Bulgaria. Un piede in Europa (e l’altro fuori)

Testi e foto di Piergiogio Pescali |


Indice

Introduzione:
Da quella provincia chiamata Tracia

Le radici storiche della situazione attuale:
Un presente modellato sul passato.

I paesi dell’Est e l’Unione europea:
Soltanto per soldi

Ha firmato questo dossier:


Introduzione:
Da quella provincia chiamata Tracia

Editto bulgaro, maggioranza bulgara, il Pippero di Elio e le Storie Tese, i danzatori a piedi nudi sui bracieri ardenti di Franco Battiato: quando in Italia si parla di Bulgaria, le immagini che si materializzano nelle nostre menti sono divise tra autoritarismo, spettacolo e i braccianti di Mondragone, vittime di caporalato e coronavirus.

Eppure, con questo popolo balcanico, noi italiani abbiamo in comune insospettabili legami. Nel 46 d.C., Claudio inglobò la provincia della Tracia nel suo impero. Nel VII secolo d.C. l’Orda bulgara che, dalle steppe del Volga, si spostò nella pianura danubiana, si divise: una parte, guidata da Asparuh, fondò quello che è considerato il primo stato bulgaro, mentre altre frange si dispersero tra il Mar d’Azov e l’Europa. Una di esse, con a capo l’avaro Alcek, trovò rifugio nell’Italia meridionale, allora dominata dai Longobardi di Grimoaldo. Ancora oggi vi sono paesini nel Cilento, nel Salento, sulle montagne della Basilicata o tra le valli del Molise, i cui abitanti mostrano di avere origini bulgare. E a ricordo della migrazione, a Celle di Bulgheria, in provincia di Salerno, c’è anche una statua dedicata ad Alcek.

Numerosi personaggi dello spettacolo, della letteratura, della scienza e dello sport hanno origini bulgare: l’artista Moni Ovadia, la cantante Sylvie Vartan, lo scrittore Elias Canetti, l’artista Christo (morto lo scorso 31 maggio), il filosofo Tzvetan Todorov, il fisico Fritz Zwicky, la soprano Raina Kabaivanska. Spartaco era tracio e a lui sono dedicate le squadre di calcio denominate Spartak, particolarmente numerose nell’Europa dell’Est.

I cultori di Harry Potter non possono dimenticare Viktor Krum, il campione bulgaro di Quidditch, il cui cognome ricorda il sovrano che gettò le basi per la creazione di uno stato centralizzato, mentre gli appassionati di spionaggio restano ancora affascinati dall’«ombrello bulgaro» usato per iniettare la ricina con cui i servizi segreti uccisero a Londra, nel 1978, lo scrittore dissidente Georgi Markov. Un macabro regalo di compleanno per il presidente Todor Živkov, di cui Markov era scomodo oppositore.

Piergiorgio Pescali

Il teatro romano di Plovdiv dove ancora oggi si organizzano commedie e concerti. Foto di Piergiorgio Pescali.

Le radici storiche della situazione attuale:
Un presente modellato sul passato

Dopo 35 anni di governo comunista, dopo 13 anni nell’Unione europea, la Bulgaria rimane un paese nazionalista. Con politici inadeguati e corrotti. Piccola, la Bulgaria. Sul suo territorio, oggi solo una minima parte di quello che un tempo fu uno degli imperi più potenti d’Europa, vivono sette milioni di persone di cui meno dell’80% possono considerarsi discendenti di quei proto bulgari che, nel II secolo d.C., emigrarono dalla regione del Volga per innestarsi sulle popolazioni tracie già presenti sul territorio sin dal I millennio a.C..

Le montagne e le pianure bulgare erano il passaggio obbligato tra l’Europa centrale e l’Asia minore e questa posizione geografica ha portato una varietà culturale e culinaria tra le più fertili e gustose in Europa.

«La crocifissione di Cristo», icona al Museo delle icone di Plovdiv. Foto di Piergiorgio Pescali.

La chiesa ortodossa ha rivestito un ruolo decisivo nel modellare la società: poco dopo la conversione al cristianesimo, nel IX secolo d.C., il greco-bizantino Cirillo inventò in Moravia un nuovo alfabeto, il glagolitico. Dopo la sua morte, i seguaci del fratello Metodio, perseguitati dai Franchi, trovarono rifugio in Bulgaria dove San Clemente di Ocride trasformò il glagolitico nell’alfabeto cirillico tramandato sino ai nostri giorni. Fu quindi la Bulgaria, e non la Russia, come spesso di crede, la vera patria del cirillico, scrittura che oggi viene utilizzata in gran parte dei paesi slavi. Fu la Bulgaria la prima nazione ad adottare, nell’886, l’alfabeto cirillico. Nell’893 l’impero bulgaro abbandonò la lingua greca a favore del bulgaro decretando la sua volontà di indipendenza non solo politica, ma culturale, dai bizantini. Nel 917 Simeone I, sconfiggendo Costantinopoli si fece incoronare zar (titolo slavo che sta per Cesare), trasformando la Bulgaria in uno dei più grandi imperi d’Europa. Nel 927, pochi mesi dopo la sua morte, la chiesa bulgara ottenne l’autocefalia da quella di Costantinopoli.

L’ortodossia dell’esarcato di Sofia fu una delle caratteristiche principali su cui si modellò la società della Bulgaria: né con Costantinopoli né con Roma, ma fieramente autonoma. Questa sorta di sovranità religiosa ha evitato alla Chiesa ortodossa di Bulgaria i contrasti con Roma che invece caratterizzarono la storia della Chiesa greco ortodossa. È questo uno dei motivi per cui i pope bulgari hanno un atteggiamento molto più aperto e ospitale rispetto a quelli greci nei confronti dei cattolici. Nelle chiese e nei monasteri della Bulgaria, un cattolico non sente quella ostilità e quell’acredine che invece respira visitando i monasteri ortodossi greci o nella stessa basilica del Santo Sepolcro a Gerusalemme.

Dalla dittatura di Živkov alla grande fuga

Le ricchezze storiche sparse in Bulgaria sono immense e – forse sorprende saperlo – tutte ben tenute: splendidi monasteri sperduti nelle valli, città medioevali come Veliko Tarnovo, moschee retaggio della dominazione ottomana (dal 1396 al 1878), musei che espongono elaborati oggetti traci d’oro cesellato, incomparabili icone venerate dai fedeli. Nel 2019 l’affascinante città di Plovdiv ha condiviso con Matera il titolo di «capitale europea della cultura».

Anche il periodo socialista, solitamente così parco di retaggi, qui ha tramandato i suoi lasciti: il museo dell’arte socialista di Sofia raccoglie statue che altrimenti sarebbero andate perdute dalla furia distruttiva e vendicativa del nuovo corso democratico. Il 17 giugno 2011 gli abitanti di Sofia si sono divertiti o indignati, a seconda dell’orientamento politico e della visione storica, trovando il monumento all’Armata rossa sovietica rielaborato in loco nottetempo da un gruppo di giovani artisti appartenenti al movimento di Distruzione creativa. I soldati erano stati dipinti in modo da risultare vestiti con indumenti della cultura capitalista statunitense: McDonald, Santa Claus, Superman, Wonder Woman, Capital America, The Mask, Wolverine, Robin e Joker.

Nel paese si trovano ancora lasciti dell’architettura socialista, come il memoriale di Buzludzha o diversi monumenti troppo mastodontici per essere smantellati.

Negli anni Settanta il paese ha conosciuto un revival culturale assolutamente unico nel mondo dell’Est Europa per volontà della controversa figura di Lyudmila Živkova, figlia di Todor Živkov, segretario del Partito comunista bulgaro dal 1954 al 1989. Sotto di lei il mondo artistico bulgaro godette di una libertà di espressione impensabile in altri paesi del blocco sovietico, ma al tempo stesso la Živkova introdusse una cultura new age che fece storcere il naso a molti materialisti, e non solo in Bulgaria. Ammaliata da figure come Baba Vanga o Nikolai Roerich, si appassionò alla teosofia e all’esoterismo sino ad entusiasmarsi per le pratiche mistiche degli Aztechi e dei Maya.

La piazza centrale di Panagyurishte e il centro multifunzionale «Videlina». Foto di Piergiorgio Pescali.

Questa apertura artistica però poco importava alla maggioranza dei concittadini di Lyudmila: dopo il crollo del regime socialista di Todor Živkov, migliaia di suoi connazionali si riversarono in Italia cercando fortuna, tanto che quasi 59mila (dati del 2016) di loro vivono nella penisola.

Dal «liberi tutti» segnato dall’arrivo al potere dell’Unione delle forze democratiche, la popolazione del paese è in continuo calo: nel 1989, alla vigilia della caduta di Živkov, i bulgari in patria erano nove milioni, due in più di quanti ce ne sono attualmente. Secondo un rapporto redatto dall’Open Society di Sofia, il saldo negativo è dovuto per il 52% alla denatalità e per il 48% all’emigrazione.

Tra il 1985 e il 2016 circa 880mila bulgari si sono trasferiti all’estero. Di questi, la metà (465mila) tra il 1985 e il 1992. Negli ultimi anni il flusso sta ritrovando un suo equilibrio: nel quinquennio 2011-2016 solo 25mila persone hanno lasciato il territorio nazionale e l’emorragia è stata in parte assorbita dal ritorno di 21mila emigrati.

Circa metà di chi ha abbandonato la Bulgaria era di origine turca: fu lo stesso Živkov, alla metà degli anni Ottanta a dare il via a questo esodo quando inaugurò il «Processo di rinascita nazionale» costringendo la popolazione di etnia turca a cambiare i loro patronimici in nomi bulgari e proibendo la fede islamica. In tre mesi, tra il maggio e l’agosto 1989, 360mila di loro preferirono spostarsi in Turchia approfittando di una temporanea apertura delle frontiere. Oltre ad essere stato un disastro economico (si privò l’agricoltura di manodopera preziosa), il piano fu una delle cause che costrinsero Živkov a rassegnare le dimissioni, e rappresentò una delle più grandi pulizie etniche nell’Europa del dopoguerra come riconobbe anche lo stesso governo bulgaro l’11 gennaio 2012.

Nesebar, la chiesa di Cristo Pantocratore. Foto: Piergiorgio Pescali.

Le minoranze rom e turca

I bulgari hanno sempre avuto un rapporto conflittuale con le etnie minoritarie presenti sul loro territorio. Durante la Seconda guerra mondiale, se da una parte consegnarono senza fiatare ai tedeschi 11mila ebrei residenti nei territori di Tracia e Macedonia che Berlino aveva assegnato a Sofia in cambio della sua alleanza, dall’altro ci furono singole figure e organizzazioni che cercarono di salvare i 48mila giudei presenti nelle province più interne. «Non sapevamo noi che cos’era il ghetto. Non abbiamo visto le mura alte, folle di ebrei – bambini, giovani, vecchi, donne – portati come merce viva», scrisse la poetessa bulgara di origine ebraica Dora Gabe evidenziando la situazione di privilegio in cui vivevano gli ebrei di Sofia rispetto a quelli di Varsavia.

Il merito fu da ascrivere soprattutto a Dimitar Peshev (vedi MC 4/2020) e alla Chiesa ortodossa, mentre il re Boris III, che guardava al fascismo con molta indulgenza (anche per aver sposato la figlia di re Vittorio Emanuele III), ebbe verso gli ebrei dei comportamenti ambigui che ancora oggi dividono gli studiosi.

Questo pezzo di storia, lungi dall’essere archiviato, è spesso seme di discordia tra la Bulgaria e i paesi confinanti. Recentemente stampa, governo ed alcuni storici nazionalisti hanno tacciato di falsificazione e di incitamento all’odio il film Third half realizzato dalle televisioni macedone, ceca e serba, nel quale si accusa la polizia e il governo bulgaro degli anni Trenta e Quaranta di collaborazionismo con i nazisti.

La diffidenza verso lo straniero si ripercuote sia all’interno che all’esterno della nazione, mascherandosi con connotati nazionalistici.

Plovdiv, architettura tipica del rinascimento bulgaro che celebra la città come «Capitale europea della cultura 2019» (assieme a Matera). Foto: Piergiorgio Pescali.

La forte presenza rom (il 4,4% della popolazione) e la convivenza forzata con la minoranza turca (8% della popolazione) sono forse gli elementi più evidenti di questa tensione sociale. Tuttavia, mentre i turchi sono concentrati principalmente nelle regioni Nord orientali del paese e nella provincia di Kardhali, i rom sono sparsi a macchia di leopardo e convivono porta a porta con i bulgari in ogni villaggio della nazione. Il che rende la coabitazione sempre più problematica.

Il movimento «Ataka» (Attacco), attualmente presente in parlamento in coalizione con altri due partiti a forte connotazione etnica e nazionalista, rappresenta forse la parte più estrema del fronte xenofobo e razzista. Il suo leader e fondatore è Volen Siderov, giornalista, fotografo e scrittore che, all’inizio degli anni Duemila, condusse un programma molto popolare sul canale televisivo privato Skat dal titolo, appunto, di Ataka.

Fortemente antisemita, antiturco, antieuropeo e pro Russia, Siderov è critico verso le clausole che hanno permesso alla Bulgaria di aderire all’Unione europea, come il forte ridimensionamento della centrale nucleare di Kozloduy. Ha definito l’adesione alla Nato un tradimento verso la nazione al pari del Trattato di Neuilly-sur-Seine che il 27 novembre 1919 aveva costretto la Bulgaria a cedere la Tracia alla Grecia e altri territori alla Yugoslavia. Secondo Ataka, Nato e Unione europea avrebbero permesso a non meglio precisati gruppi sovranazionali di redigere un piano per distruggere la Bulgaria e sterminare il suo popolo. Più volte Siderov ha definito i rom come «umanoidi» che sopravvivono «rubando ed ingannando». Nel 2014 è stato anche protagonista di un violento attacco verbale compiuto a bordo di un volo di linea Sofia-Varna contro Stéphanie Dumortier, una collaboratrice dell’ambasciata francese insultandola, tra l’altro, per il suo accento spiccatamente francese ed «effemminato».

L’incidente, che ha rischiato di creare una crisi diplomatica tra i due paesi, non è un isolato atto di fanatismo, bensì riflette la percezione sociale di una Bulgaria che si sente alla periferia di tutto: dell’Europa, dell’Asia, della Russia. Essendo ai margini, si sente al tempo stesso isolata, manipolata, ma anche pedina vitale (e, a volte, sacrificabile) nei giochi tra le potenze.

Il risultato è l’avanzata di un forte nazionalismo e settarismo con velleitarie nostalgie verso il passato dei grandi imperi.

L’Unione europea, dopo essere stata considerata la deus ex machina per lo sviluppo economico nel decorso post socialista, è ora sempre più spesso additata come causa dei problemi che affliggono la nazione, tra cui l’immigrazione.

La cattedrale ortodossa di Alexandar Nevski, a Sofia. Foto di Piergiorgio Pescali.

La storia del «cacciatore di migranti»

Dinko Valev è una delle tante figure oscure e preoccupanti di questa ondata revanscista. Accanto al suo lavoro di commercio di parti di ricambio per bus e camion che, a suo dire, già a 23 anni lo ha portato a guadagnare il suo primo milione di lev, ha organizzato un vero e proprio esercito personale di 1.500 volontari che dispongono di quattro veicoli corazzati, un elicottero militare e diversi droni e quad. Ogni giorno, a turno, decine di questi paramilitari pattugliano la zona di confine con la Turchia alla ricerca di migranti che scavalcano illegalmente la rete di filo spinato costruita dal governo di Sofia.

Valev si definisce «un uomo d’affari di successo, un padre di famiglia e un patriota. Difendo la mia madrepatria e i paesi slavi dall’invasione di migranti illegali. Migranti, lo ripeto, perché non sono rifugiati. Sono siriani, afghani, pakistani, somali, sudanesi, iraniani…».

Nonostante l’ufficio locale del Comitato Helsinki per i diritti umani abbia accusato Dinko di violazione dei diritti umani, giornali e Tv (tra cui anche la Tv di stato) lo hanno più volte incensato definendolo un «supereroe». La sua è ormai una presenza fissa nei reality show e nei varietà. Nei programmi a lui dedicati, lo si vede trattenere a forza migranti e chiedere loro documenti e informazioni sulla loro presenza in Bulgaria. A quale titolo lo faccia non è mai stato spiegato, ma questo ai bulgari interessa poco.

«Dinko ha fatto ciò che l’Unione europea non è stata capace di fare: ha chiuso i confini all’immigrazione clandestina», lo difende un suo ammiratore. Non è un giudizio isolato visto che, secondo un sondaggio condotto dalla televisione nazionale, verrebbe condiviso dall’86% dei suoi connazionali.

A pochi interessa sapere che il numero di rifugiati ospitati nei due centri di accoglienza di Busmantsi e Lyubimets (un terzo centro, quello di Elhoyo è stato chiuso nel 2018) era di soli 2.184 nel 2019 rispetto agli 11.314 del 2016.

Come l’Italia, anche la Bulgaria è considerata dai richiedenti asilo come semplice paese di transito. Quindi, i profughi che vi arrivano cercano di attraversarne al più presto le frontiere per dirigersi verso Nord.

Fedeli nella cattedrale di Alexandar Nevski durante le festività pasquali, a Sofia. Foto: Piergiorgio Pescali.

La Bulgaria e l’Unione europea

L’Unione europea è dunque ormai vista da molti come un peso, più che come un traino all’economia, o un’opportunità per cambiare un paese troppo ancorato al bullismo sociale e politico.

A tredici anni dall’entrata nella comunità europea (2007), le speranze dei bulgari in un cambiamento delle proprie condizioni sociali sembrano ormai essere svanite: in un sondaggio effettuato nel 2016, solo il 50% voterebbe ancora per l’accesso all’Unione. Nel 2013 era il 70%.

Eppure l’Ue ha giocato un ruolo determinante per lo sviluppo economico della nazione: tra il 2014 e il 2020, ha elargito fondi strutturali per 11,7 miliardi di euro, pari al 9% del Pil con un saldo attivo di 1,67 miliardi di euro per il solo 2018 (l’Italia, tanto per fare un esempio, ha un saldo negativo di 5,06 miliardi di euro e la Germania di 13,41 miliardi).

È un paradosso, ma i paesi che più si oppongono alle politiche di integrazione sociale ed economica dell’Ue sono proprio quelli che, dalla comunità, ricevono i maggiori benefici economici (cfr. articolo a pag. 47). È però altrettanto vero che rispetto all’Italia, la Bulgaria (così come gli altri paesi dell’Est Europa) riesce a gestire meglio i fondi europei: al 2019, degli 11 miliardi di euro stanziati, 9,3 avevano già una destinazione e 4,7 erano già stati spesi (a titolo di paragone, l’Italia ha ricevuto dall’Europa 75 miliardi di euro; ma solo per 54,6 miliardi – il 73% – è stato deciso l’utilizzo e solo 26,3, il 35%, sono stati spesi).

L’economia bulgara, dal 2007 a oggi, ha fatto passi da gigante: il lev è la moneta più stabile dell’Europa orientale, il Pil si sviluppa su una media del 3-4% annuo e la disoccupazione è del 4,2%, un livello paragonabile a quello dell’Austria e la metà rispetto all’Italia.

Questi segnali positivi però non sembrano ripercuotersi sul benessere individuale: la popolazione che vive al di sotto della soglia di povertà è rimasta invariata rispetto al 2008 stabilizzandosi sul 22%. Deboli indicazioni di miglioramento sono le impercettibili variazioni al ribasso della percentuale di bulgari costretti a vivere sotto la soglia di 5,5 dollari al giorno, considerata dal governo come il limite minimo di sopravvivenza: 6,7% nel 2019 quando nel 2017 era il 7,5%.

Troppo poco per far innamorare di un’Unione europea che viene vista (o viene mostrata) sempre più come un intralcio alla libertà individuale che qui, dai palazzi del potere sino alle case del più piccolo villaggio, è sempre stata vista come libertà di farsi leggi ad personam. I bulgari, come la maggior parte dei popoli mediterranei, hanno un forte spirito anarcoide e, anche durante il periodo socialista, si sono ingegnati ad aggirare i proclami, più che a seguirli. L’Ue, con la miriade di leggi e restrizioni che emana in continuazione è un «di più» che poteva essere utile per permettere la libera circolazione delle persone in paesi sino ad allora considerati un miraggio nei sogni di molti bulgari o come mucca da mungere per sfamare cittadini allo stremo.

Le aspettative del popolo sono state mirabilmente descritte da Stefan Tzanev, uno dei poeti bulgari contemporanei più lucidi e critici della nuova società: «Tutto si aggiusterà. Restituiamo la terra alla gente. Avremo pane e carne a sufficienza. Uova e verdure. L’industria la faremo moderna ed ecologica. Avremo frigoriferi a bizzeffe, conserve, lavatrici e televisori. Domineremo l’inflazione. Avremo la valuta convertibile. Non mendicheremo qualche dollaro come bambini abbandonati davanti alle porte dell’Europa. Aggiusteremo i rapporti nazionali ed internazionali. Tutto aggiusteremo. Tutto decideremo». Tzanev conclude la sua poesia con un «Tremendo destino, quello di essere liberi… Salvate le nostre anime!».

Quando la crisi ha iniziato a farsi sentire anche nelle economie ricche, i fondi comunitari hanno iniziato ad essere elargiti con più parsimonia e, soprattutto, a Bruxelles hanno richiesto garanzie di spesa e di qualità che in molti casi non potevano essere date. E allora ecco svanire l’incanto dell’Unione europea.

Plovdiv, architettura tipica del Rinascimento bulgaro. Foto Piergiorgio Pescali.

Politici di ieri, politici di oggi

Un altro dei motivi per cui i bulgari mostrano sfiducia nell’Ue è la delusione nel constatare che quasi nulla nella politica nazionale è cambiato dopo le speranze emerse dal tracollo del precedente regime socialista.

Se solo il 33% dei bulgari esprime una fiducia nelle istituzioni gestite dall’Unione, la percentuale crolla ad un misero 10% per quelli che danno credito al proprio governo di Sofia.

Quasi tutti i politici succedutisi alla guida della nazione hanno avuto ruoli di responsabilità nel passato sistema e non solo all’interno del Bsp (Bălgarska Socialističeska Partija, Partito socialista bulgaro), erede in salsa democratica del vecchio Partito comunista.

Boyko Borisov, l’attuale primo ministro e leader del populista e conservatore Gerb (Graždani za evropejsko razvitie na Bălgarija, Cittadini per uno sviluppo europeo della Bulgaria) è stato guardia del corpo di Todor Živkov; Krasimir Karakachanov, attuale ministro della difesa e leader dell’Unione patriottica era consigliere di Živkov sui temi per la Macedonia; il già citato Siderov era fotografo al Museo di letteratura nazionale.

«C’erano una volta dei tempi più oscuri. C’erano una volta dei tempi più terribili, tempi di terrore, tempi di misteri sanguinosi. Ma la storia non ricorda dei tempi più vergognosi. Il mio tempo, il tempo della grande ipocrisia. I marescialli di ieri, che sventolavano manganelli e bastoni, oggi sono nelle prime file dei combattenti per la democrazia», scrive ancora con estrema trasparenza Stefan Tzanev.

Tutti i politici, collusi o no con il vecchio sistema, esprimono comunque un carattere spaccone e smargiasso che sembra essere apprezzato e premiato da una grande fetta di elettori. I bulgari non hanno avuto un Sessantotto o un Settantasette che hanno insegnato alle generazioni giovanili che opporsi al sistema non solo è possibile, ma conduce anche ad un rafforzamento della democrazia.

In Bulgaria, il «lei non sa chi sono io» è ancora una frase d’effetto che porta al risultato voluto: anziché suscitare la giusta indignazione, fa chinare la testa.

Il governo di Borisov, nonostante abbia mostrato un incredibile scenario di incompetenza politica, di sciatteria sociale e di corruzione, continua ad essere l’ago indicatore della bilancia politica bulgara assieme al suo partito, il Gerb. Non avendo seggi a sufficienza per formare un proprio esecutivo, Borisov non ha indugiato a chiedere aiuto alla coalizione ultranazionalista di estrema destra Unione patriotica e a chiamare attorno a sé figure vicine a Delyan Peevski, un enigmatico personaggio che negli ultimi anni è riuscito a monopolizzare la grande maggioranza dei media bulgari.

L’Unione europea, anziché cercare di contrastare la pericolosa deriva autoritaria e di decadimento morale ha preferito mostrare un colpevole atteggiamento di indifferenza, se non addirittura di complicità.

Nesebar, chiesa di San Giovanni Battista. Foto: Piergiorgio Pescali.

Il paese più corrotto dell’Unione

La Bulgaria è quasi sempre agli ultimi posti negli indicatori economici e di sviluppo sociale dell’Ue,  ed è uno dei due paesi (l’altro è la Romania) soggetti al Meccanismo per la cooperazione e la verifica della trasparenza e la corruzione. Oltre ad essere il paese più corrotto nell’Unione, anche a livello mondiale non è messa bene occupando il 74° posto su 179 nazioni prese in esame.

Del resto, anche in caso non sia più possibile tenere sotto silenzio uno scandalo, non si rischia molto e questo favorisce il coinvolgimento dei politici bulgari in operazioni disoneste e criminali, sia di costume che finanziarie.

La Commissione anticorruzione nazionale è guidata da Sotir Tsatsarov, fedelissimo di Delyan Peevski e Boyko Borisov. Tsatsarov è stato eletto dopo che il suo predecessore, Plamen Georgiev, era stato costretto alle dimissioni per il suo coinvolgimento nello scandalo Apartmentgate quando nel 2019, alla vigilia delle elezioni europee, il Gerb era stato travolto da critiche per l’uso illecito dei fondi europei destinati a sovvenzionare agriturismi e hotel famigliari ed invece utilizzati per costruire ville private di politici e loro accoliti o per acquisti di appartamenti nei quartieri più esclusivi di Sofia a prezzi ridicoli. Naturalmente, il Gerb ha, comunque, vinto le elezioni con il 31% dei voti, mentre Georgiev non è stato mai ufficialmente accusato e oggi si gode il sole di Valencia, in Spagna, come console bulgaro.

Arbanasi, chiesa della Natività, La crocifissione, nel naos. Foto: Piergiorgio Pescali.

Il secondo paese più inquinato

Nonostante la Bulgaria nel periodo 2007-2020 abbia ricevuto da Bruxelles 204 milioni di euro per il trattamento dei rifiuti urbani e industriali,  la situazione è disastrosa. Al di fuori di Sofia e di poche altre città, non esiste un programma di raccolta differenziata, col risultato che la nazione è, dopo la Grecia, la più inquinata d’Europa. Risulta così ridicolo il piano che prevede come richiesto dall’Unione europea, il riciclo del 50% dei rifiuti entro il 2020. Bruxelles lo sa, ma continua imperturbabile per la sua strada.

I fiumi e i terreni sono ricchi di metalli pesanti rilasciati dalle industrie metallurgiche, e l’aria nelle grandi metropoli è spesso irrespirabile: Sofia è la città con la concentrazione di PM 2.5 e di SO2 più alta in Europa e, assieme a Polonia e Slovacchia, la Bulgaria supera i livelli massimi consentiti dall’Ue di PM 10.

Il parco auto che circola nel paese è il più vetusto d’Europa: il 50% delle vetture circolanti hanno più di vent’anni e la maggioranza sono diesel privi di manutenzione e di certificato europeo. Solo lo 0,08% delle auto sono ibride e l’elettrico è praticamente assente.

Bruxelles continua a emanare leggi, raccomandazioni, multe, sapendo benissimo che Sofia continuerà per la sua strada. Eppure basterebbe all’Ue poco per dare un segnale ben preciso all’inefficienza di Borisov & Co.: sarebbe sufficiente vietare a paesi, come l’Italia, di esportare auto destinate alla rottamazione verso i paesi dell’Est.

L’Italia è in prima linea nel condividere la responsabilità del disastro ambientale in cui versa la Bulgaria.

Solo alcuni comitati cittadini (ancora pochi e poco ascoltati) hanno iniziato a criticare la politica ambientale nazionale chiedendo, ad esempio, una revisione della politica energetica. Sono stati proprio loro ad ottenere, nel gennaio 2020, una prima importante vittoria costringendo alle dimissioni il ministro dell’ambiente Nino Dimov, successivamente arrestato per avere deliberatamente costretto per due mesi al razionamento idrico circa 100mila persone nella provincia di Pernik deviando l’acqua del bacino idrico artificiale verso una industria compiacente.

Quella di Pernik era solo l’ultima malefatta di Dimov e dei suoi predecessori che avevano trasformato, tra l’altro, la Bulgaria in una discarica per i rifiuti tossici dell’Europa. Nel 2014 l’amministratore delegato della Lukoil Bulgaria, Valentin Zlatev, aveva concluso con il tandem italiano De.Fi.Am. ed Ecobuilding un accordo per importare rifiuti prodotti nel comune di Giugliano in Campania. Da allora è iniziato un giro d’affari miliardario per portare nel paese balcanico migliaia di tonnellate di pattume tra cui molti prodotti tossici il cui costo di smaltimento in Italia sarebbe stato troppo oneroso. Poco prima delle dimissioni di Dimov, la polizia bulgara aveva sequestrato 9mila tonnellate di rifiuti diretti al centro di smaltimento di Fenix Pleven Eood che lo stesso impianto non avrebbe potuto processare. Si era scoperto che il permesso di trasporto e di smaltimento era stato concesso dallo stesso ministero dell’ambiente bulgaro.

Tutto questo accadeva proprio mentre, nel 2018, Nino Dimov – che tra l’altro è un negazionista del cambiamento climatico causato dall’uomo – prendeva possesso della presidenza del Consiglio per l’ambiente dell’Unione europea. Un biglietto da visita poco onorevole per Borisov, che comunque non se ne cura poi molto.

Venditori di icone a Sofia; sullo sfondo, la cattedrale di Aleksandar Nevski. Foto di Piergiorgio Pescali.

Tanti media, poca libertà

Tra i primati negativi saldamente in mano al governo bulgaro c’è anche quello che riguarda la libertà di stampa e i diritti umani.

Il sistema giudiziario è fortemente dipendente e influenzato dalla politica. Nell’ultimo rapporto l’Ue ha evidenziato molto diplomaticamente e senza porre alcuna enfasi per non offendere il governo, che la Bulgaria non sta facendo abbastanza per i diritti umani, che continuano a deteriorarsi.

Meno diplomatico è il rapporto di Reporter san frontieres, che pone la Bulgaria al 111° posto su 180 paesi presi in esame per la libertà di stampa.  Un calo di ben 60 posizioni rispetto al 2007, quando entrò nell’Unione europea (allora occupava un onorevole 51° posto).

Chi giunge in Bulgaria sarà sicuramente impressionato dalla quantità di giornali, periodici, stazioni radio e televisive presenti nel paese. Per sette milioni di abitanti, nel 2017 c’erano 245 quotidiani, 603 riviste, 85 stazioni radio e 113 televisive. Ma quantità non è sinonimo di qualità e neppure di libertà.

In un regime di crisi economica, dove i proventi pubblicitari diminuiscono, molte testate sono costrette ad affidarsi sempre più ai finanziamenti statali che gestiscono i fondi europei a propria discrezione e senza alcuna trasparenza.

Il rapporto di sostenibilità per la libertà di stampa redatto dall’Irex (International Research & Exchanges Board) evidenzia che, dal 2014 al 2019, la libertà di parola è diminuita tanto da far aumentare l’autocensura dei giornalisti che preferiscono ammorbidire le loro posizioni di indipendenza etica.

Di esempi se ne possono fare molti: nel 2016 il sindaco di Blagoevgrad ha stipulato un contratto secondo cui il consiglio comunale avrebbe continuato a sovvenzionare i media locali a patto che non venissero pubblicate notizie non confermate (leggi non approvate dal consiglio stesso) che minassero la reputazione politica, sociale e privata della «Municipalità di Blagoevgrad, il Consiglio comunale cittadino, il sindaco, il presidente dell’ufficio comunale e le autorità municipali».

Nell’ottobre 2017 il deputato del Gerb Anton Todorov ha minacciato in diretta il giornalista della Nova Tv, Viktor Nikolaev, per aver avuto la sfrontatezza di criticare l’allora vice primo ministro Valeri Simeonov.

Lo stesso Borisov (ancora lui) e molti suoi ministri hanno più volte intimidito i giornalisti lanciando anche insulti poco consoni alla loro posizione governativa e pubblica, sulla linea del «lei non sa chi sono io».

La figura più sfrontata del panorama mediatico bulgaro è il già citato Delyan Peevski, membro del Movimento per i diritti e la libertà (Dviženie za Prava i Svobodi, Dps) e soprannominato da Radio Bulgaria come «l’incontrastato moghul della stampa della Bulgaria».

Il suo gruppo New bulgarian media group (Nbmg), oltre a possedere le due principali case editrici, controlla l’80% della carta stampata tra cui Borba, Monitor, Politics, Meridian Match e il Telegraph, il quotidiano più letto in Bulgaria.

Colluso con il Gerb e con Borisov, nel 2013 Peevski venne eletto presidente dell’Agenzia di stato per la sicurezza nazionale. In un raro impeto di rabbia, 10mila bulgari si riunirono di fronte al parlamento per protestare inscenando cori di «mafia» e «dimissioni», ottenendole il giorno dopo.

I giornali del Nbmg pubblicano spesso articoli cospirazionisti diretti contro Ong, società civile o organizzazioni che osano criticare il governo e le politiche xenofobe da lui varate. Il leit motiv seguito è sempre lo stesso: sono organizzazioni al soldo di Soros o di qualche potere forte straniero il cui unico scopo è quello di distruggere la cultura e la tradizione autentica bulgara.

Monumento a Cirillo e Metodio a Pazardžik. Foto: Piergiorgio Pescali.

Nel 2018 ha fatto approvare al parlamento una legge che obbliga i proprietari dei media bulgari a indicare i finanziatori esterni dei network di loro proprietà, in modo da avere un quadro preciso delle politiche intraprese da ogni sostenitore privato.

Il principale problema della libertà di stampa in Bulgaria è che manca una legge che regola la concentrazione della proprietà.

Nova, bTv e la statale Bnt (Bălgarska nacionalna televizija) generalmente sono considerate come media filogovernativi. Come accade in Italia, anche in Bulgaria i partiti al governo si spartiscono il servizio pubblico: in questo gioco poco edificante, il Bnt, considerato fino al 2017 indipendente, da quando è passato sotto la direzione di Konstantin Kameanrov, vicino al partito Gerb, ha avuto un cambio di rotta sottomettendosi all’esecutivo. Anche la qualità dei programmi ne risente: la bTv, il canale televisivo più seguito, nel 2017 ha riveduto la sua programmazione volgendosi verso l’intrattenimento per i giovani (leggi programmi social, varietà).

Al di fuori di Sofia, non vi è alcun tipo di giornalismo d’inchiesta: le storie che vengono trattate nella provincia vertono su gossip, crimini, violenze. Il giornalismo locale sta sparendo anche perché i bulgari preferiscono utilizzare siti di notizie provenienti da Facebook con un vistoso calo della qualità dei servizi e un aumento impressionante di fake news a cui i lettori si affidano senza dubitare. Così notizie quali la volontà dell’Unione europea di bandire la religione ortodossa, che l’acqua di Sofia fosse stata volontariamente inquinata, che i soldati bulgari erano stati costretti dalla Nato a sparare a obiettivi russi, o la notizia, sempre attuale, che il Sars-CoV-19 sia un virus prodotto artificialmente dalla Cina a cui si aggiungono miriadi di ricette autoprodotte per combatterlo, sono sempre più la fonte di informazione principale presso la società bulgara.

Una nuova Bulgaria?

L’inno nazionale bulgaro, splendidamente musicato da Svetan Radoslavov, elogia la Bulgaria come «cara terra natìa, tu sei il paradiso in terra, la tua bellezza e il tuo fascino, ah, non hanno fine».

Le bellezze artistiche e culturali di questa terra sono tra le più ricche e preziose che l’Europa possa offrire, ma affinché possano continuare a perpetuare la bellezza e il fascino cantato nell’inno nazionale, l’Unione europea deve adoperarsi affinché la classe politica e i bulgari stessi si mostrino più attenti al rispetto dei diritti umani e più corretti verso il proprio paese.

I bulgari dovranno cominciare ad essere meno ossequiosi e cerimoniosi verso chi si presenta con prepotenza ed arroganza. Da parte sua, Bruxelles dovrà abbandonare la politica, sino ad ora perseguita, della morbidezza e dell’accomodamento verso chi sta portando la Bulgaria nel baratro dello sviluppo umano e nella rovina ambientale.

Piergiorgio Pescali

Sofia, Museo d’arte socialista: il quadro ricorda una delle visite del leader sovietico Brežnev in Bulgaria accanto a Todor Živkov. Foto: Piergiorgio Pescali.


I paesi dell’Est e l’Unione europea:
Soltanto per soldi

Tra il 2004 e il 2007, nove paesi dell’ex blocco sovietico entrarono a far parte dell’Unione europea. All’epoca c’erano alcune motivazioni politiche. Oggi il fallimento di quell’allargamento è davanti agli occhi di chi vuol vedere.

Nel 2004 l’Unione europea allargò in una sola notte i suoi confini inglobando dieci nuovi paesi, tra cui sette appartenenti all’ex blocco sovietico. Nel 2007 altre due nazioni, Bulgaria e Romania, entrarono a far parte dell’Unione portando a 27 il totale dei paesi aderenti.

I motivi che sostennero tale decisione furono diversi, non ultimo il tentativo di diluire i contrasti interni tra gli stessi stati fondatori che stavano minando l’unità continentale.

L’allargamento era però anche un modo per evidenziare la superiorità del mondo occidentale e dell’economia capitalista su quello orientale ad economia socialista. La «Cortina di ferro» era stata valicata e l’Unione europea aveva prevalso sulla Russia. Una vittoria storica che voleva essere ribadita dall’assimilazione di nazioni un tempo alleate di Mosca e dal tentativo di isolare il Cremlino.

A tre lustri di distanza sono in molti a lamentare che la politica intrapresa da Bruxelles tra il 2004 e il 2007 è stata, se non fallimentare, per lo meno improduttiva.

I paesi dell’Est faticano ad integrarsi al sistema Europa e, specialmente con la cosiddetta crisi dei migranti, tra il 2015 e il 2016 le divergenze all’interno dell’Unione si sono accentuate sino a generare un blocco dell’Ovest e un blocco dell’Est che si è aggiunto alle divergenze già esistenti tra paesi del Nord Europa e paesi del Sud, o del bacino del Mediterraneo. Anche in questo caso le cause addotte sono diverse. La differenza della struttura industriale e del sistema economico, accentuatosi a partire dal 1945, è quella più evidente, ma vi è anche una diversità culturale determinata dalla storia, dalla posizione geografica, dal differente alfabeto: latino per l’Ovest, cirillico per l’Est con una variante intermedia per gli alfabeti ceco, polacco e ungherese. Non ultima la diversità religiosa, che si innesta su quella storica: la Chiesa ortodossa ha profonde radici nella cultura slava e, si sa, non ha mai avuto buoni rapporti con la Chiesa romana. Inoltre non bisogna dimenticare che l’area balcanica rappresentata dalla Grecia, dalla Bulgaria e, in misura minore, da Romania e Ungheria, è stata sempre il primo baluardo cristiano contro la penetrazione islamica in Europa. Bulgaria e Grecia hanno sempre avuto rapporti difficili con il mondo bizantino e con l’impero ottomano, suo successore, e ancora oggi la Bulgaria ha una forte minoranza turca residente sul suo territorio.

Questo complesso tessuto storico, culturale e sociale che si differenzia così tanto dall’Europa ideata da Spaak, Schuman, Monnet e De Gasperi spiega come mai sia così difficile mantenere un rapporto di convivenza con queste nazioni e come mai, invece, il legame con i paesi baltici, più legati alla cultura del Nord Europa, sia molto più fluido e produttivo.

Sofia, Museo d’arte socialista: busto di Marx davanti a manifesti che celebrano Stalin. Foto: Piergiorgio Pescali.

Non solo Orban: sì ai soldi, no al resto

La miopia dei nostri governanti europei all’inizio del XXI secolo è stata più culturale che politica ed economica. Lo dimostra il fatto che, nonostante l’Unione europea continui a foraggiare con (troppa) generosità Polonia, Ungheria, Bulgaria, Repubblica Ceca, i governi di questi paesi continuano a criticare e a respingere le leggi emanate da Bruxelles in termini d’inclusione sociale, libertà di stampa e di diritti umani. Viktor Orbàn, è il caso più pubblicizzato sui nostri media a causa della sua amicizia con Salvini, ma non dobbiamo dimenticarci che in Bulgaria l’autoritarismo di Borisov non sfigura di fronte al collega ungherese, che in Polonia Morawiecki ha ormai imbavagliato la magistratura e che in Repubblica Ceca, Andrej Babiš è stato travolto da innumerevoli scandali finanziari e di corruzione.

Tutti questi capi di governo inoltre hanno negato il coinvolgimento dei propri cittadini nella deportazione di ebrei durante la Seconda guerra mondiale e, in alcuni casi, hanno anche contestato l’esistenza di campi di concentramento.

È inoltre utile far notare che le classi politiche (e quindi le popolazioni) di molte nazioni del vecchio blocco sovietico sono spaccate sull’opportunità o meno di aderire all’Unione europea o se orientarsi verso l’alleato storico, la Russia. Se fino alla metà della seconda decade del XXI secolo la prima opzione prevaleva, dopo il 2015 la politica di Bruxelles sull’immigrazione ha iniziato a essere vista troppo invasiva negli affari interni aumentando il consenso popolare e populista di una politica sovranista.

Tutto questo ha coalizzato tra loro i governi che si sono alleati nel gruppo di Visegrad a cui aderiscono Repubblica Ceca, Polonia, Slovacchia e Ungheria. Al tempo stesso l’Ue ha incominciato ad essere identificata con la Nato, che, in Bulgaria ad esempio, è vista come un vero e proprio esercito europeo orientato contro la politica slava e di Mosca.

Tutto questo è stato manipolato dagli organi di stampa per dare un’immagine negativa dell’Unione. L’isolamento dei capi di governo dell’Est Europa rispetto all’alleanza dei paesi dell’Occidente ha incanalato il malcontento popolare.

Dalla parte opposta, i governi ex sovietici sono quelli che hanno guadagnato maggiormente dall’ammissione all’Ue in termini economici. Hanno tutti ottenuto ingenti aiuti senza per questo cedere nulla sulla loro politica interna: Ungheria e Bulgaria, in particolare, sono le nazioni che continuano a snobbare i flebili e cauti richiami di Bruxelles in materia di diritti umani, corruzione e di politica ambientale.

È anche vero che, rispetto ai paesi mediterranei come Italia, Grecia e Spagna, queste nazioni sono quelle che riescono a gestire meglio i fondi provenienti dalle varie commissioni europee. Su questo tema ci sarebbe molto da scrivere e da argomentare, ma l’opposizione dei membri più attenti alla gestione finanziaria, come le nazioni del Nord Europa, ai prestiti a fondo perduto decisi da Bruxelles nei mesi scorsi è più che comprensibile.

Rispetto, ad esempio, all’Italia, Bulgaria, Repubblica Ceca, Ungheria e Polonia hanno già stanziato una percentuale nettamente superiore al nostro paese dei fondi strutturali elargiti dall’Unione europea.

Piergiorgio Pescali

Sofia, Museo d’arte socialista: busto di Lenin. Foto: Piergiorgio Pescali.


Ha firmato questo dossier:

Piergiorgio Pescali – Ricercatore scientifico, il suo lavoro lo porta a viaggiare per il mondo collaborando come giornalista con radio, riviste, quotidiani in Europa e in Asia. Sudest asiatico, penisola coreana e Giappone sono le zone che segue con più interesse. È uno dei maggiori conoscitori della Corea del Nord che frequenta con regolarità dal 1996. Sul paese ha recentemente pubblicato La nuova Corea del Nord, come Kim Jong Un sta cambiando il paese (Castelvecchi, 2019). Ha inoltre scritto: Indocina (Emil, 2010), Il custode di Terrasanta. A colloquio con Pierbattista Pizzaballa (Add, 2014), S-21, nella prigione di Pol Pot (La Ponga, 2015). Da anni è fedele collaboratore di MC.

A cura di Paolo Moiola, giornalista redazione MC.

Sitografia essenziale

La rete che separa il confine bulgaro da quello turco a Rezovo. Foto di Piergiorgio Pescali.

 

 




Vento antieuropeista?

Un’altra Europa è possibile


Per poter proseguire il suo cammino, l’Europa deve cambiare. Smettendo di proteggere gli interessi privati e la speculazione per porsi al servizio delle persone e del bene comune.


Testo di Francesco Gesualdi


Un vento antieuropeista soffia per l’Europa, dal Danubio all’Atlantico, dal Mediterraneo al Polo Nord. I partiti nazionalisti l’hanno intercettato e lo amplificano in funzione anti straniero, convogliando le ansie e le paure provocate dall’iniquità. Il fondamento ideologico di questi movimenti è l’identità nazionale, in nome della quale viene fatto accettare ai cittadini qualsiasi abuso, ingiustizia, privazione di libertà.

L’immigrazione e l’appartenenza all’Ue dunque sono le circostanze utilizzate dai nazionalisti per fomentare lo spirito xenofobo.

Gli immigrati vengono strumentalizzati dipingendoli come coloro che ci rubano i posti di lavoro e si appropriano indebitamente del nostro stato sociale.

L’Europa viene strumentalizzata dipingendola come una camicia di forza che vuole limitare la nostra sovranità. Ma colpevolizzare l’Europa perché limita la sovranità degli stati aderenti è come colpevolizzare il cane perché abbaia di notte quando vede un pericolo.

Perché i nazionalisti hanno successo

Il compito del cane è quello di fare la guardia. Allo stesso modo, il compito degli organismi sovranazionali è quello scrivere regole che condizionino la sovranità degli stati in nome di un interesse comune. Del resto agli stati rimane sempre la libertà di decidere se aderirvi o rimanerne fuori.

I nazionalisti si oppongono agli organismi sovranazionali per principio, tutti gli altri decidono se aderirvi o meno in base agli obiettivi che l’organismo si prefigge e ai principi che lo animano. Da questo punto di vista, anche i non nazionalisti hanno la necessità di ripensare l’Europa. Se non lo faranno loro, la consegneranno definitivamente nelle mani dei nazionalisti, i quali non la elimineranno, ma la trasformeranno in una nuova entità di cui è difficile prevedere la connotazione economica, ma che di certo avrà le sembianze di una fortezza con i confini ben difesi.

Verosimilmente il nuovo patto europeo a quel punto potrebbe fondarsi su due obiettivi: il mantenimento di un mercato comune interno e la chiusura militarizzata dei confini esterni. Il primo per compiacere le imprese, il secondo per le frustrazioni dei cittadini.

Europa, da madre a matrigna

Oggi i nazionalisti hanno buon gioco ad alimentare lo spirito anti europeo, perché l’Europa è macchiata da un peccato originale che la fa essere più matrigna che madre. Stiamo parlando della scelta mercantilista: finché ha avuto come applicazione pratica la creazione di un mercato comune, non ha provocato molti contraccolpi, ma quando si è realizzata nella moneta unica, ha orientato la predilezione dei governanti europei verso i forti e gli interessi privati, in spregio a quelli comuni.

L’Europa, ignorando che l’euro, senza meccanismi di compensazione, poteva trasformarsi in uno tzunami per i paesi e le imprese più deboli, e ignorando che chi gestisce la moneta, di fatto, gestisce il potere, si è dotata di un’architettura monetaria che favorisce le imprese ad alta capacità concorrenziale contro quelle meno competitive e le banche contro i governi.

Se esaminiamo le statistiche commerciali stilate dopo l’introduzione dell’euro, notiamo che Olanda, Belgio e Germania hanno avuto un costante ed elevato saldo commerciale positivo nei confronti degli altri paesi dell’Unione europea. Al contrario Francia, Austria, Portogallo, Grecia hanno avuto un costante saldo negativo. Quanto all’Italia, notiamo un andamento altalenante: in pareggio fino al 2009, poi negativo fino al 2012, infine di nuovo positivo ai giorni nostri. È proprio durante gli anni della crisi – quando il Pil e le esportazioni scendevano e la disoccupazione saliva al 13% -, che anche in Italia si è cominciato ad avere dubbi sulla convenienza a rimanere nell’euro. Qualcuno ha iniziato a proporre addirittura di uscirne per rimettersi in piedi. Quest’idea poggia sulla convinzione che l’Italia vada male perché non è abbastanza competitiva rispetto agli altri paesi, sia quelli interni che esterni all’Unione europea, e che le servirebbe una propria moneta da svalutare, cosa che l’appartenenza all’euro però non permette. Quest’analisi, per la verità, è condivisa anche dal pensiero dominante, il quale però individua nel modello tedesco la strada da seguire per tornare a correre: la Germania, infatti, dicono i suoi estimatori, è in testa alle esportazioni europee perché ha impegnato risorse importanti in investimenti tecnologici che hanno aumentato la produttività e la qualità dei prodotti, e anche perché ha saputo varare riforme occupazionali, salariali, fiscali che hanno ridotto i costi delle aziende. Detto fatto: in tutta Europa si è puntato a ridurre il costo del lavoro tramite l’esasperazione del precariato, il ridimensionamento del sindacato, la riduzione salariale e dei contributi sociali. Una strada, però, che da una parte approfondisce il divario fra profitti e salari, portando all’aumento dell’iniquità, dall’altra crea le premesse di una futura instabilità. Meno soldi in tasca alle famiglie, infatti, significano meno consumi e quindi rallentamento della produzione, con nuove possibilità di crisi economica.

Ma allora perché tutti seguono questa strada? I fautori dell’uscita dall’euro sostengono che ci sia una sola ragione: perché l’unica alternativa sarebbe quella della svalutazione, cosa impossibile a causa della moneta unica. Di qui la proposta di tornare a una moneta propria che ci consenta di recuperare competitività non attraverso la svalutazione salariale bensì tramite quella valutaria.

Da quando l’Italia è tornata a crescere, la disoccupazione si è ridotta e il saldo commerciale con l’estero è tornato di segno positivo, il dibattito attorno all’uscita dall’euro si è smorzato. Ma altre ragioni, dalle conseguenze sociali ancor più gravi, ci impongono di mantenere acceso il dibattito sull’euro, non tanto per stabilire se mantenerlo o lasciarlo, ma per discutere come governarlo.

Nella sua impostazione attuale, l’euro è una moneta a pagamento, affidata al sistema bancario privato. Un’impostazione ultraliberista che nega sovranità alla sfera pubblica in favore dei mercati. Essa va messa in discussione non per spirito nazionalista, ma per una questione di democrazia e giustizia sociale.

Prima l’interesse dei creditori

Ce ne siamo accorti quando l’attenzione dei mercati, dopo avere devastato banche e imprese, si è concentrata sui debiti pubblici, ultimi ambiti rimasti da saccheggiare. La speculazione ha affondato i suoi denti nei polpacci dei paesi più deboli e non ha mollato la presa finché i governi non hanno adottato politiche di finanza pubblica che mettessero l’interesse dei creditori prima di quello dei cittadini.

Nessuno condanna la speculazione, neanche le istituzioni europee che appaiono come amministratori di un condominio i cui condomini, al di là delle scale e dell’ingresso, non condividono neppure il buongiorno. Per le regole di Maastricht, del resto, ogni paese è solo di fronte ai propri debiti e, non potendo sperare nell’aiuto della Banca centrale europea (Bce), l’unica cosa che deve fare è ingraziarsi i mercati assicurando di servire loro il primo pezzo di carne disponibile sulla tavola. A costo di sacrifici, recessione, disoccupazione.

Uscire dal guado

Il dibattito sui debiti pubblici è lungo e articolato, ma per non ritrovarci di fronte ad altre crisi come quella che abbiamo attraversato e che ancora ci morde, dobbiamo ripensare l’Europa e il governo della moneta.

Abbiamo due strade di fronte a noi: andare avanti o tornare indietro. L’unica cosa certa è che non possiamo rimanere in mezzo al guado senza sapere se siamo in compagnia di amici o nemici e con il rischio essere mangiati dal primo rapace che passa.

Fuori di metafora non possiamo restare in un’Europa a mezz’aria: mercato comune, ma condizioni di lavoro agli antipodi tra un paese e l’altro; moneta unica, ma nemici finanziari; libera circolazione dei capitali, ma regimi fiscali concorrenziali. Non ci si può buttare in acqua con lo stesso salvagente e poi nuotare in direzioni opposte. O ci uniamo o ci lasciamo. O ci tuteliamo a vicenda dal pericolo che l’alleato si trasformi in carceriere o ci salutiamo. Anche se, certo, non a cuor leggero e solo come ultima ratio.

Costruire un’Europa solidale

L’auspicio è di poter andare avanti, ossia di costruire un’Europa federale e solidale al servizio delle persone e del bene comune. Un’Europa che non si fondi su trattati amministrati da tecnici nominati, ma su una Costituzione che si esprima in leggi emanate da un Parlamento eletto dal popolo. Un’Europa della sussidiarietà che, senza rinunciare alla solidarietà, sappia organizzarsi su più livelli per facilitare partecipazione, sostenibilità, presa in carico dei beni comuni. Un’Europa a sovranità monetaria socialmente orientata che, pur disponendo di una moneta comune, lasci spazio allo spontaneismo monetario territoriale per favorire l’autodeterminazione dei cittadini e lo sviluppo delle economie locali. Un’Europa dell’omologazione salariale e sociale affinché esista un’unica Europa sociale e del lavoro. Un’Europa a fiscalità condivisa che gestisca il debito pubblico europeo come un tutt’uno e redistribuisca le risorse in base ai bisogni dei singoli territori.

Il primo passo in questa direzione dovrebbe essere l’elezione di un’Assemblea costituente che scriva la nuova Costituzione europea contenente principi, diritti, doveri, assetti organizzativi e istituzionali. Ma, nell’attesa, sarebbe già un grande passo avanti se si cominciasse a riformare la Banca centrale europea per democratizzare l’euro e gestirlo in chiave sociale a partire dall’obiettivo di aiutare gli stati a liberarsi dai loro debiti pubblici. Sarebbe il segnale che ci stanno a cuore più le persone dei mercati, condizione senza la quale nessun’altra Europa è possibile.

Francesco Gesualdi




Europa unita


Un tempo i giovani vedevano l’Europa come portatrice di pace. Oggi l’Unione si associa a crisi, disoccupazione, respingimenti di migranti, paura. I populismi xenofobi guadagnano punti. Mentre l’Italia ha almeno il merito di puntare i piedi.

Per la mia generazione l’Europa unita era un bellissimo sogno, in grado di far battere il cuore. Guardavamo sereni al processo di unificazione, confidando in un avvenire di pace, cooperazione e sviluppo non solo per noi europei, ma per il mondo intero. A scuola e nelle università ci parlavano di Altiero Spinelli, Robert Schuman e Konrad Adenauer, spiegandoci che il progetto di un’Europa forte e coesa era il frutto della loro grande statura politica e morale.

Nel corso degli anni questo sogno si è pian piano sgretolato sotto le rigide imposizioni del mercato, gli egoismi nazionali e lo strapotere delle tecnocrazie. Oggi nessun giovane sogna grazie all’Europa, anzi l’appartenenza europea suscita apprensione, è considerata, a ragione o a torto, la causa della disoccupazione e dell’impoverimento delle nuove generazioni.

Se si chiede a un giovane cosa rappresenti per lui l’Unione europea, la risposta più benevola è: burocrazia, eccesso di regole, costi esagerati, vertici inconcludenti. Ancora più triste sarebbe una risposta come: l’Europa è un giogo per i più deboli, un’inespugnabile fortezza per i poveri del mondo.

Non è una bella Europa quella che non apre le braccia a chi fugge dalla guerra e dalla miseria, che non si commuove di fronte alle migliaia di esseri umani che affogano nel Mediterraneo, che lascia soffrire di stenti e freddo chi si ammassa lungo i suoi confini.

Le idee e le parole che influenzano le scelte dei politici europei sono paura, minaccia, respingimenti, muri. Le stesse idee e parole che circolano tra la gente e ispirano il voto popolare più rozzo.

Ne consegue che l’accordo sulle quote, che pure riguarda numeri trascurabili – un totale di 160mila trasferimenti entro il 2017 – è bloccato da mesi, mentre l’Ue ha deciso di versare alla Turchia 3 miliardi di euro (e altri 3 nel 2018), perché si faccia carico dei migranti che essa non vuole, invischiandosi malamente con l’arrogante Recep Tayyp Erdogan che calpesta sistematicamente i diritti umani e viola le convenzioni inteazionali.

Si è creato un orribile circolo vizioso tra governanti e governati dove nessuno ha l’autorevolezza di proporre una visione differente.

Per questo ci ha favorevolmente colpito la presa di posizione di Matteo Renzi che, lo scorso novembre, ha posto il veto sul bilancio europeo, un gesto che, nella pratica, ha solo un effetto dimostrativo, ma riveste un alto significato politico: non vogliamo che si costruiscano muri con il denaro che l’Italia versa alla Ue.

Anche Emma Bonino, già stimata commissaria Ue e convinta europeista, ha predisposto una sorta di prontuario sull’immigrazione in cui sfata i falsi miti che alimentano sospetto e rifiuto.

Dimostra ad esempio che la cosiddetta invasione degli stranieri è un inganno: nell’Unione europea, su 510 milioni di residenti, solo il 7% è costituito da immigrati (35 milioni). La quota di stranieri varia notevolmente tra i paesi europei: il 10% in Spagna, il 9% in Germania, l’8% nel Regno Unito e in Italia, il 7% in Francia. Paradossalmente i paesi più ostili all’accoglienza degli immigrati sono quelli che ne hanno di meno: la Croazia, la Slovacchia e l’Ungheria, ad esempio, ne hanno circa l’1%.

Nel mondo ci sono 16 milioni di rifugiati, ma solo 1,3 milioni sono ospitati nei 28 paesi dell’Unione europea, meno del 10%. Nel mondo i paesi che ospitano il maggior numero di rifugiati sono la Turchia (2,5 milioni), il Pakistan (1,6 milioni), il Libano (1,1 milioni) e la Giordania (664mila).

E ancora, in Europa solo il 5,8 per cento della popolazione è di religione islamica, mentre il terrorismo – che tuttavia ha ben poco a che fare con la vera religione – colpisce molto di più al di fuori dei confini europei: le nostre vittime rappresentano meno dell’1% del totale, perché le maggiori e continue stragi avvengono in Siria, Afghanistan, Iraq, Nigeria, Niger e Somalia, proprio nei paesi da cui fugge la maggioranza dei migranti.

Nel dibattito e nelle scelte europee sull’immigrazione, l’Italia si distingue per umanità e capacità, e sono in gran parte italiani i mezzi e il personale, civile e militare, di pattuglia nel Mediterraneo, dove soccorrono decine di migliaia di esseri umani stremati. Non diamo retta alle proteste sguaiate della minoranza xenofoba, che purtroppo esiste anche nel nostro paese, godiamoci l’orgoglio di essere cittadini di una nazione che incarna nei fatti i valori della civiltà europea.

Sabina Siniscalchi