogliati, allora al seminario teologico di Bogotá, ricorda quell’episodio in questi termini: «Padre Ezio aveva finito il suo mandato come superiore regionale un paio di mesi prima e, saputo dell’assassinio del padre Álvaro, aveva telefonato al seminario teologico e ci aveva chiesto di essere noi coloro che raccoglievano la sua bandiera. Fu così che aprimmo immediatamente a Toribío, anche se poi la parte burocratica ci ha visto presenti ufficialmente solo a partire dal 2 febbraio 1985, poco meno di tre mesi dopo la morte di padre Álvaro».

Imparando la lingua nasa

Appena ha potuto, anche padre Ezio si è aggiunto al progetto di evangelizzazione che aveva al centro l’annuncio della Buona notizia del Vangelo alle comunità autoctone che di notizie buone avevano drammaticamente bisogno dopo secoli di abbandono e schiavitù.

Padre Rinaldo ricorda questo periodo, che probabilmente è stato la tappa più fruttuosa e prolungata dell’impegno missionario di padre Ezio: «Io ho vissuto in missione con l’équipe nella zona di Toribío, Tacueyó, Jambaló e Caldono con padre Ezio dall’anno 1989 fino al 2007. Sono stati anni di molto dialogo, di tante difficoltà e anche di frequenti “liti” liturgiche. Uno dei nostri temi fondamentali era l’inculturazione del Vangelo, e siccome padre Ezio si era impegnato a studiare la lingua nasa, che alla fine aveva imparato benissimo, era lui che si era preso la briga di sedersi con pazienza assieme agli anziani, i veri capi spirituali degli indigeni, per capire il loro modo di vedere, e trovare insieme vie che fossero comprensibili e trasparenti per dire e annunciare in quel mondo indigeno che ci aveva accolti con tanta simpatia e generosità».

Anch’io, che a Toribío ho trascorso qualche anno, ricordo con simpatia, ad esempio, la seduta di mezz’ora con il più indigeno dei nostri catechisti, di nome Serafín, per stabilire come si dovesse tradurre in nasa yuwe il titolo del manuale dei catechisti che era «Camminiamo assieme». Mezz’ora per tradurre due parole.

Con il senno di poi, oggi so che non si trattava di due semplici parole, ma di una immersione profonda nel significato di «cammino» e di «assieme» che nella cosmovisione comunitaria degli indigeni avevano una valenza tutta particolare.

Poi c’è stato anche spazio per un «cafesito» («caffettino») e un «pancito» («panino»): i segni della giusta accoglienza nella casa dell’équipe che era e voleva essere anche la casa degli indigeni, come lo era dai tempi di padre Álvaro. Gli ultimi anni a Toribío, padre Ezio li ha dedicati alla traduzione del Vangelo nella lingua nasa yuwe, benché credo non sia andato molto più in là di quello di Marco.

La sua è stata, quindi, una vita dedicata a costruire spazi, pensiero, progetti, sogni, attività nelle quali la comunità Nasa si sentisse a casa e parte degna di quella comunità ancora più grande che chiamiamo Chiesa.

Asse delle ruote di un pullmino caduto sulal missione dopo l’attentato alla caserma delle polizia di Toribio. Ora è diventato un “monumento” contro la violenza nel cortile della missione

La violenza della guerra

Mentre padre Ezio, i missionari, i catechisti, le autorità indigene costruivano, e lo facevano con pazienza e amore, tutt’attorno c’era chi distruggeva. Il Nord del Cauca era, e in parte continua a essere, uno degli spazi più significativi di frizione e scontro fra Stato e ribelli nell’interminabile guerra civile colombiana farcita di narcotraffico. E anche con i violenti e con la guerra padre Ezio ha avuto molto a che fare.

Padre Rinaldo lo ricorda in questo modo: «Nel 2005, una mattina siamo in chiesa con gli animatori delle comunità, e comincia una sparatoria. Noi, pensando che sia una delle solite scaramucce armate, continuiamo la nostra preghiera. Alla fine entra un guerrigliero in chiesa, armato fino ai denti, e dice che abbiamo cinque minuti per scappare. Noi corriamo subito via e, appena usciti, un ordigno rudimentale cade nei pressi della casa parrocchiale e frantuma tutti i vetri. Il padre Ezio sale in macchina e comincia a evacuare le persone. Fuori dal finestrino la stola bianca indica il fine umanitario di tutto quell’andirivieni».

Oggi il cortile della casa parrocchiale è un museo, in buona parte voluto dal padre Ezio, che racconta e ricorda i fatti violenti che si sono scatenati attorno a esso. Nel corridoio laterale si trova l’asse di un pulmino carico di esplosivo che la guerriglia aveva scaraventato contro la caserma della polizia. L’esplosione era stata così violenta che il veicolo si era disintegrato facendo volare in aria quel notevole pezzo di metallo che era arrivato fino al cortile della parrocchia distruggendo una blocco di bagni. Per fortuna, in quel momento, non c’era nessuno. Attorno a questo «monumento» ci sono, scritti su sassi, i nomi di coloro che hanno perso la vita in quell’attacco.

Verso la «Tierra sin males»

La memoria per padre Ezio era importante. Non che lui avesse particolari doti artistiche, ma nella chiesa di Toribío si conserva una cappella laterale – che, in modo giocoso, noi avevamo chiamato «Roattina», per l’assonanza con la cappella Sistina – nella quale è dipinta la storia del popolo Nasa, con i personaggi centrali della sua emancipazione, padre Álvaro fra di loro. Egli mostra la mano, che è la prima rappresentazione del progetto Nasa, con le cinque dita a indicare i cinque progetti originali. Il primo è l’evangelizzazione indicata dal pollice, poi l’educazione, la salute, la famiglia/casa e lo sviluppo con progetti produttivi. Le altre immagini rappresentano la conquista, i grandi vescovi difensori degli indios, e la violenza che continua fino a oggi. Al centro, con il tabernacolo, «La tierra sin males», la terra senza mali.

Non l’ha dipinta padre Ezio, ma lui l’ha ideata, l’ha progettata fin nei minimi dettagli, poi si è procurato un giovane particolarmente dotato, e questi ha realizzato l’opera.

Un bellissimo murale sopravvissuto a più di un bombardamento.

Potremmo forse dire che è l’immagine plastica, la sintesi del sogno cristiano e umano di padre Ezio, anche lui oggi nella «tierra sin males», uno specchio del suo amore e della sua attenzione alla storia e alle storie di queste comunità etniche, ai loro «primi testamenti», come amava dire. Anche in questi Dio si è manifestato come aveva fatto nel primo testamento della storia del popolo ebraico.

Dall’alto di questa terra fiorita, lussureggiante e bella, «sin males» appunto, ancora oggi lui ci benedice e ci invita a camminare.

Gianantonio Sozzi

Dipinto nella cappella del Santissimo della chiesa di Toribio, detta familiarmente “la Roattina”

Dipinto nella cappella del Santissimo della chiesa di Toribio, detta familiarmente “la Roattina”

Dipinto nella cappella del Santissimo della chiesa di Toribio, detta familiarmente “la Roattina”


Gli indigeni nasa: «Ti ricorderemo sempre»

San Lorenzo de Caldono, 4 aprile 2024

Clebrazione del “funerale” di padre Antonio Bonanomi a Toribio

La comunità Nasa del territorio UsWal Nasa Cxhab, si rammarica profondamente per la scomparsa del nostro fratello e missionario Ezio Guadalupe Roattino, che ha prestato servizio nella parrocchia di San Lorenzo de Caldono e ha lasciato in noi un segno indimenticabile.

È stato un sacerdote integerrimo che ha dimostrato il suo amore incondizionato per i più umili, difensore dei diritti delle persone più bisognose.

Durante la sua permanenza come missionario nel comune di Caldono Cauca, ha viaggiato in ogni angolo dei territori indigeni, ha imparato a parlare la lingua nasa yuwe e ha celebrato cerimonie religiose in lingua nasa. Si è sempre contraddistinto per la sua umiltà e il suo servizio agli altri.

Ora si è riunito al fratello Álvaro Ulcué Chocué Nasa Pal, con il quale aveva una bella amicizia e con il quale ha condiviso la vita sacerdotale nelle parrocchie del Cauca.

Dalla Riserva indigena di San Lorenzo de Caldono, Dipartimento di Cauca, Colombia, inviamo le nostre condoglianze alla sua famiglia in Italia e a tutta la comunità dei Missionari della Consolata.

Che possa tornare nel seno della Madre Terra. Invochiamo pace sulla sua tomba.
Ti ricorderemo sempre, Pal Ezio Guadalupe Roattino.

Comunità Nasa del territorio UsWal Nasa Cxhab
Territorio ancestrale del popolo Nasa «sa’tama kiwe» resguardo indigeno San Lorenzo de Caldono


Toribío, Cauca, 5 aprile 2024

Cari familiari e amici di padre Ezio Roattino.
È con grande dolore e profonda commozione che vi scriviamo per condividere i nostri sentimenti per la morte di padre Ezio, pilastro fondamentale della nostra comunità toribiana e fonte d’ispirazione per tutti noi.

Padre Ezio era un esempio vivente di amore, compassione e dedizione alla nostra comunità.

La sua instancabile dedizione al servizio degli altri e il suo profondo impegno nei confronti dei principi della nostra fede hanno lasciato un segno indelebile nei nostri cuori e nelle nostre vite.

In questo momento di dolore e tristezza, ci riuniamo come comunità per sostenerci reciprocamente. Ricordiamo con affetto i momenti condivisi con padre Ezio e celebriamo la sua vita esemplare, la sua saggezza e il suo amore infinito per tutti noi, la famiglia che lo ha accolto tre decenni fa e, come disse padre Ezio: «Questo anello sulla mia mano sinistra dimostra che mi sono sposato. Mi sono sposato con una causa e quella causa sono gli indigeni colombiani».

Toribío sarà sempre un popolo grato per la benedizione di avere avuto un fratello maggiore missionario indigeno.

Grato perché padre Ezio ha accompagnato padre Álvaro Ulcué Chocué – fino a quel 10 novembre 1984 in cui lo salutò – nei territori più colpiti dal conflitto nel nostro dipartimento, percorrendoli insieme, a piedi e con la torcia in mano.

Grato perché padre Ezio ha imparato e padroneggiato la nostra lingua, il nasa yuwe, perché ha legato con i nostri anziani, in questa terra che, pur non avendolo visto nascere, lo ha adottato come se fosse stato un figlio del suo grembo.

Grato perché padre Ezio ha innalzato le vostre preghiere nella nostra lingua madre.

Inviamo le nostre più sentite condoglianze alla famiglia e ai cari di padre Ezio, e offriamo le nostre preghiere e i nostri pensieri in questo momento difficile: possiate trovare conforto nei ricordi condivisi e nell’eredità duratura di padre Ezio.

Che Dio e gli spiriti di madre natura ci concedano forza e pace in questo periodo di lutto, e che lo spirito di padre Ezio continui a ispirarci e a guidarci nel nostro cammino spirituale e nella tregua della guerra.

Con profondo amore, gratitudine e solidarietà.

Associazione dei consigli indigeni di Toribío, Tacueyó e San Francisco.

 

La cappella del Santissimo nella chiesa di Toribio

 


Archivio MC




Torino. Missione Barriera


Periferia nord di Torino. Il quartiere più povero e multietnico della città dalla quale partirono i primi missionari della Consolata per il Kenya. Qui, un missionario keniano, da dieci anni, vive l’ad gentes tra italiani, stranieri, poveri, tossicodipendenti, migranti appena arrivati. L’annuncio attraverso la difesa dei diritti di chi non ha voce, l’accoglienza e la vicinanza.

I Missionari della Consolata sono arrivati nella parrocchia di Maria Speranza Nostra, zona Nord di Torino, nel 2013. Il parroco, padre Godfrey Msumange, classe 1973, era tanzaniano; il vice, padre Nicholas Muthoka, dell’81, keniano.

La stampa locale, ai tempi, aveva parlato del «parroco nero» con un certo stupore. Ad accoglierli, una donna italiana che lanciava insulti dal balcone.

Nello storico quartiere torinese di Barriera di Milano, il più multietnico della città, non tutti, forse, erano ancora pronti a vedere la chiesa locale guidata da sacerdoti africani.

Stile accogliente

Dal 2017 il parroco è padre Nicholas. Lo incontriamo in una fredda mattina d’inverno dopo dieci anni da quell’inizio per farci raccontare una delle frontiere della missione ad gentes dell’Imc in Europa.

Arriviamo in via Ceresole 44 alle 11. Le strutture della parrocchia prendono un intero isolato.

Suoniamo il citofono: viene ad aprire un giovane vietnamita che non dice una parola di italiano. È uno dei cinque migranti accolti in parrocchia.

Ci conduce dal parroco nel suo spartano ufficio ricavato in una stanzetta al fondo della chiesa.

Tra i banchi, nella navata, alcune persone fanno le pulizie: una donna nigeriana con suo figlio, un uomo brasiliano-peruviano, due donne italiane, una pugliese, l’altra piemontese.

Il missionario ci aspetta seduto su una poltrona in tessuto marrone. Maglioncino e camicia grigi, collarino bianco «d’ordinanza» in evidenza. Occhi brillanti, sorriso ironico, voce squillante. È in compagnia di padre Elmer Pelaez Epitacio, l’attuale viceparroco, messicano del 1982.

Il quartiere più straniero

La parrocchia, fondata nel 1929, si trova nel cuore di un quartiere popolare da sempre meta di migranti: prima dalle campagne piemontesi, poi dal Sud Italia, oggi da tutto il mondo.

La popolazione di «Barriera» è la più povera della città, con un reddito medio di 17mila euro, contro i 35mila del centro e i 47mila della collina, ma è anche la più giovane e, forse, vivace. Se nel capoluogo piemontese gli stranieri, provenienti per quasi la metà dall’Europa e per l’altra metà da Africa, Asia e America Latina, sono il 15,6% della popolazione (134mila su 858mila), in Barriera di Milano sono uno su tre (18mila su 50mila, il 36%), senza contare quelli che negli anni hanno acquisito la cittadinanza italiana.

Barriera è anche il quartiere nel quale viene sentita maggiore insicurezza da parte dei residenti, tanto da indurre le forze dell’ordine a fare frequenti retate che servono più a lavorare sulla percezione della popolazione che non sulla soluzione dei problemi. Proprio come denunciato più volte negli anni da padre Nicholas: le istituzioni parlano solo di degrado e mai delle persone che ne sono coinvolte, e affrontano lo spaccio, la violenza, i bivacchi di donne e uomini senza dimora, spostandoli da una zona all’altra del quartiere, senza offrire prospettive a chi volesse iniziare una vita più dignitosa.

Parrocchia colorata

Padre Nicholas ci fa accomodare. Accanto a lui, padre Elmer è seduto dietro la scrivania: volto ampio e allegro, capelli nerissimi, sciarpa beige sopra una maglia di pile grigia. Il missionario messicano è stato ordinato sacerdote nel 2021, ed è arrivato qui da un anno e mezzo, dopo un’esperienza tra gli indigeni Nasa della Colombia.

Racconta: «Sono felice di essere qua. Siamo in un territorio molto ricco. In questi dieci anni, la presenza missionaria ha dato un nuovo volto alla parrocchia». Poi elenca le attività: «Oltre alla pastorale ordinaria e al catecumenato, c’è l’oratorio aperto tutta la settimana, il gruppo caritativo che offre cibo ai poveri, il gruppo di mutuo aiuto per ex tossicodipendenti, il centro d’ascolto, due doposcuola. Poi abbiamo una prima accoglienza per stranieri: in uno spazio gestito dall’Ong Cisv ospitiamo una dozzina di donne; nella nostra canonica invece, in questo momento, stanno con noi cinque uomini».

Il missionario illustra anche l’ampia e variegata comunità Imc che vive in parrocchia: quattro sacerdoti (lui, p. Nicholas, p. Samuel Kabiru, keniano, e p. Frederick Odhiambo, keniano) e cinque seminaristi, provenienti da Etiopia, Tanzania, Kenya, Uganda e Costa d’Avorio, che studiano teologia e fanno pastorale in parrocchia. «Questo è un posto ricco di missione – chiosa -. Domenica scorsa, quattro donne africane e quattro adolescenti latinoamericani hanno chiesto ufficialmente il battesimo. Non è necessario andare in Africa o America o Asia. Oggi il mondo è qui».

Laicato e annuncio

Domandiamo da chi sono aiutati i missionari. «Ci sono suor Romana, una vincenziana, e Ivana, dell’Ordo virginum – risponde padre Nicholas -. Si occupano di catechesi, centro di ascolto, carità, anziani… praticamente di tutto. E poi ci sono i laici: il laicato qui è forte, non è solo manovalanza. Le cose le pensiamo e facciamo assieme».

Il missionario ha visto crescere, in questi dieci anni, il protagonismo dei laici e la loro attenzione ai «lontani», oltre che ai «vicini». «C’è stata anche una crescita nell’annuncio – aggiunge, dando una particolare forza a questa sottolineatura -. Una maggiore consapevolezza che non dobbiamo stare solo tra noi».

In oratorio le attività principali sono tre: l’oratorio feriale nel quale le persone, soprattutto ragazzi, vengono, giocano, stanno assieme. Questa è l’occasione per conoscerli. «Poi proponiamo il gruppo formativo – aggiunge padre Nicholas -. Infine, c’è il doposcuola due giorni alla settimana: sono quasi tutti magrebini, asiatici e africani. Poi c’è un gruppo di 35 bambini cinesi che fanno doposcuola la domenica, seguiti da una donna cinese. Per imparare la loro lingua e ripassare le materie di scuola. Da una parte, tutto questo è promozione umana, dall’altra è annuncio: all’estate ragazzi vengono tutti, sentono il Vangelo, cantano. La donna cinese, spesso, si ferma davanti alla madonna a pregare. Anche se non è cristiana».

La droga, il disagio

Nel quartiere, uno dei problemi più visibili è la droga: sia il consumo che lo spaccio.

Negli ultimi anni la stampa locale ha parlato spesso di un gruppo di tossicodipendenti che fino a poche settimane fa occupava il capannone abbandonato di un’azienda, la ex Gondrand.

Dopo l’ennesimo sgombero e l’inizio dell’abbattimento della struttura, ora i giovani si sono spostati. Sempre nei dintorni di Maria Speranza Nostra.

Padre Nicholas segue dal 2020 le persone coinvolte, e ha denunciato a più riprese l’indifferenza delle istituzioni nei loro confronti. «Per me sono prima di tutto dei giovani, non “tossici” o “migranti” o “barboni”. E sono nostri parrocchiani.

Hanno iniziato a venire da noi per il cibo – racconta -. Li abbiamo conosciuti e poi abbiamo iniziato ad andare a trovarli. C’è un gruppo più o meno fisso di venti, trenta persone. Ma il giro è più ampio: vengono da tutta la città e arrivano anche a cento. Formano una comunità. Stanno assieme, si picchiano, fanno di tutto, sono pieni di malattie.

Noi stiamo loro vicini con il cibo, le medicine, l’ascolto e con la difesa dei loro diritti presso chi dovrebbe occuparsene. Si spera che si muova qualcosa, ma sono anni che facciamo a pugni con l’aria».

Storie individuali

L’attenzione della parrocchia alle persone è segno della missione che si fa prossimità. Padre Nicholas ci racconta la storia di alcuni di loro: «Ad esempio, quella di un trentenne del Ghana: lavorava come meccanico, ma beveva molto, giocava alle macchinette, e poi chissà cos’altro faceva. Spendeva tutto in due giorni, ed era finito a vivere alla ex Gondrand. Io gli ho parlato molte volte, ma per due anni non c’è stato verso. Un giorno, cinque minuti prima della messa, arriva in lacrime: “Padre mi devi aiutare”. Io gli dico: “Proprio adesso? Cinque minuti prima della messa? Dopo due anni che ti sto dietro?” – ride padre Nicholas -. Mi sono fatto sostituire per la messa e l’ho ascoltato. Poi gli ho proposto: “Domani vieni con me al Sert, il servizio dell’Asl per le dipendenze. Una casa non te la trovo se prima non fai un percorso”. Allora lui ha iniziato a dirmi: “Sei cattivo, tu non mi vuoi aiutare…”, ma il giorno dopo è venuto con me. Dopo due mesi, era a posto.

Adesso è tranquillo, sereno, mi ha fatto pure un’offerta», conclude con un’altra risata.

Stupri e violenze

Un’altra storia riguarda una trentenne musulmana: «Una volta sono arrivato lì, alla Gondrand, proprio mentre la stupravano in tre – racconta padre Nicholas -. Meno male che mi conoscevano, e che, quando mi hanno visto, sono andati via. Per lei non era la prima volta, né l’ultima, ma non voleva denunciare per paura. Io le parlavo, ma lei non voleva andarsene. Quel gruppo è come una comunità. Si sentono legati tra loro, nel bene e nel male.

Un po’ di tempo dopo, è rimasta incinta. Non sapeva neanche chi fosse il padre. Allora si è convinta. Abbiamo contattato i servizi sociali ed è andata in una casa protetta. L’ho rivista poco tempo fa: era con il piccolo e abbiamo chiacchierato».

Nel gruppo non mancano le ragazze italiane: «Alla Gondrand, fino a un po’ di tempo fa, c’era un boss, originario dell’Africa occidentale. Era violento e controllava tutto, anche la droga che entrava e usciva. La sua ragazza di 25 anni era di Asti. Vivevano assieme al terzo piano della palazzina abbandonata. Un giorno sono stato chiamato con urgenza e, quando sono arrivato lì, ho trovato la ragazza con un ferro conficcato nella pancia. C’era sangue dappertutto. A mani nude ho tamponato la ferita e ho chiamato l’ambulanza. È stata salvata. Ma poi, quando è stata un po’ meglio, ha firmato l’uscita dall’ospedale ed è tornata lì con quell’uomo.

Io ho anche provato a chiamare la mamma, che però non ne voleva sapere. Poi se ne sono interessati i servizi sociali e alla fine è andata via. Dopo un po’ di tempo mi ha mandato un messaggio per farmi gli auguri di compleanno. In quel momento era a casa con la mamma. Qui non l’abbiamo più vista».

Spostare i problemi

Oggi alla ex Gondrand non c’è più nessuno. «La stanno buttando giù – dice padre Nicholas -. Ma è solo una questione di facciata. I giovani senza casa si sono semplicemente spostati».

Arrivano Franca e Mimma, due volontarie del gruppo caritativo, sulla sessantina. «Loro sono quelle a cui abbiamo sbolognato la faccenda della Gondrand», ride sornione il missionario.

«La maggior parte sono tossici, alcuni spacciatori – racconta Franca con voce calma e calda -. Ci sono anche donne italiane cui sono stati tolti i figli. Da poco siamo riusciti a sistemarne una che ha trovato un lavoretto ed è tornata a casa. Un’altra ha smesso di drogarsi da un mese. I ragazzi sono in gran parte di origine africana. Il problema di tutti loro è la droga. Vivono come randagi, un po’ qua e un po’ là.

Quando abbiamo iniziato, temevamo che fossero violenti, ma è bastato dire loro: “Ciao, come ti chiami, cosa fai, perché sei lì?”, e adesso ti salutano, ti ringraziano, ti abbracciano». «C’è una cosa che mi dà molta tristezza – interviene Mimma, che è rimasta in piedi accanto alla porta -. Questi ragazzi, uomini o donne che siano, non hanno la speranza di raggiungere un qualche obiettivo. È la droga che ammazza tutte le loro speranze. Quando vedi l’abbattimento totale di una persona ti manca il fiato».

«Sono gli “invisibili” – riprende Franca -. In realtà visibilissimi, perché sono per strada, da tutte le parti, ma sono invisibili per le istituzioni».

Vorremmo fotografare le volontarie, ma loro preferiscono di no: non vogliono «farsi pubblicità».

L’ad gentes in Europa

Si è fatto tardi. L’ora e mezza che avevamo a disposizione è già trascorsa. Rivolgiamo ai missionari le ultime due domande: «Cosa dice questa esperienza all’Istituto Missioni Consolata?».

Risponde padre Nicholas: «Penso che questa esperienza metta in luce qualcosa che sapevamo già: che la missione è anche in Europa. Facciamo opere di carità che hanno al centro l’annuncio. E indubbiamente qui siamo in un territorio ad gentes. Questa esperienza si inserisce nel nostro carisma e lo arricchisce. Qui non s’incontra un ambiente culturale omogeneo, come nella missione classica, ma molteplici culture in un contesto complesso».

Alla seconda domanda, «che cosa porta il carisma Imc in questo quartiere?», risponde invece padre Elmer: «Noi, come Imc, portiamo l’annuncio, e questo annuncio è la consolazione. E questo è un posto in cui offrire a poveri, adulti, bambini, anziani la vera consolazione».

Luca Lorusso

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