Bolivia: La morte e il funerale, eventi comunitari

testo e foto di Stefania Raspo |


Il coronavirus ha impatti diversi nelle comunità indigene non soltanto perché mancano strutture sanitarie e medicine, ma anche perché è diversa la loro cultura.

Vilacaya (Potosí).  Il 19 marzo 2020, in conferenza stampa, l’allora presidente dello stato plurinazionale di Bolivia, Jeanine Áñez, decretava la quarantena in tutto il territorio nazionale. Il lockdown è durato molti mesi, anche se con intensità differente: si è iniziato con una quarentena rigida fino al mese di agosto, quindi con graduali aperture dal mese di settembre, anche se la situazione di contagio non è uguale in tutte le regioni del paese, e in alcune aree più problematiche si sono prolungate le restrizioni anche nel mese di ottobre. In queste pagine non parleremo però del numero dei contagi e dei morti, e ciò per due ragioni. La prima è banale: essi sono facilmente reperibili sui siti istituzionali. La seconda è sostanziale: i numeri sono una mera opinione in un paese che, per mesi, ha effettuato una quantità irrisoria di tamponi e, fino a oggi, non può contare su un numero adeguato di laboratori per analizzarli. Vogliamo, piuttosto, considerare due aspetti della pandemia: il fatto che che in Bolivia si abbatta su una popolazione a maggioranza indigena, e le conseguenze che il coronavirus ha avuto sulla politica.

Le culture indigene e il coronavirus

Con il suo 60 per cento, la Bolivia è uno dei paesi con la maggior presenza indigena di tutto il continente americano. Come vive la pandemia un paese con profonde radici tradizionali (ancestrali)?

A questa domanda si può rispondere sotto diversi punti di vista. A livello sociale, i gruppi indigeni (soprattutto dell’Amazzonia) sono tra i più vulnerabili, persino a rischio di estinzione: il gruppo Esse Ejja, che ormai conta pochi individui, se venisse attaccato dal virus scomparirebbe, considerando che molti suoi membri soffrono di tubercolosi. Per di più, le comunità indigene dell’Oriente boliviano (le cosiddette Terre Basse, che comprendono una buona porzione della foresta amazzonica del paese) non godono dell’assistenza sanitaria che, seppur precaria, possono avere invece gli abitanti dei centri urbani.

Donne indigene a La Paz. Foto: Kaniri – Pixabay.

Per capire come la cultura ancestrale agisce e reagisce di fronte al contagio del coronavirus, è meglio spostarsi nelle aree rurali, dove i saperi tradizionali sono ancora molto vivi. Prima di tutto, ci sono i medici tradizionali che si sono mossi e si sono incontrati per cercare insieme soluzioni alla malattia. Allo stesso tempo, si è attivata la profonda conoscenza della natura che un po’ tutti possiedono: le erbe aiutano a superare la malattia o a prevenirla. Ogni cultura, poi, ha sviluppato nei secoli terapie che comprendono anche un ambito spirituale e il contatto con le forze cosmiche.

Comunque, i contagi nell’area rurale sono stati pochi, come le morti. Forse per la bassa densità di popolazione. Forse anche per la vita più sana della gente benché – questo sia ben chiaro – viva in una condizione di povertà cronica. O forse – davvero – i saperi medici indigeni hanno le armi per combattere il coronavirus.

Detto questo, è stato però inevitabile uno scontro culturale tra gli usi e costumi delle comunità e le regole contro la pandemia imposte dalle autorità. In particolare sui modi con cui affrontare l’evento della morte che, nella maggior parte delle culture, è un forte momento collettivo, accompagnato da molti rituali con elementi cristiani e ancestrali.

Nel caso delle comunità contadine quechua, il funerale è un tempo comunitario, per questo è molto difficile che si accetti una cerimonia a porte chiuse. È successo nell’altipiano de La Paz: sono arrivati i poliziotti per disperdere il ritrovo di tante persone nel cimitero, persone che sono state prese a botte.

Qualcuno potrebbe giudicare come ignoranti e testardi gli andini, ma si tratta invece di qualcosa di profondo, perché la presenza dei defunti continua viva nella comunità. Il funerale non è un saluto formale a chi non c’è già più. Da qui scaturisce un forte shock culturale tra le comunità indigene. Tuttavia, poiché il controllo dell’ordine sociale è quasi inesistente (ci sono pochi poliziotti per vaste estensioni di territorio), il lockdown governativo è sempre aggirato con facilità.

Il villaggio di Vilacaya, dove noi operiamo da più di sette anni, si trova in un’area povera e arida. Qui ci sono centri sanitari pubblici nelle comunità più grandi, però il medico e l’infermiera visitano anche le borgate minori. Il sistema sanitario è gratuito da due anni, ma gli ambulatori sono poco forniti di medicine. In ogni caso, durante questa emergenza, hanno fatto una buona campagna di prevenzione, insegnando i comportamenti adeguati per non contagiarsi, e distribuendo mascherine alle famiglie. Tra gli operatori sanitari ci sono stati molti contagi e anche alcune morti.

Improvvisazione politica

Un altro aspetto della pandemia da sottolineare è la sua influenza sulla politica nazionale. Fin dall’inizio, alcuni analisti hanno previsto che molti governi in America sarebbero stati messi alla prova dall’emergenza sanitaria, e si sarebbero rafforzati oppure indeboliti, a seconda della gestione e politica che avrebbero attuato.

Un’infermiera al lavoro nel villaggio di Vilacaya. Foto: Stefania Raspo / MC.

Così è stato in Bolivia (non entriamo nel merito di altri paesi, anche se si potrebbe dire lo stesso): dopo i tumulti sociali che l’anno scorso hanno ribaltato il risultato elettorale, che vedeva di nuovo Evo Morales come vincitore, il paese è stato guidato da un governo di transizione, con a capo la presidente Jeanine Áñez, in vista delle nuove elezioni.

La pandemia ha fatto rimandare la data del voto almeno tre volte, l’ultima con grande tumulto popolare che ha paralizzato il paese per circa due settimane in agosto. Infatti, i parlamentari del Mas (il partito di Evo Morales, con la maggioranza di eletti) avevano cocciutamente imposto la data per inizio settembre, con grande rischio di contagi (già si calcolava che questo mese sarebbe stato il più critico). Il tribunale elettorale ha rimandato ad ottobre le elezioni, suscitando l’ira del Mas e del sindacato nazionale. Il governo non ha reagito, perché nel frattempo Jeanine Áñez si era candidata per la presidenza, e non voleva sbilanciarsi, cosa che in campagna politica significa essere strumentalizzati o a favore o a sfavore.

Eppure, al primo sondaggio sui candidati, Jeanine è risultata una delle ultime, con solo il 3% delle preferenze. Perché? La sua candidatura non è piaciuta da subito: era salita al potere dicendo di essere solamente la persona che avrebbe portato il paese a elezioni democratiche e che poi avrebbe lasciato il posto, promessa che si è rimangiata con la propria candidatura. Ma non si tratta solo di questo: il governo di transizione non ha saputo coordinare un’azione in sinergia con i governatori dei dipartimenti e delle provincie, molte volte ha agito senza consultare le altre istituzioni, e senza preavviso. È il caso della chiusura dell’anno scolastico in agosto: all’annuncio del ministro dell’istruzione, nessuno lo sapeva e gli addetti ai lavori dell’educazione sono insorti contro una decisione unilaterale e non concertata. Alla reazione generale, il governo ha fatto marcia indietro parlando di una mera chiusura amministrativa, e che le lezioni a distanza sarebbero continuate. Insomma, unafiguraccia, ma non è stato l’unico esempio di politica con il sapore dell’improvvisazione. Il risultato è che il 17 settembre Jeanine Áñez ha ritirato la propria candidatura.

I vincitori delle elezioni del 18 ottobre dovranno subito fare i conti con un paese più povero, con meno lavoro, con un sistema sanitario fragile e inadeguato all’emergenza sanitaria. Ossia le conseguenze della pandemia peseranno anche sul prossimo governo e forse anche sulla stessa stabilità politica del paese.

Stefania Raspo
(Missione MC di Vilacaya)

Cimitero di Vilacaya il 2 di novembre, ricorrenza dei morti: alcuni bambini ricevono del pane dal parente di un defunto. Foto: Stefania Raspo / MC.




Li chiamavamo «pellerossa»

testo di Paolo Moiola |


A qualcuno potrà sembrare strano, ma gli «indiani d’America» non esistono soltanto nei film. Confinati nelle loro riserve, essi costituiscono una minoranza un tempo oppressa o sterminata, oggi impoverita ed emarginata.

Sono due i motivi per cui, in questi mesi, gli «indiani d’America» (american indians) sono usciti dall’oblio. Il primo è contingente: essi sono stati duramente colpiti dal nuovo coronavirus. Basti ricordare che nella riserva dei Navajo – la più grande e popolata degli Stati Uniti – si sono contati 8.142 casi e 396 morti (al 11 luglio), con un’incidenza dell’infezione maggiore che a New York.

ll secondo motivo riguarda invece una loro condizione esistenziale riemersa a causa della crisi razziale scoppiata a fine maggio con la minoranza nera del paese. Accanto allo slogan Black lives matter, è stato ricordato che Native lives matter. Anzi, i «nativi americani» – come normalmente vengono chiamati i popoli indigeni statunitensi – costituiscono la minoranza più povera ed emarginata dell’intera popolazione Usa.

Per rimanere in tema di rapporti tra popolazione e forze dell’ordine, già nel 2015 un dossier dei Lakota del South Dakota evidenziava l’uso sproporzionato della forza da parte della polizia nei confronti dei nativi. E a supporto citava le considerazioni del Centre of disease control and prevention (Cdc, equivalente al nostro Istituto superiore di sanità): «Il gruppo razziale a maggior rischio di uccisione da parte delle forze dell’ordine è quello dei nativi americani, seguito dagli afro americani, dai latini, dai bianchi e dagli asiatici americani». Inoltre, il numero degli indiani rinchiuso in carceri federali o locali è varie volte più alto di quello di qualsiasi altra etnia. Secondo il rapporto dei Lakota, ciò è dovuto a pratiche discriminatorie indotte dal razzismo delle forze dell’ordine e alla povertà degli accusati che non possono permettersi di pagare un avvocato.

Per rimanere sull’attualità, va ricordata l’arroganza della Casa Bianca rispetto alle questioni che coinvolgono i territori dei nativi. Donald Trump – in lizza per un posto di rilievo nella classifica dei peggiori presidenti della storia Usa – a gennaio 2020 ha sbloccato il progetto del gasdotto Keystone XL, che lui stesso aveva riesumato con un ordine esecutivo nel gennaio 2017, dopo che il suo predecessore Barack Obama lo aveva accantonato.

Il progetto prevede un gasdotto lungo quasi 1.900 chilometri che dovrebbe trasportare il petrolio da Hardisty (Alberta, Canada) a Steel City, nel Nebraska, dopo aver attraversato Montana e South Dakota. Un altro gasdotto, già attivo e molto contestato da ambientalisti e nativi, è il «Dakota access pipeline» che percorre (interrato) il North Dakota, il South Dakota, lo Iowa e l’Illinois. Il petrolio vi scorre da tempo, ma le controversie non si sono mai fermate. Tanto che lo scorso 6 luglio un giudice distrettuale ha sentenziato che è necessaria una valutazione ambientale più accurata e che, nel frattempo, l’oleodotto deve essere chiuso e svuotato del petrolio entro il 5 agosto (New York Times).

A parte le pesanti conseguenze ambientali dei due progetti, quello che colpisce è l’assoluta mancanza di rispetto nei confronti delle popolazioni native sui cui territori gli oleodotti si trovano o troveranno a transitare. Assenza di consultazione, rischio di inquinamento delle falde idriche, violazione dei luoghi sacri sono le principali accuse rivolte dai nativi alle autorità. Insomma, si tratti di comportamento della polizia o di sovranità territoriale, oggi come ieri la storia dei popoli nativi degli Stati Uniti continua a ripetersi sempre eguale tra discriminazione ed emarginazione.

Tre Sioux in una foto di Edward Sheriff Curtis (1868-1952), etnologo e fotografo dei popoli nativi nordamericani. Foto di Edward Sheriff Curtis.

Il cammino delle lacrime

Secondo il censimento del 2010 (quello del 2020 è ancora in corso), negli Stati Uniti ci sono 5,2 milioni di nativi, pari all’1,7 per cento della popolazione totale. Soltanto una piccola parte di essi (il 22 per cento) risiede nelle riserve (reservations, la prima risale al 1758) indiane. Probabilmente perché in esse le condizioni di vita sono «comparabili a quelle del Terzo mondo» (Gallup, 2004) con abitazioni inadeguate, mancanza di lavoro e di servizi.

La storia della sottomissione e del declino dei popoli nativi del Nord America iniziò subito dopo l’arrivo (1492) di Cristoforo Colombo. Con i conquistatori spagnoli che arrivarono in Florida, Juan Ponce de Leon (1513) e Hernando de Soto (1539). Con inglesi e francesi che arrivarono nei territori del Nord (dalle propaggini orientali dell’attuale Canada fino alla baia di New York) sotto la guida di navigatori italiani: nel 1497 Giovanni Caboto (per l’Inghilterra) e nel 1524 Giovanni da Verrazzano (per la Francia). L’invasione era ormai iniziata e, nonostante la resistenza (e molte guerre), per i popoli nativi la sorte era segnata.

Un bando pubblico del 1911 per la vendita di terre indiane: si elencano le caratteristiche delle terre, lo stato dove si trovano, la superficie, il costo medio per acro. Foto Library of Congress.

Uno dei leader statunitensi più risoluti nella lotta contro i popoli nativi fu Andrew Jackson (1767 – 1845), prima come generale e poi come presidente. Come comandante combattè per un biennio (1813-1814) contro i Creek, i quali alla fine dovettero cedere un territorio di oltre nove milioni di ettari (oggi facenti parte dell’Alabama centrale e della Georgia meridionale).

Apprezzato dai governanti di Washington, Jackson rivolse l’attenzione verso la Florida (1818), possedimento spagnolo abitato dai Seminole. Le guerre con questo gruppo proseguirono a lungo, soprattutto dopo che gli Stati Uniti acquistarono la stessa Florida dalla Spagna (1821).

Eletto presidente, Andrew Jackson proseguì la sua politica di segregazione dei popoli nativi. Nel 1830 firmò la «legge di rimozione» (Indian Removal Act), che avrebbe segnato l’esistenza dei popoli nativi per molti decenni. Tra il 1830 e il 1838 migliaia di Creek e di Cherokee furono spinti a lasciare («volontariamente») le loro terre e ricollocarsi in altre, soprattutto in Oklahoma. Questa deportazione è storicamente conosciuta come the Trail of Tears, «il sentiero delle lacrime» (cfr. mappa).

Andrew Jackson è considerato da Donald Trump non soltanto un eroe, ma un esempio da imitare. Oltre a citarlo spesso, il presidente si fa riprendere nello Studio Ovale con un suo ritratto alle spalle. Quando – lo scorso 22 giugno – un gruppo di manifestanti ha tentato di rovesciare la statua equestre di Jackson, posta nel parco Lafayette (a pochi passi dalla Casa Bianca), Trump – presidente «della legge e dell’ordine» – ha reagito con veemenza chiedendo dieci anni di prigione per i colpevoli.

A proposito di simboli, c’è un’immagine che meglio di ogni monumento o di ogni discorso fa capire con quale violenza e arroganza si sia arrivati alla sottomissione e all’emarginazione dei popoli nativi degli Stati Uniti. È un bando pubblico del ministero dell’interno risalente al 1911. L’oggetto dell’avviso è ben chiarito dalla sua intestazione: «Indian land for sale», terra indigena in vendita. Al centro dello stesso una foto di un leader indigeno con attorno e sotto una cospicua serie di dettagli. Si tratta di «ottime terre ad Ovest», irrigate o irrigabili, con pascoli e terre agricole. Pagamenti facilitati e possesso legale in soli 30 giorni. Più sotto l’elenco degli stati interessati e del prezzo medio per acro di terra: si va dai 7,27 dollari del Colorado ai 41,37 di Washington.

Insomma, dopo essere stati cacciati o deportati, i popoli nativi videro il loro diritto alla terra messo in vendita sul mercato. E ciò in base a una legge del 1887 – il Dawes Act (o General Allotment Act) – con la quale il governo centrale voleva assimilare i nativi al resto della popolazione facendo loro accettare i principi del capitalismo e della proprietà privata, inesistenti nelle culture indigene. La norma venne annullata nel 1934, ma ormai i danni materiali e culturali erano fatti. Secondo la Indian Land Tenure Fundation, i popoli nativi persero 364mila chilometri quadrati di terra (un’estensione superiore a quella dell’intero territorio italiano).

Supremazia bianca

La prima seduta del Congresso degli Stati Uniti ebbe luogo nel 1789. In 221 anni sono entrati nel Congresso soltanto 22 nativi. Le prime due donne sono state elette in questa legislatura. Si tratta di Sharice Davids (della tribù degli Ho-Chunk) e Deb Haaland (della tribù dei Puebloans), entrambe appartenenti al partito Democratico.

«L’amministrazione Trump – ha commentato la Haaland in un tweet del 25 giugno – non riconosce l’incredibile storia culturale delle popolazioni indigene in questo continente. La difesa  della supremazia bianca da parte del presidente è incredibilmente offensiva e le sue azioni riflettono la sua mancanza di rispetto per le comunità native».

Per gli indiani d’America «il sentiero delle lacrime» pare non aver mai fine.

Paolo Moiola
(prima puntata – continua)

L’ex presidente Barack Obama, attorniato da membri della propria amministrazione e da leader indiani, firma il Tribal Law and Order Act (29 luglio 2010). Foto Saul Loeb – Afp/Getty – Obama White House Archives.


Ritratto di indiano. Foto di Edward Sheriff Curtis.

Tab. 1 / Nativi americani*: i numeri

  • numero nativi* al 2010: 5,2 milioni
  • percentuale su popolazione: 1,7 per cento
  • numero nativi ante-Conquista: 10-12 milioni
  • entità tribali* riconosciute: 574
  • riserve indiane: 326
  • nativi residenti nelle riserve: 22 per cento
  • riserva principale: Navajo Nation
  • i 10 popoli principali: Cherokee, Navajo, Choctaw, Sioux,  Chippewa, Apache, Blackfeet, Iroquois, Pueblo, Creek.

(*) «Natives», «native americans», «native american population», «native peoples», «indian tribes», sono i termini utilizzati negli Stati Uniti per «indigeni» e «popoli indigeni». Nel conteggio dei nativi sono inclusi gli indigeni dell’Alaska (100mila circa) ed esclusi quelli delle Hawaii (500mila).

(Pa.Mo.)

Fonti: Census Bureau (census.gov); National Congress of American Indians (ncai.org); Bureau of Indian Affairs (bia.gov).


Cosa dice la scienza

Vulnerabilità indigena

Capo degli Oglala Lakota nel 1899. Foto: Frank A. Rinehart – Boston Public Library.

La pandemia causata dal nuovo coronavirus ha confermato la maggiore vulnerabilità dei popoli indigeni. Secondo varie ricerche scientifiche, essa ha molte cause:

  • maggiore vulnerabilità alle malattie («virgin soil epidemics»);
  • indicatori sanitari peggiori (mortalità infantile e materna, speranza di vita);
  • più stress epigenetici (oppressione e violenza generazionali);
  • maggiore correlazione con il declino delle risorse ambientali (acqua, terre, foreste, biodiversità);
  • peggiori condizioni esistenziali (abitazioni, vita multigenerazionale, carenza di presidi minimi come l’acqua potabile);
  • carente accesso alle strutture sanitarie.

(a cura di Paolo Moiola)

Fonti: Indigenous populations: left behind in the Covid-19 response, in «Lancet», 6 giugno 2020; Protect Indigenous peoples from Covid-19, in «Science», 17 aprile 2020; Mortality from contact-related epidemics among indigenous populations in Greater Amazonia, in «Nature», settembre 2015.


Tab. 2 / Riserva «Navajo Nation»*

  • superficie: 71.000 km2*
  • stati interessati: Utah, Arizona, New Mexico
  • popolazione: 173.000*
  • presidente: Jonathan Nez
  • tasso di disoccupazione: 40 per cento
  • tasso di povertà: 40 per cento

(*)  La maggiore riserva indiana degli Stati Uniti sia per estensione che per popolazione.

(Pa.Mo.)

Fonti: www.navajo-nsn.gov; www.opvp.navajo-nsn.gov; BBC.


Ritratto di un Cherokee. Foto di Hernan Heyn – Library of Congress.

Tab. 3 / Principali norme di legge (Acts) tra governo Usa e popolazioni native

  • 1830: The Indian Removal Act
  • 1851: The Indian Appropriations Act
  • 1887: The General Allotment (Dawes) Act
  • 1924: The Indian Citizenship (Snyder) Act
  • 1934: The Indian Reorganisation Act (Ira)
  • 1968: The Indian Civil Rights Act (Indian Bill of Rights)
  • 2010: The Tribal Law and Order Act

(Pa.Mo.)

Fonti: www.law.cornell.edu; Andrew Boxer in «History Review», settembre 2009.

Cavalli nella Monument Valley, riserva della Nazione Navajo. Foto di Steen Jepsen – Pixabay.




Brasile: Chico Mendes sfrattato

testi di Silvia Zaccaria e Paolo Moiola |


Nata nel 1994 per aiutare i figli dei caboclos del Rio Jauaperi, un affluente del Rio Negro, nell’Amazzonia brasiliana, la scuola di «Vivamazzonia» è stata costretta a chiudere a fine dicembre. Un’esperienza pedagogica e didattica di grande respiro ha dovuto cedere il passo al business e al momento storico.

Il dibattito sul futuro dell’Amazzonia e dei suoi popoli è recentemente tornato di drammatica attualità: deforestazione incontrollata, disconoscimento dei diritti costituzionali delle minoranze e un nuovo nemico sconosciuto e invisibile (il coronavirus) che penetra anche nei villaggi più remoti, rappresentano una minaccia non solo per i popoli indigeni ma anche per quelle popolazioni tradizionali – seringueiros, quilombolas e ribeirinhos (si veda glossario, ndr) – che da secoli dipendono dalla foresta per la propria sopravvivenza fisica e culturale.

La relazione privilegiata che intrattengono con essa ha permesso a questi gruppi umani di acquisire conoscenze sconfinate su animali e piante, comprese quelle medicinali, sul ritmo delle acque dei fiumi e sul regime delle piogge.

Senza un’educazione, incentrata sulla valorizzazione di questi saperi e sull’accesso alla cittadinanza, alle nuove generazioni nate e cresciute nella foresta – dove ormai vive appena il 26% della popolazione amazzonica – non resta che emigrare verso le città, nelle quali, persi i propri riferimenti socio spaziali, rischiano di diventare facili prede dei circuiti illegali.

Per provare ad arginare questo fenomeno apparentemente inarrestabile, una coppia di volontari venuti da lontano ha portato avanti per oltre vent’anni (1994-2020) un progetto educativo visionario nel cuore della foresta. Che ora è stato bruscamente interrotto.

Piccoli di tartaruga per una lezione di ecologia quotidiana degli alunni «caboclos» della scuola di Vivamazzonia. Foto di Sitah.

La scuola di Bianca e Paul

Tra la fine degli anni Ottanta e i primi anni Novanta, l’Amazzonia inizia ad attirare l’attenzione dell’opinione pubblica e della comunità internazionale a causa del profondo disboscamento che già interessa ampie zone della foresta. Il leader indigeno Raoni Kayapò sta facendo conoscere al mondo il dramma del suo popolo e Chico Mendes, seringueiro e sindacalista, viene assassinato (22 dicembre 1988).

Dopo un primo viaggio al confine tra gli stati di Amazonas e Roraima, nel Nord del Brasile, una giovane toscana, Bianca Bencivenni e Paul Clark, scozzese, decidono di trasferirsi in un’area ancora poco esplorata del rio Jauaperi, un affluente del rio Negro, abitata solo dagli indigeni Waimiri-Atroari e dai caboclos, un misto di indigeni e persone immigrate dal Nord Est del paese, che vive in un isolamento geografico e culturale lungo i fiumi e gli igarapés (corsi d’acqua navigabili in canoa), da cui anche l’appellativo ribeirinhos.

Dopo qualche tempo, gli abitanti del posto chiedono a Bianca e Paul di insegnare a leggere e a scrivere ai loro figli, perché l’unica scuola pubblica esistente nella zona è quasi sempre chiusa visto che i professori, non venendo pagati, non si presentano per mesi.

Così, nel 1994 viene aperta una nuova scuola sul fiume: una maloca senza pareti, sul modello di quella dei vicini indigeni, dove realizzare un’educazione compenetrata con il contesto in cui, allo studio delle materie curricolari, si alternano uscite all’esterno, per fare esperienza diretta del mondo circostante, carico di significati.

Il libro e l’Italia

A seguito dei viaggi della coppia in Italia, dove fanno conoscere l’iniziativa soprattutto nelle scuole, alcune di esse avviano degli intensi scambi epistolari con la scuola nella foresta. Dai disegni colorati e dalle parole piene di poesia degli alunni del primo ciclo nasce      O livro da selva, libro bilingue italiano-portoghese.

Nel 1998 Paul e Bianca fondano, poco più a Sud, la scuola Vivamazzonia, dal nome dell’associazione omonima cui hanno dato vita con un gruppo di amici italiani.

La prima generazione di ragazze e ragazzi alfabetizzati spinge gli adulti della comunità ad imparare a leggere e a scrivere, per uscire dalla condizione di svantaggio che li rende facile preda di coloro che da sempre approfittano di una popolazione analfabeta e sottomessa.

La scuola avvia anche progetti di preservazione della natura e di sensibilizzazione contro la pesca predatoria e il bracconaggio di alcune specie di tartarughe a rischio di estinzione. Progetti che coinvolgono gli alunni in un’esperienza unica di educazione e attivismo ambientale.

Queste attività generano l’ostilità di una parte della popolazione. Bianca e Paul subiscono minacce e intimidazioni anche da parte del governo locale che non esita a mandare un contingente militare nella zona.

La «riserva estrattiva»

La copertina del libro bilingue sulla foresta amazzonica disegnato dagli alunni della scuola Vivamazzonia. Foto Paolo Moiola.

Sul fiume manca qualsiasi realtà organizzata che rappresenti le istanze degli abitanti e si opponga alle attività illecite portate avanti da una parte di questi.

A partire dal lavoro con i bambini, Paul e Bianca stimolano i genitori a costituirsi in associazione per generare una fonte di reddito alternativa e sostenibile a partire dal riscatto di antiche tecniche artigianali e, allo stesso tempo, agire assieme ai figli in difesa del proprio ambiente di vita.

Nasce l’Associazione degli artigiani del Rio Jauaperi (Aarj). Questa si impegna da subito per raggiungere un accordo intercomunitario che proibisca la pesca commerciale (la legge relativa è in vigore ancora oggi) e sostiene la creazione di una «riserva estrattiva» sul fiume.

Riconosciuta nel giugno 2018, dopo anni di lotte, la «Reserva extrativista baixo rio Branco-Jauaperi» è una delle 89 aree protette esistenti oggi in tutto il Brasile. Nelle riserve le risorse sono utilizzate solamente dalle popolazioni locali che da esse traggono il proprio sostentamento e di cui Chico Mendes fu strenuo sostenitore.

Nel gennaio 2020, dopo oltre vent’anni di attività, in gran parte prestata a titolo volontario, Bianca e Paul sospendono le lezioni per una scelta politica dell’amministrazione di Novo Airão, il municipio di appartenenza. E questo, malgrado il riconoscimento di tante madri, padri e dei loro figli, oltre che di personalità della cultura e dello spettacolo, tra cui il musicista e attivista per i diritti indigeni Milton Nascimento che aveva recentemente fatto visita alla scuola Vivamazzonia.

Caboclos di ieri e di oggi

Pescatori, piccoli agricoltori, artigiani, raccoglitori dei prodotti della foresta (extrativistas), levatrici tradizionali (parteiras) e guaritori: questi erano i caboclos quando li ho conosciuti al principio degli anni ’90.

Oggi alcuni partecipano a progetti di ecoturismo come guardie ecologiche e, di quella prima generazione di bambini alfabetizzati, alcuni sono diventati professori. Oggi hanno una legge che – teoricamente – tutela la lora terra e, con essa, la loro cultura.

Politiche contrarie alla protezione ambientale e ai popoli indigeni e tradizionali come quella dell’attuale governo brasiliano – che trova seguaci persino negli angoli più sperduti del paese tra coloro che si accaparrano voti approfittando dell’abitudine atavica dei più deboli di rinunciare ai propri diritti in cambio di qualche sacco di riso e pacco di zucchero – ostacolano la maturazione di una vera consapevolezza ecologica e di una coscienza politica anche alle latitudini amazzoniche.

Neanche il duro lavoro di persone come Paul e Bianca può determinare, da solo, quel cambiamento culturale dal basso necessario a contrastare la distruzione e l’abbandono della foresta e la perdurante situazione di esclusione socio-economica dei suoi abitanti.

Tra i caboclos, i rezadores e i pajé (sciamani), capaci di guarire e riparare i mali, sono praticamente scomparsi; il boto cor de rosa (un delfino di fiume, ritenuto in grado di trasformarsi in essere umano) è quasi estinto, mentre il mapinguari, il curupira e altri esseri fantastici non popolano più la foresta, né l’immaginario di piccoli e grandi.

Quando le risorse naturali saranno consumate definitivamente in nome dello «sviluppo», i caboclos di oggi si ritroveranno, come la generazione precedente, a vagare nelle metropoli amazzoniche, dimentichi della propria cultura e delle proprie radici, ma questa volta non sarà più possibile tornare indietro.

Silvia Zaccaria

Alunni caboclos della scuola Vivamazzonia. Foto di Sitah.


Il Brasile e la presidenza Bolsonaro

Senza freni, senza vergogna

All’alleanza tra Bolsonaro, militari, allevatori ed evangelici ora si è aggiunto anche il nuovo coronavirus. Un mix micidiale che sta devastando l’ambiente e mettendo a rischio la vita dei brasiliani e la stessa sopravvivenza dei popoli indigeni.

Uno Yanomami con mascherina protettiva durante una riunione a Boa Vista. Foto: Carlo Zacquini.

Difficile dire cosa stia procurando più danno ai popoli indigeni e all’Amazzonia: se le politiche poste in essere dal governo di Jair Messias Bolsonaro o il nuovo coronavirus. Di certo, la pandemia ha trovato maggiori possibilità di diffondersi e di uccidere a causa delle politiche governative. Nel corso di questo 2020, Bolsonaro, il Trump brasiliano – come viene giustamente soprannominato -, non ha modificato di un millimetro le proprie posizioni anti-indigene e anti-ambientaliste, forte dell’appoggio dei militari, degli allevatori e degli evangelici, tutti ben rappresentati nella compagine governativa.

Fin dall’inizio Bolsonaro ha ripetuto che con lui non ci sarebbero state altre demarcazioni di terre indigene. Il presidente non si è però limitato a bloccare questo processo, peraltro previsto dall’articolo 231 della Costituzione brasiliana del 1988. Ha addirittura iniziato un’operazione contraria sottraendo terre ai popoli indigeni. In qualsiasi modo. Sia non frenando le invasioni (come quelle dei garimpeiros nella terra degli Yanomami) che cercando di legalizzarle attraverso il riconoscimento formale delle terre invase e, di conseguenza, della pratica fraudolenta nota come «grilagem de terras» (falsificazione della proprietà fondiaria). Invasioni che, in questo periodo, hanno tra l’altro favorito la diffusione del nuovo coronavirus tra popolazioni più vulnerabili – lo certificano sia la scienza che la storia – ad alcune patologie rispetto ai Bianchi (si parla di «virgin soil epidemics»).

Cancellare la foresta e i popoli indigeni

La deriva di Bolsonaro coinvolge anche i suoi ministri. Abraham Weintraub, ministro dell’istruzione, ha dichiarato: «Odio il termine “popoli indigeni”» (22 aprile). Per parte sua, Ricardo Sales, ministro dell’ambiente, ha spiegato che è necessario approfittare della pandemia e della conseguente disattenzione dei mezzi d’informazione per cambiare le regole ambientali in senso meno restrittivo. Non si è fatto attendere il plauso delle potenti organizzazioni dell’agrobusiness.

La deriva è così sfacciata che un quotidiano conservatore e moderato come la Folha de S.Paulo è arrivato a scrivere, in un proprio editoriale (del 24 maggio), che «Per il governo di Bolsonaro, una buona foresta è una foresta morta» (Para o governo Bolsonaro, floresta boa é floresta morta). I dati confermano drammaticamente questa affermazione. Per esempio, lo scorso mese di aprile l’Amazzonia brasiliana ha perso 405,61 chilometri quadrati di foresta, segnando un incremento del 64% rispetto allo stesso mese dell’anno passato (dati ufficiali Inpe-sistema Deter). Stessa devastazione stanno subendo la Mata Atlantica e il Cerrado, gli altri due biomi brasiliani.

Chi si discosta dalla linea del presidente viene prontamente sostituito: è successo con il ministro della giustizia, Sérgio Moro (il controverso giudice che ha fatto condannare l’ex presidente Lula), e con ben due ministri della salute, entrambi medici, Luiz Mandetta e Nelson Teich. In piena pandemia il dicastero della salute è stato affidato a Eduardo Pazuello, un generale dell’esercito.

La religione come strumento

È più difficile che ci siano problemi con la ministra per la famiglia, la donna e i diritti umani, Damares Alves, pastora evangelica. Uno degli slogan preferiti di Bolsonaro è infatti «Brasil acima de tudo, Deus acima de todos» (il Brasile sopra tutto, Dio sopra tutti). In un tweet il presidente – come Trump, anche lui ha un utilizzo compulsivo di questo strumento di comunicazione – scrive: «Sono presidente perché la maggior parte delle persone si è fidata di me, così come sono vivo perché Dio lo ha permesso» (26 maggio).

Marcelo Augusto Xavier da Silva, nuovo Presidente della Funai / Foto Mario Vilela – FUNAI.

Da sempre Bolsonaro usa la religione in modo strumentale per legare (come peraltro suggerisce l’etimologia del termine: «religare», legare, appunto) a sé una parte della popolazione brasiliana, in particolare quella che segue le cosiddette Chiese neo-evangeliche, avamposto ideologico dell’individualismo e del capitalismo neoliberista.

In quest’ottica, una delle decisioni più spudorate riguarda la nomina di Ricardo Lopes Dias, già missionario nella regione Vale do Javari per conto della organizzazione evangelica Missão Novas Tribos do Brasil (Mntb, all’estero ribattezzata Ethnos 360), a coordinatore per i popoli isolati della Funai, l’organo federale deputato alla difesa dei diritti dei popoli indigeni. Mntb è conosciuta per il suo fondamentalismo e la mancanza di rispetto per le culture indigene. Per fortuna, al momento, la nomina di Dias è stata bloccata da un Tribunale federale perché metterebbe a rischio la politica di non contatto con i popoli in isolamento.

Un piccolo contrattempo in un processo di subordinazione in fase molto avanzata. La Funai, infatti, è già nelle mani di evangelici e latifondisti. Il ministro della giustizia da cui essa dipende è un pastore evangelico (André Mendonça, che dunque porta a due i pastori nel governo Bolsonaro), mentre il suo presidente è un membro della polizia contiguo ai latifondisti e in passato accusatore della stessa Funai (Marcelo Augusto Xavier da Silva).

Il coraggio del Cimi

In tutto questo, va dato merito a quasi tutta la Chiesa cattolica di aver seguito una linea opposta, contrastando in maniera chiara e coraggiosa tutte le politiche anti-indigene e anti-ambientaliste del presidente. In particolare, attraverso il Cimi (Consiglio indigenista missionario) e la Repam (Rete ecclesiale panamazzonica), convinti seguaci della linea segnata da papa Francesco con la Laudato si’ e il Sinodo panamazzonico.

Bolsonaro non considera l’Amazzonia un patrimonio comune dell’umanità. Lo ha detto chiaramente davanti all’assemblea delle Nazioni Unite (a settembre 2019, dopo mesi di incendi forestali estesissimi e devastanti) e lo ha ribadito lo scorso febbraio a papa Francesco il quale, in occasione della presentazione dell’esortazione apostolica «Querida Amazonia», si era azzardato a dire che essa «è anche “nostra”».

La morte è il destino di tutti

Fin dall’inizio il presidente brasiliano è stato un leader negazionista (dell’emergenza climatica e del problema amazzonico). Non poteva che mantenere questo suo atteggiamento anche davanti alla pandemia, prima definita una gripezinha (lieve influenza) poi contrastata con la clorochina (come Trump). In un crescendo di dichiarazioni stupefacenti: il 2 giugno Bolsonaro risponde a una sostenitrice che morire «è il destino di tutti»; il 5 attacca (identicamente a Trump) l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) e ordina di divulgare il bollettino sulla pandemia soltanto nella notte perché così la Globo (la principale emittente del paese) smetterà di essere soltanto una «Tv funerária».

Peccato che il Brasile evidenzi numeri drammatici con oltre 800mila contagiati e più di 40mila morti (dati aggiornati al 11 giugno, anche se il sito ufficiale del Sus è semi oscurato per ordine del presidente). Tra i suoi popoli indigeni si contano 236 morti, 2.390 contagiati e 93 popoli coinvolti (Apib-Sesai, 6 giugno). Numeri che non debbono trarre in inganno facendo sottovalutare la pericolosità della situazione. Oltre alla maggiore vulnerabilità (tra gli indigeni il tasso di letalità arriva al 10%), non dimentichiamo che le aree indigene non sono attrezzate per affrontare emergenze sanitarie di alcun tipo, figuriamoci se lo sono per il nuovo coronavirus.

Via Bolsonaro (e Trump)

La speranza di molti (e nostra) è che, assieme al virus, se ne vada quanto prima anche il presidente Bolsonaro (ci sono molte richieste d’incriminazione nei suoi confronti) e, a novembre (in occasione delle elezioni), anche Donald Trump, il suo collega e sodale nordamericano.

Paolo Moiola

Tra terra e cielo, uno scorcio del fiume Jauaperi e della foresta amazzonica. Foto di Joao Couto.


Glossario

  • Caboclo: discendente da popolazioni indigene e popolazioni immigrate dal Nord Est del paese. Il rapporto dei caboclos con i popoli indigeni è stato sempre conflittuale. Fino a poco tempo fa, i caboclos non si consideravano di sangue indigeno e spesso negavano di avere una pur lontana ascendenza indigena. Vista l’accezione dispregiativa del termine «caboclo», usato dalla società dominante per descrivere una persona socialmente inferiore, che abita nelle zone più interne o nelle periferie urbane dell’Amazzonia, i caboclos hanno iniziato recentemente a rivendicare la propria «indianità».
  • Extrativistas: coloro la cui sussistenza dipende dalle risorse dell’ambiente in cui vivono. Gli extrativistas che abitano l’ambiente amazzonico possono essere: seringueiros se estraggono il caucciù dall’albero della seringa; castanheiros se raccolgono la noce del Brasile; quebradeiras se donne «che spaccano» il cocco della palma babaçu.
  • Igarapé: piccolo corso d’acqua percorribile con la igara (canoa).
  • Pajé: sciamano, il leader spirituale riconosciuto dalla comunità. Mantiene il contatto con gli spiriti. Svolge anche rituali di cura individuali.
  • Quilombolas: discendenti di schiavi fuggiti che, nella foresta, diedero vita a comunità autonome chiamate quilombos.
  • Rezador: persona che cura attraverso le preghiere e che conosce le piante medicinali. Si trova anche in contesti rurali e sincretici.
  • Ribeirinho: è il caboclo abitante lungo le sponde di fiumi, laghi e igarapés amazzonici, che vive di pesca, agricoltura e attività estrattive.
  • Si.Za.

Bianca e Paul, anima del progetto pedagogico Vivamazzonia, con materiale didattico di propria produzione. Foto di Sitah.

Meriti

Lo scorso febbraio la presidenza della Repubblica italiana ha conferito un’onorificenza a una nostra connazionale operante in Amazzonia a cui è stato attribuito il merito per «la prima generazione di bambini non analfabeti, il contrasto all’esodo urbano e alla povertà» sul fiume Jauaperi.

Un obiettivo che Paul e Bianca hanno perseguito proprio in quello stesso angolo di mondo, per oltre venticinque anni con un lavoro instancabile, portato avanti in solitudine e lontano dai riflettori. Un impegno che, purtroppo, non ha ottenuto il riconoscimento che meritava.

Si.Za.

 

 

 




Argentina: Amplificare la voce indigena

testo di José (Giuseppe) Auletta |


Anche in Argentina i missionari della Consolata hanno scelto di operare tra i popoli indigeni. Padre José (Giuseppe) Auletta, oggi tra i Huarpe della provincia di Mendoza, racconta i motivi di questa scelta partendo dalla propria esperienza personale.

La presenza dei missionari della Consolata in Argentina risale al 1946. Gli inizi ci situarono fra Buenos Aires e Rosario. Dopo pochi anni, ci fu la richiesta del vescovo di Resistencia (Chaco), mons. Nicola De Carlo (1940-1951), di dedicarci all’evangelizzazione degli indigeni Tobas, presenti sia nella provincia del Chaco che in quella di Formosa, al Nord Est dell’Argentina. Il servizio in quell’ampia zona andò avanti per un po’ di anni e poi si orientò più che altro a sopperire alla mancanza di clero nella Chiesa locale.

Ad ogni modo, il fatto che si richiedesse a noi missionari, proprio agli inizi della nostra presenza nel paese, e appellandosi allo specifico carisma «ad gentes», di dedicarci ai popoli indigeni, non è un segno da trascurare.

La scelta indigena appare anche negli atti delle Conferenze del nostro istituto. Nell’ultima, si è anche deciso la creazione della vicaria dei popoli indigeni a Yuto (provincia di Juijuy), dove c’è una popolazione guaranì numericamente e culturalmente significativa e dove già presta servizio un nostro confratello, padre Thomas Ishengoma.

La scoperta della realtÀ «Multi»

Donna Rosita Jofré della Comunità huarpe di Asunción. Foto José Auletta.

Per quanto riguarda la mia esperienza personale, capii la chiamata all’accompagnamento dei popoli indigeni quando fui destinato, alla fine del 1983, a Machagai (Chaco). Fu lì che ebbe inizio uno dei momenti forti della mia vita missionaria. Appena presi in carico la parrocchia, mi resi conto che la realtà era «multi»: multietnica e multiculturale, con i criollos/contadini, gli indigeni e gli immigrati europei.

Insieme alle suore della Consolata decidemmo di andare a fare le prime visite alla Colonia aborigen Chaco, che dista dalla parrocchia 20 chilometri. Così, almeno una volta al mese, stabilimmo un primo approccio alla realtà indigena dei Tobas, o Qom, come si chiamano nella loro lingua.

Finito il mio periodo di parroco, la grazia di Dio, con il permesso del superiore, consentì che andassi a vivere dieci anni con loro, inserito nella loro stessa realtà, condividendo la lotta per la terra, da loro iniziata novant’anni prima e coronata, in seguito, con l’aggiudicazione del titolo di terra comunitaria nell’anno 1996. Condivisi, inoltre, diversi progetti che migliorarono le condizioni di vita (strade, centri comunitari, acqua, case, ecc.): tutto portato avanti grazie al tradizionale spirito comunitario indigeno, in un graduale apprendistato da parte mia. Ricordo che quando iniziammo il primo progetto – una strada interna che avrebbe facilitato l’accesso alla scuola, ai posti di assistenza sanitaria e la comunicazione con il centro urbano – nella riunione comunitaria in cui si organizzava il lavoro, misi a disposizione l’aiuto di benefattori per una paga giornaliera di 10 pesos. Alzò la mano un membro della comunità e disse: «Padresito: la ringraziamo, però accettiamo la metà. Il resto è il nostro contributo per qualcosa che si trasformerà in un bene per noi».

Fu lì che appresi come accompagnarli, lasciando da parte assistenzialismo e paternalismo e dando spazio a un reciproco coinvolgimento.

Con lo spirito di Endepa

Sin dai primi anni nel Chaco cominciai a essere in contatto con Endepa (Équipe nazionale di pastorale aborigena).

Endepa mi ha aiutato a essere sempre più concreto e chiaro in questo impegno: prima insegnandomi – con incontri e formazioni – i criteri di accompagnamento, poi assegnandomi alcune responsabilità nella sua struttura organizzativa.

Vissi così una prima tappa, nel Chaco, di 17 anni, a cui fece seguito una seconda di 13, passando dal Nord Est al Nord Ovest, nella diocesi di Orán (provincia di Salta), dove ebbi a che fare con una pluralità etnica molto più varia: Tupí Guaraní, Kolla, Wichi, Tapiete, Chorote e altri.

Come avevo fatto nel Chaco, dovetti seguire problemi di conflitti per la terra, nei quali m’impegnai con tutte le mie forze. L’essere in contatto con quella realtà fu per me sorgente di una grande forza. Vedevo negli indigeni non solo la sofferenza e la fatica di andare avanti per colpa della violenza dei latifondisti e delle multinazionali, ma anche la fiducia che, alla fine, la giustizia avrebbe avuto l’ultima parola.

Questa testimonianza di resistenza indigena fu per me un gran regalo, rafforzando sempre più la convinzione che i popoli indigeni in Argentina sono l’espressione concreta del nostro «ad gentes». Dedicarci a loro ha a che vedere con il nostro carisma. Scoprire e inserirmi in questa realtà mi ha fatto sentire in sintonia con quel carisma.

Donna Rosalba Luxero della Comunità El Puerto, mentre lavora al telaio, importante attività artigianale degli Huarpe. Foto José Auletta.

«Qui non ci sono indigeni»

È stata, ed è, una gioia e una soddisfazione lavorare con lo spirito di Endepa, partecipando al suo impegno con i popoli indigeni e con la Chiesa locale, anche se – proprio a livello di Chiesa e di società – si fa fatica a superare l’idea che, in Argentina, «non ci siano indigeni».

Invece, i popoli indigeni sono una realtà evidente, soprattutto se consideriamo il momento forte dell’auto-riconoscimento della propria identità, in occasione della riforma della Carta costituzionale.

La prima Costituzione risaliva al 1853. Nel 1994, quando fu fatta la riforma, a cui anch’io partecipai, vedevamo i rappresentanti dei popoli indigeni che si aggiravano negli spazi dell’Assemblea costituente rendendo evidente la loro presenza, dal primo all’ultimo giorno. Li chiamavano i «Costituenti di corridoio». Sempre in contatto con un costituente o un altro, per dire loro con tutta chiarezza: «Noi siamo qui, esistiamo e abbiamo diritti!».

Che cosa successe con questa riforma? Dopo tante discussioni, venne approvato l’articolo 75 comma 17, che finalmente riconobbe la preesistenza etnica e culturale dei popoli indigeni, il diritto alla terra, il diritto all’educazione bilingue e interculturale, il diritto a essere consultati su questioni che li riguardano, soprattutto circa l’uso delle risorse (beni) e del territorio. Entrare nella Costituzione rappresentava il riconoscimento dell’Argentina come paese plurietnico e plurinazionale.

In tutto questo cammino Endepa è stata presente. Attualmente faccio parte del Coordinamento nazionale che è composto da una coordinatrice presidente e due coordinatori per le tre regioni (Sud, Nord Ovest e Nord Est). Io rappresento la regione Nord Ovest, insieme con un’altra persona.

Questa appartenenza permette di sentirmi ed essere considerato semplicemente un fratello, nella condivisione del cammino delle comunità originarie, celebrando la fratellanza, che per me è la migliore definizione di missione.

Condividere il cammino con i popoli originari

Asunción, padre Auletta si toglie le scarpe in segno di rispetto per la terra indigena degli Huarpe. Foto: archivio Auletta.

Il cammino condiviso con i popoli indigeni è un vero apprendistato in cui l’agente pastorale – laico, religioso, missionario – accede a una profonda e collettiva esperienza dello Spirito che in tutto esercita il primato, che vive ed è presente in ogni forma del Creato. Questo atteggiamento contemplativo e vitale offre alla Chiesa e all’umanità una profetica purificazione di fronte al secolarismo imperante e alla perdita dei valori spirituali e del senso della vita.

Inoltre, la sfida dell’inculturazione obbliga oggi più che mai a valorizzare l’esperienza religiosa dei popoli originari che credono che il Dio di Gesù Cristo sia stato presente e abbia operato da sempre nelle loro culture e successivamente fu loro annunciato nel Vangelo. Di questo Gesù di Nazareth fa gioiosa esperienza il missionario nel suo quotidiano camminare con i popoli. Si arriva così alla convinzione, secondo la quale, l’esperienza religiosa dei popoli indigeni è valida ed è stata suscitata dallo Spirito. Perciò deve muovere al dialogo interreligioso con coloro che si mantengono fedeli alla cosmovisione e alle esperienze religiose dei predecessori, superando i diversi etnocentrismi.

 

Compagni di cammino

Asunción, padre Auletta si toglie le scarpe in segno di rispetto per la terra indigena degli Huarpe. Foto: archivio Auletta.

È importante superare la paura della scomodità che possono dare gli indigeni all’interno della Chiesa, dovendo cambiare certi schemi. Trent’anni fa la Chiesa era chiamata a essere la «voce dei senza voce». Oggi i popoli indigeni hanno voce propria e la Chiesa deve soltanto amplificarla.

«Non è più ammissibile continuare a vedere gli indigeni come oggetti di studio o solamente come vittime e oggetto di benevolenza, ma come compagni di cammino, come soggetti protagonisti della nostra storia, del nostro sviluppo ed evangelizzazione» (Petul Cut Chab Huistán, teologo indigeno del Chiapas).

Come ebbe a dire papa Francesco a Puerto Maldonado (Perú): «Più che parlare di “minoranze etniche”, bisogna parlare di “rappresentanti autorevoli” della loro realtà e identità di popoli». «Gentes», appunto, e non minoranze.

Riprendendo il «vissuto» della missione come fratellanza, mi preme mettere in risalto che questa ha come basi fondamentali due elementi: la presenza dei «semi del Verbo» in ogni popolo e cultura e il paradigma dell’interculturalità.

 

Un rapporto tra eguali

I «semi del Verbo» sostengono la saggezza, le varie espressioni di spiritualità e perfino una vera e propria teologia indigena.

Il paradigma dell’interculturalità ci permette di stabilire un rapporto da uguali fra culture, lasciando da parte ogni pretesa di superiorità che, per troppo tempo, abbiamo manifestato nel nostro modo di fare missione.

Diventa, per noi missionari ad gentes, essenziale scuoterci dal torpore e prendere coscienza della necessità di formarci al riguardo sin dai primi anni, in vista del presente e del futuro di quanti scelgono la missione.

L’Argentina fa parte di un continente con una ricchissima varietà di popoli indigeni. Finalmente riconosciuti, essi non sono solo il passato, ma il presente per qualsiasi società. Come anche per il carisma dei missionari della Consolata, arricchito dal «cosmo vissuto» di questi popoli.

José (Giuseppe) Auletta*

(*) Oggi padre Auletta lavora nella provincia di Mendoza, occupandosi, su delega del vescovo mons. Marcello Colombo, del territorio denominato «Secano Lavallino» abitato da 11 comunità indigene appartenenti al popolo huarpe. Le comunità sono sparse su una superficie di 700mila ettari (7mila chilometri quadrati). Ne parleremo in maniera approfondita in un prossimo articolo.


Il coronavirus in Argentina

Tanta uva, poca solidarietà

Anche in Argentina è arrivato il virus della Covid-19. Nell’attualità sembra che i casi siano relativamente pochi, sia di malati che di morti (27.373 positivi, 765 deceduti, all’11 giugno). Tuttavia, dare cifre di contagiati, quantità di tamponi, ricoverati con diversa gravità e deceduti, è molto relativo, se non azzardato, soprattutto con riferimento a quanto succede nelle grandi città (Buenos Aires, Rosario, Córdoba, Santa Fe, Mendoza) o in provincie dell’interno, ognuna con situazioni diverse.

La maggior parte dei casi complicati si registra nella capitale e nella Gran Buenos Aires e in fase di lento però costante aumento, soprattutto negli insediamenti tipo «villas miserias».

La situazione potrebbe aggravarsi in prossimità della stagione fredda di metà autunno e successivamente della prima parte dell’inverno.

Il governo nazionale, in accordo con le provincie, ha adottato misure restrittive abbastanza rigide (un lockdown dal 19 marzo fino al 7 giugno), ma c’è parecchia incertezza circa la decisione di un allentamento delle stesse e l’inizio delle fasi che permetterebbero l’apertura graduale delle varie attività sia istituzionali (istruzione, giustizia ecc.) che private (produzione, commercio, sport ecc.).

Ci sono state eccezioni, nel contesto generale dell’isolamento sociale, che hanno permesso lo svolgimento di alcune attività produttive. Tra queste, nella provincia di Mendoza, è stata autorizzata la vendemmia, iniziata alla fine di dicembre e conclusa a fine aprile. Quella della vendemmia è un’attività che attrae molta mano d’opera proveniente dalle provincie del Nord Ovest (Salta e Jujuy) e anche da alcune più lontane come Formosa, del Nord Est del paese. Molti operai appartengono a comunità indigene.

Quest’anno si è verificata una situazione molto complicata, per quanto riguarda il ritorno a casa di quanti erano stati impegnati nella raccolta non solo dell’uva ma anche delle olive e delle mele cotogne, che è coincisa con le misure di restrizione che non consentivano il viaggio di ritorno al luogo di provenienza: un doloroso panorama di centinaia di lavoratori e lavoratrici migranti rurali, bloccati nei terminal dei bus. È stato un vero dramma umano che ha evidenziato l’assembramento di intere famiglie, in condizioni sanitarie d’emergenza in mezzo alla pandemia della Covid-19, nell’incerta e lunga attesa che le imprese di pullman ricevessero l’autorizzazione per il viaggio di ritorno, pur avendo già riscosso i soldi del biglietto. Le autorità governative provinciali hanno brillato per la loro assenza, nonostante il permesso ottenuto per realizzare la vendemmia che senz’altro ha favorito le grandi imprese vitivinicole. L’inumana situazione creatasi potrebbe essere definita «la vendemmia dello scarto».

Le varie équipe di pastorale aborigena, così come la pastorale dei migranti e altre organizzazioni solidali hanno cercato di collaborare per alleviare tanta sofferenza, sia in occasione del ritorno come dell’arrivo delle persone alle proprie comunità d’appartenza.

José (Giuseppe) Auletta


Imc in Argentina

La presenza dei missionari della Consolata (Imc) in Argentina ha visto notevoli cambiamenti nel corso degli oltre settant’anni di presenza:

  • il numero delle comunità Imc del Nord è stato importante fino al Duemila (Bartolomé de las Casas, El Colorado, Pirané, Palo Santo – diocesi di Formosa – nell’omonima provincia; Machagai e Colonia Aborigen Chaco – diocesi di San Roque – nella provincia del Chaco), per poi ridursi progressivamente, fino a spostarsi in seguito dal Nord Est al Nord Ovest;
  • qui attualmente operiamo in quattro centri (Tartagal – diocesi di Orán – nella provincia di Salta; Yuto, Alto Comedero e Seminario filosofico nella città di San Salvador di Jujuy – diocesi di Jujuy – nell’omonima provincia);
  • nel resto del paese, dopo aver lasciato Rosario (provincia di Santa Fe) e San Francisco (Córdoba) dove però conserviamo il collegio, le altre presenze Imc sono: Las Heras (Mendoza), con parrocchia e Comunità apostolica formativa (Caf), Merlo (parrocchia e quasi parrocchia) e Martín Coronado – ex noviziato (provincia di Buenos Aires); Casa regionale (Buenos Aires, capitale).

Jo.Au.

L’interculturalità

  • È un modo di intendere e orientare il nostro comportamento sociale. Quando ci decidiamo a cercarla, la incontriamo nella capacità di ascoltare l’altro, sapendo che questo scambio favorisce crescita e arricchimento reciproci.
  • L’interculturalità non pretende di fare di due uno, ma di rispettare ogni parte del tutto. Un rispetto che comprende ogni cultura, ogni forma di espressione, ogni sviluppo, ogni valore sociale e giuridico, ogni voce, ogni popolo.
  • L’interculturalità ha bisogno di una interazione pacifica e di un contesto di uguaglianza. Probabilmente, parte dell’umanità fa ancora fatica a capire che non esiste un pensiero unico, una sola cultura, una sola storia o un’unica espressione della verità.
    Nel caso dell’Argentina, questo sforzo di comprensione fu fatto, in termini istituzionali, grazie alla riforma della Costituzione nazionale dell’anno 1994, una tappa fondamentale per i popoli indigeni. Anche se fra la parola scritta e la realtà rimane una grande distanza.
  • L’interculturalità esprime la possibilità di un nuovo paradigma, più giusto, più equo e, perciò, più umano.

Jo.Au.

 




Brasile. Fratello indigeno, Sorella Amazzonia

testi di Roque Paloschi e Silvia Zaccaria |


Nato a Moncalvo (Asti) più di 100 anni fa (era il 1919), monsignor Aldo Mongiano ci ha lasciati lo scorso 15 aprile. Roque Paloschi, arcivescovo di Porto Velho e presidente del Cimi, ricorda l’incontro con lui e le sue battaglie nel cuore dell’Amazzonia brasiliana.

Arrivai a Boa Vista, capitale di Roraima, il 13 luglio 2005, per essere ordinato vescovo della diocesi dello stato amazzonico.

Il 15 luglio, al mattino, in una celebrazione eucaristica nella Casa regionale delle suore della Consolata, feci la mia professione di fede alla presenza di dom Servilio Conti e dom Aldo Mongiano, entrambi vescovi emeriti di Roraima.

Il 17, dopo l’ordinazione episcopale, i due vescovi mi condussero in mezzo al popolo che aveva partecipato alla celebrazione. Dom Aldo rimase a Roraima per alcuni mesi, fino a metà ottobre. Di solito ci incontravamo tre volte alla settimana per parlare e condividere le grandi sfide che la diocesi aveva. Conversazioni che mi aiutarono a capire la vita e la missione in quella terra. Ho visto lì, chiaramente, che il cuore e la vita di dom Aldo avevano il marchio delle popolazioni indigene.

Il 7 settembre, pur avendo già 85 anni, insistette per camminare con i gruppi di pastorale sociale e i movimenti popolari nell’ambito delle manifestazioni per il Grido degli esclusi (Grito dos excluídos). All’inizio della camminata, il vescovo emerito mi disse: «Dom Roque, è importante sostenere la lotta dei gruppi pastorali e dei movimenti popolari».

Il 17 settembre di quello stesso 2005 fu bruciata e distrutta la missione di Surumu, sede delle grandi assemblee dei tuxawa (capi indigeni) e della scuola di formazione di insegnati e leader indigeni. Tutto, in poche ore, fu trasformato in ceneri da un gruppo di persone potenti e contrarie al diritto alla terra e all’autonomia dei Macuxi, Wapixana, Ingaricó e degli altri popoi indigeni di Roraima. Potevo vedere la sofferenza, il dolore che provava dom Aldo. La settimana seguente andammo a Surumu e, in mezzo alle ceneri e alle macerie, disse: «È dalle ceneri che costruiremo il futuro dei popoli indigeni con la forza e il coraggio che Dio ci darà».

A quei tempi la compagnia e la presenza di dom Aldo furono molto importanti per me, giovane vescovo, e per gli indigeni, generando in noi sicurezza e coraggio.

Accanto alle vittime

Alcuni anni dopo, era il 2011, avemmo un’altra piacevole sorpresa: senza alcuna comunicazione, a febbraio dom Aldo tornò a Boa Vista a visitarci. Stavo facendo una visita pastorale di 45 giorni nella Terra indigena Raposa Serra do Sol, visitando centri e comunità. Quando queste vennero a sapere dell’arrivo di dom Aldo, lo pregarono di far loro visita. Pertanto, organizzammo il suo viaggio in coincidenza con la fine della visita pastorale.

Il suo arrivo alla missione Maturuca si trasformò in una vera festa, con balli e tanta gioia. Nella settimana che trascorsi lì, io ebbi modo di sentire la grande gratitudine delle comunità per la missione, per i missionari e in un modo molto speciale per lui.

Alla celebrazione dell’addio, arrivò una donna anziana per regalargli un ricordino, una piccola pentola di terracotta fatta dalle donne macuxi di Maturuca. Nella sua lingua l’indigena disse: «Dom Aldo, sappiamo che non puoi portare molte cose nel tuo viaggio in aereo, ma accetta e prendi questa piccola pentola. È stata creata con questa terra che tu e la missione ci avete aiutato a preservare e riconquistare, è piena del sangue dei nostri capi che sono stati assassinati, del nostro sacrificio e della dedizione dei missionari. Ecco il nostro riconoscimento per il tuo coraggio nel lottare per i diritti delle popolazioni indigene». Le lacrime scorrevano nel silenzio di una notte che i libri di storia non racconteranno.

Papa Paolo VI, oggi santo, coniò questa espressione resa nota dalla sua Evangelii Nuntiandi: «L’uomo contemporaneo ascolta i testimoni meglio dei maestri». A Roraima, ho compreso quanto dom Aldo fosse stato testimonianza vivente di un uomo innamorato della missione. Era consapevole che essa si coniuga con l’incarnazione e la croce. Ecco perché, insieme ai missionari della Consolata, prese la croce assieme ai popoli indigeni di Roraima.

Possiamo assicurarvi che dom Aldo è stato un vescovo conciliare, cioè ha sempre cercato di camminare con la coscienza della Chiesa del Popolo di Dio.

Dio gli ha concesso la grazia di essere un missionario in Africa per i popoli del Mozambico e qui in Brasile, a Roraima, con i popoli indigeni, schiavi e vittime del mondo coloniale. Quindi, egli ha incarnato la Costituzione pastorale Gaudium et Spes: «Le gioie e le speranze, la tristezza e l’angoscia delle persone di oggi, specialmente dei poveri e di tutti coloro che soffrono, sono anche le gioie e le speranze, la tristezza e le ansie dei discepoli di Cristo».

Gli attacchi delle élite

Nel 1967 papa Paolo VI scrisse l’enciclica Populorum Progressio, in cui affermava che la Chiesa ha l’obbligo di mettersi al servizio di tutti gli uomini e di tutta l’umanità, per aiutarli a passare da condizioni meno umane a più umane. Nel 1968 ebbe luogo la Conferenza di Medellín dell’episcopato latinoamericano e, nel 1972, la Chiesa amazzonica brasiliana tradusse il documento di Medellín con l’incontro di Santarém. Nello stesso anno, la Chiesa aveva creato il Consiglio missionario indigenista (Cimi)1. Con tutto questo movimento e i segnali dello Spirito, dom Aldo bevve il Vangelo della liberazione e della libertà umana.

Quando arrivò a Roraima, nel 1975, egli trovò un clima che contagiava la vita e la missione.

Dom Aldo, con i missionari della Chiesa di Roraima, divenne il migliore alleato dei popoli indigeni. Ecco perché venivano additati con disprezzo dall’élite locale che affermava che la Chiesa cattolica era «dannosa» per la società di Roraima. Ricordo le risposte di un vecchio indigeno catechista, quando fu intervistato da un giornalista su una stazione radio governativa. Il giornalista chiese: «Perché ci sono così tanti attacchi contro la Chiesa, contro i missionari? Ti hanno addestrato per i guerriglieri? Ti hanno distribuito armi?». Il vecchio catechista indigeno rispose con l’eleganza di un diplomatico: «Guarda, i missionari non hanno fatto quasi nulla per noi. Ci hanno aiutato a capire che siamo anche figli e figlie di Dio; che non dovremmo vergognarci della nostra lingua, perché quella è la lingua che Dio ci ha dato e dobbiamo coltivarla; che questa terra ci appartiene, perché i nostri antenati hanno vissuto qui per oltre tremila anni».

Il primo passo che dom Aldo fece fu di continuare il percorso che i missionari stavano seguendo: unire i popoli indigeni animando e sostenendo le assemblee dei tuxawa e l’organizzazione del Consiglio indigeno di Roraima (Cir).

Aveva un modo semplice e pratico per aiutare le comunità a capire l’importanza di unire le malocas di tutte le etnie indigene. Ne è un esempio quella che viene chiamata l’omelia delle bacchette: «Un ramo da solo è molto facile da spezzare, ma se metti insieme un fascio, questo non accadrà».

La missione aiutò le comunità a superare la maledizione del bestiame che invadeva e distruggeva i campi, con l’idea che «il veleno del serpente è anche l’antidoto». Dom Aldo, i missionari e gli indigeni trovarono nello stesso bestiame la cura: il famoso progetto «Una mucca per gli indios», con il sostegno del compianto cardinale Ersilio Tonini e poi di papa Giovanni Paolo II, oggi santo.

Dom Aldo cercò sempre di investire molto nella formazione dei leader indigeni. Tutte le comunità crebbero con una grande ricchezza di ministeri e servizi, i laici furono aiutati a scoprire la loro vocazione missionaria, le assemblee diocesane si susseguirono e la formazione dei laici decollò.

Dom Aldo era un uomo aperto oltre il suo tempo. Un uomo che accolse con favore l’esperienza di comunione che la Conferenza nazionale dei vescovi brasiliani (Cnbb) aveva promosso a difesa della vita. Un uomo che segnò la regione amazzonica e la Chiesa in Brasile per la sua opzione in favore delle popolazioni indigene e l’impegno a prendersi cura dell’Amazzonia. Negli anni ‘90, lui e in gruppo di vescovi ad Assisi, terra di San Francesco, lanciarono la grande campagna: «Un grido per la vita in Amazzonia».

Precursore del Sinodo

Vorrei ricordare ciò che dom Aldo scrisse nella sua lettera pastorale quando divenne vescovo emerito: «Sono stato spiato, ho subito minacce, insulti, false testimonianze. Di fronte a queste accuse, ho quasi sempre risposto con silenzio e perdono […]. Per vent’anni politici, giornali e stazioni radio locali hanno attaccato la Chiesa di Roraima, lanciando contro di me e sui missionari della Consolata le critiche più velenose e le calunnie più infami […]. Quando partii per Roraima nel 1975, avevo solo il passaporto, il biglietto e il documento del papa, con cui ero stato nominato vescovo. Quando ho lasciato Roraima, non avevo più nemmeno quelli».

Con tutta tranquillità posso affermare che la sua lotta non fu vana: dom Aldo è stato un grande profeta, un fedele difensore delle popolazioni indigene e dei loro territori. Aveva già previsto ciò che il Sinodo per l’Amazzonia avrebbe affrontato nel 2019: difendere la terra significa difendere la vita. Posso affermare che il ministero episcopale di dom Aldo a capo della Chiesa di Roraima si è svolto in tempi difficili, di persecuzione aperta della Chiesa, di missionari che hanno fatto l’opzione preferenziale per i più poveri. Tempi di testardaggine profetica e coraggio evangelico.

Era un pastore, un profeta, un vero padre e fratello per i più deboli. Animatore delle comunità, protettore e difensore dei missionari che erano lì con loro.

Credo di poter sostenere, senza paura di sbagliare, che tutti i temi discussi dopo la convocazione, la preparazione e l’esecuzione del Sinodo dell’Amazzonia, dom Aldo li aveva già nel cuore e aveva sempre lavorato molto duramente per creare una Chiesa modellata sul volto dei popoli indigeni.

Egli aiutò a preservare i percorsi che Dio ha stabilito per l’umanità, sia a livello culturale che religioso; la sua pratica ci ha aiutato a salvare le strade che Dio ha stabilito per gli «ultimi». L’incontro con le popolazioni indigene ha aiutato la Chiesa di Roraima e del Brasile, a sentirsi più al servizio e samaritana.

Il percorso segnato da dom Aldo ha portato a percepire la bellezza di vivere in una pluralità culturale e a comprendere il modus vivendi degli altri, che è la grande ricchezza della Chiesa dell’Amazzonia. La sua azione ha aperto percorsi attraverso il dialogo, la riconciliazione, la cura dei più deboli, l’opzione per i fragili, il coraggio di denunciare i draghi della morte che divorano la vita, il rispetto e la comunione con le vite e i sogni degli ultimi.

Che dom Aldo ci aiuti a superare le tentazioni di discriminazione, xenofobia, omologazione e l’incapacità di avvicinarci alle popolazioni indigene!

Roque Paloschi

(1) Lo scorso 4 maggio il Cimi di dom Roque Paloschi è stato attaccato in maniera durissima (e vergognosa) in un comunicato ufficiale della Funai, l’organo indigenista oggi in mano a Bolsonaro e ai latifondisti, ovvero ai primi nemici dei popoli indigeni. La Funai ha anche restituito all’autore una serie di foto di Sebastião Salgado in risposta alla sua campagna internazionale in favore dei popoli indigeni e contro la dirigenza brasiliana. (P.M.)


Dal fiume Po al rio Branco

Dom Aldo, combattente «suo malgrado»

Lo ricordo così. Mite e pacato. La voce bassa, le parole quasi sussurrate. Il volto come scolpito nella pietra e lo sguardo austero, serioso, che all’improvviso si apriva in un sorriso appena accennato.

Dieci anni orsono ebbi il privilegio di raccogliere le sue memorie poi pubblicate nel libro «Roraima tra profezia e martirio: testimonianza di una Chiesa tra gli indios» (2010)1.

Una storia incredibile quella di Aldo Mongiano, nato nella seconda decade del Novecento in una valle piemontese da cui, per raggiungere la città della Fabbrica italiana automobili, il viaggiatore doveva utilizzare un calesse trainato da cavalli che lo conduceva alla stazione ferroviaria più vicina.

Nelle epoche precedenti, ricorda Mongiano nell’introduzione al libro, il viaggio era ancora più disagevole: «Era comune prendere un barcone e affidarsi a uomini robusti che spingessero il carico. Uno trascinava la barca facendo forza sul fondo sassoso del fiume con il remo, ed un altro, camminando sulla spiaggia, lo tirava con una corda legata alle spalle. Questa pratica, che avevo appreso da giovane osservando scene sul fiume che bagna il mio paese, sarebbe stata la metafora di tutta la mia vita». In Brasile, dom Aldo, come da lì in avanti sarebbe stato chiamato, arrivò dopo una lunga esperienza in Mozambico che aveva da poco conquistato l’indipendenza: «Non sapevo che, più tardi, mi sarei trovato coinvolto, mio malgrado, nel processo di emancipazione di un piccolo popolo oppresso dalle pratiche neocoloniali della società dominante». Mongiano confessa nelle sue memorie, di aver sempre agito – nelle particolari circostanze in cui si sarebbe trovato coinvolto – «suo malgrado». Malgrado la consapevolezza dei propri limiti e il senso di inadeguatezza che lo accompagnava.

Anche il ruolo di vescovo lo aveva accettato solo per non portarsi dietro per tutta la vita il peso «di non aver ascoltato la voce di Dio»: «Quando seppi che papa Paolo VI voleva affidarmi la guida della diocesi dell’allora Territorio federale di Roraima pensai alle mie limitate capacità, alla mia debole preparazione teologica». E all’America, così lontana culturalmente, così «moderna».

Sulla pista di atterraggio della capitale Boa Vista, lo accolse una bambina con in mano un mazzo di fiori e altre persone accorse a vedere il nuovo vescovo. La natura tropicale e l’indolenza della popolazione, la città vuota con l’unico semaforo sempre spento, gli diedero l’impressione di essere giunto in un luogo tranquillo.

L’illusione di serenità durò poco. Durante la prima visita in area indigena, dom Aldo scoprì che gli indios, che pure costituivano la maggioranza della popolazione erano schiavi dei fazendeiros che avevano invaso le loro terre e dipendenti dall’alcol. Nel 1977, nel corso di un’assemblea cui partecipò anche dom Tomás Balduíno della Conferenza Nazionale dei Vescovi del Brasile, i tuxawa (capi indigeni), fecero un’esposizione toccante della loro situazione: costretti a lavorare senza essere retribuiti; accusati di reati che non avevano commesso; forzati a lasciare le loro terre dopo aver visto le case e le piantagioni bruciate, si stavano convincendo del fatto che non restava loro che cessare di essere indios e diventare «Bianchi» oppure rassegnarsi a una vita da emarginati. Le autorità si mostravano indifferenti se non apertamente ostili. L’incontro con Tomás Balduíno e poi con Bartolomè Melià, gesuita sostenitore del popolo guaraní, furono decisivi: il vescovo si convinse che la Chiesa di Roraima doveva levare la propria voce in favore degli ultimi, gli indigeni, «i più poveri tra i poveri». Una scelta che comportò la nascita di tensioni con i vertici della Fondazione nazionale per gli indigeni (Funai) e con le autorità. Queste proibirono ai missionari di entrare in area indigena, mentre alcuni deputati furono autori di proposte di legge che, incentivando lo sfruttamento minerario, erano di natura genocida.

Nella memoria di dom Aldo, gli anni ‘80 furono i più burrascosi, ma anche i più belli. Furono gli anni della liberazione dalla dittatura militare, dell’instancabile lavoro di coscientizzazione degli indios, della rivendicazione delle terre e dell’identità indigena anche grazie al progetto visionario Uma Vaca para o Indio. Negli anni ‘90, l’impegno dei missionari della Consolata guidati dal loro vescovo a fianco degli indios del lavrado (savana) e degli Yanomami, determinò la reazione di vari settori del potere locale, le cui accuse trovavano ampio spazio anche sui media nazionali. Il vescovo Mongiano era additato un nemico del popolo di Roraima.

Nel 1996, anno in cui la terra Raposa Serra Sol («della Volpe e della Montagna del sole») venne riconosciuta come area indigena, dom Aldo lasciò la guida della diocesi per raggiunti limiti di età2.

Il senso della sua missione lo traccia lui stesso nell’epilogo del libro, citando la storia di quel marinaio che salva un bambino caduto in mare durante una tempesta: «Il comandante, alla sera, organizza una festa in suo onore. Ma il marinaio, pur grato per il riconoscimento, ammette: “Non l’avrei salvato se qualcun altro non mi avesse spinto”».

Silvia Zaccaria
(antropologa)

(1) Il pdf del libro è scaricabile dal sito della rivista.

(2) Gli successe Apparecido José Dias (1996-2004). Dom Apparecido era a quel tempo anche presidente del Cimi. Fondò Radio Roraima e il movimento Nós existimos. Strenuo difensore dei popoli indigeni fu oggetto come dom Aldo di attacchi personali.




Venezuela-Brasile. La fatica dell’addio

testi e foto di Marco Bello e Paolo Moiola |



Pacaraima e Santa Elena de Uairén sono due piccole città, distanti venti chilometri una dall’altra. La prima si trova in Brasile, la seconda in Venezuela, nel territorio indigeno dei Pemones. Siamo andati a visitarle perché da esse passano i flussi dei migranti. Warao compresi.

Boa Vista. È mattino presto. Noi siamo pronti, ma Fernando, il taxista, ancora non si vede, nonostante ci fossimo raccomandati sulla puntualità. Finalmente, ecco che si avvicina un’auto con le insegne della Cootap, la cooperativa di trasporti della città.

In pochi minuti siamo fuori da Boa Vista. Imbocchiamo la Br-174, la strada federale che dovremo percorrere per circa 200 chilometri prima di arrivare a Pacaraima, la cittadina brasiliana posta sul confine con il Venezuela.

Usciti dalla città, il traffico si fa subito molto scarso. La strada è un unico, lungo rettilineo. Con molte buche. Attorno alla Br-174 non ci sono foreste, ma vastissimi campi con terreni per lo più incolti o con vegetazione bassa. Notiamo i cartelli che indicano i nomi delle aree indigene.

Fernando guida. E parla. Ha idee molto vicine a quelle del presidente Bolsonaro.

«Una volta, qui c’erano vacche e galline. E ora? Nulla», afferma il nostro motorista. Che poi sentenzia: «Gli indigeni non seminano e non allevano. Bruciano soltanto. Fanno danni a chi vuole lavorare». Avendo udito queste parole, nessuno di noi ha il coraggio di chiedergli un commento sui Warao.

Negli ultimi chilometri del nostro viaggio verso il confine, la Br-174 inizia a cambiare. Ora ci sono boschi, curve e salite: abbiamo iniziato l’ascesa alla Serra Pacaraima, i rilievi montuosi più importanti del Nord del Brasile. I camion che incontriamo faticano a procedere e rallentano la nostra auto.

La tristezza sul volto di una donna warao a Santa Elena. Foto: Marco Bello.

Succede a Pacaraima

Alle 10 del mattino arriviamo a Pacaraima, quasi mille metri sopra il livello del mare. All’improvviso ci ritroviamo immersi in un traffico caotico. Scendiamo immediatamente dall’auto. La cittadina, fino a poco tempo fa, era un piccolo centro di frontiera di circa 12mila abitanti (Ibge, 2017). Poi tutto è cambiato con l’acuirsi della crisi del confinante Venezuela e il conseguente arrivo di migliaia di migranti. Vie strette, case basse, negozietti di ogni tipo e una folla brulicante. Notiamo subito molte macchine con targa venezuelana. Cerchiamo la parrocchia Sagrado Coração de Jesús gestita dal padre Jesús Lopez Fernandéz de Boadilla, sacerdote spagnolo molto conosciuto per il suo lavoro con i migranti (riquadro di pag. 14). La casa parrocchiale è in un cortile interno, nascosta da una casetta color arancione che funge da centro pastorale per i migranti della diocesi di Roraima.

Padre Jesús non è in sede, ma incontriamo Peggy Vivas (vedi a fine articolo), una missionaria laica venezuelana che fa la spola tra Santa Elena de Uairén e Pacaraima. È lei che ci farà da guida e da taxista.

Due bimbi warao di Santa Elena mostrano alcuni biglietti di «bolivares» (la moneta venezuelana), buoni soltanto per giocare. Foto: Paolo Moiola

Centinaia di persone in ordinata attesa

Prima di tutto occorre far visita alla grande tensostruttura eretta ai lati del campo sportivo cittadino, anch’esso occupato da tende. Si tratta del luogo dove vengono espletate le prime, essenziali, formalità burocratiche, ma non solo. Davanti ai moduli prefabbricati che ospitano i vari uffici, siedono su panche centinaia di persone, tutte tranquillamente in attesa del proprio turno. Altre sono in piedi in file ordinate per poter accedere. Sono persone di tutte le età, vestite dignitosamente, molte con grandi valigie e trolley. Vediamo diverse mamme con figli, anche piccolissimi. E notiamo una maggiore presenza di donne rispetto agli uomini.

In apparenza, quasi tutti sembrano contenti e fiduciosi, anche se stanno lasciando il proprio paese. I bagagli vengono fatti depositare in una zona controllata da due giovanissimi militari. Di fianco vediamo alcune facilitazioni per comunicare via telefono o via internet. Sui vari cartelli esposti ci sono istruzioni e scritte come «Mantenga la calma». In tutto questo, ad alto volume risuonano note di musica brasiliana.

Dalle informazioni che abbiamo raccolto dovrebbero essere tra 500 e 800 gli arrivi giornalieri. All’ufficio controllo passaporti, sono tutti venezuelani in attesa di un visto d’entrata. Noi ci mettiamo in fila per avere il timbro d’uscita dal paese.

A lato della struttura per le formalità di frontiera, ce n’è una identica per l’accoglienza dei migranti. Notiamo personale della Fraternidade international (Ong brasiliana, vedere MC marzo), delle Ong statunitensi Adra e World Vision, oltre che Acnur, Oim e altre agenzie delle Nazioni Unite.

Nella struttura non manca un ambulatorio medico, né uno spazio giochi per i più piccoli, gestito da Unicef. La presenza militare è evidente e diffusa, ma non soffocante. Un giovane soldato, con guanti monouso, distribuisce bicchieri di latte a chi è in attesa. Personale dell’Oim spiega a un gruppo di alcune decine di migranti i diversi tipi di permesso che si possono richiedere e le procedure. In un’altra area, funzionari della Fiscalisação fanno la fototessera ai migranti e rilasciano loro il Cpf (il codice fiscale brasiliano), mentre quelli di Acnur inseriscono i dati di ogni migrante in una base dati e verificano i casi di maggiore vulnerabilità. C’è ovviamente un’area adibita alle vaccinazioni obbligatorie per chi non le abbia effettuate.

Il personale di Acnur, una decina di persone, è composto da giovani estremamente disponibili. Riusciamo così a incontrare Rafael Levy, il responsabile – anch’egli molto giovane – della missione Onu di Pacaraima, che ci dà appuntamento per il giorno dopo, quando rientreremo dal Venezuela.

La tettoia sotto la quale vive un gruppo di Warao, a Santa Elena. Foto: Paolo Moiola.

Santa Elena e il territorio dei Pemones

Con passaporti vidimati e zainetti leggeri, c’incamminiamo verso la «linea», come viene chiamato il confine. È qui che, dopo una breve attesa, arriva Peggy guidando il fuoristrada con il quale andremo fino a Santa Elena. Ci avviamo dunque verso la frontiera, mentre nell’altro senso di marcia, in entrata, c’è una lunga fila di auto venezuelane. Gli occupanti del veicolo vengono fatti scendere e il bagaglio minuziosamente controllato dalla polizia brasiliana. In uscita, invece, ci sono poche macchine, tutte stracariche di mercanzia. Sono i venezuelani che fanno acquisti a Pacaraima o Boa Vista per rifornire di prodotti i negozi di Santa Elena, e non solo.

Dopo poche decine di metri superiamo la linea di confine, segnalata dai pennoni che sanciscono il passaggio da un paese all’altro. «Guardate com’è sbiadita la bandiera del Venezuela», osserva padre Kokal, la nostra guida, senza nascondere il proprio sarcasmo. Ancora poche centinaia di metri e arriviamo alla stazione della polizia venezuelana, posta su un mezzo mobile del Saime (Servicio administrativo de identificación, migración y extranjería). Il controllo dei passaporti, effettuato da tre giovani poliziotte, è rapidissimo, e gli zainetti non vengono neppure aperti. Alla dogana, dove le auto cariche sono fermate per controlli, noi passiamo veloci, anche perché Peggy qui è di casa. Stessa cosa al primo posto di blocco stradale dei militari venezuelani, a una decina di chilometri dalla frontiera: basta un saluto della nostra accompagnatrice.

Tra il confine e Santa Elena de Uairén (stato Bolívar, municipio Gran Sabana) ci sono meno di venti chilometri. La strada, quasi senza traffico, attraversa un paesaggio piacevolmente ondulato. A prima vista, la cittadina, che conta circa 30mila abitanti, sembra un luogo tranquillo.

L’auto di Peggy passa accanto a un piccolo edificio colorato con l’insegna «Seguridad indígena» e il disegno di un indiano con arco e frecce. È un posto di controllo dei Pemones, l’etnia indigena attualmente in lotta con il governo di Maduro per questioni relative allo sfruttamento del territorio, ricco di oro e diamanti.

Noi saremo ospiti dei cappuccini, poco fuori del centro e vicinissimi alla cattedrale di Santa Elena, solido edificio costruito in pietra locale. La casa dei missionari gode di una posizione sopraelevata rispetto a Santa Elena che si stende in basso, immersa nel verde. Padre Carlos Caripá, il superiore, ci spiega che la sua piccola comunità si trova già in territorio pemon.

L’interno del capannone nell’abrigo di Janokoida. Foto: Marco Bello.

I Warao di Santa Elena

Qui i Warao sono poche decine e relegati fuori dalla città, vicino alla stazione degli autobus, dove ci facciamo condurre. È il gruppo Warao Terminal

La visione non è piacevole. Il gruppo vive accampato sotto una tettoia, in mezzo a un campo incolto che quando piove diventa un pantano. Hanno steso le loro amache come meglio potevano. Per terra, vestiti, borse, alcune padelle. Sono sei famiglie con molti bambini, una trentina di persone in totale. Sono molto trasandati, hanno un livello di igiene e pulizia molto basso, così come il loro riparo è precario. È la situazione peggiore che abbiamo visto nel corso del nostro viaggio. I bambini, per fortuna, riescono ancora a divertirsi. Alcuni di loro stanno giocando con un camion di plastica, sopra e attorno al quale ci sono svariate banconote in bolivares, la valuta venezuelana, che paiono vere. Le prendiamo in mano: sono proprio vere. Gli indigeni attorno si accorgono del nostro stupore e scoppiano a ridere. Ridono perché quelle banconote non valgono la carta su cui sono stampate. Simbolo della deriva economica del paese.

Chiediamo agli adulti cosa pensano di fare: passare in Brasile, tornare nei territori di provenienza o rimanere a Santa Elena. Preferiscono restare, in attesa di tempi migliori. Difficile comprendere i motivi di questa scelta, ma ancora più difficile risulta giudicarla. Ci dicono che la proprietaria del terreno li lascia stare, mentre chi possiede la terra circostante non permette loro di coltivare. Così vivono, o meglio sopravvivono, di elemosina e piccoli aiuti.

Torniamo verso il centro, passando accanto alla gigantesca (e brutta) statua di Santa Elena. E poi a una pompa di benzina, chiusa e presidiata da militari. «Funziona soltanto alcune ore al giorno – ci spiega padre Carlos – e la benzina è razionata. In compenso, il carburante è praticamente gratuito, incentivando però un’attività di contrabbando con il vicino Brasile». Il centro, intasato di auto, si sviluppa attorno all’immancabile piazza dedicata a Simón Bolívar, piccola e alberata. In giro c’è molta gente. In una città di frontiera come questa la scarsità di beni è molto meno presente che nel resto del Venezuela. I negozi espongono merci di tutti i tipi, anche frutta e generi alimentari. Si può pagare in bolivares o in reais, la valuta brasiliana, come mostrano i cartelli dei prezzi.

Quasi tutto arriva dal Brasile. «I pagamenti con la nostra moneta sono fatti in digitale. Con le carte o usando il cellulare. Pagare in contanti sarebe veramente complicato vista la quantità enorme di denaro che sarebbe necessario portare con sé». Padre Carlos ci porta a vedere l’ospedale: da fuori la struttura pare deserta. «Non ci sono medicine – ci dice – e se abbiamo problemi cerchiamo di farle arrivare dal Brasile. I medici sono pochi e lavorano anche in ambito privato».

Un momento di preparazione alle danze che i Warao ospiti di Janokoida hanno organizzato durante la nostra visita all’abrigo di Pacaraima. Foto: Marco Bello.

Espatriare senza documenti

Al mattino seguente siamo pronti per fare il percorso inverso. Ci accompagnano anche un paio di giovani cappuccini. Sono loro che, alcuni km fuori dalla città, ci indicano un sentiero in mezzo ai campi. «Ecco, di là si passa per aggirare i controlli di frontiera. Viene chiamata “trocha”», spiegano. È usato da chi non ha passaporto (per esempio, molti tra gli indigeni warao) e da chi svolge attività di contrabbando.

Siamo di nuovo alla frontiera. Le formalità burocratiche sono rapide, ma in uscita c’è una lunga colonna di auto. Ci sono parecchi brasiliani venuti a rifornirsi di carburante alla pompa venezuelana che vende a un prezzo conveniente. Superata la «linea», passiamo nella tensostruttura per ottenere il timbro d’entrata della polizia federale brasiliana. E, di seguito, negli spazi di Acnur approntati sotto la struttura, dove abbiamo appuntamento con Rafael. L’ufficio dell’agenzia dell’Onu è un’area ricavata sotto le tende con paratie mobili, senza finestre, ma con l’aria condizionata. Sui pannelli bianchi che fungono da pareti sono stati affissi manifesti esplicativi, adesivi («Acnur ringrazia l’appoggio degli Stati Uniti» dice uno di essi), scritte in varie lingue, anche indigene. «Yakera!», si legge da più parti. Rafael non arriva, ma ci viene comunicato che abbiamo il permesso per entrare nell’abrigo di Janokoida, il rifugio per indigeni di Pacaraima.

Ballando a Janokoida

L’abrigo Janokoida («Casa grande», in lingua indigena) è distante poche centinaia di metri dal centro della cittadina ed è gestito dall’Operazione accoglienza (Operação acolhida). Sul cancello che preclude l’accesso al rifugio è appeso un cartello con le regole, mentre ai lati sventolano due bandiere, quella del Brasile e quella dell’Operação acolhida. Subito padre Kokal, che fin dall’inizio del viaggio ci accompagna nelle vesti di antropologo e traduttore, viene avvicinato da decine di Warao, donne e bambini soprattutto, per un caloroso saluto.

Janokoida è posta sul costone di una collina. In alto ci sono l’entrata, gli uffici e un capannone per gli ospiti, più sotto ci sono una tettoia con svariati fuochi (utilizzabili da chiunque) e un tendone. Accompagnati da Lis, una giovane addetta di Acnur, entriamo nel capannone dove, riconosciuto da molti ospiti, padre Kokal viene presto coinvolto in un canto e una danza collettivi.

Noi ne approfittiamo per dare un’occhiata attorno. Come a Pintolandia, il rifugio di Boa Vista, anche qui ci sono strutture in ferro alle quali gli indigeni (quasi tutti Warao) possono appendere le loro amache.

Per molti di loro il passaggio successivo sarà Boa Vista, e poi, alcuni, sempre in gruppi famigliari, proseguiranno per Manaus.

Mentre parliamo con Lis arriva anche Rafael. Un militare graduato ci gira attorno con aria indagatrice, per capire chi siamo e cosa ci facciamo lì. Ci colpisce lo sguardo perso e velato di tristezza di un’anziana warao, che sembra non capacitarsi di essere così lontana dal delta dell’Orinoco.

Marco Bello e Paolo Moiola
(4ª puntata – fine)

Un cartello dei Pemones dà il benvenuto nel loro territorio, poco fuori di Santa Elena, cittadina venezuelana a circa 18 km dal confine brasiliano. Foto: Paolo Moiola.


I Warao verso la frontiera / 1

«Quando migliorerà, torneremo»

Incontro con Peggy Vivas, missionaria laica venezuelana.

Santa Elena de Uairén. La cittadina venezuelana è l’ultima prima di giungere alla frontiera con il Brasile, che dista circa diciotto chilometri. Questo è il territorio del popolo indigeno pemón, la Gran Sabana, zona di turismo e di miniere d’oro (legali, ma soprattutto illegali).

Nel giardino interno della cattedrale di Santa Elena, sede del Vicariato apostolico del Caroní, incontriamo Peggy Vivas, missionaria laica venezuelana, «con spiritualità marista», ci specifica. Peggy ha una lunga esperienza di lavoro con i Warao, in quanto ha lavorato 12 anni con monsignor Felipe Gonzalo e padre Carlos Caripá nel vicariato apostolico di Tucupita, stato del Delta Amacuro. Nel 2014 il vescovo e padre Carlos vengono trasferiti a Santa Elena e Peggy decide di seguirli.

«In quell’anno i Warao erano già arrivati a Santa Elena. Tanto che un’insegnante di qui scherzava dicendo: i Warao hanno preparato il cammino a mons. Felipe».

Nel 2017, arriva a Pacaraima, la città brasiliana di frontiera, padre Jesús de Bombadilla, spagnolo. «Padre Jesús – racconta Peggy – inizia a motivare la gente della città affinché si mobiliti per aiutare i Warao. Questi, all’inizio, dormivano in strada, non potevano lavarsi né lavare i propri vestiti. Per fortuna, in questo suo percorso il sacerdote trova l’aiuto proprio di mons. Felipe che i Warao li conosce bene». Per diversi mesi, mons. Felipe e la sua équipe fanno la spola attraversando la frontiera per aiutare i colleghi nella nuova emergenza.

«Il Warao è molto religioso – continua la missionaria -, chiede accompagnamento spirituale. Per questo, il monsignore si recava a Pacaraima a dire messa in spagnolo per gli indigeni. Noi cercavamo di aiutare anche bambini e giovani, facendo attività prima della funzione. Finché le circostanze lo hanno consentito, lo abbiamo fatto».

Warao e Pemones

L’arrivo dei Warao in area pemón porta ad attriti, anche se non c’è un vero e proprio conflitto.

La missionaria laica Peggy Vivas davanti alla sede della Pastorale migranti a Pacaraima. Foto: Paolo Moiola.

«I Pemones sono gelosi del proprio territorio. Quando sono arrivati i Warao, ai Pemones non è piaciuto molto. Hanno cercato subito di far sapere loro che questa è la loro terra e che dovevano andarsene. Qualche conflitto c’è stato, con la comunità detta Warao Terminal (vedere reportage), un gruppo installato vicino alla stazione generale dei bus. Anche in Pacaraima sappiamo che alle autorità comunali non piaceva molto la presenza dei Warao e si sono cercati alleati per farli andare via. Alcuni Pemones hanno addirittura firmato una lettera per affermare che non volevano che i Warao si fermassero».

Nel frattempo, la comunità warao del terminal si riduce a un piccolo gruppo che viene tollerato. Alcuni di loro sono malati, i bimbi sottopeso, ma non si sa cosa vogliano fare: non vogliono tornare nel Delta Amacuro, però non hanno la forza di passare in Brasile come hanno fatto molti altri indigeni.

Peggy spiega: «I Warao sono un po’ nomadi. Quando le cose cominciarono a mettersi male nel proprio territorio del Delta, loro iniziarono a migrare nelle città venezuelane. Da lì, le autorità li rimandarono nel Delta Amacuro. La situazione peggiorò ulteriormente, e loro iniziarono a venire da questa parte. I primi arrivati ci spiegavano: “Mio figlio ha pianto tre giorni, perché non avevo nulla da dargli da mangiare. Abbiamo dovuto partire”».

Peggy ci porta la testimonianza del massimo esperto del popolo Warao, il cappuccino padre Julio Lavandero Pérez. Padre Julio – scomparso a Tucupita lo scorso 7 gennaio 2020 – affermava che i Warao vanno dove riescono a procurarsi quello che necessitano per alimentare se stessi e la famiglia. Lui spiegava che essi sono nati come indigeni raccoglitori. «Un tempo – prosegue Peggy – raccoglievano frutta, pesce, poi però tutto è diminuito e così sono migrati in città, sempre a raccogliere, ma l’elemosina per le strade. In Boa Vista e Manaus è la stessa dinamica: chiedono l’elemosina. È un popolo che forse non ha mai avuto una relazione profonda con la propria terra. Forse è perché non produce da essa, non la coltiva, ma si limita appunto a raccogliere».

I Warao finiranno per scomparire?

La missionaria si interroga su cosa ne sarà della cultura warao. «Personalmente, ho incontrato più migranti warao che dicono “quando la situazione migliorerà, torneremo nel Delta”, rispetto a quelli convinti di fermarsi qui o in Brasile. Il fatto è che la situazione non migliora. Molti indigeni raccontano che ci sono comunità che si stanno svuotando. Mi chiedete se scompariranno? Non lo so, a livello di cultura credo che si adatteranno ai luoghi e alle nuove situazioni. Può essere che, se troveranno migliori condizioni in Brasile, sceglieranno di fermarsi. Cercano alimentazione ma anche medicine. Negli ultimi tempi in Venezuela si sono sviluppate molte malattie dovute alle cattive condizioni di vita. Abbiamo notizie di tante persone – mi riferisco sia a indigeni che a non indigeni – che muoiono, perché si ammalano a causa dell’organismo debilitato o perché non sono curati. Anche la situazione emotiva non è buona. Le famiglie sono divise, molti hanno qualcuno all’estero. Questa però è una condizione che incide molto sul venezuelano, che ama stare in famiglia».

Anche Santa Elena de Uairén è cambiata. Molti venezuelani migrano qui per approfittare dei vantaggi offerti da una città di frontiera, come per esempio la reperibilità di merci introvabili nel resto del paese. Questo però ha gonfiato in modo enorme i quartieri periferici, facendo aumentare le problematiche sociali e la delinquenza comune. Alcuni poi tentano la fortuna cercando l’oro nelle miniere artigianali (e illegali) della zona. Un problema ulteriore in una situazione già molto complicata.

M.B. – P.M.

Un giovane warao lavora come barbiere nell’abrigo Janokoida, a Pacaraima. Si notino le scritte sui coloratissimi murales visibili sullo sfondo. Foto: Paolo Moiola.


I Warao verso la frontiera / 2

«Il giorno in cui ci accorgemmo di non avere più nulla»

Il viaggio di Leany, indigena warao di Tucupita.

Leany – foto Marco Bello

Boa Vista. Leany Torres Moraleda, giovane indigena warao di Tucupita, è sempre stata molto attiva e impegnata nel sociale. «A Tucupita – racconta – ero impegnata in molte attività. Collaboravo con la pastorale indigena della chiesa cattolica, ero direttrice del gruppo di ballo Eco Warao, un gruppo che fa danza autoctona ma anche contemporanea. Intanto, lavoravo come insegnante in una scuola della città. Nonostante tutto questo, guadagnavo molto poco. Il mio salario mensile bastava appena a comprare mezzo chilo di formaggio e un po’ di frutta. Il resto dei giorni cercavamo cibo, chiedendo in giro. Arrivai a essere molto denutrita, con mia figlia di otto anni che piangeva per la fame».

Leany non riesce a trattenere le lacrime. Cerca di mantenere un contegno, si sfrega gli occhi, chiede da bere.

«Decidemmo di partire un giorno in cui non avevamo più nulla. Pensammo al Brasile, perché avevamo sentito che c’era cibo e lavoro. Mia mamma non era d’accordo, ma ci disse: “Se volete andare, andate”». Era l’aprile del 2018. Molti erano i Warao che lasciavano la loro terra.

«Mentre pianificavo il viaggio, mi chiamò un’amica e mi chiese se andavamo in Brasile. Decidemmo di partire insieme». Leany viaggiava con la figlia Joisi e la nipote Liz. Si formò un gruppetto. «Iniziammo a vendere tutto quello che si poteva per avere un po’ di soldi e pagare il trasporto».

«Partimmo un martedì»

«Partimmo un martedì. Eravamo in undici e avevamo molta speranza. Il saluto alla famiglia e ai genitori fu straziante. Prendemmo il bus per Santa Elena. Pensavamo che il viaggio sarebbe stato più corto, invece c’erano molti posti di blocco. I militari fermavano il mezzo, ci facevano scendere, controllavano i bagagli. Il tragitto durò un giorno e una notte (per poco più di 700 km, ndr). Durante il viaggio, il bus si ruppe alle 3 del mattino. E poi un’altra volta, sempre nel mezzo del nulla. Però, alla fine, arrivammo a Santa Elena».

«Lì avevo un contatto. Riuscimmo a lavarci e mangiare un poco. Ma il tempo era davvero scarso. Stavamo in gruppo e ci aiutavamo a vicenda. Iniziammo a incamminarci a piedi verso la frontiera, pensando che il cammino fosse corto. Però verso l’una del pomeriggio eravamo molto stanchi (in effetti, si tratta di circa 18 km, ndr), quindi cercammo un passaggio. Eravamo rimasti in quattro. Non sapevamo quanto restava da camminare».

Leany e il suo gruppo trovarono un passaggio. «Arrivato un camion, la signora a lato del guidatore ci chiese se fossimo indigeni e dove andavamo. Disse che volevano aiutarci a raggiungere il Brasile. I due che ci portavano dissero: “Ai controlli (venezuelani, ndr) dite che siete indigeni e andate alla comunità indigena di San Antonio, dall’altra parte della linea. E così facemmo, ma la guardia ci disse: “Voi non siete di là”. E noi: “Siamo indigeni”. Ci spedirono in fondo alla fila. C’erano almeno 35 auto. Aspettammo quasi due ore. Passato il controllo venezuelano, i camionisti dissero che avremmo saltato quello brasiliano passando per la trocha (il soprannome di una scorciatoia, ndr). Ci mettemmo su una strada sterrata fatta dagli indigeni pemones.

Incontrammo un primo gruppo di Pemones che chiedevano soldi a tutti i mezzi in transito (sul loro territorio, ndr). Più avanti alcune donne indigene controllavano chi passava e anch’esse chiedevano soldi. Finalmente arrivammo dove c’erano i poliziotti brasiliani che ci fecero scendere e verificarono tutti i nostri bagagli. Alla fine ci dissero che potevamo passare. Eravamo in Brasile».

Un’addetta di Acnur ci mostra un adesivo con la scritta «Yakera!», la parola dei Warao per salutare. Con essa avevamo iniziato il nostro reportage e con essa lo terminiamo. Foto: Paolo Moiola.

Da Janokoida a Ka Ubanoko

Entrati in Brasile i migranti dovevano fare una serie di documenti per essere in regola.

«Eravamo – racconta ancora Leany – a Pacaraima, la città di frontiera. In giro c’era cibo. Noi avevamo fame ma non avevamo soldi. Trascorremmo due giorni a fare i documenti alla polizia federale, nei pressi della linea (nelle tensostrutture; vedere reportage, ndr). Furono giorni difficili, anche perché mangiavamo una volta sola: una ciotola che ci davano a mezzogiorno».

A mezzanotte del secondo giorno il gruppo fu accettato al rifugio Janokoida (reportage, ndr) di Pacaraima, dove, tra gli altri, accolgono coloro che sono bloccati in città per fare i documenti.

«La prima notte ci diedero una cena abbondante a base di pollo, riso e altro. Quando la vedemmo, pensammo: “Finalmente mangiamo!”. Ma avevamo lo stomaco talmente piccolo che non riuscimmo a finire tutto».

«Il giorno successivo raccogliemmo un po’ di soldi tra tutti e riuscimmo a pagare il passaggio per andare a Boa Vista, dove arrivammo verso mezzogiorno».

Gli indigeni cercarono quindi il centro autogestito Ka Ubanoko, dove viveva già qualche parente e amico. È qui che si sono stabiliti. In attesa di tempi migliori.

M.B. – P.M.


Questo servizio rientra nell’ambito del progetto «The Warao Odissey» eseguito da Missioni Consolata Onlus e prodotto con il contributo finanziario dell’Unione europea e della Regione
Piemonte attraverso il bando «Frame Voice Report!» del Consorzio Ong Piemontesi.


 




Monsignor Aldo Mongiano, una voce a difesa dei popoli indigeni amazzonici

Testo di Luis Miguel Modino del Repam – foto Gigi Anataloni / AfMC


La vita delle persone è spesso profondamente identificata con le cause che difendono. Nella storia della Chiesa del Brasile ci sono stati molti missionari che hanno dato la vita in difesa delle popolazioni indigene. Uno di loro è stato monsignor Aldo Mongiano, vescovo di Roraima dal 1975 al 1996, morto il 15 aprile 2020 a Pontestura, Monferrato, Italia, dove è nato il 1° novembre 1919 e dove risiedeva con la sorella.

Celebrazione della messa per il centenario di mons. Aldo Mongiano che è nato il 1/11/1919

Con 80 anni di professione religiosa, 76 anni di vita sacerdotale e 44 anni come vescovo, monsignor Aldo viene ricordato nella diocesi di Roraima come qualcuno che ha seminato molto. Secondo l’attuale vescovo della diocesi, monsignor Mario Antonio da Silva, che afferma: “Io e tutti gli altri missionari, fratelli e sorelle, e le nostre comunità , con i nostri cristiani laici, abbiamo raccolto (da lui) frutti abbondanti”. L’attuale vescovo definisce i 21 anni dell’episcopato di monsignor Aldo come un tempo “di testimonianza del Vangelo, della vita missionaria profetica a favore dei popoli dell’Amazzonia, in particolare dei popoli indigeni”.

Monsignor Aldo Mongiano si distingueva nel suo lavoro profetico con le popolazioni indigene, ma, secondo Dom Mario Antonio, “ha anche combattuto per i giovani, per il ruolo dei laici, monsignor Aldo era un vescovo che, a Roraima, accoglieva vocazioni locali, e allo stesso tempo missionari provenienti da tanti luoghi del Brasile e del mondo per aiutare nella missione in questa particolare Chiesa di Romarai”. Ecco perché l’attuale vescovo di Roraima dice che “siamo grati a Dio per il dono della vita e la vocazione di monsignor Aldo, e che i frutti continuano ad essere abbondanti nel suo pastore dedicato nella vita della nostra Chiesa”.

Uno di questi missionari è stato padre Alex José Klopenburg della diocesi di Bagé – RS, che ha lavorato a Roraima dal 1988 al 1992. Arrivò nella diocesi al “momento della costituente e dell’invasione dell’area indigena Yanomani da parte dei cercatori d’oro”. Di fronte a questa situazione, il missionario ricorda che “monsignor Aldo era un grande profeta, convinto difensore dei popoli originari, con la campagna Una mucca per gli Indios, nella zona di Raposa Terra do Sol, alla ricerca di un sostentamento per il popolo Macuxi e Wapichana”. Egli definisce questo momento come “tempi difficili, di persecuzione aperti alla Chiesa, ai missionari che hanno fatto l’opzione preferenziale per i più poveri. Tempi di testardaggine profetica e di coraggio evangelico”.

In questo frangente, “Monsignor Aldo era un pastore, profeta, vero padre e fratello dei più piccoli. Animatore comunitario, protettore e sostenitore dei missionari che erano lì. Senza paura, con la certezza che stava facendo ciò che il Signore crocifisso gli ha chiesto di fare”, ricorda il sacerdote della diocesi di Bagé. Nella sua preghiera, chiede “ora con Dio in cielo, di continuare a intervenire per l’Amazzonia, per i popoli indigeni, che ha amato, difeso e aiutato”.

Celebrazione della messa per il centenario di mons. Aldo Mongiano che è nato il 1/11/1919

Monsignor Roque Paloschi, arcivescovo di Porto Velho, ha iniziato la sua missione episcopale a Roraima nel 2005. Arrivò lì il 13 luglio e ricorda che il 15, prima di essere ordinato vescovo il 17 luglio, fece la sua professione di fede nella casa delle suore della Consolata, all’altare, alla presenza di monsignor Servilio Conti e monsignor Aldo, i due vescovi emeriti di Roraima. Monsignor Roque aveva già sentito parlare di monsignor Aldo, ma i tre mesi che ha vissuto con lui dopo la sua ordinazione episcopale, quando due o tre volte alla settimana si sono incontrati per parlare, è stato un tempo in cui “ho imparato a rispettarlo e ad amarlo per la sua storia e per la sua dedizione come missionario”.

Il presidente del Consiglio Missionario Indigenista – CIMI -, parla di monsignor Aldo come de “l’uomo che ha affrontato le accuse e le persecuzioni più assurde, ha dovuto passare molto tempo con la protezione della polizia contro gli attacchi, ma non ha mai perso la sua serenità, mai ripagato il male con il male, al contrario”. Anche monsignor Roque ricorda che monsignor Aldo, in una piccola città, come lo era Boa Vista all’epoca, quando “incontrò i più feroci oppositori e aggressori (lo fece) con la serenità di un uomo di Dio, salutò e chiese alla famiglia, perché come buon pastore conosceva praticamente tutte le famiglie, ed era sempre libero di dire, la pensiamo in modo diverso, ma io ti amo, ti rispetto.”

l’arcivescovo di Porto Velho vede monsignor Aldo come qualcuno che “ha sempre avuto questa gioia e disponibilità a costruire ponti di speranza, di riconciliazione, ma anche di molta chiarezza nella missione”, essendo qualcuno che, insieme ai missionari della Consolata e alla diocesi di Roraima, ha dato un grande contributo al cammino della Chiesa dal punto di vista delle popolazioni indigene, soprattutto per quanto riguarda la difesa dei territori e dei leader. Monsignor Roque ricorda che “l’investimento che ha fatto assumendo avvocati per liberare le gli indigeni che erano stati arrestati senza accuse specifiche, semplicemente per piacere”.

Questo atteggiamento è sempre stato riconosciuto dalle popolazioni indigene di Roraima. Come ricorda monsignor Roque Paloschi, nel 2011, quando monsignor Aldo visitò Roraima, nella terra indigena Raposa Serra do Sol, un’anziana donna del popolo Macuxi, gli diede un piccolo vaso di argilla, dicendo: “Monsignor Aldo, non possiamo ringraziarlo per tutto quello che hai fatto, non solo per noi, ma per la gente di Roraima. Se oggi abbiamo la terra, questo è dovuto alla mano di Dio, ma anche alla sua mano, la mano della missione. Non può portare molte cose sull’aereo, ma vogliamo darle questo come segno di gratitudine, perché questa terra ha molto sangue, molte persone sono morte, ma ha anche la passione dei missionari della Consolata e di altri, e la sua passione per difendere la causa indigena”.

Un altro ricordo che mostra il carattere di monsignor Aldo, secondo monsignor Roque Paloschi, si è verificato il 17 settembre 2005, quando hanno dato fuoco alla prima missione che i monaci benedettini hanno costruito tra le popolazioni indigene, che era un luogo di accoglienza e un centro di formazione per le popolazioni indigene. Monsignor Aldo accompagnò il vescovo lì, e di fronte a questa situazione devastante, disse alle popolazioni indigene che soffrivano, lì umiliate, ferite: “da queste ceneri Dio eleverà nuovi semi per la speranza delle comunità indigene”. Come ha scritto lo stesso monsignor Aldo nel libro “Roraima, tra martirio e speranza”, appassionato della sua esperienza di vescovo, “la missione si fa così, con passione, ma anche con grande sacrificio, con le ginocchia, ma anche con la certezza che è Dio a guidare”.

Celebrazione della messa per il centenario di mons. Aldo Mongiano che è nato il 1/11/1919

Celebrazione della messa per il centenario di mons. Aldo Mongiano che è nato il 1/11/1919

Monsignor Aldo ha celebrato i 100 anni di vita il 1° novembre 2019, pochi giorni dopo la chiusura dell’Assemblea sinodale del Sinodo per l’Amazzonia, che ha ricordato molti dei sogni che aveva nella sua missione in Amazzonia, tra i popoli indigeni. Egli disse nell’omelia: “Ho ricevuto solo favori e ringraziamenti da Dio. Ho un sacco di regali. Mi rattrista il fatto di non essere stato più generoso nel rispondere al Signore. Avrei potuto essere più devoto, più disposto a sacrificarmi, più amorevole. Chiedo perdono per i miei limiti, i miei peccati, e vi ringrazio per tanta gentilezza”. Chi è stato missionario in molti luoghi ha sempre compreso la sua missione come un tempo “in cui devo proclamare il Signore, parlare di un Buon Dio, di un Dio misericordioso, che ha inviato suo Figlio a salvarci, che è venuto a insegnarci come guidare i nostri passi sulla via della vita. Non avrei mai pensato di ricevere tanti onori, tanto grazie, tanta misericordia, tanta gentilezza”.

In quella celebrazione, insieme ai missionari di Consolata, c’erano monsignor Mario Antonio da Silva, presente vescovo di Roraima, e monsignor José Albuquerque, vescovo ausiliario di Manaus. Secondo lui, “parlare di monsignor Aldo Mongiano, significa parlare della Chiesa che è nell’Amazzonia, della Chiesa che affonda le sue radici nel territorio di Roraima. Ricordiamo con grande gratitudine tutto ciò che monsignor Aldo ha rappresentato per la nostra regione, una parola gentile e dolce, con parole sempre incoraggianti, uno sguardo tenero e un sorriso”.

Il vescovo ausiliario di Manaus, afferma che “è impressionante come monsignor Aldo, allo stesso tempo, fosse una persona ferma e convinta, che difendeva i diritti di tutti, ma soprattutto dei popoli indigeni, di diversi gruppi etnici, non solo da Roraima, ma dal Brasile. Era anche un sostenitore della causa dei poveri e un convinto sostenitore dei capi laici e laiche. Con tutta questa fermezza, monsignor Aldo è sempre stata una persona molto fraterna, molto accogliente, la sua presenza è stata impressionante”. Qualcuno che ricorda la celebrazione dei 100 anni di vita di monsignor Aldo come un momento che sarà per sempre inciso nella sua memoria, vive questo momento della sua partenza, come “ringraziamento per quello che è stato monsignor Aldo e rimarrà per noi, un riferimento di una voce profetica che è stata accanto alla più sofferta”.

Luis Miguel Modino

Nostra traduzione da Repam – 16 aprile 2020
https://redamazonica.org/2020/04/fallece-monsenor-aldo-mongiano-una-voz-profetica/

Leggi anche:

Il testamento spirituale di Mons Mongiano su consolata.org

Scarica il pdf della sua autobiografia:

Aldo Mongiano, Roraima tra profezia e martirio, Edizioni Missioni Consolata, Torino 2010




Brasile. Manaus. Sperduti nella metropoli

testi e foto di Marco Bello e Paolo Moiola |


I Warao sono arrivati anche a Manaus, la metropoli dell’Amazzonia. Ci sono due abrigos ufficiali: uno in pieno centro (Tarumã) e uno all’estrema periferia (Alfredo Nascimento). Li abbiamo visitati entrambi. Non senza qualche difficoltà.

Boa Vista. Alla rodoviaria ci sono le tende dell’Operação Acolhida. Vi vengono ospitati gruppi di migranti venezuelani: una notte, al mattino seguente occorre andarsene. La presenza dell’esercito brasiliano, che gestisce l’operazione, è visibile ma discreta. Pochi metri più in là delle tende ci sono gli stalli dei bus.

Sono tre le compagnie che prestano servizio tra Boa Vista e Manaus. La capitale di Roraima e la metropoli dell’Amazzonia distano poco meno di 800 chilometri, percorsi in circa 10 ore.

Viaggiamo tutta la notte lungo la sola (per fortuna, viene da pensare) strada esistente chiamata Br-174. Una via di comunicazione che ha portato a un disboscamento straordinario, con l’eccezione della parte che costeggia la riserva dei Waimiri-Atroari (a conferma che dove ci sono popoli indigeni la foresta è sempre più preservata).

Questo è il percorso che molti venezuelani, e Warao in particolare, intraprendono per cercare lavoro e una vita migliore in Brasile. È un viaggio obbligato sia per fermarsi nella metropoli che per raggiungere una qualsiasi altra città del paese.

Arriviamo a Manaus al mattino. Anche qui la rodoviaria ospita tende per i migranti venezuelani, ma la situazione pare più problematica rispetto a Boa Vista, forse anche per gli spazi angusti e per il contorno di un traffico automobilistico straordinariamente intenso.

Le dimensioni cittadine sono decisamente maggiori di quelle di Boa Vista, per andare in centro città ci mettiamo circa un’ora di taxi. Ci sono semafori e auto ovunque. Non sembra davvero di essere nel cuore dell’Amazzonia.

Tarumã

L’abrigo di Tarumã, gestito dalla municipalità, è in pieno centro, a pochi passi dal teatro Amazonas, l’unico edificio di rilievo storico di Manaus.

Nella più grande città amazzonica (conta circa 2,1 milioni di abitanti), gli abrigos sono sotto la responsabilità del comune, nello specifico del Segretariato municipale della donna, dell’assistenza sociale e della cittadinanza (Semasc). I rifugi per i venezuelani sono diversi, ma due in particolare accolgono solo indigeni, la maggioranza dei quali Warao. Non si tratta di spazi aperti, come a Boa Vista, ma di condomini popolari, presi in affitto per lo scopo.

Il rifugio di Tarumã è in un edificio eguale agli altri e senza alcun segno visibile di riconoscimento. Tutto cambia appena superato il cancello. Si entra in un cortiletto dove sui fili tesi sono posti ad asciugare una selva di indumenti, soprattutto pantaloncini e magliette. L’interno della struttura è completamente spoglio, mancano le porte e le scale sono al grezzo. Nelle stanze e lungo i corridoi incrociamo soltanto bambini. Gli adulti, infatti, sono quasi tutti in uno spazio all’aperto posto al terzo e ultimo piano, una specie di cortile interno dove si stanno svolgendo svariate attività. Sembra di arrivare nello spiazzo centrale di un villaggio indigeno. Alcune donne stanno lavando i bambini in una tinozza con acqua corrente. Altre stanno pulendo delle pentole. Altre ancora sono nell’angolo più lontano accanto a fuochi su cui si sta cucinando. Ai lati, vicino al muro, sono seduti uomini e donne con i bambini più piccoli. Uno di essi attira la nostra attenzione perché è visibilmente denutrito. Il papà che lo tiene in braccio ci spiega che è appena arrivato dal Venezuela. Pur sapendo della scarsità di cibo e medicine che affligge il paese, questo è il primo bambino in brutte condizioni che vediamo.

Mariusa Addio

Ci dicono che sono tutti Warao della comunità di Mariusa, nell’alto delta dell’Orinoco. Qui il cacique è Orlando Martinez, che è coadiuvato da tre giovani vice cacique. Di mezza età, tarchiato e con qualche dente di meno, Orlando inizia a parlarci in warao (tradotto in simultanea da padre Kokal, il missionario della Consolata che ci accompagna). Poi, dopo qualche minuto, il suo racconto diventa in castellano, un po’ stentato e trascinato.

«Siamo 130 persone, 35 famiglie, tutte di Mariusa (secondo nostre informazioni la capienza sarebbe di 70 persone, ndr). Si stava bene là. Siamo tutti pescatori: catturavamo i granchi, pescavamo. Quando c’era Chávez i prezzi erano equilibrati, si poteva lavorare. Ma poi, dopo la sua morte, i prezzi hanno iniziato a crescere e non abbiamo più trovato la benzina per le imbarcazioni. Così non riuscivamo più a procurarci da mangiare». Orlando racconta del periodo terribile che precedette la partenza dalla comunità, due mesi durante i quali non si trovava più cibo. «Eravamo circa 60, tra uomini, donne e bambini. Abbiamo cercato dei passaggi per raggiungere la frontiera. Non avevamo scelta: venire via o morire di fame». Arrivati a Pacaraima, prima città brasiliana di frontiera, si fermarono là per un mese, mendicando e rivendendo rifiuti metallici. Poi il gruppo si trasferì a Boa Vista, dove si installò per tre mesi a Pintolandia (cfr. MC marzo), quindi la decisione di continuare per Manaus.

«Qui, la prima settimana dormivamo in strada. Ma una notte mi accorsi che dei malintenzionati volevano portare via una nostra bambina. Ci difendemmo, ma l’insicurezza e la paura erano aumentate. Un prete brasiliano ci aiutò a raggiungere prima un abrigo e poi a insediarci qui, a Tarumã».

Continua Orlando: «Un Warao che è arrivato dal Venezuela due settimane fa mi ha raccontato che non c’è più nessuno a Mariusa, le comunità sono abbandonate. Siamo tutti in Brasile. Noi vorremmo tornare in Venezuela, ci pensiamo ogni giorno. Un paese ricco, che ha il petrolio. C’era tutto, ma perché è finito così?». Orlando non pensa di andare in un’altra città brasiliana: «Io sto qui tranquillo, ho paura di andare più lontano. Qui mangio, di giorno esco a fare qualche lavoro, vendo acqua, raccolgo lattine da riciclare. Guadagno 30 – 50 reais (10-12 euro), così compro pollo, riso e può mangiare la famiglia al completo».

Rischio culturale

Uno dei vice cacique di Orlando è il giovane Nelson Rojas, dinamico e pieno di idee. Canottiera colorata e collana indigena, non si siede e gesticola parlando con enfasi davanti a noi: «Sono della comunità indigena warao Anoko Ido, riconosciuta dal Venezuela come comune di Sotillo, stato Monaga. A causa della crisi che vive il Venezuela, siamo stati obbligati ad abbandonare la nostra casa. Purtroppo, molti Warao stanno perdendo la nostra cultura. Venendo in un altro paese apprendono un’altra cultura, perdono le proprie radici. I bambini crescono e non vogliono più parlare warao, ma portoghese. Questo ci dà fastidio, intimamente, perché ferisce la nostra identità di Warao».

Nelson parla dei pericoli che oggi si corrono nelle comunità del delta. In alcune zone si è installato il narcotraffico e la vita è diventata rischiosa.

«Ringraziamo Dio che parte di noi adesso è qui in Brasile, anche se non era proprio un nostro desiderio. Almeno abbiamo da mangiare, l’istruzione per i bambini, non siamo in pericolo di vita come in Venezuela. Io ero un portavoce della mia comunità, ma sono dovuto venire via lo stesso».

Nelson esprime pure un’opinione sulla situazione geopolitica, parlando del presidente del Brasile: «Bolsonaro era inizialmente d’accordo a mandare l’esercito degli Usa per appoggiare Guaidó (capo dell’opposizione venezuelana e presidente autoproclamato, ndr), ma poi ci ha pensato bene e ha deciso di no, perché è un paese vicino, ci sono relazioni, anche commerciali. Ad esempio, il Brasile compra energia dal Venezuela». E con un po’ di nostalgia ci dice: «Il nostro è un paese bello, con tante possibilità. Molti stranieri vorrebbero investire in Venezuela, stabilirsi lì, ma con questo governo non è possibile». Nel frattempo, sotto la veranda che si apre sul cortile, una volontaria della Caritas diocesana ha iniziato a impartire una lezione di portoghese a un gruppo di Warao, quasi tutti giovani.

Salutiamo e torniamo all’entrata, davanti alla quale, per approfittare dell’ombra, si è accomodato un gruppo di indigeni. A un certo momento, sul marciapiede, spingendo il proprio carretto, passa un venditore di gelati. È un haitiano arrivato a Manaus dopo il terremoto che devastò l’isola caraibica. Gioviale ed espansivo, l’uomo, afrodiscendente, si siede a parlare e ridere con gli indigeni, così diversi ma accomunati dalla stessa condizione di migranti per necessità.

Alfredo Nascimento

L’abrigo Alfredo Nascimento si trova all’estrema periferia Nord di Manaus. Prende il nome dal bairro (quartiere), a sua volta parte di Cidade de Deus, uno dei quartieri più violenti della città. Abbiamo deciso di visitarlo pur non avendo (ancora) in mano il nullaosta delle autorità municipali che lo gestiscono. Dopo qualche fermata lungo la strada per chiedere indicazioni, finalmente giungiamo a destinazione: l’abrigo è posto su una via in decisa pendenza. Lo riconosciamo anche vedendo alcune persone che, accanto a un rubinetto estemporaneo, raccolgono l’acqua in secchi di plastica.

Fuori del rifugio, seduti sul marciapiede ci sono una decina di uomini, giovani e anziani, molti a torso nudo.

Alcuni portano in testa un cappellino del Venezuela. È con loro che scambiamo le prime parole. Sono loro che ci informano dove si può incontrare il responsabile. Mentre uno di noi va a cercarlo, gli altri due ne approfittano per muoversi senza restrizioni.

L’abrigo è una sorta di struttura condominiale su due piani con le stanze che danno su corridoi all’aperto dove sono stati tirati decine di fili per stendere gli indumenti lavati. Ogni alloggio è occupato da un nucleo familiare, di solito piuttosto numeroso. All’interno non ci sono mobili, ma le immancabili amache e molte borse contenenti indumenti e oggetti della quotidianità. In alcuni alloggi è presente un lavandino, ma l’acqua non vi arriva. Qualche (rara) stanza ospita anche un televisore davanti al quale – come in tutto il mondo – i bambini rimangono incantati.

Nell’abrigo di Alfredo Nascimento regna la calma. Forse addirittura troppa. Difficile dire se si tratti di rassegnazione o di una manifestazione della pazienza indigena. Su un muro sono stati appesi due manifesti di Acnur, l’agenzia Onu per i rifugiati. Scritti in portoghese e in warao, tramite alcuni disegni mostrano come trattare i rifiuti e come usare le latrine.

Il personale

In un piccolo ufficio con aria condizionata a intensità esagerata incontriamo il responsabile, Alfredo, che ci accoglie trafelato. Ci sono anche alcuni operatori con il gilet dell’Acnur e dell’Unicef, tutti giovanissimi, e due poliziotti armati.

Alfredo, anche lui giovane (sotto i 40), ci racconta che l’abrigo è aperto da circa due anni, ha 70 miniappartamenti da due camere e alcune cucine comunitarie. L’acqua viene presa da pozzi artesiani. Attualmente vi si trovano 667 persone, quando la capacità stimata è di 350.

Qui e nell’altro abrigo di Manaus i controlli sono molto meno stringenti che in quelli gestiti dalla Operação Acolhida a Roraima (cfr. MC marzo). Anche noi ne abbiamo approfittato.

«C’è il registro, ma è difficile controllare – ci confessa il responsabile -. Noi chiediamo che le persone segnalino gli arrivi e le partenze. Se giungono altri familiari, gli ospiti non vogliono lasciarli in strada». Così accade che ci sia un certo va e vieni e che l’abrigo sia piuttosto sovraffollato.

«Qui, un po’ di tempo fa, c’erano molte liti, soprattutto a causa dell’abuso di alcol da parte degli uomini. Oggi la situazione è notevolmente migliorata», riprende Alfredo.

Nella visita ci imbattiamo in un tavolino, dove un operatore della Ong World Vision (statunitense), insieme a uno dell’Unicef (che ci dicono essere uno psicologo), interroga un Warao e compila un modulo: stanno conducendo un’inchiesta.

«A livello della salute c’è un monitoraggio quotidiano fatto da un operatore sanitario e periodicamente vengono fatte vaccinazioni. Ci sono dei casi di tubercolosi, e i migranti arrivano molto debilitati, quindi particolarmente a rischio».

Tra una telefonata e l’altra, Alfredo ci confida che il municipio ha in programma un trasferimento di tutti i Warao di Tarumã e Alfredo Nascimento in una zona ancora più periferica, ma in mezzo alla natura, dove «dovrebbero trovarsi a loro agio». Al tempo stesso, questo vorrebbe dire allontanare ancora di più i migranti dalle loro reti in città e dalla possibilità di trovare lavoro. Un dualismo tra comunità e città che i Warao hanno già sperimentato in Venezuela, dove una parte di loro ha scelto di lasciare canoe e palafitte per la vita urbana.

Finalmente Alfredo ci congeda. Ha molti impegni e si deve rinchiudere a lavorare nel suo ufficio ghiacciato.

Dignità

Quando siamo ormai in procinto di andarcene, un piccolo bus si ferma davanti al rifugio. Non porta persone, ma viveri. Viene subito scaricato e gli alimenti consegnati agli ospiti in attesa. Quasi a conferma della nostra prima impressione, non c’è ressa né confusione. Gli indigeni ospiti del rifugio di Alfredo Nascimento danno dimostrazione di affrontare la loro difficile condizione con compostezza e dignità.

Marco Bello e Paolo Moiola
(3.a puntata – continua)


L’antropologo militante

«Migranti, ma in primis indigeni»

Le riflessioni di Sidney Antônio da Silva, professore all’Università federale di Amazonas (Ufam), a Manaus.

Manaus. Sidney Antônio da Silva, antropologo, è professore all’Università federale di Amazonas (Ufam). Paulista, si è trasferito a Manaus nel 2006 per studiare la migrazione nella regione Nord del Brasile1. Qui coordina anche il Grupo de estudos migratorios na Amazônia.

Il professor Sidney ci riceve in una sala del moderno Dipartimento di antropologia sociale: «Da fine 2016 la presenza di migranti venezuelani accampati nei pressi della stazione degli autobus attirò l’attenzione della gente e delle autorità. Il Ministero pubblico federale (Mpf) intervenne, e fece in modo che il municipio si prendesse la responsabilità sui Warao a Manaus. Dopo circa sei mesi di vita in baracche improvvisate trovarono loro un rifugio, nel bairro Coro Alto».

Il municipio e il governo locale ritennero però che tale sistemazione non fosse adeguata per i Warao e, anche grazie a soldi federali, verso fine 2018 trasferirono i migranti in piccole case adatte ai nuclei familiari, dove potevano organizzarsi e autogestirsi.

«Fu una decisione interessante, molto appoggiata, in particolare dall’Acnur. Noi accademici abbiamo accompagnato questo processo, facendo una ricerca sull’accoglienza dei Warao2 commissionata dall’Organizzazione mondiale per le migrazioni (Oim). Dividerli in piccole comunità, a partire dai legami di parentela, è molto importante. Loro non migrano soli, lo fanno con la famiglia allargata. È una specificità Warao e occorre essere attenti a questa rete».

Andare oltre l’abrigo

Qualcosa andò storto e si tornò ai rifugi di massa. «Ci sono stati problemi, forse per ragioni economiche. Il municipio li ha portati nel quartiere periferico Alfredo Nascimento, sistemandoli in piccoli condomini di edilizia popolare. Ma in questo modo sono stati allontanati dalle reti che si stavano costruendo nei quartieri più vicini al centro e ora si ritrovano isolati. Si tratta di reti di lavoro informale, vendita di artigianato, richiesta di soldi nelle strade. Nel centro della città è rimasta un’unica palazzina in rua Tarumã».

Il professor Sidney mette in evidenza la tipologia migratoria tipica dei Warao: «Il modello di abrigo non basta. Sappiamo che non risponde alle aspettative di questo popolo, perché per una sua dinamica storica il Warao ha una mobilità, una circolarità, sperimentate già dentro il Venezuela e ora nel Brasile. Stanno infatti circolando nel paese, in altre città del Pará e nel Nordeste. Inoltre, non è un gruppo omogeneo di Warao, e quindi sono portatori di interessi differenti».

Dialogo tra indigeni

Le due grandi sfide che l’antropologo identifica sono educazione e inserimento produttivo. «L’abrigo Alfredo Nascimento ha suscitato diversi problemi: mancanza di attività, bambini che non vanno a scuola, (appena 25 su 200). L’inserimento dei Warao in Brasile passa per un’educazione non tradizionale, ma pensata per un gruppo itinerante. C’è poi la questione dell’interculturalità, perché parlano un’altra lingua, hanno una propria cultura».

«La seconda sfida è la generazione di reddito: creare spazio in modo che possano produrre artigianato, o partecipare in altro modo all’economia. Occorre pensare a forme di inserimento lavorativo, che non sia però una forma marginale di sotto impiego o lavoro degradante».

Un altro aspetto fondamentale per l’integrazione è «fare in modo che la società e il governo brasiliano li riconosca come indigeni. Loro sono migranti, ma sono pure indigeni. Non possiamo lavorare solo con la categoria dei migranti. Perché sono diversi, c’è una differenza etnica, culturale».

L’approccio del governo attuale, in particolare in relazione agli indigeni, complica la situazione: «Oggi esiste una mobilitazione degli indigeni brasiliani che temono che i propri diritti non siano più rispettati. I Warao sono in una situazione di particolare vulnerabilità, perché sono pure stranieri.

Un percorso possibile è che si uniscano agli indigeni brasiliani, per sommare le forze, e che questi non li vedano come una possibile minaccia o come intrusi. Noi come istituzione universitaria, le Ong e la Chiesa dovremmo appoggiare questo dialogo tra indigeni. È importante che i Warao possano essere organizzati come gruppo. Non credo, da ricercatore ma anche da militante, che si possa conseguire qualcosa senza organizzazione e coinvolgimento dei migranti, senza una dinamica dal basso».

L’era Bolsonaro

Il professore sottolinea la svolta dell’era Bolsonaro: «C’è stato un cambiamento molto grande, perché al nuovo governo non è “simpatico” il governo venezuelano. Pertanto, si è creata una tensione che ha portato fino alla chiusura della frontiera. È cambiato il modo in cui il Brasile vede il Venezuela, non più come amico ma come possibile minaccia, e questo si è riflesso nel rapporto con i migranti. Una forma di xenofobia e discriminazione per i venezuelani, visti spesso come quelli che non vogliono lavorare, perché nel loro paese ricevevano tutto gratuito. Questo ha creato più difficoltà nella vita dei migranti, non solo venezuelani: la migrazione vista come qualcosa di criminoso, orribile, dopo anni in cui si è lottato per cambiare la visione del migrante come pericolo».

M.B. – P.M.


I rapporti tra indigeni

 La nostra mano per i fratelli warao»

A colloquio con Enock Taurepang (Cir) e Mauricio Yekuana (Hutukara), rappresentanti degli indigeni di Roraima.

Boa Vista.Vogliamo tentare di rispondere a un quesito semplice ma importante: nello stato più indigeno del Brasile come sono stati accolti gli indigeni che provengono dal Venezuela? Proviamo a cercare un primo riscontro nella sede del Consiglio indigenista di Roraima (Cir). Fondato nel 1971 con l’appoggio della Chiesa cattolica, il Cir è un’organizzazione che dà supporto giuridico e politico ai popoli indigeni dello stato. Incontriamo il suo coordinatore generale, Enock Barroso Tenente, di etnia Taurepang1.

«Quando i primi Warao – racconta Enock – arrivarono nello stato di Roraima, la gente non sapeva chi fossero. Non si sapeva da dove venissero. Molte persone della città pensarono che fossero indigeni del Brasile. Essi hanno sofferto abbastanza pregiudizi ed anche violenza, come d’altra parte noi indigeni di Roraima. Si diceva che avevano molta terra ma che, al tempo stesso, volevano stare in città per chiedere l’elemosina ai semafori e nelle strade del centro».

«Dopo un po’ di tempo, sia la società bianca che quella non bianca è venuta a sapere chi fossero. Che erano un popolo nomade che stava passando un periodo di difficoltà nella propria terra indigena. Che erano dovuti andarsene a causa dello sconvolgimento portato dal modello di sviluppo. Tutto questo li aveva portati lontani dai loro territori per cercare un nuovo spazio in cui vivere».

Enock Taurepang racconta degli incontri avuti con alcuni rappresentanti dei Warao fin dal 2017, e aggiunge: «L’appoggio che noi possiamo dare ai Warao è politico. C’è la proposta che l’Onu e altre organizzazioni internazionali possano dare un contributo per comprare una proprietà privata. In questo momento, un pezzo di terra su cui sistemare i Warao sarebbe essenziale. Sarebbe una soluzione immediata. Come Cir, noi confermiamo il nostro appoggio politico e una mano fraterna affinché essi possano vivere meglio qui nel nostro stato».

Yanomami e Yekuana

Per capire ancora meglio i rapporti tra gli indigeni di Roraima e quelli provenienti dal Venezuela cerchiamo una seconda testimonianza. Per questo chiediamo un appuntamento a Mauricio Yekuana2, direttore di Hutukara, l’associazione degli Yanomami che ha Davi Kopenawa come presidente. Lo incontriamo nella sede dell’associazione. Il momento è particolare: da pochi giorni c’è stato l’annuncio dell’assegnazione del Right Livelihood Award (conosciuto anche come «premio Nobel alternativo») per il 2019 a Davi e all’associazione3. Oltre a questa splendida notizia ce n’è un’altra, che invece è negativa. La sede di Hutukara e quella adiacente dell’Instituto socioambiental (Isa) sono state fatte oggetto di ruberie. Questi fatti vanno ad aggiungersi a minacce e intimidazioni che sono ormai divenute la normalità in un generale clima anti indigeno alimentato dal presidente Bolsonaro.

«Anche i Warao – spiega Mauricio – sono stati invasi dai garimpeiros. Hanno paura perché il fiume viene inquinato e non c’è sicurezza. Loro se ne vanno perché non c’è più nulla da mangiare e non c’è terra da seminare. Non avendo più niente, lasciano i propri territori in cerca di una vita migliore per i loro figli».

Accanto alla solidarietà e alla comprensione, nello stesso tempo Mauricio non nasconde i problemi: «La nostra terra Yanomami ha molti problemi. Quando hai problemi nella tua propria casa, è difficile affrontare quelli degli altri».

Diversi, eppure solidali

Enock Taurepang e Mauricio Yekuana hanno risposto al nostro quesito di partenza aiutandoci anche a chiarire un punto fondamentale. Come i popoli non sono tutti eguali (dal punto di vista antropologico e culturale), così non sono tutti eguali i popoli indigeni. Questo significa che non è implicito che un popolo indigeno sia in accordo con un altro popolo indigeno. Fatta questa precisazione, constatiamo che il rispetto e la disponibilità mostrate dai popoli indigeni di Roraima verso quelli provenienti dal Venezuela costituiscono un comportamento a cui tanti dovrebbero ispirarsi.

Marco Bello – Paolo Moiola


Questo servizio rientra nell’ambito del progetto «The Warao Odissey» eseguito da Missioni Consolata Onlus e prodotto con il contributo finanziario dell’Unione europea e della Regione
Piemonte attraverso il bando «Frame Voice Report!» del Consorzio Ong Piemontesi.





Popolo Indigeno d’Europa

testo e foto di  Valentina Tamborra |


Nell’estremo Nord del continente da sempre vivono i Sami. Nella storia oppressi e assimilati, stanno oggi lottando per mantenere la loro cultura e tradizioni. A dispetto della modernità che avanza.

I Sami sono una popolazione indigena che oggi conta circa 75mila persone. Divisi dalle frontiere di quattro stati – Norvegia, Svezia, Finlandia e Russia – vivono in un’area da loro chiamata Sapmi.

L’area ha una propria bandiera i cui colori identificano le sue diverse zone: rosso per la Svezia, verde per la Finlandia, giallo per la Russia e blu per la Norvegia, dove vivono la maggior parte dei Sami.

I nativi di queste zone sono comunemente definiti «lapponi». Il termine però, aveva inizialmente una valenza dispregiativa in quanto la parola svedese «lapp» stava a indicare una «toppa, pezza».

Solo nel 1989 è stato istituito un parlamento sami della Norvegia, in riconoscimento dei loro diritti. L’edificio è stato costruito nella città di Karasjok e la sua architettura ricorda la forma di un lovvo, ovvero una tenda (abitazione tradizionale dei Sami dediti all’allevamento delle renne), pur essendo moderno e all’avanguardia.

Inoltre, dal 1956 è attivo il Sami Council, organizzazione volontaria non governativa che ha come scopo la promozione della cultura e la difesa dei diritti e degli interessi di questo popolo.

La costituzione di un parlamento sami è di particolare rilevanza, in quanto i nativi del Sapmi hanno subito una sorte che sfortunatamente, nella storia, ha toccato diversi popoli nativi.

Sami, Valentina Tamborra

Assimilazione forzata

Tra il 1850 e il 1970 infatti, il popolo sami ha subito quella che è stata chiamata «norvegizzazione».

Durante questo periodo ai Sami residenti in Norvegia venne impedito di parlare la propria lingua e imposto di assumere un cognome norvegese per poter acquistare delle terre e integrarsi con il resto della popolazione norvegese. A quei tempi appartenere al popolo Sami era un marchio d’infamia.

Gli adulti vennero assimilati al modo di vivere occidentale e solo con estrema fatica alcuni di loro – soprattutto i Sami della tundra – continuarono a lavorare con le renne e a preservare la tradizione.

I bambini nati durante il periodo della norvegizzazione infatti, spesso non imparavano neppure la propria lingua. I genitori, per preservarli e far sì che si integrassero fra la popolazione norvegese, parlavano con loro solo nella nuova lingua. Ad oggi molti sono gli adulti che sentono di aver perso le proprie radici.

Una delle prime distinzioni da fare quando si parla di questo popolo è quella fra Sami di mare e Sami della tundra. I primi, vivendo lungo le coste dei fiordi che costellano il paese, sono stati fra i primi a subire il processo di norvegizzazione. Fra di loro, la percentuale di persone che non parlano Sami è molto alta. Mediamente le persone fra i 30 e i 60 anni di età, infatti, non conosco la propria lingua madre. Per ovviare a questo, sono in corso diverse iniziative per il recupero dell’identità: il parlamento sami, infatti, ha reintrodotto la lingua sami nelle scuole e con essa anche lo studio della tradizione e della storia. Esistono poi specifici corsi per adulti che desiderino apprendere la lingua.

I Sami della tundra invece, in quanto nomadi dediti all’allevamento delle renne, hanno subito meno la norvegizzazione e in città come Karasjok e Kautokeino, entrambe in Norvegia, l’85% della popolazione parla sami come prima lingua.

Sami, Valentina Tamborra

I nomadi della tundra

I Sami della tundra sono dediti all’allevamento delle renne e questo li rende nomadi in quanto debbono seguirne i movimenti.

Sin da bambini vengono iniziati dai genitori a questo lavoro che prevede un costante e completo contatto con la natura.

Le renne vivono in assoluta libertà e sono gli uomini a doversi adattare ai loro movimenti. Gli animali infatti, si spostano dalla costa alla tundra a seconda delle stagioni, e seguono la stessa tratta da millenni: lo spostamento segue questa rotta da quando i primi Sami iniziarono a vivere di questa attività, e il movimento è strettamente connesso alla ricerca di cibo da parte delle renne.

I Sami sono al seguito delle renne. Se una volta essi si avvalevano di slitte trainate da renne e sci, oggi le renne vengono dotate di collare gps, e un’apposita App permette di localizzare con più precisione possibile dove gli animali si stanno muovendo.

Questo ha ovviamente semplificato di molto il lavoro dei Sami: prima dell’avvento del gps infatti, era necessaria una costante vigilanza sulla mandria. Intere famiglie Sami vivevano per mesi smontando e rimontando il proprio lovvo seguendo il movimento degli animali. Quando la mandria si fermava a riposare, anche la famiglia poteva fermarsi, ma se gli animali si rimettevano in cammino bisognava immediatamente seguirli. L’ultima transumanza con le slitte e le renne è stata fatta, in Norvegia, nel 1976.

Oggi grazie alla moderna tecnologia, i Sami hanno costruito delle cabin (sorta di piccoli rifugi costruiti in legno, molto basici, vedi box) nelle tratte di percorrenza delle renne e, con potenti motoslitte in inverno e quad (specie di moto a quattro ruote) in estate, sono in grado di raggiungere gli animali molto velocemente.

Sami, Valentina Tamborra

La marchiatura

In estate, quando i nuovi nati fanno capolino nella mandria, è il momento della conta: ogni Sami si predispone a seguire la mandria e direzionarla verso grandi recinti dove ogni renna giovane verrà marchiata con il simbolo proprio del Sami che riuscirà a prenderla.

Portare le renne nei recinti della marchiatura è operazione tutt’altro che semplice: per loro natura infatti, in quanto animali liberi e non abituati all’uomo, le renne tendono a fuggire non appena qualcuno si avvicina. Così i Sami si dividono in gruppi: le motoslitte accerchiano le renne e, stando a una distanza importante (circa 200 metri), cercano di spingerle verso i recinti. Le renne si spostano naturalmente in una sorta di fila indiana che può raggiungere centinaia di metri se non a volte anche qualche chilometro. Raccogliere la mandria è un’operazione assai delicata in quanto se uno solo degli animali cambia percorso, tutte le altre renne lo seguono.

Dopo la marchiatura, che avviene con il tradizionale coltello Sami realizzato a mano utilizzando legno, osso e acciaio, le renne vengono immediatamente rimesse in libertà.

In inverno, tra dicembre e febbraio, sarà il momento di tornare nella tundra e scegliere quali animali verranno utilizzati per fornire carni, pelli e quanto serve per il sostentamento.

Oggi questa forma di allevamento è messa a dura prova in quanto, con lo scavo di nuove miniere e l’installazione di pale eoliche o tralicci della corrente, le renne trovano difficile orientarsi. La nuova conformazione del paesaggio nonché i rumori prodotti da queste installazioni disturbano gli animali durante la transumanza costringendoli a cambiare percorso e facendo loro spendere molta energia in più rispetto al passato. Questo mette a dura prova la mandria e molti animali non sopravvivono. La paura dei Sami, oggi, è quella di vedere nuovamente venir meno la propria tradizione e la propria cultura in nome dell’avanzamento tecnologico.

Sami, Valentina Tamborra

Nel profondo dei fiordi

I Sami di mare vivono prevalentemente lungo le coste norvegesi e non sono nomadi.

Il nome «Sami di mare» potrebbe suggerire una tradizione di pesca, ma in realtà essi si occupavano, in passato, prevalentemente di allevamento di ovini e di tessitura di lana. La pesca non rappresentava la principale fonte di sostentamento ma era parte dell’economia che si reggeva prevalentemente sul baratto. I legami fra Sami di mare e Sami della tundra infatti, erano e sono ancora oggi fortissimi. Le prime strade di collegamento con il resto della Norvegia infatti, vennero costruite solo nel 1970, dunque fino a quegli anni l’economia doveva per questioni di forza maggiore, basarsi sullo scambio fra le due popolazioni Sami.

Se i primi potevano fornire lana, materiale tessile e oggettistica realizzata in legno e osso (oggetti tipici chiamati duodji e dunque utensili come coltelli, calze in lana, coperte, il tutto rigorosamente fatto a mano), i secondi potevano rifornire i Sami di mare con pelli di renna (ottimo isolante dal freddo di queste zone oltre il circolo polare artico), e carne.

Oggi i Sami di mare svolgono i più svariati lavori: perfettamente integrati nel tessuto sociale norvegese, non vivono più di forme di baratto ma sono impegnati in lavori quali insegnanti, medici, cuochi.

Sami, Valentina Tamborra

Spiritualità e religione

Sebbene i Sami siano per lo più luterani, il loro legame con la religione d’origine, lo sciamanesimo, resta estremamente forte.

Lo sciamanesimo era un culto politeista che traeva la propria ispirazione dalla natura. Tra le più antiche divinità troviamo quindi la Madre Terra (colei che governa le nascite e dunque la vita) e il Dio del tuono.

Tra il XIII e il XVI secolo ci furono molte spedizioni missionarie atte a convertire i Sami al cattolicesimo e al luteranesimo. Con l’avanzata dei coloni scandinavi e norvegesi, intere comunità sami furono costrette ad abbandonare le pratiche religiose pagane.

Proprio in Norvegia, nel 1716, nacque il Seminarium Lapponicum: organizzazione con il compito di cristianizzare i Sami fornendo loro le Sacre scritture in lingua Sami. Questa iniziativa fallì in quanto la maggioranza ecclesiastica si oppose alla conservazione dei valori tradizionali (fra cui la lingua) e si procedette al sequestro e al rogo degli oggetti simbolici, come i tamburi, legati al culto pagano.

Fu con l’arrivo di Lars Levi Laestadius, nel XIX secolo, che avvenne una vera svolta.

Questo pastore luterano di origine sami fondò un suo proprio movimento, il Laestadianesimo.

Il primo precetto di questo movimento è la remissione dei peccati e l’incontro con lo Spirito Santo.

Dopo l’arrivo dei coloni infatti, complice il forte cambiamento di vita con l’imposizione di nuove abitudini, l’esproprio forzato dai terreni, la perdita della lingua madre, molti Sami erano caduti nella spirale dell’alcool.

L’alcool però era altresì associato alle pratiche sciamaniche, necessario per cadere in trance.

Laestadius, grazie alla fondazione del suo movimento religioso, aiutò i Sami a trovare una nuova salvezza dalla spirale di abbruttimento nel quale erano caduti dopo l’invasione dei coloni, ma allo stesso tempo impose loro concetti molto restrittivi creando fratture fra la comunità stessa. Chi non si convertiva, infatti, veniva guardato con sospetto e messo in qualche modo al bando dalla comunità.

Il racconto del processo di colonizzazione e di quanto avvenne in quel tempo è ben documentato nel film «La rivolta di Kautokeino» del regista Nils Gaup. Il film è incentrato sulla rivolta di un gruppo di Sami, nel 1852, contro un mercante locale e il suo alleato, un pastore luterano.

Ad oggi, come dicevamo, molti Sami seguono il cristianesimo ma continuano a conservare figure come il «guaritore». La differenza con il passato è che, se una volta il guaritore/sciamano, utilizzava il tamburo per mettersi in collegamento con gli Dei e guarire una persona, oggi la guarigione viene operata tramite l’uso della Bibbia e di Gesù. Questa mescolanza fra cristianesimo e paganesimo è ancora più forte quando scopriamo che alla celebrazione del Natale i Sami affiancano il «Nissetoget» per la celebrazione del Capodanno.

La notte del 31 dicembre, infatti, è usanza ritrovarsi verso le ore 20 per dar luogo a una lunga processione in maschera: ogni famiglia, nelle settimane precedenti all’evento, costruisce maschere e costumi.

Le maschere sono spaventose perché debbono rappresentare i demoni o comunque il «male» che verrà bruciato alla fine della processione, a mezzanotte, in un grande rogo simbolico per far iniziare il nuovo anno al meglio.

Con il rogo delle maschere, gli spiriti maligni vengono allontanati e si fa spazio agli dei benevoli a cui rivolgere le proprie preghiere per un anno nuovo sereno.

Sami, Valentina Tamborra

Le pietre del sacrificio

C’è poi un’altra usanza che dimostra come l’antico credo legato alla terra e alla natura sia radicato e forte. Nella tundra infatti, ci si può imbattere in quelle che vengono definite «pietre del sacrificio». Si tratta di grosse rocce su cui i Sami lasciano offerte (possono essere monete, corna di renna, carne) per ingraziarsi gli dei della natura e ottenere così una buona pesca o un buon anno di caccia o di allevamento.

Oltre alle pietre del sacrificio, restano ancora oggetto di attenzione e di culto altre rocce: un tempo infatti, prima dell’avvento del luteranesimo, i Sami identificavano come luogo sacro ove ritrovarsi a pregare, delle pietre di forma particolarmente allungata verso il cielo – luoghi che simboleggiavano l’unione fra terra e mondo invisibile.

Molto importante è poi per questa popolazione, il legame con gli antenati: la morte, che è vista come passaggio e naturale parte della vita, non è la fine di tutto. Per i Sami chi ci ha preceduto è in qualche modo eternamente presente. Una credenza diffusa infatti è che portare via un oggetto da una delle molte pietre del sacrificio, possa far infuriare gli spiriti che non daranno pace ai vivi sino a quando l’oggetto non verrà riposto nel luogo ove è stato trafugato.

Paganesimo, cattolicesimo, luteranesimo e sciamanesimo si fondono creando così una spiritualità molto forte che attinge alla tradizione antica.

Tutto questo è ben espresso nelle parole di un guaritore che per rispondere alla domanda «in quale dio credi?», ha usato la seguente espressione: «Che importanza ha il nome che gli dai? Se è uno, se sono molti? Ciò che conta, è che tutti si preghi per la pace».

Sami, Valentina Tamborra

La natura e la lingua

I Sami, sia di mare che della tundra, vivono strettamente a contatto con la natura. Questo li porta a un rispetto e a un rigore estremo.

Pur dovendo cacciare e allevare, non esiste Sami che non biasimi ad esempio la pesca o la caccia sportiva.

Per questa popolazione infatti, il rispetto della Madre Terra resta la base di ogni azione. Prima della caccia, prima della pesca, all’inizio della stagione della transumanza, si ringrazia e si chiede il permesso a Madre Terra per portare avanti la propria attività.

Un altro aspetto singolare e che racconta molto di quanto possa essere complicato e allo stesso tempo strettamente legata alle questioni ambientali la cultura Sami, è la loro lingua.

Catalogata in undici differenti dialetti, di cui uno estinto nel 1800 e l’altro nel 2003, solo sei di loro hanno una storia letteraria. È molto complicato comprendere e imparare questa lingua in quanto per una singola parola abbiamo talvolta più di 100 diverse espressioni, un esempio concreto è la parola neve. Vivendo nell’artico infatti, ove per circa sei mesi all’anno la neve, il ghiaccio e la poca luce fanno da padroni, è necessario poter definire al meglio uno dei componenti essenziali che determina la loro capacità di movimento e di lavoro in territori tanto duri come la tundra. E così per descrivere una neve secca, o fragile, o farinosa, o ghiacciata si usano parole completamente diverse fra loro.

Modernità e tradizione

Ad oggi risulta sempre più difficile per i Sami portare avanti il loro tradizionale stile di vita per via di diversi fattori che concorrono a rendere difficile la prosecuzione di una vita nomade e «al servizio» dei ritmi naturali: cambiamenti climatici, riduzione delle terre loro concesse per l’allevamento delle renne, nonché un turismo che raggiunge sovente mete che sino a poco tempo fa erano precluse proprio perché dedicate all’allevamento e al pascolo delle renne, sono tutti elementi che rendono difficile il mantenimento della tradizione.

In alcune città fra Norvegia e Svezia si sono già verificate proteste al fine di impedire la costruzione di nuove miniere, e alcuni capi della comunità dei Sami della tundra hanno provato a far sentire la loro voce ai propri governi. Nonostante ciò sembra inevitabile l’avanzamento del progresso e con esso, come spesso avviene, il sacrificio di realtà minori e dedite a una vita lontana dalla frenesia moderna.

Ciò che si spera, nella comunità, è che la tenacia, la forza di volontà e l’attaccamento alle radici consentano ai giovani Sami di portare avanti la propria tradizione anche se con fatica e sacrificio.

Valentina Tamborra

Sami, Valentina Tamborra

Vivere nelle cabin

Il riparo dei «rennari»

Le cabin, rifugi molto spartani, hanno sostituito l’utilizzo dei lovvo, tende tipiche che oggi vengono utilizzate essenzialmente per affumicare la carne di renna. Ciononostante la vita nella cabin è tutt’altro che agevole: l’energia elettrica viene fornita da un generatore posto all’esterno della cabin stessa e non è presente acqua corrente.

Date le temperature rigide dell’inverno, all’interno della cabin raramente si superano i 15 gradi e si è costretti a stare in molti dentro spazi davvero risicati. Spesso infatti gli allevatori condividono un rifugio formato da due o tre piccole stanze, in sei o sette persone.

L’acqua per cucinare o lavare le stoviglie viene ottenuta grazie al ghiaccio che si forma sulla superficie dei laghi. Raccolto in contenitori di metallo, viene poi sciolto sul fuoco.

Il bagno non è ovviamente presente, si costruiscono delle piccole capanne in legno a circa 200 metri dalla cabin.

I Sami che seguono la transumanza spesso restano nella tundra per due o tre settimane, adattandosi così a un modo di vivere estremamente semplice e spartano.

V.T.

Sami, Valentina Tamborra

 




LE REGOLE DI PINTOLANDIA

testo e foto di Paolo Moiola e Marco Bello |


A Roraima sono stati allestiti 13 rifugi (abrigos) per i migranti venezuelani. Rientrano tutti nell’ambito della cosiddetta «Operação Acolhida», varata nel marzo 2018 e coordinata dall’esercito brasiliano. A Boa Vista abbiamo visitato l’abrigo di Pintolandia che ospita soltanto indigeni.

Boa Vista. Sul marciapiede opposto, proprio ai margini di un grande piazzale disadorno, sono accampati gruppi di persone con sacchi riempiti dei loro pochi averi, per lo più vestiti e qualche padella. Ci sono bambini e spesso anche neonati. Sono in attesa di poter entrare nel rifugio dall’altra parte della strada. Sono tutti indigeni perché Pintolandia – il nome viene dal quartiere – è un abrigo aperto soltanto a richiedenti di etnia indigena.

L’accesso è presidiato. Ci sono le transenne e ci sono i controlli. Per entrare o uscire, gli ospiti sono tenuti a mostrare un tesserino con foto e dati anagrafici. A tutti gli altri l’ingresso è interdetto a meno di non passare per una lunga e complicata richiesta formale. E la risposta positiva non è affatto scontata. Noi siamo stati fortunati avendo ottenuto un permesso di visita per vie meno formali e più veloci.

Mostrato un documento ai militari di guardia e firmato un registro, possiamo dunque passare e attendere l’arrivo della nostra guida. Meire lavora per la Fraternidade – Federação humanitária internacional (Ffhi), un’organizzazione umanitaria brasiliana legata alla chiesa indipendente Rede Luz, fondata da José Trigueirinho Netto nello stato di Minas Gerais. La Ffhi, assieme all’esercito e all’Acnur delle Nazioni Unite, è impegnata nell’Operação Acolhida (Operazione accoglienza), varata nel marzo 2018 dal governo brasiliano per assistere i migranti venezuelani. Ma è il ministero della Difesa che ha la responsabilità della logistica e il comando delle operazioni [vedi sotto: L’umanitario militarizzato (e l’ipotesi dell’invasione)]

Un mare di amache

La prima cosa che vediamo – impossibile non notarla – è uno striscione che penzola dalla tettoia che protegge l’entrata: vi sono elencate le regole dell’abrigo. Severe e dettagliate, come per esempio: nessuna entrata tra le 22,00 e le 5,30; nessun visitatore esterno; niente fumo e alcol all’interno del rifugio.

Già dall’entrata è possibile avere un’idea della struttura del campo: al centro c’è un grande capannone (sormontato da uno striscione con la scritta «Operação Acolhida Abrigo Pintolandia»), mentre ai suoi lati sono state montate tende e tendoni. All’interno del capannone – alto, buio e triste – sono state costruite delle banali strutture in ferro – sia verticali che orizzontali – che hanno uno scopo solo ma fondamentale: consentire agli indigeni di appendere le loro amache. Che sono tante. Un mare. Attorno a esse, indumenti, scarpe, borse. E, come sempre, tanti bambini che giocano nonostante tutto.

La parola ai cacique

A Pintolandia, ci sono nove cacique («aidamo», in lingua warao), ognuno dei quali coordina un gruppo di circa 70-80 indigeni. In sostanza, i cacique fanno da tramite tra gli ospiti e le organizzazioni.

Euligio Baez, 34 anni, una moglie e sei figli, è uno di essi. «Stare bene – racconta – vuol dire avere un posto dove vivere con la famiglia. E un abrigo con 700 persone non è un buon posto. Fa molto caldo sia di giorno che di notte e poi devi avere una tessera per entrare e uscire. Quando vengono a visitarci i nostri familiari, devono stare fuori. Avremmo bisogno di uno spazio per noi, per continuare la nostra vita, come indigeni e come warao. Abbiamo bisogno di terra. Perché dalla terra viene tutto. Tra Brasile e Venezuela un tempo non c’erano frontiere.
I nostri nonni raccontavano che gli indigeni potevano andare dove volevano e viverci, come fossero nella loro terra. Adesso arrivi e non ti fanno passare. Chiedi della terra e ti dicono che non puoi averla».

Anche Adrian Valbuena, 29 anni, è cacique. È arrivato qui da Tucupita (Venezuela) quasi due anni fa. «Non mi piace molto, ma va bene. Avremmo bisogno di una casa e di un lavoro, di andare in canoa, di pescare e seminare, di fare quello che facciamo nelle nostre comunità. I nostri figli stanno imparando un’altra cultura, non stanno seguendo la nostra. Io ho una figlia, che è nata qui, è brasiliana. A lei vorrei insegnare come noi viviamo nella nostra terra».

Tutti i cacique incontrati parlano del cibo, quasi sempre per esprimere lamentele. Come Nazario Olarda, 49 anni: «Una marmita di solito contiene riso e carne o salsiccia. Ma questo non è il nostro cibo. Il nostro è il pesce, la yuca, l’ocumo, il platano. Qui riso riso e ancora riso. Non arriva pollo, ma soltanto maiale».

Il cacique Andres Nuñes, 21 anni, è a Pintolandia con la moglie da un anno. Sua figlia è nata qui. In Venezuela sono rimaste la mamma, una sorella, una cugina. «Ma altre tre sorelle – spiega – sono già a Manaus. Vogliamo andare avanti per migliorare, perché qui non stiamo facendo niente. Vorremmo poter mandare qualcosa alla famiglia in Venezuela. Per tutto questo penso di andare a Manaus per cercare lavoro».

Sotto le tende

Fuori del grande capannone sono state montate delle tende e alcuni tendoni. Qui gli ospiti sono più esposti alle bizze del tempo, ma hanno più luce e più ricambio d’aria. Incontriamo alcune donne warao che, ai lati di una tenda, stanno producendo oggetti artigianali (contenitori, vassoi, braccialetti, eccetera) usando le fibre della palma. L’artigianato è una delle poche attività lavorative che i migranti warao riescono a svolgere in Brasile. Per questo e per molti ltri fattori (tra cui anche la probabile futura conclusione dell’Operação Acolhida) il loro futuro appare molto incerto.

Improvvisamente, tra le amache poste sotto un tendone, notiamo una ragazza – giovanissima e molto bella -, che abbiamo già incontrato nel campo di Ka Ubanoko (MC gen.-feb. 20), dove si era recata per far visita a un’amica. Maglennis – questo il suo nome – è ancora minorenne (è nata a fine 2002), ma è già mamma di una bambina di due, Angelina.

In quell’occasione, oltre a mostrarci il tesserino indispensabile per entrare a Pintolandia, ci aveva raccontato che la sua piccola aveva necessità di una delicata operazione chirurgica, motivo principale che l’aveva spinta a scappare da un Venezuela da tempo senza medicine.

Questa volta ci racconta che l’operazione è stata eseguita con successo all’ospedale di Boa Vista. Inoltre, dal campo d’accoglienza di Pacaraima sono arrivati anche i nonni Ramon e Yolanda e, dunque, lei e la bambina non sono più sole. Oggi Maglennis è felice, ma rimane (comprensibilmente) incerta quando si tratta di disegnare il proprio futuro.

Più decisa appare Katerine Marin, 24 anni. Forse per questo suo atteggiamento è stata eletta cacique, unica donna tra otto uomini. «Prima di me i cacique erano solo uomini. Mi sono detta: perché non può farlo una donna? Siamo capaci, forti. Pur non avendo un’esperienza specifica, le persone mi hanno eletto. Organizzare la comunità, all’inizio è stato difficile. La gente però mi ha appoggiato e continua ad aiutarmi. Tutti insieme possiamo cambiare per il benessere collettivo. Il mio lavoro è dare voce alle molte preoccupazioni delle persone; io raccolgo le informazioni e le porto al coordinamento, che è in mano alla Fraternità, per cercare una soluzione ai problemi».

Katerine è qui con due fratellini di undici e dodici anni. Racconta: «Nostra mamma è morta l’anno scorso. Il papà è in Venezuela, ma si è trovato un’altra donna. Sono rimasta responsabile dei due fratellini. Sto cercando loro un posto per andare alla scuola statale: io voglio che studino. È qualcosa di importante per dar loro la possibilità di una vita degna. L’istruzione è una cosa fondamentale. Abbiamo cercato qui, ma dicono che non c’è posto. Così sono pochi i warao che riescono ad andare a scuola».

Donna, cacique, sorella, mamma. Chiediamo a Katerine cosa sogna per sé: «Vorrei lavorare, perché voglio andare avanti. Non voglio sempre dipendere da qualcuno. Essere indipendente, avere qualcosa di stabile, qualcosa di degno, una casa, ad esempio. Poi, se la situazione migliorerà, vorrei tornare in Venezuela».

Tra cibo e libertà

Luis Ventura, responsabile del Consiglio indigenista missionario (Cimi), del coordinamento regione Nord I, ci spiega le difficoltà: «A partire dal 2017 la misura principale dello stato per i migranti è stata quella dell’abrigo. Sistema caratterizzato da una grande rigidità, a livello amministrativo. Ciò impedisce il movimento dei Warao e il libero accesso degli stessi a relazioni con entità come il Cimi e altre della società civile. Il fatto che l’accesso agli abrigo sia molto controllato, è una difficoltà che ci ha impedito di avere una relazione fluida con loro. Per noi sarebbe importante capire se le loro modalità di organizzazione sono rispettate, i loro desideri e necessità ascoltate.

Nel 2018, i Warao vennero al Cimi per denunciare una serie di situazioni che si verificavano nell’abrigo, e tentammo di avere una relazione con le entità che in quel momento stavano dirigendo Pintolandia, ma non fu possibile. Iniziammo a intervenire come facciamo quando i diritti fondamentali non sono rispettati, pure da parte dello stato, ovvero appellandoci ai meccanismi democratici di garanzia che il sistema brasiliano mette a disposizione».

Gli operatori del Cimi hanno difficoltà a incontrare gli ospiti di Pintolandia e devono farlo all’esterno dell’abrigo, quasi di nascosto. «Molti di essi – ricorda Luis Ventura – sentono che questa rigidità sta bloccando la loro possibilità e capacità di sognare e di prendere decisioni. Mi hanno detto che non possono continuare a vivere semplicemente per avere garantito un piatto di cibo».

E continua: «Purtroppo la gente deve scegliere tra la garanzia di avere da mangiare, che esiste solo negli abrigo, e la garanzia di avere autonomia e libertà per prendere le proprie decisioni. Questa è la grande contraddizione: l’alimentazione è dentro a Pintolandia, mentre in Ka Ubanoko c’è l’autonomia ma non c’è alcuna garanzia di riuscire a sfamarsi».

«Noi diciamo – conclude Ventura – che, se la politica migratoria porta a questo, ha fallito completamente, perché impone una scelta capestro, soprattutto alle famiglie con bambini».

Yakera?

Camminando tra i profughi ospitati a Pintolandia, arriviamo a un gruppo di tende dove si stanno facendo le pulizie. Sono stati portati all’aperto i materassi e stesi i panni. «È piovuto dentro», ci spiega un indigeno.

Nei pressi di una di esse salutiamo con un «Yakera!», pensando di essere gentili e fare cosa gradita. Macché. «Siamo E’ñepá», ci fa presente una ragazzina. L’errore comune di noi bianchi è di non fare distinzioni: per noi gli indigeni sono tutti eguali. Nulla di più sbagliato, invece. Gli E’ñepá (conosciuti anche con il nome di Panare) non sono Warao: altra lingua, altra zona di provenienza, altri costumi. Anche i prodotti del loro artigianato sono diversi. In Venezuela, sono circa 5mila, localizzati soprattutto nella parte occidentale dello stato di Bolívar. In effetti, a ben guardare, i loro tratti somatici sono diversi da quelli dei Warao.

Avviandoci verso l’uscita passiamo accanto a tavoli sui quali alcuni indigeni – vecchi e giovani – stanno giocando a dama o a domino e poi a un banco dove alcune signore e’ñepá gestiscono un piccolo banco di artigianato, anche se dentro l’abrigo gli acquirenti sono quasi assenti. Nello spiazzo antistante, dei bambini – a Pintolandia ce ne sono tanti – si divertono giocando a pallone.

Usciamo dall’abrigo quando è ormai sera e il buio è rischiarato dai lampioni della piazza. Proprio di fronte all’ingresso, dall’altra parte della strada, notiamo uno strano gruppetto. Ci sono due donne, di cui una giovane, e ben sette bambini. Il più piccolo ha pochi mesi. Sono seduti o stesi su alcune panche di cemento, insieme a diversi sacchetti e sacche con il simbolo dell’Organizzazione mondiale per le migrazioni (Oim). «Siamo arrivati qualche giorno fa dal Venezuela e siamo stati a centro di transito della rodoviaria (stazione dei bus, ndr)- ci racconta la signora più anziana -. Poi ci hanno detto che a Pintolandia c’erano dei posti e siamo venute. Ma siamo in attesa da alcune ore e non credo che ci prenderanno. Dobbiamo cercare di tornare alla rodoviaria per passare la notte (almeno là sono previste tende, c’è la possibilità di farsi la doccia e di avere del cibo, ndr), però ci servono dei soldi per pagare due taxi perché è piuttosto lontano. Riproveremo nei prossimi giorni».

Una piccola storia di rifiuto che ci fa riflettere su questo «umanitario» senza umanità.

Marco Bello e Paolo Moiola
(2a puntata – continua)


Operazione «marmitas»

Per un pugno di riso

Nei rifugi ufficiali (abrigos) gli ospiti hanno i pasti assicurati. Spesso ne avanzano. Recuperarli e distribuirli è compito dell’«operação marmitas».

Boa Vista. La telefonata arriva durante la cena. Padre Oscar Liofo risponde al suo cellulare sottovoce e in pochi secondi. Alla fine annuncia: «Questa notte, operação marmitas». Detta così, l’affermazione suona come uno scherzo. Invece, si tratta di una cosa seria e soprattutto utile. In portoghese, il termine «marmita» indica un contenitore per cibo d’asporto. Succede che nei rifugi (abrigos) ufficiali, quelli gestiti dall’esercito brasiliano nell’ambito dell’Operazione accoglienza (Operação acolhida), quasi ogni sera venga avanzato un certo numero di pasti. Due (su 11 totali a Boa Vista) di questi rifugi – Nova Canaã e Jardim Floresta – sono in contatto con padre Oscar. Quando c’è cibo in sovrappiù, l’ufficiale di turno chiama il missionario perché passi a ritirare i pasti avanzati per distribuirli a chi ne abbia bisogno, in particolare agli ospiti di Ka Ubanoko, il rifugio autogestito.

Saliamo in auto. «Mi raccomando – avverte il missionario – voi siete dei volontari che mi state aiutando. Quindi, niente foto, niente domande da giornalisti nell’abrigo. Soltanto il vostro aiuto manuale».

Tra le stellette dell’esercito

Il campo di Nova Canaã è ben recintato. C’è soltanto un ingresso. Oltrepassato il quale ci si trova al cospetto di giovani soldati seduti davanti agli schermi di un paio di computer. Non si passa senza identificazione. Per noi è un’utile occasione per guardarsi attorno. Non ci sono tende ma, su un lato, oltre trenta casette prefabbricate e, in fondo, un tendone che protegge i tavoli e le sedie della mensa, oltre a un grande televisore acceso. In mezzo, uno spiazzo non pavimentato dove stanno giocando una decina di bambini.

Nel frattempo, all’ingresso è arrivato l’ufficiale responsabile. Saluta con cordialità il missionario della Consolata e gli chiede chi siano i suoi aiutanti di oggi. Tutto a posto: possiamo passare. Seguiamo l’ufficiale in un container adibito a dispensa al cui interno si gela. Ad attenderci una settantina di contenitori in polistirolo: le fatidiche marmitas. Mettiamo tutto negli scatoloni che abbiamo portato con noi. Ringraziamo e ci avviamo verso l’uscita con la cena per 70 persone. Fuori dell’abrigo ci sono alcuni migranti che vorrebbero avere una marmita. Non sono insistenti, ma la situazione è spiacevole, soprattutto perché non possiamo accontentarli. Ci è infatti fatto divieto assoluto di consegnare cibo nei pressi del centro.

In fila e in silenzio

Terminate le operazioni di carico sul pick up di padre Oscar, ci dirigiamo verso Ka Ubanoko, dove l’organizzazione interna è già stata allertata. Quando arriviamo, troviamo un’illuminazione molto scarsa. La sola cosa che si distingue è lo sgangherato cancello d’entrata. Ad attenderci ci sono due cacique ai cui gruppi oggi sono destinate le marmitas. Scarichiamo tutto in pochi secondi. Un cacique effettua la distribuzione sul posto: i beneficiari si mettono in fila per ricevere il loro pasto. L’altro cacique porta via le sue marmitas. Lo seguiamo verso l’interno del campo, dove – nonostante non siano ancora le 22,30 – regna una grande tranquillità. Dobbiamo stare attenti a dove mettiamo i piedi perché ci sono pochissime luci. Il cacique si ferma nei pressi dello spazio dove alloggia con la propria famiglia – una stanza in nudo cemento e senza gli infissi -, e inizia la distribuzione.

L’operazione si svolge con ordine e praticamente in silenzio. Chi parla, lo fa sottovoce. Qualche bambino apre subito la marmita ricevuta dalle mani del cacique. Oggi contiene riso, un pezzo di carne e alcune verdure cotte.

A Ka Ubanoko non si soffre la fame. Le persone ospitate – oltre 600 – in un modo o nell’altro riescono ad avere cibo sufficiente. Quello che manca, e probabilmente mancherà a lungo, è il lavoro o almeno una prospettiva di futuro che non sia la permanenza in un campo profughi, non importa se spontaneo o ufficiale.

M.B. – P.M.


Operação Acolhida: qualche riflessione

L’umanitario militarizzato (e l’ipotesi dell’invasione)

La migrazione massiccia dal Venezuela al Brasile inizia nel 2016. La popolazione è confusa, e inizialmente vede i migranti come un nemico. Nel secondo semestre del 2017 arrivano a Boa Vista anche molti Warao. Si accampano negli spazi pubblici, nelle piazze, nei pressi della rodoviaria (la stazione dei bus) divenendo perciò molto visibili. Le abitudini dei Warao sono diverse da quelle degli indigeni di Roraima.

Sempre nel 2017 la Fraternidade – Federação humanitária internacional (Ffhi), giunta da poco nello stato, negozia con il governo locale per diventare attore privilegiato nell’assistenza ai migranti. All’inizio non ci sono finanziamenti federali e, sull’emergenza, intervengono sia Fraternidade che i Vigili del Fuoco.

La Fraternidade è una Ong legata alla Comunidade Luz Figueira, una organizzazione religiosa fondata da José Trigueirinho Netto, a Carmo da Cachoeira nel Sud di Minas Gerais. Trigueirinho, definito dai suoi scrittore, filosofo e spiritualista, con all’attivo la pubblicazione di 82 libri e oltre 3.000 prediche, è morto nel settembre 2018 all’età di 87 anni. Ha fondato anche l’Ordem Graça Misericordia, un vero ordine religioso «privato».

La Ffhi firma un primo accordo con l’Acnur nell’agosto del 2017 per la collaborazione nell’assistenza umanitaria ai migranti venezuelani. Nel marzo 2018 è varata l’Operação Acolhida, il cui controllo è in mano al ministero della Difesa.

Quasi contemporaneamente viene creato l’abrigo «ufficiale» di Pintolandia. Qui, nell’omonimo quartiere, fin da fine 2016 si erano radunati dei profughi assistiti da Ffhi e poi Acnur.

Con l’Operação Acolhida scatta la militarizzazione della crisi umanitaria, con la quale il governo del presidente Michel Temer (2016-2018) passa direttamente il potere della gestione all’esercito in luogo della governatrice Suely Campus.

Con le elezioni dell’ottobre 2017 diventa governatore Antonio Denarium, candidato di Jair Bolsonaro, e i militari entrano anche nel governo statale.

È ormai palese il «modello Haiti», ovvero i militari gestiscono le operazioni umanitarie. L’esercito brasiliano lo ha imparato proprio nel paese caraibico, dove era al comando della Minsutah, la missione dei caschi blu dell’Onu, conclusasi nell’ottobre 2018.

Aumentare il numero di effettivi militari a Roraima, stato di confine con il Venezuela, ha fatto pensare a una possibile invasione di quel paese, che sarebbe partita da Colombia (frontiera Est) e Brasile, paesi con governi antagonisti a quello di Nicolas Maduro. Quest’ultimo, nel timore di questa evenienza, avrebbe rinforzato la frontiera con il Brasile.

Ma il nuovo presidente Jair Bolsonaro, già capitano dell’esercito, succeduto a Temer il primo gennaio 2019, avrebbe preferito attendere un momento più propizio. D’accordo con il presidente colombiano Iván Duque e soprattutto con Donald Trump, il quale nel suo discorso sullo «stato dell’Unione», lo scorso 4 febbraio, ha ribadito che «la tirannia di Maduro sarà spezzata».

Marco Bello – Paolo Moiola


L’antropologa

Migranti, ma sempre indigeni

A colloquio con Elaine Moreira, professoressa all’Università di Brasilia e studiosa di popoli indigeni e di Warao.

Boa Vista. Elaine Moreira, antropologa e docente ordinaria all’Università di Brasilia (*), ha lavorato a lungo a Roraima, in particolare sui popoli indigeni presenti nelle zone transfrontaliere. La incontriamo a Ka Ubanoko, mentre sta conducendo un’indagine in collaborazione con la Oim (Organizzazione internazionale per le migrazioni) sulle condizioni di vita dei Warao.

«I primi di loro sono arrivati a Roraima nel 2014. Si incontravano per strada e ne parlavano i giornali, ma non si sapeva chi fossero. Talvolta, erano confusi con popoli autoctoni. C’erano in particolare mamme con bimbi che mendicavano agli incroci. Questo primo gruppo fu espulso dalla polizia federale, perché non in possesso di documenti».

Negli anni successivi gli arrivi si ripetono. «Le autorità – racconta Moreira – provarono a espellerli tutti, ma società civile, università, defensoria pubblica (organo statale che fornisce assistenza giuridica gratuita, ndr), intervenendo con una ingiunzione in tribunale riuscirono a impedirlo».

Finalmente, nel gennaio 2017, il Ministerio publico federal fa realizzare uno studio da due antropologhe per capire qualcosa di più di questo popolo. «Da quel momento in poi lo stato non ha più potuto dire di non sapere chi sono i Warao. Purtroppo però non si è riusciti a coinvolgere la Funai (Fundaçao nacional do indio), l’ente federale, che si occupa di popoli indigeni. Neppure oggi la Funai si interessa dei Warao, presenti ormai da cinque anni in diversi stati del Brasile».

Dalle città venezuelane a quelle brasiliane

«In Venezuela i Warao vivono in un’area molto delicata dal punto di vista ecologico. Il delta dell’Orinoco, con i suoi 3mila canali. In certe zone c’è stato un impatto molto grande a causa di una diga che ha isolato una parte e reso salino il suolo (diga sul canale Manamo, 1965), facendo perdere loro molte risorse. È poi entrata l’industria del legno e quella del petrolio. Si sono sviluppate alcune città, come Tucupita e Antonio Diaz. Tutti fattori esogeni che li hanno indeboliti». Da non trascurare l’epidemia di colera che si è diffusa in Sudamerica a inizio anni ‘90: nel delta ha colpito duro, uccidendo oltre 500 indigeni. Nei loro racconti ancora oggi riaffiora la paura della malattia.

«In seguito – spiega ancora l’antropologa – ci fu un periodo in cui parte della famiglia andava nelle città del Venezuela a mendicare e vendere artigianato per strada, mentre l’altra parte stava nelle comunità di origine a occuparsi delle terre. Si trattava di un flusso di andata e ritorno. Le forze dell’ordine spesso li riportavano nelle loro zone di origine. Questo ha funzionato per anni, fino all’arrivo della crisi economica». La crisi generalizzata ha acuito la questione della mancanza di cibo e la scarsità di medicine. Così il Warao ha cercato altri sbocchi, in particolare in Brasile.

«Hanno già un’esperienza su come “occupare” la strada. Di solito, sono gruppi con diverse donne, ma anche alcuni uomini per proteggere e negoziare i luoghi. La vera novità è che diventano migranti: passano la frontiera e hanno bisogno di documenti. Quelli che partono mantengono una relazione molto stretta con chi resta. Inoltre, molti viaggiano e poi tornano e c’è un cambio con chi riparte. Portano in Venezuela vestiti, medicine, cibo, e ripartono con artigianato da vendere. Così continua il flusso bidirezionale. Lo stesso sistema usato nel loro paese».

I Warao e gli altri popoli indigeni

Una questione importante è la relazione dei Warao con gli indigeni brasiliani, in particolare a Roraima, dove costituiscono la maggior parte della popolazione. «Sono passati cinque anni e non è cambiato molto nella relazione con gli altri popoli indigeni. Inizialmente Macuxi, Wapixana e gli altri non conoscevano i Warao. Diversamente da quanto accade per i Pemon, che hanno “parenti” a Roraima, perché sono della zona frontaliera. Quella con i Warao è una relazione in costruzione».

La professoressa parla della situazione dei Warao a Roraima. «Il problema sono gli abrigos. Sono affollati, c’è molta precarietà, si tenta di non fare uscire le donne con bambini, perché non si vuole che vadano in strada». In Brasile è vietato mendicare con un minore, e si rischia che venga tolta la tutela. Per i Warao, però, si tratta di una pratica normale, anche perché le mamme non lasciano mai i propri figli. Inoltre per una Warao, chiedere soldi a un incrocio è un po’ come raccogliere la frutta da un albero (cfr. Cecilia Lafée-Werner Wilbert, La mujer Warao, 2008). «Tenendo le donne all’interno dell’abrigo, si limita molto il loro modo di vivere. Se si decide di accogliere gli indigeni si assume una responsabilità rispetto ai loro diritti, che sono quelli dei migranti, ma anche degli indigeni, portatori di proprie specificità».

Dal 2018, con la Operação Acolhida, la responsabilità degli abrigos in Roraima è passata all’esercito brasiliano. «L’esercito ha creato diversi abrigos e rafforzato la gestione della frontiera. È aumentata l’efficienza. Anche l’Acnur ha migliorato il sistema di accoglienza. Ma i Warao hanno esperienza non sempre pacifica con l’esercito in Venezuela, per cui la presenza dei militari li intimorisce. L’abrigo offre la garanzia dell’alimentazione, però si limita a questo».

E questa crisi umanitaria quanto durerà? «La mia impressione è che continuerà per molti anni. Dobbiamo essere preparati».

Marco Bello – Paolo Moiola

(*) Elaine Moreira, Os Warao no Brasil em cenas: “o estrangeiro…”, in «Périplos: Revista de Estudos sobre Migrações», vol 2 – n. 2.


Questo servizio rientra nell’ambito del progetto «The Warao Odissey» eseguito da Missioni Consolata Onlus e prodotto con il contributo finanziario dell’Unione europea e della Regione
Piemonte attraverso il bando «Frame Voice Report!» del Consorzio Ong Piemontesi.