In Argentina, essere indigeno è sempre difficile. I diritti sono più teorici che reali, a iniziare da quello alla terra ancestrale. Lo stesso presidente, Alberto Fernández, ha riassunto la storia del paese senza citare i suoi primi abitanti, i popoli indigeni.
«L’Argentina, la nostra, è di origine indigena – scrive Endepa, organizzazione cattolica al servizio dei popoli indigeni -. Deploriamo profondamente le parole del presidente della Repubblica argentina, Alberto Fernández, quando, nel contesto dell’incontro con il primo ministro spagnolo del 9 giugno 2021, ha detto che: “Noi argentini veniamo dalle navi”. Tra il 1881 e il 1914, la storia politica argentina guardava all’Europa e ci fu un’esplosione migratoria, ma già prima del XVI secolo il territorio che oggi chiamiamo Argentina era abitato. Quindi, ridurre la storia o raccontarne solo una parte implica rendere invisibile l’altra. L’immaginario bianco europeo come unico modello in America, provoca una tensione etnico – razziale, e acuisce una ferita ancora aperta. E la reiterazione di questo modello etnocentrico riproduce l’idea mitica di un’Argentina egemonica.
La realtà di un’Argentina ancestrale indigena multiculturale emerge, invece, dalla storia stessa. L’infelice frase rende invisibili anni di lotte delle comunità indigene per il rispetto della loro identità e del diritto ai propri territori, che negli ultimi anni stanno ottenendo riconoscimenti a livello mondiale. La Costituzione nazionale, nel suo art. 75, comma 17, ordina di “riconoscere la preesistenza etnica e culturale dei popoli indigeni argentini”, che il presidente non può ignorare. Nella riforma costituzionale del 1994 è stato espressamente affermato che l’Argentina ha origini indigene, con i popoli nativi soggetti di diritti, il che rende inaccettabile il pronunciamento del presidente.
Questa sfortunata menzione è riprovevole per le sue concezioni razziali discriminatorie. Essa coincide con i discorsi dei predecessori: Cristina Kirchner aveva affermato: “Siamo figli, nipoti e pronipoti di immigrati. Questa è l’Argentina” (aprile 2015) e Mauricio Macri: “In Sud America siamo tutti discendenti di europei” (gennaio 2018). Si tratta di una costante dei discorsi presidenziali, che si traduce in fatti e che permane nel tempo, di mandato in mandato, segnando un indirizzo discriminante del governo nazionale che va oltre i partiti politici.
L’Équipe nazionale di pastorale aborigena (Endepa) è solidale con i popoli indigeni che resistono in questo paese dove i loro diritti sono solo sulla carta, mentre nella realtà viene loro negata la proprietà dei territori ancestrali, l’accesso a un sistema sanitario adeguato, l’istruzione multiculturale, abitazioni consone, un’infanzia dignitosa e un’alimentazione adeguata dal punto di vista nutrizionale alle loro esigenze. Ci battiamo per il riconoscimento di un’Argentina multiculturale, nel contesto di una convivenza americana consapevole della propria preesistente ascendenza indigena.
Signor presidente, ci aspettiamo da lei non solo le doverose scuse, senza giri di parole, ma l’effettivo rispetto dei diritti menzionati nella Costituzione che lei ha giurato di rispettare».
Le scuse non bastano
Questo è il duro comunicato (datato 10 giugno) di Endepa, con la quale mi onoro di collaborare.
Pochi giorni dopo le sue infelici affermazioni (peraltro, erroneamente attribuite al premio Nobel Octavio Paz), Alberto Fernández si è scusato: «Non volevo – ha detto – offendere nessuno; in ogni caso, a chiunque si sia sentito offeso o reso invisibile, sin da ora offro le mie scuse».
Successivamente, il presidente ha aggiunto un nuovo tweet in cui ha citato parole di Litto Nebbia, un cantautore argentino di cui Fernández è un grande ammiratore, inserendo la strofa della canzone «Siamo arrivati dalle barche» (Llegamos de los barcos), perché «sintetizza meglio di me – ha detto – il vero significato delle mie parole».
Ha anche citato una frase simile attribuita allo scrittore argentino Julio Cortázar: «È stato affermato più di una volta che “gli argentini provengono dalle navi”. Nella prima metà del XX secolo abbiamo accolto più di cinque milioni di immigrati che vivevano con i nostri popoli nativi. La nostra diversità è un orgoglio».
Dopo lo scandalo dell’«Olivos Gate» (una festa presidenziale organizzata in piena pandemia) e del «Vacunas Vip» (le vaccinazioni in via privilegiata per la gente vicina al potere), un altro scandalo si è dunque abbattuto sul presidente argentino, peraltro da molti considerato come un mero esecutore delle volontà della vice Cristina Kirchner.
In aggiunta, le primarie del 12 settembre – che hanno anticipato le elezioni del 14 novembre – hanno portato a una pesante sconfitta della coalizione di governo (Frente de todos) nei confronti dell’opposizione (Juntos por el cambio) di Mauricio Macri (il quale, durante la sua presidenza, era stato a sua volta del tutto inadeguato).
La reazione della vicepresidente è stata la pubblicazione, il 16 settembre, di una durissima lettera contro Alberto Fernández, amplificando in tal modo la crisi politica interna al governo.
Leggi inattuate
In Argentina, non mancano le leggi a tutela dei popoli indigeni: manca la loro applicazione da parte dei governi. Ricordiamo, in breve, i riferimenti normativi più importanti.
La convenzione numero 169 del 1989 dell’Organizzazione internazionale del lavoro (Oil) sui popoli indigeni fu sottoscritta dall’Argentina nel 1992 con la legge n. 24.071.
Due anni dopo, il paese varò un’importante riforma della Costituzione in cui l’articolo 75 inciso 17 chiedeva al Congresso di «riconoscere le radici etnico-culturali delle popolazioni indigene argentine; garantire il rispetto della identità di tali popolazioni e il diritto ad un’educazione bilingue e interculturale; riconoscere la personalità giuridica delle loro comunità e il possesso e la proprietà comunitaria dei territori che tradizionalmente occupano; regolamentare, inoltre, il conferimento di altri terreni adatti e sufficienti per lo sviluppo umano; nessuna di tali terre sarà alienabile, trasmissibile, né soggetta a gravami o sequestri. Assicurare la partecipazione di tali popolazioni alla gestione delle proprie risorse naturali e delle altre cointeressenze che le riguardino».
Come ha riassunto l’Equipo diocesano de pastoral aborigen (Edipa) di Formosa: «Le comunità indigene che abitano quella che oggi è l’Argentina sono state dichiarate preesistenti nella Costituzione nazionale dal 1994. I popoli indigeni si auto-determinano, hanno i loro modi e mezzi per organizzarsi; chiediamo che ci permettano di vivere in comunità, esigiamo il rispetto permanente della nostra diversità e la giusta applicazione dei nostri diritti già stabiliti a livello internazionale, nazionale e provinciale».
Nel 2006 venne varata la legge numero 26.160 per affrontare l’emergenza territoriale delle comunità indigene: essa proibisce gli sfratti e ordina il rilevamento tecnico e catastale dei territori che appartengono ancestralmente ai popoli indigeni. La legge è già stata prorogata tre volte e scade di nuovo il 23 di questo mese di novembre.
In questi 15 anni di vigenza il rilevamento non ha però raggiunto il 50%, e gli sfratti continuano.
Attività mineraria e «zone di sacrificio»
Un esempio d’inadempienza da parte delle autorità pubbliche si è avuto, lo scorso giugno, nella provincia di Chubut dove vivono comunità di due popoli indigeni, i Mapuches e i Tehuelches. Qui la Corte d’appello di Puerto Madryn ha respinto, per una questione di tempi di presentazione, l’appello delle comunità indigene contro un progetto di legge (n. 128, novembre 2020) che sacrifica parte dei loro territori in favore delle imprese estrattive. La cosa è talmente palese che viene utilizzato proprio il termine «zonas de sacrificio».
Una delle zone di sacrificio dovrebbe essere quella conosciuta come «la Meseta».
«Come popoli in lotta – hanno scritto gli indigeni – contro il mega estrattivismo minerario, avvertiamo le persone mobilitate e la società in generale circa una nuova manovra per far prevalere la volontà politica di consegnare il territorio della provincia di Chubut alle compagnie minerarie transnazionali».
Raggiunto telefonicamente, il dottor Eduardo Hualpa, già consulente di Endepa e oggi funzionario pubblico, mi spiega: «Il progetto di “zonificazione mineraria”, promosso dal governo di Chubut, è stato deciso alle spalle delle comunità indigene e della società civile. Esso consentirà alle imprese minerarie un grande utilizzo di acqua, miniere a cielo aperto e uso di sostanze tossiche. Insomma, esso sarà una minaccia per la vita di tutti».
Gli Huarpe
Da alcuni anni lavoro nella provincia di Mendoza (regione di Cuyo) con il popolo degli Huarpe. La loro organizzazione è dovuta, in gran parte, al fatto che hanno mantenuto in vigore le loro istituzioni ancestrali, sia pure con alcuni cambiamenti. Così, il loro «Consiglio degli anziani» è quello scelto secondo gli statuti da ciascuna comunità.
Nel 1999, con la cosiddetta dichiarazione di San Miguel de los Sauces, gli Huarpe hanno spiegato: «Siamo membri della grande nazione argentina. Ci sentiamo e siamo orgogliosi del nostro gruppo etnico Huarpe Millcayac. Rispettiamo le diverse etnie che compongono la nazione argentina e le rispettive culture, e vogliamo collaborare con tutti per il bene comune. Chiediamo il riconoscimento e il rispetto della nostra identità, della nostra cultura e del diritto di possedere e vivere sulle nostre terre, che abbiamo occupato pacificamente e ininterrottamente da prima della colonizzazione, e che comprendono tutte le Lagunas de Huanacache, cioè i distretti: Asunción, San José, Lagunas del Rosario e San Miguel de los Sauces. I nostri antenati pacifici e operosi sono stati oppressi. Oggi, senza rancore o risentimento, vogliamo collaborare con i nostri valori per costruire un mondo migliore, un paese fraterno e solidale, una Mendoza prospera e ricca di culture diverse».
Arrivati al termine del 2021, gli Huarpe stanno ancora aspettando che sia loro riconosciuto il titolo comunitario del territorio che occupano ancestralmente, nonostante l’esistenza della Legge provinciale 6.920, approvata nel 2001 e il cui adempimento è stato più volte reclamato dagli interessati. Ciò ha permesso e sta permettendo che privati e agenti immobiliari usurpino diverse zone del loro territorio.
Il genocidio sconosciuto
Sul genocidio dei popoli indigeni dell’Argentina non è mai stata fatta luce. Per questo condivido l’idea della criminologa e professoressa Valeria Vegh Weis (11 giugno 2021, su Pagina 12) di istituire una «Conadep indigena», una Commissione nazionale sulla sparizione di persone per i popoli indigeni.
«La negazione delle radici indigene e la violazione dei loro diritti – ha scritto la Vegh Weis – non è un problema esclusivo dell’Argentina. Tuttavia, ci sono alcuni paesi che hanno compiuto progressi nel riconoscere i genocidi originari su cui sono state fondate le nostre nazioni. […] le commissioni sulla verità sono state globalmente fondamentali nel gettare le basi per una “svolta narrativa”. Cosa riguarda? La ricerca di una storia attendibile delle nostre radici che si costruiscano su processi di memoria collettiva e che finiscano per dare fondamento alla nostra identità e agli interessi della nazione. La svolta narrativa implica un nuovo accordo sociale sul cosa e sul perché del passato, del presente e del futuro […]».
Vale la pena di ricordare che Domingo Faustino Sarmiento, presidente tra il 1868 e il 1874, parlò di «barbarie» (le popolazioni locali) contro «civiltà» (gli immigrati europei). Secondo l’ultimo censimento disponibile (2010), oggi gli indigeni argentini, divisi in 40 etnie, sono circa un milione, il 2,3 per cento della popolazione nazionale. Tuttavia, il censimento – previsto nel 2020 e poi rinviato al 2022 a causa del Covid-19 – vedrà probabilmente una popolazione indigena in aumento. Il questionario, infatti, permette l’auto riconoscimento etnico, identificando una persona come appartenente a un popolo indigeno o a un gruppo di afrodiscendenti.
«L’esigenza di una svolta narrativa è solo l’inizio di un lungo viaggio verso la piena attuazione dei diritti indigeni, – ha scritto ancora la Vegh Weis -. L’Argentina ha già sperimentato, dopo l’ultima dittatura, quanto sia cruciale questa svolta narrativa per chiarire il ruolo degli oppressori, dei sopravvissuti, delle vittime e dei familiari. La sfida è ora pendente in relazione a una narrativa chiara sui popoli indigeni. Potrà una Conadep indigena fare questo lavoro?».
Alle tante leggi esistenti si aggiungerebbe così un nuovo elemento per il riconoscimento storico dei popoli indigeni. Perché sia finalmente chiaro a tutti che l’Argentina è un paese plurietnico e multiculturale di cui andare fieri.
José Auletta
IMC Venezuela 50: tra indigeni, afrodiscendenti e periferie
Alla fine del 1970, padre Giovanni Vespertini visita il Venezuela per valutarvi una nuova apertura dei Missionari della Consolata. Con il successivo arrivo di diversi confratelli, la presenza dell’Istituto nel paese si estende. A fine 2021, mentre si chiude l’anno di celebrazioni per i suoi 50 anni in Venezuela, l’Imc è presente a Barlovento (Panaquire, El Clavo, Tapipa e Caucagua), nell’arcidiocesi e città di Barquisimeto, a Tucupita (Tucupita e Nabasanuka), e a Caracas.
Sommario di tutto il dossier «Venezuela 50»
1970-2020: i 50 anni dei Missionari della Consolata in Venezuela
È il 13 dicembre 1970: attraversato il ponte internazionale Simón Bolívar di Cúcuta, frontiera tra Colombia e Venezuela, padre Giovanni Vespertini accelera puntando verso Nord. A Caracas lo attende un colloquio con il cardinale José Humberto Quintero Parra, arcivescovo della capitale.
È il primo missionario della Consolata a calpestare il suolo venezuelano. Dopo aver lavorato per 10 anni in Mozambico, è sbarcato in Colombia dove ha esercitato il suo apostolato missionario a Puerto Leguízamo, Armero e Bogotá.
In Colombia i Missionari della Consolata sono presenti dal 1947. Padre Vespertini, vedendo i buoni frutti di vita cristiana che stanno maturando nel paese, pensa che sia giunto il momento di misurarsi con nuove sfide.
I tempi sono favorevoli per la creazione di piccoli gruppi di missionari in paesi nei quali l’Istituto non è ancora presente. Il missionario trevigiano pensa che il Venezuela abbia le condizioni per crearne uno.
La Quebrada e le altre
Nel paese, l’80% del clero è straniero, e per l’85% è composto da religiosi. Padre Vespertini ottiene dalla direzione generale il mandato di esplorare la possibilità di espandere la presenza dei Missionari della Consolata in Venezuela prospettando un fruttuoso lavoro di promozione vocazionale. Visita, quindi, diverse diocesi, tra cui Valencia, Puerto Cabello, San Cristobal, Trujillo. I vescovi lo ricevono con entusiasmo e gli offrono parrocchie vecchie, nuove e future, ma, per il momento, si tratta più che altro di buone intenzioni che, spesso, non rispondono al progetto di animazione missionaria e vocazionale dell’Imc.
Così, in attesa di proposte valide, padre Vespertini accetta di prendersi cura della parrocchia La Quebrada, nella diocesi di Trujillo, in una zona delle Ande ritenuta propizia per le vocazioni.
Successivamente, l’offerta da parte dei vescovi di altre parrocchie favorisce l’arrivo in Venezuela di altri missionari finché il 28 settembre 1974, padre Mario Bianchi, superiore generale, istituisce ufficialmente il «gruppo Venezuela». Pochi giorni dopo arriva dalla Spagna padre Francesco Babbini con la nomina di capogruppo.
Cantiere in costruzione
Nel 1976 il gruppo prende diverse decisioni che avranno un certo peso nel futuro dell’Imc nel paese. Decide di aprire una casa a Caracas allo scopo di accogliere i padri destinati all’animazione missionaria in Venezuela e gli eventuali candidati venezuelani a entrare nella famiglia della Consolata. La casa, nel quartiere La Pastora, diventerà sede della delegazione. Oltre all’apertura a Caracas, i missionari decidono di aprire anche nel Vicariato di Machiques, zona della Guajíra. Inoltre, risponde positivamente alla richiesta di collaborazione da parte delle Pom (Pontificie opere missionarie) per l’organizzazione dell’ufficio e delle sue iniziative.
Mano a mano che i Missionari della Consolata aumentano di numero, assumono nuovi campi di lavoro. Nel 1977 l’Istituto è presente in quattro centri: Caracas, dove è iniziato il seminario maggiore con sei giovani venezuelani, Trujillo con le parrocchie di La Quebrada e La Puerta, San Cristobal con la parrocchia di Zorca, e nella Guajíra, tra gli indigeni.
Nel 1978 si pone come priorità la promozione vocazionale, l’animazione missionaria e la formazione dei seminaristi venezuelani, soprattutto in vista della missione tra gli indigeni della Guajíra. Viene assunta la parrocchia di Los Castores, offerta dal vescovo di Los Teques, sulle pendici delle Ande costiere, a 30 Km a Ovest di Caracas.
Qui viene spostato il seminario con padre Sandro Faedi come formatore, mentre i padri Francesco Babbini e Alberto Minora vengono destinati al lavoro apostolico tra gli indigeni della Guajíra.
Una missione che si apre
Alle scelte fatte nel primo decennio di presenza nel paese che hanno dato al gruppo la sua fisionomia specifica, ne seguiranno altre, anche particolarmente coraggiose. Nel 1986, ad esempio, i Missionari della Consolata decidono di dedicarsi alla popolazione degli afrodiscendenti di Barlovento. Nel 1999, poi, scelgono di stabilire una loro presenza nella baraccopoli di Carapita, periferia urbana della capitale Caracas. Nel 2007, alcuni anni dopo aver lasciato la Guajíra e il lavoro con gli indigeni di quelle terre, tornano a lavorare con i popoli originari, questa volta con i Warao a Nabasanuka e Tucupita, sulla foce del fiume Orinoco. Infine, con l’esodo degli indigeni Warao verso il Brasile, i Missionari della Consolata danno vita, nel 2018, a un’équipe itinerante, per accompagnare pastoralmente questo popolo emarginato e costretto all’emigrazione.
Sergio Frassetto
Quattro scelte
Stefano Camerlengo, superior generale dei missionari della Consolata, scrive ai confratelli in Venezuela.
«Nel formularvi gli auguri miei e dell’Istituto per questo vostro giubileo – scrive padre Stefano Camerlengo -, vi inviterei a fare memoria di quanto è stato realizzato dai confratelli che vi hanno preceduto […]».
Egli poi sintetizza il cammino fatto dalla delegazione in quattro scelte ancora oggi valide e urgenti: «Il servizio alle popolazioni indigene; la presenza tra gli afroamericani; l’inserimento nelle periferie urbane; l’animazione missionaria della chiesa locale e la cura delle vocazioni».
Ricordando la dedizione dei missionari che mossero i primi passi in Venezuela negli anni Settanta, infine, il superiore generale dell’Imc ringrazia i confratelli che ancora oggi lavorano nel paese, «per il generoso impegno missionario che continuate a offrire, in un momento tanto critico della vita del paese. In questo modo continuate a scrivere altre belle pagine di servizio missionario per le quali – sono sicuro – il nostro beato Fondatore e i missionari che vi hanno preceduto gioiranno dal Cielo».
S.F.
Il primo
Giovanni Vespertini, classe 1916, originario di Vedelago (Tv), diventò missionario nel 1942. Nel ’44 fu arruolato come cappellano militare. Alla fine della guerra fu dato per morto e si celebrarono messe in suffragio, ma un giorno riapparve vivo e vegeto. Alto, magro, pelle bruciata dal sole, intelligente e risoluto, dal 1948 al 1958 fu missionario in Mozambico e, successivamente, in Colombia. Alla fine del 1970 andò in Venezuela dove si insediò come parroco di La Quebrada, un paesotto sulle Ande della diocesi di Trujillo. Vi rimase per 14 anni.
Fu sempre esigente con i suoi cristiani perché li voleva tutti d’un pezzo e non ammetteva compromessi. Nello stesso tempo era spassoso nelle relazioni personali ottenendo una partecipazione «bulgara» alla vita della chiesa. Padre Giovanni non conosceva la paura e non esitò mai di fronte al lavoro che gli veniva richiesto per il bene della gente, e questa lo seguiva volentieri apprezzando la sua coerenza e il suo amore fatto di gesti concreti, soprattutto verso i poveri. Tornato in Italia per una breve vacanza, morì d’improvviso il 17 marzo 1984.
I missionari lo considerano l’iniziatore della loro presenza in Venezuela.
A La Quebrada aveva preparato la sua tomba che rimase vuota. A distanza di anni i suoi cristiani hanno richiesto il ritorno dei suoi resti mortali, segno che quel missionario è rimasto nel loro cuore.
Lo stratega
Francesco Babbini, nato nel 1932 a Montepetra di Sogliano Rubicone (Fc), divenne missionario della Consolata nel 1960. Lavorò sei anni in Italia e otto in Spagna nel settore dell’animazione missionaria e vocazionale. Nel 1974 venne destinato come capogruppo in Venezuela. Vulcanico nelle idee e realizzazioni, fu il vero artefice dello sviluppo dell’Imc nel paese.
In pochi anni organizzò il lavoro apostolico dei missionari estendendo la presenza dell’Istituto in tre diocesi. Diede inizio alla missione tra gli indigeni guajíros, aprì il seminario per giovani venezuelani, collaborò all’organizzazione delle Pom del Venezuela e viaggiò molto facendo conoscere la Consolata in numerose diocesi.
Nel 1980, concluso il suo mandato di capogruppo, andò a lavorare in Guajíra tra gli indigeni. Lì diede il meglio di sé come apostolo della carità verso tutti, specialmente i più poveri. Lo sostenevano la sua grande fede, l’amore alla Chiesa e la convinzione che servire il prossimo era amare Gesù in persona.
Nel 1982 venne richiamato in Italia per l’animazione missionaria, e fu molto attivo in Puglia. Il 19 marzo 1984, morì per infarto cardiaco. Aveva 52 anni. La missione di Guarero, in Guajíra, ha dedicato al suo nome l’oratorio parrocchiale e la strada che porta alla chiesa.
S.F.
IMC Venezuela 50: la scelta dei popoli indigeni
I Missionari della Consolata in Venezuela hanno tra le loro finalità principali l’animazione missionaria e vocazionale. Presto il loro carisma ad gentes li spinge anche sulle frontier dell’annuncio, tra i popoli indigeni. Nasce così la scelta della Guajíra che li vedrà impegnati sul suo vasto territorio per 22 anni, dal 1976 al 1998.
Sommario di tutto il dossier «Venezuela 50»
1970-2020: i 50 anni dei Missionari della Consolata in Venezuela
Il fuoristrada solca veloce il deserto lungo piste invisibili ma ben conosciute dall’indigeno che guida. Il sole spacca le pietre e il vento sferza la faccia riempiendo gli occhi di sabbia.
Dopo tre ore di sobbalzi e sbandate, giungiamo alla meta: un piccolo cimitero cresciuto nel nulla di una landa sconfinata, popolato da morti e frequentato da una tribù di vivi. Qualcuno tra i vivi dorme appollaiato nella sua amaca, qualcuno mangia, qualcun altro beve e gioca a domino.
«Casáchiqui tawala you» («buongiorno amico»). Appena il mio saluto viene udito, un gruppo di donne vestite di mante nere si avvicina alla bara del defunto e inizia il pianto rituale.
Dopo la messa, vengono sacrificati alcuni animali e si consuma un banchetto in onore del defunto. Il tempo passa tra saluti, chiacchiere e racconti, fino all’ora di tornare in parrocchia.
Siamo alla fine degli anni Settanta. Ci troviamo nella Guajíra, la penisola al confine con la Colombia che si sporge nel Mare dei Caraibi all’estremità Nord occidentale del paese, creando il Golfo del Venezuela. È il mondo dei Wayú che, dopo aver saggiato l’amicizia dei missionari, li accolgono con simpatia e li rendono partecipi dei loro riti ancestrali sulla vita e la morte.
E pensare che a fine 1976, quando sono arrivati i Missionari della Consolata nel villaggio di Guarero, quasi al confine con la Colombia, al loro passaggio, la gente si nascondeva. I missionari vedevano solo le ombre muoversi furtive dietro i canneti. È stato grazie a suor Maria, una missionaria laurita, che è sorta l’amicizia tra i missionari nuovi arrivati e la gente.
Suor Maria, colombiana, da cinquant’anni calca il deserto della Guajíra, ed è difficile trovare qualcuno che non la conosca, che non abbia ricevuto una sua visita, un suo aiuto, una medicina, una preghiera. È la carità fatta carne, e i Guajíros, quando hanno bisogno di qualcosa, cercano sempre lei, sicuri di trovare aiuto.
Guarero
Padre Francesco Babbini, fin dal suo arrivo in Venezuela nel 1974, aveva svolto un’intensa opera di animazione missionaria in diverse diocesi del paese. Aveva visitato anche i vicariati apostolici del Caroní (nella zona Sud Est) e di Machiques (nella Guajíra, a Nord Ovest), affidati ai Cappuccini spagnoli, ottenendo di poter stabilire anche lì una missione Imc.
Nell’ottobre del 1976 padre Tullio Bosello, seguito da padre Miguel Sotelo, hanno iniziato a lavorare nella missione di Guarero, l’ultimo avamposto venezuelano prima della frontiera con la Colombia e della città di Maicao, da cui dista appena 20 chilometri, centro del commercio e del contrabbando di tutta la regione.
Guarero vive nel marasma tipico dei posti di frontiera, con la dogana, i venditori ambulanti di cibi, le bevande e migliaia di persone che transitano o attendono impazienti il disbrigo delle pratiche doganali.
Nella missione dedicata al Sacro Cuore di Gesù, le suore missionarie di Madre Laura (di fondazione colombiana) lavorano nel collegio per bambine povere che comprende l’asilo infantile, la scuola elementare, un atelier di arti e mestieri e il centro giovanile. Una volta alla settimana, i missionari visitano i villaggi più importanti dove celebrano la liturgia domenicale. Nei giorni feriali, il lavoro di catechesi nelle numerose scuole della regione è intenso.
Paraguaipoa
Nel 1981, i Missionari della Consolata estendono la loro presenza alla missione di Paraguaipoa, il centro più importante della Guajíra venezuelana. Qui convergono gli indigeni da tutta la penisola per comprare o vendere nel mercato di Los
Filuos, per iscrivere i neonati all’anagrafe o cercare, nell’archivio parrocchiale, il documento di battesimo con cui farsi fare la carta d’identità.
Nel febbraio del 1982, giungono a Paraguipoa, chiamate da padre Sandro Faedi, anche le missionarie della Consolata.
La visita quotidiana alle famiglie, facendosi carico di tanti casi difficili di povertà ed emarginazione, le attività di promozione della donna, dei bambini e della gioventù, e la capacità di dialogo e accoglienza dei missionari e missionarie sono le carte vincenti.
Lavorando in équipe, padri e suore si inoltrano nel deserto della Guajíra seminando, anche nei villaggi più lontani, il Vangelo fatto di amicizia e interesse per i problemi della gente.
Sulla scia di queste visite, nascono scuole e asili, ambulatori, centri comunitari, pozzi per l’acqua e centri di culto.
Sinamaica
Sinamaica, che l’Imc prende in carico nel 1983, è la più antica delle tre missioni, e la più meridionale. Sorge su alcune dune della costa atlantica. È circondata a Est da grandi saline naturali, a Ovest dalla laguna omonima, disseminata di misere palafitte abitate dagli indigeni paraujanos.
Il lavoro di evangelizzazione è rivolto innanzitutto alla scuola della missione, frequentata da oltre 700 alunni, e poi ai villaggi circostanti, dove sorgono piccole comunità del Vangelo, impegnate a vivere la fede e a cercare soluzioni alla povertà e all’emarginazione.
Le feste patronali di san Bartolomeo apostolo, le celebrazioni in onore di san Benito da Palermo, i riti del Natale e della Settimana Santa sono molto sentiti e vengono celebrati nelle forme tipiche della religiosità popolare, ricca di spunti folcloristici e suscettibile di un ampio lavoro di evangelizzazione.
Sergio Frassetto
I Guajíros
Diviso in due dal confine tra Venezuela e Colombia, il popolo indigeno della Guajíra lotta da secoli per preservare identità, tradizioni e lingua. Molti si stanno urbanizzando. Molti altri resistono.
I Guajíros sono una vasta etnia che abita le terre desertiche della Guajíra, la penisola che si protende verso il mare dei Caraibi, a cavallo tra Colombia e Venezuela. Si conoscono tra loro come wayú (persona) e chiamano alijunas (stranieri) i bianchi e i meticci.
Dal 1833 vivono divisi da una frontiera arbitraria che assegna un quinto del loro territorio al Venezuela, e tutto il resto alla Colombia.
Le alte temperature unite agli scarsi rilievi montagnosi, la mancanza di corsi d’acqua e i forti venti dell’Est, fanno della Guajíra un deserto semi arido e inospitale, dove possono trascorrere mesi, e a volte anni, senza che si registrino precipitazioni importanti.
Secondo l’ultimo censimento del 2011, la popolazione wayú residente oggi nella parte venezuelana della penisola, conta 415mila persone (380mila nella Guajíra colombiana). Una forte migrazione verso la vicina città di Maracaibo, importante centro petrolifero del paese, ha formato interi quartieri nei quali vivono, pare, più di 60mila Guajíros.
Nel contesto urbano di Maracaibo si è determinato un veloce processo di perdita dell’identità culturale da parte degli indigeni che hanno subito l’imposizione dei modelli della società dei «bianchi». Molti abbandonano le tradizioni, perdono il senso dell’importanza dei clan, e persino la loro lingua madre.
Per quanto riguarda la condizione economica, in Guajíra non esistono fonti di lavoro o di guadagno: alcuni, pochi, si dedicano alla pastorizia, all’agricoltura o alla pesca. La maggioranza sopravvive nella marginalità con attività informali, tra le quali il narcotraffico e il contrabbando dalla Colombia.
Quest’ultimo contribuisce a indebolire la famiglia, i cui componenti passano gran parte della vita viaggiando. Nelle case rimangono anziani e bambini abbandonati a se stessi.
La Guajíra autentica
Nonostante questo processo, però, la Guajíra autentica esiste ancora. La si trova, ad esempio, nel mercato di Los Filuos, alle porte di Paraguaipoa, dove confluiscono gli indigeni da tutta la penisola per vendere e comprare capre, pecore, pelli e prodotti del loro artigianato, per rifornirsi di filuos (banane da cuocere), riso, carburante, utensili, qualche machete, e anche pallottole.
La Guajíra si scopre nei cimiteri dispersi nella penisola, durante i velorii (veglie funebri) per i morti: là gli uomini, a volte ancora in guayuco (perizoma), e le donne, avvolte nella manta (vestito dai colori vivaci, lungo fino ai piedi), celebrano i riti della vita e della morte, seguendo una tradizione antica.
La Guajíra si scopre ancora nelle carovane di donne e bambini che attraversano la savana polverosa, abbarbicati sui loro asini sotto il sole inclemente, per cercare l’acqua lontana. E si ritrova ancora di più inoltrandosi tra i palmeti dove sorgono piccoli abitati di poche case nascoste tra le dune: minuscole monadi, tagliate fuori dal mondo, fatte di silenzio, lavori di tessitura, orticelli coltivati a mais e yuca (manioca), recinti di capre e pecore. Ambienti familiari semplici: capanne nelle quali di notte si appendono le amache per dormire, con un recinto di pali riservato alla cucina e la enramada (tettoia) di rami di palma, alla cui ombra si svolgono le attività diurne, si ricevono i visitatori e si legano le amache per fare la siesta nei momenti più caldi della giornata.
Questi piccoli villaggi si chiamano rancherie e sono distanti qualche chilometro l’uno dall’altro per facilitare il maneggio delle greggi. (S.F.)
Nascita di una Chiesa L’alta Guajíra
Cojoro, la selvaggia
La vita cresce dispersa a Cojoro, uno dei villaggi della missione di Paraguaipoa. L’intenso lavoro di promozione umana dei missionari la fa rifiorire. E la costruzione della chiesa dà un cuore e un’identità a questo «non popolo» del deserto.
La savana attorno a noi sembra non avere confini, la vastità del deserto si confonde con l’arco del cielo. Il nostro andare per l’alta Guajíra ha quasi il sapore della profanazione di una cattedrale fatta di silenzio e solitudine. Ci accompagna un sole abbacinante e un sibilo di vento sulla sterpaglia. Qua e là, un albero spinoso resiste all’accanimento del vento. I cactus alzano le loro braccia al cielo, indifferenti.
Un jaguey (stagno) pantanoso, un gregge di capre sonnolente, una capanna di stecche di cactus, dicono che, anche nel deserto, fiorisce la vita. È il 1981. Arriviamo a Cojoro, piccolo villaggio nel territorio della missione di Paraguaipoa nell’alta Guajíra. Ci sono poche capanne avvolte nel silenzio e poi cimiteri che sanno di altre epoche dalle quali dipanano i fili dei numerosi clan dispersi nella penisola.
In lontananza emerge l’ombra rassicurante dei rilievi montuosi di Macuira e la cima del Litujulu, l’Olimpo del popolo wayú. Proprio lassù si consumò il duello tra Maleiwa e il Mare che pretendeva di inondare la terra. Con potenti sassate e frecce di fuoco, Maleiwa mise in fuga il Mare e salvò la terra. I reperti archeologici marini che, ancora oggi, si trovano su quella montagna, costituiscono, per i Guajíros, la testimonianza perenne di quella lotta primigenia.
Dopo la lotta contro il Mare, Maleiwa scese verso la spiaggia bianchissima di Cojoro dove modellò, col fango, uomini e animali: i Wayú innanzitutto, e poi tutti gli altri.
È qui, dunque, nella selvaggia Guajíra, che i missionari, meravigliati, incontrano storie che assomigliano a quelle bibliche, e semi di quella verità con cui Dio arricchisce ogni popolo. Egli non «manca di rendersi presente in tanti modi non solo ai singoli individui, ma anche ai popoli mediante le loro ricchezze spirituali» (Redemptoris missio 55). Questi miti servono come supporto per innestare la buona notizia del Vangelo.
Dalla dispersione all’unità
La vita cresce dispersa a Cojoro. Visitando le capanne si palpa un senso di abbandono e desolazione. La lontananza, la durezza della vita, la diffidenza reciproca, hanno fatto dimenticare ai suoi abitanti la bellezza dell’incontro, il senso della festa, lo spirito del clan.
La presenza del missionario e delle suore serve a smuovere quelle acque stagnanti.
Si comincia con il catechismo nella scuola, e si cercano testi scolastici con i quali i bambini possano studiare. La ristrutturazione del dispensario medico, in completo abbandono, motiva il rincontrarsi della comunità. Si organizza il processo di iscrizione della gente all’anagrafe. Si forma una commissione che vada dal governatore a chiedere acqua per la regione.
Giorno dopo giorno, gli abitanti di Cojoro cominciano a interessarsi dei problemi della comunità per risolverli.
Dato che manca un luogo di coesione che vinca la dispersione geografica, ma soprattutto interiore, sorge la chiesetta, e in essa viene ad abitare la Madonna Consolata. Attorno a questa madre di popoli, un popolo disperso trova motivi per incontrarsi, celebrare e fare festa.
Cojoro, la selvaggia, non è più completamente sola: nel deserto ora fiorisce la vita e nei cuori rinasce la speranza.
Comunità del Vangelo
Animati da questo spirito che ci spinge a cercare la gente del deserto di Cojoro, raggiungiamo i luoghi più isolati della penisola. Fuori dei villaggi costituiti in epoca coloniale, l’indigeno guajíro tende a sistemarsi lontano dagli altri. Il movimento delle greggi esige grandi spazi. La necessità di autodifesa vuole una zona di sicurezza attorno alla casa per avvistare i nemici e non esserne sorpresi.
A questo si aggiunge la realtà del contrabbando, per cui componenti della famiglia passano la maggior parte del tempo lontano da casa, viaggiando da una città all’altra. Per queste ragioni non è pensabile poter formare grandi comunità cristiane. In Guajíra difficilmente sorgerà un cristianesimo di massa.
Coscienti di questa realtà, i missionari passano di casa in casa offrendo parole di amicizia e cercando di stimolare la nascita di interessi comuni tra vicini, non basati semplicemente sulla parentela o lo scambio di favori, ma sulla Parola annunciata da Gesù che riguarda l’unico Padre che ci rende fratelli. Questa verità si esprime concretamente nel gesto di ritrovarci periodicamente per leggere la Parola, celebrarla nell’eucaristia e attuarla in un «darsi da fare» a favore di tutti.
In questo modo nasce la chiesa della Guajíra: una realtà costituita da tante piccole «comunità del Vangelo», dove i gesti della condivisione e della testimonianza sono segno della presenza di Gesù che consola, infonde speranza, e offre salvezza.
Sergio Frassetto
Un’evangelizzazione inculturata
L’opera missionaria nella Guajíra è una sorta di pellegrinaggio nel quale i missionari «camminano assieme» alla gente, accompagnando il popolo in atteggiamento di ascolto, accoglienza e dialogo. Nel rispetto della coscienza dei Guajíros e delle loro tradizioni culturali.
L’anima religiosa dei Guajíros si esprime innanzitutto in relazione ai defunti che costituiscono una presenza importante e, a volte, dominante nella vita delle famiglie. Far celebrare messe per i defunti, rispettare i voti fatti a san Benito da Palermo (un santo nero la cui devozione è stata diffusa dai Cappuccini), battezzare i bambini, guardare la processione che passa, sono alcuni dei modi tramite i quali molta gente esprime la propria fede in Dio.
In questo contesto, dal 1976 al 1998, l’opera di evangelizzazione dei missionari della Consolata si è concretizzata, innanzitutto, nell’amicizia e nella vicinanza alla quotidianità delle persone.
La testimonianza è diventata annuncio, e l’annuncio ha favorito l’acquisizione di valori fondamentali come la famiglia, il perdono, il senso della comunità, e la coscienza che Dio è «padre dei viventi». Questo lavoro è avvenuto innanzitutto mediante la catechesi nelle decine di scuole del territorio visitate ogni settimana.
Nella Guajíra non si può immaginare una catechesi «preconfezionata», estranea alla cultura e alle modalità della narrazione, del racconto, dell’immagine, del gesto.
Così i missionari, rimettendo i panni degli studenti, hanno imparato che, invece di parlare di Dio, è più comprensibile per gli indigeni il nome di Maleiwa, il demiurgo mitico che salvò la terra dall’invasione delle acque e modellò gli uomini con il fango. Il demonio è meglio conosciuto come Wanülü, lo spirito del male, che provoca malattie e morte in chi lo incontra, o Yolujá, lo spirito dei morti, altrettanto pericoloso.
E per spiegare agli alunni la somiglianza dell’uomo con Dio, anziché ricorrere alla filosofia, è più efficace usare uno specchio: la faccia che vedono riflessa assomiglia a quella di Dio.
Tra il sabato e la domenica, i Missionari della Consolata raggiungevano quasi tutte le cappelle e offrivano alle comunità la celebrazione eucaristica in un tour de force che, alla fine, lasciava esausti.
A volte si celebrava la messa, spesso soltanto la liturgia della Parola. L’importante era valorizzare il momento comunitario in modo che diventasse tempo di salvezza per i partecipanti.
I missionari, per comunicare la vicinanza di Dio alla vita quotidiana delle persone, rinunciavano al ruolo di maestri. Questo permetteva agli indigeni di essere soggetti della loro scoperta di Dio e della loro fede, con la loro identità e secondo i paradigmi della loro cultura.
Nell’accompagnare il cammino storico dei Wayú, illuminandoli con l’annuncio della buona notizia, la missione diventava pellegrinaggio spirituale verso il Regno. Si trattava di «camminare assieme» accompagnando un popolo in atteggiamento di ascolto, di accoglienza e dialogo.
Molti segni, negli anni, hanno indicato che i Guajiros camminano verso la propria realizzazione storica. L’impegno e la testimonianza di un piccolo gruppo di cristiani, uniti alla diffusione di tante comunità ecclesiali, nate dal lavoro dei missionari, sono realtà tangibili. Si tratta di «comunità del Vangelo» nelle quali crescono rapporti umani di solidarietà e impegno per la trasformazione della realtà alla luce della parola di Dio. (S.F.)
Nascita di una Chiesa – Sinamaica
Tra le palafitte della laguna
A Sinamaica, il popolo añú (del gruppo Aruache, che nell’ultimo censimento del 2011 contava circa 21mila unità) vive in una condizione di marginalità e indigenza, anche a causa dello sfruttamento ambientale che degrada il territorio. Al loro arrivo, i missionari cercano di promuovere la vita a tutti i livelli: da quello materiale a quello spirituale.
Nel 1983 la missione ci spinge a navigare anche per la laguna di Sinamaica alla ricerca del popolo añú. Sembra di sognare quando ci addentriamo, per la prima volta, in questo angolo di paradiso. Di fronte a noi si presenta la visione di una placida distesa di acquitrini, solcata da canali, disseminata di palafitte e abbellita da una vegetazione lussureggiante. L’insieme dà l’impressione di un mondo incantato. Eppure capiamo presto che si tratta di una quiete agonica. La laguna, che con le sue palafitte e canali può evocare una lontana piccola Venezia o «Venezuela», sta morendo.
Una laguna che muore
La canalizzazione del lago di Maracaibo, per consentire alle navi petroliere di accedere ai ricchi giacimenti dello stato di Zulia, ha compromesso il delicato equilibrio ecologico di quest’ambiente, provocando la salinizzazione delle acque, la distruzione delle risaie e la scomparsa di molte specie vegetali e marine.
Di lì è iniziato pure il calvario di questi indigeni (chiamati anche «Paraujanos», o abitanti della costa del mare), causato dall’abbassamento e inquinamento delle acque, dalla loro sedimentazione e dall’impaludamento della laguna. Le eliche dei motori delle barche si rompono sui fondali a causa dell’acqua troppo bassa, ed è difficile raggiungere le palafitte che rimangono piantate nel fango.
Bisogna entrare in esse per conoscere la deplorevole condizione di miseria e abbandono in cui vive la gente. Colpisce il sovraffollamento di questi tuguri, stanzette dove vivono anche venti persone con gli occhi fissi sull’acqua torbida.
È la conseguenza delle disuguaglianze economiche e sociali, dell’abbandono e dell’ingiustizia.
Oltre alle persone, nelle palafitte ci sono poi altri inquilini: galline, cani, gatti e addirittura maiali.
La quantità di persone con disabilità ci fa sorgere numerosi interrogativi.
Di fuori, sul pontile, c’è un eterno fuoco sul quale si abbrustolisce il pesce, e grandi fasci di enea, il giunco che cresce nei pantani, ai margini della laguna, e che serve per fare stuoie, l’unica povera ricchezza di queste famiglie.
Privati della loro lingua, l’añú, che ormai più nessuno parla, e della loro cultura, gli stessi indigeni stanno morendo di stenti e malattie. Vivono nell’acqua, eppure ne sono privi, perché salmastra, inquinata, putrida. Alto è anche il tasso di mortalità infantile dovuto ai parassiti che aggrediscono l’intestino dei bambini. Gli uomini sono costretti a emigrare a Sud di Maracaibo, verso i porti di Altagracia, dove si dedicano alla pesca al servizio di grandi compagnie. Le donne, come la maggioranza dei Guajíros, praticano il contrabbando. Chi rimane nella laguna, si dedica alla pesca o alla raccolta di enea.
Una realtà da promuovere
In quest’ambiente, la Chiesa è chiamata a costruire il Regno di Dio tramite gesti di solidarietà concreta, specialmente verso i più poveri. È così che le suore missionarie Laurite decidono di andare a vivere nella laguna per incarnarsi nella sua realtà e condividere la vita dei suoi abitanti.
La scelta dell’inserzione, del radicamento, permette ai missionari di accompagnare gli Añú nella vita quotidiana aiutandoli a scoprire i loro carismi e possibilità.
I frutti non tardano: sorge l’asilo per i bambini, la scuola di tessitura dell’enea e della lavorazione del legno per i giovani. In un edificio costruito appositamente, si realizza l’esposizione e la vendita permanente dell’artigianato locale. Si crea un mercatino dove si commerciano al prezzo di costo i prodotti più comuni della dieta.
L’attenzione si rivolge anche alle tagliatrici di enea: quasi tutte donne anziane, costrette a stare l’intera giornata nell’acqua con il pericolo dei serpenti e delle razze marine.
Si tratta di un lavoro duro che, alla lunga, rompe le ossa, e che i commercianti di stuoie pagano una miseria. Bisogna promuovere una forma di lavoro solidale che sostenga la produzione e assicuri una più giusta retribuzione. Con difficoltà si riesce a vincere la loro riluttanza a riunirsi e si forma la «Cooperativa delle tagliatrici di enea»: una specie di sindacato che decide il prezzo unico e giusto del loro lavoro. Queste iniziative smuovono le acque, la gente si anima e crea la «Fondazione pro Laguna», costituita da rappresentanti del popolo añú. La fondazione si propone di migliorare le condizioni di vita della popolazione. I risultati positivi sfociano nella visita del presidente della repubblica Luis Herrera, e in quelle successive di sua moglie. L’acqua potabile arriva fino al porto, è installata l’elettricità in un settore della laguna e cominciano i lavori per dragare i canali tappati dalla sedimentazione delle acque.
Una chiesa su palafitta
La Madonna del Carmine rappresenta una lunga tradizione di fede per il popolo añú. Una piccola statua scrostata langue in una palafitta che, secondo il dire di alcuni, un tempo fungeva da cappellina.
In una notte di burrasca il fiume si porta via la chiesetta, vecchia e malandata, ma con l’aiuto di alcuni benefattori e il lavoro degli Añú, i missionari ne fanno sorgere una nuova, più grande ed elegante: si tratta, naturalmente, di una robusta palafitta dallo stile in perfetta armonia con le abitazioni dei Paraujanos. Le colonne possenti in legno, le travature a vista, le pareti a forma di palizzata e il tetto di giunco ne fanno un luogo di pace particolarmente adatto alla preghiera.
Qualcuno regala una nuova immagine della Madonna e qualcun altro una campanella, delizia dei bambini che non smettono di suonarla. Le feste patronali si fanno più sentite e partecipate. La regata della Madonna, lungo i canali, diventa una tradizione di incomparabile bellezza. Sboccia un germoglio di vita liturgica con le prime comunioni, qualche messa per i defunti e il primo matrimonio religioso.
Nella Laguna di Sinamaica si cerca di concretizzare il Vangelo attraverso uno sforzo di promozione umana non indifferente. Da qui nasce la Chiesa: una piccola comunità di cristiani, uniti da vincoli di carità, impegnati in prima persona nella crescita della loro gente.
Sergio Frassetto
Identificazione piena
I Missionari della Consolata nei 22 anni della loro presenza nella Guajíra, hanno cercato di identificarsi con il popolo, senza paura di perdere la loro dignità. Tra gli avventizi di Campamento, sotto una capanna, o tra i baraccati della Rancheria, sotto una tettoia di palme e, ancora, nell’emarginata Laguna del passero, sotto un albero. Si sono fatti transumanti come il popolo wayú, e l’hanno accompagnato, nomadi, attraverso il deserto, dietro le sue greggi, nei cimiteri con i suoi antenati, nei luoghi di festa condividendo le sue tradizioni, sulle strade del contrabbando mentre cercava la propria sopravvivenza.
È stato un cammino difficile, così come lo fu quello di Israele durante i 40 anni trascorsi nel deserto: quel gruppo di israeliti ex schiavi ebbe modo di sperimentare la presenza di Dio come di colui che si china sul povero per liberarlo dalla miseria e dall’oppressione. Per questo divenne l’«opzione» dei poveri d’Israele.
Allo stesso modo, i missionari e le missionarie della Consolata, nella Guajíra, hanno cercato di dare voce, attraverso la loro voce, alla parola di Gesù, di attualizzare negli eventi sacramentali i suoi gesti, di essere testimonianza del suo amore mediante uno sforzo di conoscenza e assunzione della realtà umana in cui erano chiamati a operare a favore dei poveri. In questo modo sono diventati il sacramento della compassione di Gesù che si china su coloro che hanno fame e sete, che piangono e soffrono, che muoiono. È così che la Chiesa ha conquitato il cuore della Guajíra e che Gesù è diventato l’opzione dei suoi poveri. (S.F.)
1976-1998: Guajíra, missione compiuta
La Guajíra che faceva parte del vicariato apostolico di Machiques, nel 1998 è diventata parte dell’arcidiocesi di Maracaibo, e i Missionari della Consolata, dopo 22 anni di presenza, si sono ritirati per aprirsi a un nuovo campo di lavoro.
Padre Giano Benedetti, ai tempi superiore della delegazione, ha descritto l’addio così: «Il 4 luglio 1998, durante una concelebrazione eucaristica presieduta da mons. Ovidio Pérez, arcivescovo di Maracaibo, abbiamo consegnato la parrocchia di san José di Paraguaipoa al clero diocesano. Sinamaica e Guarero erano già state consegnate, rispettivamente a marzo del ’97 e del ’98. I Missionari della Consolata sono stati ringraziati, all’inizio e alla fine della messa, per il lavoro che hanno svolto fin dal 1976, quando era stata affidata loro la parrocchia di Guarero.
Sono stati ricordati per nome e cognome tutti i Missionari della Consolata che hanno annunciato il Vangelo nella Guajíra venezuelana. Anche mons. Ovidio ha ringraziato per la nostra opera e ci ha ricordato che le porte della sua arcidiocesi rimanevano aperte per noi.
I Missionari della Consolata hanno lasciato la Guajíra, ma la Consolata e il nostro carisma rimangono nella terra dei Wayú. Le Missionarie della Consolata continueranno [per qualche anno] la loro presenza a Paraguaipoa, e la
Madonna continuerà come patrona dei caseríos di Cojoro e san Rafael de Paraguachón.
Lasciando questa terra abbiamo ringraziato Dio per il dono della vocazione missionaria, coscienti d’averla vissuta con il nostro servizio, affinché anche i Wayú fossero un’offerta gradita a Dio e perché abbiamo cercato l’unica ricompensa di tutti gli apostoli: annunciare gratuitamente il Vangelo». (S.F.)
Le missionarie della Consolata
In Venezuela dal 1982, hanno collaborato con i loro fratelli missionari a Paraguaipoa, in Guajíra, e poi, dal 2006 al 2015, a Nabasanuka, tra i Warao. Si sono spinte fino al vicariato apostolico di Puerto Ayacucho, dove svolgono apostolato urbano in città; nella missione di Tencua, in piena selva amazzonica, tra gli indigeni Yecuana. La collaborazione con i missionari prosegue nel campo dell’animazione missionaria a Caracas.
IMC Venezuela 50: la missione alla foce dell’Orinoco
I missionari e le missionarie della Consolata iniziano, insieme, la missione a Nabasanuka il giorno della Consolata del 2006. Dopo otto anni da quando hanno lasciato la Guajíra, affidano a lei l’opera di evangelizzazione di un altro popolo indigeno, quello dei Warao.
Sommario di tutto il dossier «Venezuela 50»
1970-2020: i 50 anni dei Missionari della Consolata in Venezuela
La curiara (canoa) solca veloce le acque del fiume che, pigro, scorre tra ali di maestosa foresta tropicale mentre uccelli, come usciti dalla tavolozza di qualche pittore naïf, intonano il loro concerto mattutino osservando incuriositi il passaggio di alcuni naviganti, «turisti per caso».
Siamo nello stato Delta Amacuro, un paradiso di acque, animali e piante creato dalla foce dell’Orinoco, il fiume più grande del Venezuela che, avvicinandosi all’Atlantico, per una lunghezza di 200 km, crea in una fitta ragnatela di canali, lagune e zone palustri che si intrecciano tra loro.
La barca, partita col buio, sette ore fa dalla città di Tucupita, sta per giungere alla meta: Nabasanuka, la casa del popolo warao.
Diciotto anni dopo la Guajíra
È il 20 febbraio 2006, quattro giorni dopo la festa del beato Giuseppe Allamano. I missionari e le missionarie della Consolata iniziano il loro lavoro apostolico a Nabasanuka, affidandosi al fondatore e alla Consolata, chiedendo di poter essere presenza di consolazione in mezzo ai Warao.
Prende forma così un sogno coltivato a lungo dai missionari in Venezuela. Dopo aver lasciato la Guajíra nel 1998, essi non hanno mai rinunciato alla speranza di tornare a lavorare tra gli indigeni per esprimere pienamente e al meglio il loro carisma missionario.
È stato proprio inseguendo questo sogno che, nel duemila, durante la V Conferenza della Delegazione, essi hanno deciso di iniziare una nuova presenza fra i popoli indigeni, possibilmente in collaborazione con le missionarie della Consolata. L’anno successivo, i Consigli generali dei due istituti hanno approvato la decisione che nel 2004 è poi sfociata nella scelta del vicariato di Tucupita, degli indigeni warao.
Nel 2005 due équipe di padri e suore, hanno raggiunto la missione di Nabasanuka in tempi diversi e, durante varie settimane, hanno realizzato un primo approccio con l’ambiente e la popolazione locale. L’obiettivo era di conoscere la realtà e di fare l’esperienza del vivere in équipe: era, infatti, la prima volta che padri e suore lavoravano insieme vivendo sotto lo stesso tetto.
Missionari e missionarie insieme
Il 20 febbraio 2006 i padri Josiah K’Okal e Vilson Jochem giungono a Nabasanuka e iniziano una presenza stabile. Tuttavia, come è stato programmato, l’inizio ufficiale della loro missione insieme alle missionarie della Consolata nel vicariato di Tucupita avviene il 20 giugno 2006, festa della Consolata. La messa solenne è presieduta dal Vicario apostolico, mons. Felipe González, accompagnato da tutti i Missionari della Consolata e dai Cappuccini. Durante la celebrazione sono presentati alla comunità i missionari e le loro consorelle, le suore Carla Pianca, Luigina Goffi, Rosemary Kabbis e Ivana Cavallo che da oggi condivideranno la vita dei Warao a Nabasanuka.
Coinvolgere i laici
L’alto numero di comunità, le notevoli distanze e la difficoltà delle vie di comunicazione, rende impossibile visitarle con frequenza. Per questo, nel loro programma pastorale, i missionari decidono di dare la priorità alla formazione di animatori e di catechisti capaci di coltivare la vita cristiana nei loro villaggi anche in assenza del missionario. L’iniziativa parte fin da subito nelle comunità di Nabasanuka, Bononia e Araguabasi: si radunano una quarantina tra uomini e donne che, in futuro, rappresenteranno i pilastri dell’evangelizzazione nella parrocchia.
Per venire incontro ai costi dei viaggi, la missione crea un piccolo fondo che, grazie alla Provvidenza, non si esaurirà per molto.
Il Vangelo si incultura
Nell’ottobre del 2007 si tiene un’assemblea allargata degli agenti di pastorale, laici e religiosi, che lavorano nelle diverse comunità del vicariato nel quale, tra l’altro, si è deciso di creare una équipe di Pastorale indigena con l’obiettivo di costruire una chiesa inculturata, con un’identità propria, dove l’esperienza di fede sia espressione del mondo warao, della sua cultura e lingua, delle sue tradizioni e valori.
Da questo obiettivo nasce un piano di pastorale suddiviso in otto ambiti principali: la religiosità, la spiritualità e l’inculturazione; la promozione della cultura warao e l’assunzione dei valori presenti in essa; la lotta contro la povertà e l’impegno per uno sviluppo solidale; la democrazia partecipativa; la difesa della terra e dell’ambiente; lo sviluppo umano tramite la salute e l’educazione; l’appartenenza e l’integrazione nazionale e internazionale; la promozione e la difesa dei diritti umani.
Nel 2008, i missionari e le missionarie, alla luce di questo piano, e rispondendo alle attese della comunità, redigono il loro primo progetto apostolico nel quale l’evangelizzazione viene definita come «inculturazione del Vangelo a partire dalla spiritualità e religiosità tradizionale dei Warao, preservando, promuovendo e difendendo la loro identità culturale e i loro diritti come nativi del Delta Amacuro».
Percorrendo questa strada, i missionari scoprono nel mondo spirituale warao molti semi del Vangelo che attendono solo di giungere a maturazione. Bella, per esempio, è l’espressione che gli indigeni usano per indicare il Regno di Dio: «Dioso a Janoko», che letteralmente vuol dire «la casa di Dio». Non c’è immagine migliore per definire l’opera dei missionari: fare di questo popolo una casa dove ci si accoglie e si collabora fraternamente.
Promozione umana
Percorrendo i canali del delta, fermandosi a ogni attracco di barche, entrando in questa o quella palafitta, i missionari possono constatare che, al di là della facciata da cartolina, vi è una realtà di povertà e di abbandono, di fame e di malattie endemiche che lasciano sgomenti: bambini denutriti, ragazzi non scolarizzati, anziani abbandonati a se stessi e senza cure mediche.
In tutta la regione (15mila km2, un territorio più grande del Trentino Alto Adige) c’è un solo dispensario, con un medico residente che, volontariamente, si prende cura di questa gente.
Per quanto riguarda l’educazione, in tutto il territorio ci sono due scuole secondarie. Ciò significa che la stragrande maggioranza dei giovani termina solo il ciclo della scuola elementare. Inoltre, l’insegnamento non eccelle per serietà e rendimento, a causa della mancanza di maestri professionalmente qualificati.
Questa situazione spinge i missionari a impegnarsi come insegnanti nel liceo di Nabasanuka dove confluiscono studenti provenienti da una quindicina di comunità. Un impegno in più nel già gravoso lavoro di evangelizzazione, ma anche un’opportunità per conoscere i giovani e accompagnarli nella loro crescita umana, culturale e religiosa.
Va ricordato che il popolo warao è sempre stato nomade, migrando da un luogo all’altro in cerca di migliori condizioni di vita. Per fermare la migrazione e migliorare la qualità della vita delle persone, l’équipe missionaria porta avanti progetti in ambito sanitario come giornate mediche nelle comunità, distribuzione di medicine e forniture sanitarie, e un programma di assistenza medica e alimentare per chi convive con Aids e tubercolosi. «Molti, purtroppo, sono morti aspettando un mezzo di trasporto», esclama un missionario. Ecco perché la missione cerca anche di aiutare con ambulanze fluviali e terrestri per trasferire i malati in città.
Altri progetti riguardano il settore dell’istruzione con borse di studio per studenti, il «Computer Center» (una sala computer a uso comunitario), con l’equipaggiamento necessario per studiare via internet, e la fornitura di materiale scolastico (quaderni, matite, divise).
La generosità fa sbizzarrire la fantasia. Così nascono progetti di micro auto sostenibilità per accedere all’energia solare, per l’acquisto di reti e accessori utili per la pesca, sementi per piantare, tessuti per i corsi di taglio e cucito per le donne.
Sergio Frassetto
I Warao
Warao è un termine che significa «Gente di canoa» e indica un popolo indigeno che conta circa 50mila persone. I Warao costituiscono il secondo gruppo etnico più numeroso in Venezuela dopo i Wayú.
Vivono su palafitte costruite ai margini dei fiumi, formando piccoli villaggi di famiglie unite fra loro da forti legami di collaborazione e solidarietà. Il più anziano del gruppo, chiamato «aidamo», svolge la funzione di autorità della comunità.
I Warao si dedicano alla pesca e alla caccia di sussistenza. Dove è possibile, in piccole radure (conuchi) coltivano l’ocumo, una pianta erbacea che produce tubercoli commestibili che rappresentano il «pane» del Warao. Esercitano un artigianato vario e di grande qualità: amache, ceste, utensili, ecc.
Giungendo a Nabasanuka come ospiti e pellegrini, i missionari hanno potuto sperimentare la sorprendente ricchezza umana e sociale di questo popolo. Infatti, sono stati accolti non come stranieri, ma come «daje» (fratello maggiore) o «daka» (fratello minore).
La parrocchia di Nabasanuka, dedicata a Maria «Divina Pastora de Araguaimujo», sorge nel centro abitato principale nel quale vivono circa 800 persone.
Il resto della popolazione è suddiviso in una sessantina di piccole comunità, alcune già evangelizzate, altre con una vita cristiana embrionale, altre che attendono ancora il primo annuncio del Vangelo.
La prima sfida che i missionari hanno affrontato con i Warao, è stata l’apprendimento della lingua indigena, allo scopo di intessere relazioni e di conoscere la cultura. Nello stesso tempo, hanno cominciato a visitare le comunità raggiungendole sulle curiaras via acqua.
Uno dei problemi più grossi della zona sono proprio le comunicazioni e i trasporti: il posto più vicino nel quale rifornirsi di benzina è Tucupita, a sette ore di curiara. Per raggiungerlo con barche vecchie e malandate, succede di rimanere in panne nelle acque dell’Orinoco.
Da qualche anno è stata acquistata una nuova barca, regalata da amici e battezzata La Consolata. Ora i missionari girano per le terre dei Warao con più speditezza. (S.F.)
Una giornata tra i Warao
Padre Andrés García Fernández, spagnolo, ha al suo attivo un’invidiabile esperienza missionaria. Ha lavorato tre anni in Costa d’Avorio fra gli immigrati, cinque in Spagna, nel campo dell’animazione missionaria, tredici in Congo RD fra i pigmei e dal 2019 è tra i Warao del Delta Amacuro.
Arrivando in Venezuela tra i Warao, la sfida è stata quella di entrare nell’anima di questo popolo, conoscerne la cultura, la lingua, l’organizzazione, e scoprirne la relazione con la natura e la trascendenza. Cercare di capire dove Dio lo conduce, e accompagnarlo in questo processo.
La classe politica sta litigando, lotta per il potere, cercando di abbattere l’avversario. Mentre va avanti questa lotta, quelli che soffrono sono i poveri, la gente umile.
I popoli indigeni stanno soffrendo molto per quello che viene chiamato «El Amo» (l’Arco minerario dell’Orinoco), le cui ricchezze del sottosuolo (oro, coltan e altro) sono appetite dal governo attuale, dalla guerriglia colombiana (le Farc e altri gruppi) e anche dall’opposizione.
La selva viene depredata e distrutta con tutte le conseguenze che la devastazione ambientale comporta per coloro che la abitano. Nel delta l’acqua arriva di colore quasi nero. Nel periodo di crescita del fiume arriva tutto il mercurio con cui si lava l’oro, il cianuro e altri veleni. I pesci galleggiano morti, l’acqua ha l’aspetto della spuma e noi la beviamo e ci laviamo con essa. E le malattie proliferano sotto forma di piaghe, diarrea, febbre, soprattutto nei bambini.
La gente soffre per mancanza di potere d’acquisto: il governo non paga con denaro effettivo, ma dà un numero che indica una somma, ma se non c’è elettricità per tutta una settimana, come capita spesso, non si può ritirare dalla banca il proprio «numero» per andare comprare quello che serve. La gente soffre per mancanza dei servizi essenziali, degli alimenti di base, delle medicine. E il fatto di aver chiuso la porta agli aiuti che vengono dall’estero peggiora la situazione. La gente si dispera.
Quando ho chiesto a un Warao scappato in Brasile: «Perché te ne sei andato dal Venezuela?», mi ha risposto: «Mi è morto il primo figlio, è morto il secondo e non ho voluto che morisse anche il terzo».
Giorno dopo giorno
Ciononostante, la missione è appassionante, e condividere il trascorrere dei giorni con la gente è bello. Chiedo a Dio di non abituarmi mai a questa realtà. Vivendo nel seno della foresta pluviale, è bello alzarsi al mattino e vedere tutta la ricchezza della natura: quei fiumi, quegli alberi, quei paesaggi, i bambini, il modo di vivere della gente, la cultura.
In genere cerco di alzarmi alle quattro del mattino per pregare, perché, a partire dalle sei, quando celebriamo la messa, fino alle 8 o 10 di sera non riesco più a sedermi.
Dopo la preghiera preparo un po’ di colazione, a volte per due giorni in modo che mi duri di più, e poi faccio il bucato e riordino la casa.
Dopo l’eucaristia inizia a venire la gente con le proprie necessità: c’è chi viene a chiedere una medicina, chi cerca cibo o altro.
Con un gruppo di collaboratori organizziamo gli incontri per i giovani, il programma di alfabetizzazione dei bambini e quello per la formazione delle donne.
Una volta preparato il materiale, usciamo con la lancia e navighiamo per i vari canali alla volta delle comunità. Nella nostra parrocchia ce ne sono una sessantina che cerchiamo di visitare ogni mese. Lascio un gruppetto di collaboratori nella prima, un altro gruppetto nella seconda e, mentre essi svolgono l’attività programmata, io vado alla seguente. Quando ho finito la formazione e l’eucaristia, faccio il percorso inverso: torno alla seconda comunità dove il gruppetto ha già terminato la formazione, celebro l’eucaristia e poi, insieme, torniamo alla prima.
In questo modo cerchiamo di visitarne due o tre ogni giorno. Le accompagniamo e le formiamo
in questo modo.
Trascorro poi il pomeriggio in casa, giocando con i bambini, ricevendo la gente, visitando gli infermi e parlando con i giovani che chiedono una speranza (cosa facciamo, dove andiamo, dove possiamo trovare lavoro?).
I Warao non esistono senza il delta
Ci sono anche i maestri che hanno bisogno di imparare come insegnare. La maggioranza di loro ha frequentato solo la scuola secondaria e non ha avuto altra preparazione. Devono imparare a fare un programma pedagogico, a trasmettere i contenuti, ecc.
È appassionante anche seminare speranza e aiutare le persone a organizzarsi, a sognare, e a sognare un ritorno di tutti quei Warao che se ne sono andati, sognare di tornare a essere il popolo che erano, ma più organizzato, con più coscienza di quello che sono.
Questo discorso vale per il delta dell’Orinoco, ma anche per tutta l’umanità.
Io, spesso, dico loro: «Il delta con tutta la sua biodiversità non esisterebbe senza i Warao, senza la vostra maniera di essere e di vivere». Anche i Warao senza il delta, pur sopravvivendo, non vivrebbero più come Warao. Hanno bisogno del loro ambiente per continuare a essere come sono stati finora.
Dio dietro ogni cosa
Una cosa bella è vedere come il Warao chiede permesso all’albero per tagliarlo e fare la sua curiara, vedere come chiede permesso alla natura per tagliare alcuni alberi per fare il suo orto dove produrre l’ocumo, o come chiedono permesso all’acqua quando vanno a pescare o a navigare.
È importante scoprire come per essi c’è una vita, c’è un dio della vita, che sta dietro a tutta la natura e che sostiene l’esistenza di ciascuno, di ogni essere e di ogni persona.
Allora la mia quotidianità è scoprire e accompagnare tutto questo, non solo condividendo il poco che ho, ma anche i loro sogni, le difficoltà, gli ideali e il ritmo di Dio nelle loro anime.
Verso le ore 20 mi chiudo in casa, solo con nostro Signore, ricapitolando la giornata, rendendo grazie e programmando il giorno dopo. In questo modo il giorno trascorre pieno di gente e scoprendo in essa la presenza di Dio.
Andrés García Fernández
Dalle sponde del fiume alla città
Con gli indigeni a Tucupita
Alla ricerca di migliori condizioni di vita, chi può o chi è costretto dalla povertà, abbandona la sponda del fiume e raggiunge la città. Sradicati dalla comunità, i Warao si ritrovano soli in un ambiente ostile che non sa offrire loro altro che marginalità e povertà ancora più profonda di quella lasciata nella terra nativa.
La «transumanza» è una caratteristica dei popoli indigeni. Da sempre i Warao la praticano realizzando una stretta interconnessione con Tucupita e altre città dentro e fuori i confini del Venezuela. Nel corso degli anni, ampi strati di popolazione indigena si sono trasferiti nel capoluogo della regione in cerca di migliori condizioni di vita. Tuttavia, vivendo la marginalità, dispersi nella grande città e senza punti di riferimento sicuri come la famiglia e il clan, facilmente perdono la loro identità e i loro valori.
Allo scopo di accompagnare anche i Warao migranti nel loro cammino umano e spirituale, i missionari, fin dal loro arrivo a Nabasanuka, concepiscono una loro presenza nella città di Tucupita.
Pastorale indigena urbana
Il progetto di stabilire una presenza a Tucupita si realizza nel marzo 2009, quando padre Zachariah Kariuki, missionario della Consolata keniano, si trasferisce nella città e assume la responsabilità del lavoro pastorale con i Warao emigrati lì, facendo base nella parrocchia di san Giuseppe.
A Tucupita i missionari diventano così fattore di incontro e comunione per gli indigeni, contribuendo, con diverse iniziative, a promuovere in essi il senso di appartenenza, tassello fondamentale per una presa di coscienza della propria identità e dignità.
Uno dei progetti sviluppati è quello dei due corsi di taglio, cucito e sartoria per 50 donne all’anno. Il corso fornisce loro le conoscenze necessarie a realizzare manufatti sartoriali per le loro famiglie e per la vendita, e quindi generare reddito.
Risiedendo a Tucupita, i Missionari della Consolata possono anche offrire un servizio diretto in favore del vicariato Delta Amacuro. Così, padre Zachariah (che nel 2018 tornerà in Kenya e verrà sostituito da padre Silvanus Ngugi) svolge le funzioni di vicario generale del vescovo, direttore delle Pontificie opere missionarie e responsabile, dal 2016, della nuova vicaria denominata «Dani Consolata» dedicata al servizio degli indigeni.
Avere una parrocchia in Tucupita, poi, rappresenta un vero e proprio punto di approdo per chi arriva dalla missione dopo sette ore di curiara. Qui i missionari possono mangiare, riposare e appoggiarsi per le mille faccende da sbrigare prima di ripartire per Nabasanuka.
E così, a Tucupita come a Nabasanuka, nel cemento della città come nelle acque dell’Orinoco, i Missionari della Consolata, nonostante il loro numero ristretto a causa della difficoltà a ottenere dal governo i permessi, lavorano uniti alla costruzione del Regno di Dio tra i Warao.
Sergio Frassetto
Verso il Brasile
Le tragiche condizioni socio economiche del Venezuela hanno costretto milioni di cittadini a emigrare nei paesi vicini. Tra loro, migliaia sono Warao. I missionari continuano a seguirli anche in Brasile.
Sommerso da una profonda crisi politica, economica e sociale, il Venezuela sta vivendo una situazione drammatica. La popolazione soffre per la carenza di cibo, medicine, trasporti, alloggi, lavoro, servizi di base come ospedali, scuole, acqua, elettricità. Le condizioni di vita peggiorano ogni giorno, mettendo a rischio molte vite.
Si stima che oltre il 50% della popolazione viva in condizioni di estrema povertà, al punto che alla fine del 2020, una famiglia di cinque persone avrebbe dovuto guadagnare 98 salari minimi per acquistare beni di prima necessità. Questa situazione ha causato enormi migrazioni nei paesi vicini, in particolare in Colombia e Brasile.
Secondo le statistiche ufficiali, sono oltre 5 milioni i venezuelani che hanno lasciato il regime di Maduro in cerca di migliori condizioni di vita.
I Warao a Pacaraima e Boa Vista
Anche molti indigeni warao del Delta Amacuro sono stati costretti a lasciare il paese. Si sono stabiliti inizialmente a Pacaraima, una città dello stato brasiliano di Roraima appena oltre il confine con il Venezuela, ma molti si sono poi spinti all’interno dello stato di Roraima, in città come Boa Vista, e in altri stati, come a Manaus, in Amazonas.
Sopravvivono con le donazioni di enti privati e di beneficenza. Molti hanno portato con sé prodotti di artigianato dal Venezuela e lavorano come venditori ambulanti. Alcuni vorrebbero restare a vivere in Brasile e vanno alla ricerca di lavoro, ma senza successo, anche perché privi di documenti di identità.
La situazione di precarietà aumenta la loro vulnerabilità, i rischi di sfruttamento, l’uso di droghe, la fame e le malattie.
Missionari itineranti
Per i Missionari della Consolata in Venezuela, il futuro di queste comunità indigene è motivo di grande preoccupazione. La Direzione generale dell’Istituto, venendo incontro a questa situazione, a maggio del 2018, ha approvato la creazione di un’équipe missionaria itinerante per accompagnare proprio gli immigrati e rifugiati venezuelani a Pacaraima e Boa Vista.
Il team è composto da tre missionari, uno dei quali lavora con i Warao a Tucupita.
Le sfide da affrontare giorno per giorno riguardano tutti i settori: documentazione, salute, sicurezza, trasporti, educazione, lavoro e integrazione. Oltre a queste sfide e all’assistenza religiosa, i missionari si dedicano in modo speciale all’alimentazione dei bambini fra i quali si riscontrano molti casi di denutrizione. A loro vengono offerti due pasti a settimana accompagnati da formazione umana, culturale e igienica. (S.F.)
Non soltanto messer Querini
La millenaria tradizione degli esploratori italiani è arrivata anche nelle terre del Nord Europa. Pietro Querini, Francesco Negri, Giuseppe Acerbi sono i nomi più conosciuti.
Italiani, «popolo di santi, poeti e navigatori». Santi di sicuro non lo siamo; poeti pensiamo di esserlo in tanti e, in quanto a navigatori, beh… non siamo i soli, ma possiamo annoverare esploratori e mercanti che hanno contribuito a diffondere in Europa la conoscenza di altre culture quasi sconosciute.
Marco Polo, Cristoforo Colombo, Antonio Pigafetta, Giovanni Pian del Carpine, Martino Martini, Giovanni Belzoni, Vittorio Bottego sono solo alcuni dei nomi che ricorrono più spesso quando parliamo di esplorazione o di contatti (più o meno fortunati) tra diversi popoli. Le loro mete erano l’Asia, le Americhe, l’Africa, la circumnavigazione del globo. Luoghi esotici, poco conosciuti, i cui popoli e le cui vestigia occupavano i racconti fantastici delle corti europee, spesso ingigantiti da buone dosi di fantasia alimentata anche da generose libagioni di vino perché, come scrisse il trevigiano Giovan Battista Ramusio, «gli huomini non sogliono narrare una cosa tutti a uno istesso modo, ma variamente secondo la diversità degli intelletti».
le terre vichinghe
Poco o nulla si sapeva, invece, delle terre del Nord, fredde e, come si pensava allora, desolate, abitate da popoli dediti alle razzie, discendenti di quei vichinghi che, con copricapi cornuti, giravano mezzi nudi in mezzo alle intemperie attaccando villaggi lungo le coste e stuprando giovani fanciulle. Visioni fallaci, assolutamente lontane dalla realtà, ma che popolavano le novelle dei cantastorie o, in tempi più recenti, di romanzieri che ambientavano i loro racconti in scenari impervi, perennemente coperti di neve o sferzati dalla pioggia.
Ancora più sconosciute erano le terre al di sopra del Circolo polare artico, abitate da popolazioni che Tacito, nel suo trattato De origine et situ Germanorum, descriveva come coloro che «mangiano erba, vestono pelli di animali e dormono sulla terra. Le uniche cose in cui credono sono le frecce fatte di ossa».
La corte svedese, che per prima colonizzò quelle lande contendendole alla Danimarca e alla Russia, le battezzò Lappamarken, da lappe, «sempliciotto», «fessacchiotto», e marken, «foresta» o «terra di frontiera». I lappe erano i Sami, popolazioni indigene, la cui pacifica indole e lo stile di vita semplice e privo dei fronzoli sociali che caratterizzavano i popoli più meridionali, venivano interpretati come segno di stupidità.
In Norvegia la regione era ed è tuttora nota come Finnmark, foresta o terra di frontiera abitata dai Finn, nome con cui venivano chiamati gli autoctoni.
Forse perché così sperduta, spopolata e spoglia, della Lapponia le ricche città dell’Europa che si affacciavano sul Mediterraneo non se ne interessarono per secoli. Solo le città anseatiche mantenevano qualche sporadico rapporto con i villaggi sami commerciando corna e pelli di renna (la parola nappa è di origine sami).
Nel 1369 la peste nera sterminò la popolazione norvegese che si era insediata sulle coste settentrionali (i Sami, forse a causa della loro alimentazione, non ne furono così colpiti) e i contatti con il resto dell’Europa si diradarono.
Arrivano gli italiani
Fu pochi decenni dopo che un italiano, per circostanze del tutto fortuite, inaugurò una fortunata serie di esplorazioni di nostri connazionali in Lapponia che fecero conoscere non solo la geografia della regione e le popolazioni che le abitavano, ma contribuirono ad importare nuovi ingredienti per uno sviluppo culinario che ancora oggi caratterizza la dieta di varie regioni della nostra penisola.
La prima di queste tappe fu raccontata da Cristoforo Fioravante e Niccolò di Michel nel «Viaggio del magnifico messer Piero Quirino viniziano, nel quale, partito di Candia con malvagie per ponente l’anno 1431, incorre in uno orribile e spaventoso naufragio, del quale alla fine con diversi accidenti campato, arriva nella Norvegia e Svezia, regni settentrionali».
Il resoconto tratta delle avventure del mercante veneziano Pietro Querini, a bordo della caracca Gemma Querina che, involontariamente, a causa di un naufragio raggiunse le isole Lofoten.
Partito da Creta il 25 aprile 1431, cinque giorni dopo la morte del figlio, il Querini si diresse alla volta delle Fiandre con un carico di 500 tonnellate di mercanzie e 800 barili di Malvasia.
Dopo aver raggiunto Cadice il 2 giugno, dove si dovette fermare per 25 giorni per riparare la nave incagliatasi su uno scoglio, messer Pietro aumentò il suo equipaggio fino a raggiungere le 68 persone per proteggere la sua merce dalle incursioni delle navi della repubblica di Genova, con cui nel frattempo Venezia era entrata in guerra. La Gemma Querina non raggiunse mai le Fiandre: i venti e le burrasche portarono il legno alla deriva, lo squassarono, lo sballottarono e le gelide acque del mare, con la complicità della sete e della fame e del freddo, si presero la vita di 52 marinai.
Il 4 gennaio 1432, finalmente, i superstiti riuscirono ad approdare non senza fatica su una spiaggia innevata dell’isola di Sandøi «ringraziando il Signor Dio ch’al natural sito nostro n’avea condotti, e campati dal soffocarsi nel mare».
Poi, «conosciuto con certezza quello esser scoglio deserto, deliberammo di partirci il secondo giorno, empiendo cinque nostre barile d’acqua ch’usciva dalla neve».
Per altre due settimane i naufraghi, ridotti ormai a 13 persone «pieni di pedocchi, ch’a pugnate li gettavamo nel fuoco», girovagarono per l’arcipelago riuscendo alfine a trovare una casetta disabitata presso la quale si rifocillarono per diversi giorni.
Incontrata una famiglia di pescatori, nei giorni seguenti riuscirono a trasferirsi sull’isola di Røst dove abitava un «frate [tedesco, ndr] suo cappellano, dell’ordine di San Dominico, e con parlar latino dimandò qual fra noi era il padrone: a cui respondendo mi dimostrai per esso».
Presso il villaggio di pescatori il gruppo restò per tre mesi e mezzo, dal 5 febbraio al 14 maggio 1432. Vi abitavano in tutto 120 persone che «alla Pasqua 72 si communicorono come catolici fidelissimi e devoti».
Pietro Quirino descrisse quel luogo dove «non vi nasce alcun frutto» e sul quale, per «tre mesi dell’anno, cioè giugno, luglio e agosto, sempre è giorno né mai tramonta il sole, e ne’ mesi oppositi sempre è quasi notte, e sempre hanno la luminaria della luna».
Fu durante la sua permanenza che il mercante veneziano conobbe gli «stocfisi», gli stoccafissi, che «seccano al vento e al sole senza sale, e perché sono pesci di poca umidità grassa, diventano duri come legno. Quando si vogliono mangiare li battono col roverso della mannara, che gli fa diventar sfilati come nervi, poi compongono butiro e specie per darli sapore: ed è grande e inestimabil mercanzia per quel mare d’Alemagna».
Pietro tornò nella Serenissima portando alcuni di questi stoccafissi che diverranno l’ingrediente principale del baccalà alla vicentina (il baccalà è il merluzzo essiccato che, a differenza dello stoccafisso, è salato). Ancora oggi, quello italiano è il principale mercato verso cui le Lofoten esportano il loro stoccafisso e nel piccolo paesino di Å, il museo dedicato a questa qualità di merluzzo ha spiegazioni anche in lingua italiana.
Il racconto della sfortunata spedizione della Gemma Querina è anche una preziosa testimonianza della popolazione delle Lofoten. I redattori descrissero attentamente gli usi e i costumi dei pescatori, «uomini purissimi e di bello aspetto, e così le donne sue, e tanta è la loro semplicità che non curano di chiuder alcuna sua roba, né ancor delle donne loro hanno riguardo: e questo chiaramente comprendemmo perché nelle camere medeme dove dormivano mariti e moglie e le loro figliuole alloggiavamo ancora noi, e nel conspetto nostro nudissime si spogliavano quando volevano andar in letto; e avendo per costume di stufarsi il giovedì, si spogliavano a casa e nudissime per il trar d’un balestro andavano a trovar la stufa, mescolandosi con gl’uomini. Sono (com’io predissi) devotissimi cristiani: non perderiano la festa di veder messa, e quando sono in chiesa sempre stanno in orazione inginocchiati; mai non mormorano né bestemmiano santi, non nominano il demonio».
Padre Francesco Negri
Due secoli e mezzo dopo, un prete ravennate, Francesco Negri, si spinse ancora più a Nord, questa volta intenzionalmente, alla ricerca del punto più settentrionale del continente europeo.
Negri, oltre che rappresentante della Chiesa, era anche un fine osservatore di costumi e di scienza. Profondamente influenzato dal nuovo pensiero scientifico, eredità di Copernico e Galileo, Francesco Negri partì da Ravenna nel 1663 per un viaggio nella penisola scandinava che lo portò prima a Stoccolma, dove si trattenne per un anno come cappellano e poi a Bergen. Da qui, con l’aiuto dei preti norvegesi, riuscì a raggiungere via mare Capo Nord «che è a dire all’estremità di Finmarkia, anzi, non ritrovandosi più altra terra dal genere umano verso al polo abitata, del mondo stesso.»
Descrisse la sua esperienza in otto lettere che vennero pubblicate nel 1700, due anni dopo la sua morte e raggruppate in un volume intitolato Viaggio settentrionale. Sebbene poco noto al grande pubblico, il Viaggio settentrionale segnò un vero e proprio spartiacque nella visione dei popoli nordici da parte dei paesi mediterranei.
Fu Francesco Negri, infatti, a presentare gli eredi dei vichinghi e i Lapponi in modo positivo, contribuendo così a diluire il disprezzo e il discredito che la cultura dell’Europa settentrionale godeva tra i popoli del Sud Europa. Così, pur continuando a produrre una letteratura pregna di stereotipi inventando anche usi e costumi mai utilizzati dalle popolazioni scandinave (uno per tutti l’elmo con le corna, invenzione ottocentesca abbracciata dall’opera wagneriana), gli studiosi, proprio sull’onda di Francesco Negri, iniziarono a rivedere le loro opinioni critiche non solo verso le corti dei regni settentrionali, ma anche verso i Sami esaltandone l’ospitalità: «Non avevano mai essi veduto un italiano, anzi forse nè meno intesone il vocabolo: perciò mi trattarono alla grande, alla loro moda, a pesce cotto nell’acqua pura al solito, e carne fresca di londra [lontra], che a sorte avevano ammazzata alla mia presenza con un colpo d’archibuso a una palla sola, per meno offendere la pelle».
A differenza degli svedesi e della Chiesa cristiana, Negri non condannò lo sciamanesimo e anzi, abitando con loro, lo studiò descrivendo gli attrezzi e i tamburi con cui «essi […] trasmutano un uomo in orso, cioè lo fanno apparire orso; la qual fatucchierìa terminata, ritorna il Lappone ad abitar, come prima, con la sua famiglia, dicendo egli stesso d’essere stato orso».
In Lapponia, imparò a guidare le slitte e a sciare con «quelle tavolette, (che) non sollevano mai dalla neve alzando il piede, ma leggermente strisciando vanno avanzando con l’istessa agilità, che camminando liberi a piedi sopra terra».
Lo spirito scientifico lo portò a descrivere le aurore boreali con estrema precisione, anche se non ne capì l’origine: «Come una lunga nuvola, che cominciava a tre gradi in circa sopra l’orizzonte, e ascendendo al zenit, o punto verticale, andava a terminare all’altra parte, quasi in altrettanta lunghezza. Era così chiara e trasparente, che rendeva qualche poco di lume fino a terra: si piegava in tante forme, ora di arco, ora di corona, ora di serpe e d’altro: alle volte in due parti stendendosi per lungo s’apriva, movendosi nello stesso tempo verso i due lati; poi riunendosi, produceva novi ragi, non alzandoli da sè successivamente fino alla loro estremità».
Le critiche di Acerbi
Nel piccolo museo di Capo Nord, a Francesco Negri è dedicato un posto particolare in quanto è considerato il primo turista ad aver raggiunto il luogo.
Spetta però a Giuseppe Acerbi (1773-1846) il primato di aver raggiunto Capo Nord via terra (compì in nave solo l’ultimo tratto da Alta) attraversando la Svezia e la Finlandia, che amò in modo particolare. L’esultanza dell’italiano quando calpestò il promontorio settentrionale la si legge nel suo resoconto Viaggio al Capo Nord fatto l’anno 1799 dal Sig. cavaliere Giuseppe Acerbi, pubblicato al suo ritorno: «Il Capo Nord presentandosi a’ nostri sguardi s’impadronì di tutte le nostre facoltà. […] e il mondo non fu più per noi che questo confine della terra». Era il 18 luglio 1799.
Subito dopo, però, la malinconia sembra cogliere l’esploratore che, dopo essersi preso (inappropriatamente) il merito di stare «calpestando codesto suolo, che nissuno prima di noi avea calpestato», descrive il Capo come «la tomba della Natura», un luogo dove «tutto è solitario, tutto lugubre, tutto sterile […]: ecco il Capo Nord».
Un resoconto quindi assai differente da quello dato dal suo predecessore Francesco Negri.
A differenza del prete ravennate, l’Acerbi dà uno spaccato meno lusinghiero sia degli svedesi che dei Sami, questi ultimi descritti come «deboli, indolenti, poltroni per carattere e per fisica costituzione». Nella sua visione giacobina, l’esploratore italiano critica la presenza dei missionari cristiani «i quali in ricambio gli promisero la felicità di un altro mondo, che senza dubbio per uomini sì limitati di mente non poteva consistere che in bere acquavite dalla mattina alla sera».
L’Acerbi introduce anche gli yoik, i canti sami che non apprezzò, a differenza delle runi finlandesi, in quanto «i Laponi erranti non hanno veruna idea della minima armonia; e che sono assolutamente incapaci di un piacere che la natura, per quanto ho potuto apprendere, non ha negato a nessuna orda, o nazione».
Il Viaggio fu comunque un successo letterario in Inghilterra, dove venne pubblicato per la prima volta nel 1802 e a cui seguirono le edizioni tedesche, francese e olandese. In Italia si dovette aspettare fino al 1832 per poter leggere le esperienze del viaggiatore.
Quirino, Negri e Acerbi, assieme ad altri importanti esploratori, mercanti, missionari di diverse nazionalità hanno contribuito a far conoscere la Lapponia e i Sami al grande pubblico. Leggendo le loro opere oggi possiamo apprezzare ancora di più le popolazioni e i magnifici paesaggi scandinavi, divertirci sulla neve con gli sci e le slitte e gustare piatti divenuti parte integrante della cucina italiana. Nonostante non ne siamo sempre consapevoli, anche noi siamo debitori verso i Lapponi.
Piergiorgio Pescali
Dal 1307, il cristianesimo in Lapponia
Religione e case reali
La storia del cristianesimo in Lapponia è, come spesso accade, costellata di glorie e vergogne. I primi preti cristiani arrivarono tra i Sami all’inizio del XIV secolo e la prima chiesa venne costruita a Vardø nel 1307. I missionari furono utilizzati dal governo danese (a cui la Norvegia apparteneva) come avanguardie per colonizzare gli insediamenti e prenderne ufficialmente possesso in nome della corona. A seguito del Trattato di Nöteborg del 1323 tra Svezia e la repubblica russa di Novgorod, la Lapponia venne spartita tra gli stati nordici e al tempo stesso le rispettive case reali favorirono la diffusione della religione secondo le proprie convenienze. Accanto alla Chiesa latina venne quindi a svilupparsi una Chiesa ortodossa russa.
Nel 1542 il re svedese Gustav Vasa dichiarò che «tutte le terre permanentemente inabitate appartengono a Dio e alla Corona svedese e a nessun altro». La Lapponia, pur essendo stabilmente abitata dai Sami, rientrava tra queste «terre permanentemente inabitate». Tutte le proprietà ecclesiastiche furono trasferite alla casa reale e con l’adesione al protestantesimo l’influenza papale sparì completamente dalla Lapponia.
Le ambizioni territoriali sui vasti territori del Nord portarono i regni scandinavi a scontrarsi più volte tra loro e quello sami fu il popolo che ne soffrì maggiormente. I loro territori vennero divisi da confini nazionali, le terre confiscate, e vennero imposti pagamenti erariali. La loro religione, un intreccio inestricabile di pratiche rituali avviluppate nella quotidianità, fu perseguitata. I canti tradizionali, gli yoik, vennero proibiti e i tamburi, mezzi di comunicazione con il mondo degli spiriti, distrutti. I fenomeni naturali e i corpi celesti erano considerati divini e potevano dare o togliere la vita. I noaidi, gli sciamani, le figure centrali della religiosità sami, gli unici in grado di far da tramite tra il mondo spirituale e quello terreno, furono combattuti strenuamente dal protestantesimo. Proprio nel periodo di massima repressione, quella di padre Francesco Negri fu quindi una voce isolata nel difendere i Lapponi e le loro credenze. Al tempo stesso, però, furono i missionari protestanti a salvare dall’oblio i racconti sami, fino ad allora trasmessi oralmente, dando al popolo una scrittura. L’alcolismo, lo sfruttamento delle terre e delle acque, l’imposizione di tassazioni sempre più gravose, la disgregazione culturale e religiosa furono i principali motivi di sommosse popolari e della nascita di una Chiesa locale, il «laestadianismo», fondata nel XIX secolo da un pastore luterano, Lars Levi Laestadius, volta a preservare l’identità sami pur predicando la salvezza di Cristo.
Oggi il laestadianismo sopravvive in poche comunità ed è rientrato nella Chiesa svedese pur continuando ad essere considerato al limite dell’eresia.
Con l’istituzione di parlamenti sami in Norvegia, Finlandia e Svezia (la Russia ancora nega ai Sami una propria rappresentanza), anche la cultura dei popoli lapponi è meglio accettata. Accanto quindi alle chiese cristiane, vi sono tentativi di rivalutare la religione tradizionale dei Sami.
L’assalto all’Amazzonia pare diventata un’invasione inarrestabile. Soprattutto con la spinta del capitano Bolsonaro e dell’emergenza pandemica. I popoli indigeni, ultimo baluardo difensivo, ne stanno pagando le conseguenze. Ma il problema è mondiale, se l’Amazzonia è «patrimonio dell’umanità». Come da tempo afferma papa Francesco.
Si dice che su internet si possa comprare di tutto. Pare un’esagerazione, invece è la realtà. L’ultima conferma è arrivata da un’inchiesta della Bbc, la televisione pubblica inglese. Un lavoro giornalistico pregevole, ma molto inquietante. I corrispondenti dal Brasile hanno infatti scoperto che su Facebook, la più grande rete sociale del mondo, sono in vendita pezzi di Amazzonia. Lotti protetti di grandi o grandissime dimensioni (si parla di mille campi da calcio) e, si noti bene, senza alcun titolo di proprietà regolare, trattandosi di boschi dello stato o di riserve indigene.
A tal punto di indecenza è arrivato il disprezzo per la legge e la morale. Difficile stabilire una graduatoria di colpevolezza: il social ospitante, gli inserzionisti o le autorità governative.
«È nostra!»
È da tempo che l’Amazzonia è sotto attacco. Avviene in tutti i nove paesi amazzonici, ma soprattutto in Brasile, che ne ospita oltre il 60 per cento. Qui la situazione è precipitata con l’arrivo al potere del capitano Jair Messias Bolsonaro. Questo militare di piccolo cabotaggio e ammiratore della dittatura non ha mai nascosto il proprio pensiero fondato sul populismo neoliberista. Nel suo discorso del 24 settembre 2019 (primo anno del suo mandato), davanti all’Assemblea delle Nazioni Unite, aveva affermato l’impegno solenne per la difesa dell’ambiente affermando che l’Amazzonia è praticamente intoccata. Ma, soprattutto, aveva detto: «L’Amazzonia è nostra, non dell’umanità».
A Bolsonaro aveva risposto non un presidente, ma papa Francesco, considerato da molti come il leader più autorevole del pensiero ambientalista. L’Amazzonia, ha precisato il papa nell’esortazione apostolica Querida Amazonia, «è anche “nostra”» (QA 5).
«Terra di nessuno»
È dal Brasile, principale paese amazzonico, che è necessario partire per inquadrare la situazione. Una situazione molto grave, che la pandemia ha peggiorato.
La filosofia del governo Bolsonaro è chiara. La difesa dell’Amazzonia e dei suoi abitanti originari è considerata un intralcio allo sviluppo economico e all’arricchimento individuale. Pertanto, ogni legge ambientale va superata e ogni difensore (organizzazione o persona) reso impotente. I popoli indigeni vanno scacciati dalle loro terre o eliminati (culturalmente più che fisicamente) perché costituiti da esseri inferiori, incapaci di comprendere i principi economici che regolano la società bianca.
Francesco parla di «una falsa “mistica amazzonica”». Scrive il papa al punto 12 di Querida Amazonia: «È noto infatti che dagli ultimi decenni del secolo scorso l’Amazzonia è stata presentata come un enorme spazio vuoto da occupare, come una ricchezza grezza da elaborare, come un’immensità selvaggia da addomesticare». È da questa concezione dell’Amazzonia come «terra nullius» che, oggi come ieri, deriva la sua invasione da parte di: fazendeiros (latifondisti dell’agrobusiness), madeireiros (tagliaboschi), garimpeiros (minatori) sotto lo sguardo disattento se non l’ombrello protettivo dello stato. Uno stato intenzionato a completare la strada da Porto Velho a Manaus, nota come Br-319, che aprirebbe nuovi, pericolosissimi varchi nell’Amazzonia.
In tutto questo, il metodo più subdolo perché ammantato da un falso alone di legalità («bianca») è quello conosciuto come grilagem (land grabbing, in inglese), l’accaparramento di terre. Il sistema generalmente riguarda terre pubbliche o terre occupate da secoli da popoli indigeni o comunità tradizionali (come quilombolas e ribeirinhos).
Secondo un’associazione legale di Bahia (Associação de Advogados de trabalhadores rurais no estado da Bahia, Aatr), il fenomeno del grilagem è passato nel tempo da una falsificazione rudimentale dei documenti (dando loro un’apparenza di vecchiaia utilizzando escrementi di grilli, da cui il nome) a procedimenti più sofisticati per trascrivere le false proprietà nei registri immobiliari. È così che i latifondi per l’allevamento bovino o le monocolture (soia, soprattutto) si sono incrementati a dismisura e i loro proprietari, veri e presunti, si sono insediati nei parlamenti (bancada ruralista) per promuovere leggi in loro favore, contro l’ambiente e i popoli indigeni.
Una delle norme più vergognose studiate dal governo Bolsonaro è proprio la regolarizzazione delle terre pubbliche illegalmente occupate, in una parola il condono del grilagem (Medida provisoria 910 nota come «MP da grilagem», trasformata in progetto di legge 2.633/2020).
Le invasioni dei minatori illegali sono brevi nel tempo, ma forse ancora più nefaste: una volta ottenuto il prodotto (oro, in primis), lasciano la zona devastata per passare a un’altra.
Le immagini dei territori amazzonici dopo il passaggio dei garimpeiros sono più impressionanti di una foresta abbattuta o bruciata, di un pascolo occupato da migliaia di vacche o di un terreno coltivato a soia transgenica. Sono «cicatrici nella foresta» come le definisce il titolo di un recente (marzo 2021) rapporto redatto dall’associazione indigena guidata da Davi Kopenawa (Hutukara associação yanomami, Hay) e dall’Instituto socioambiental (Isa). E si tratta di cicatrici profonde: nel solo 2020, sul territorio degli Yanomami le aree degradate sono aumentate di 500 ettari, soprattutto lungo i letti dei grandi fiumi (Uraricoera,
Mucajaí, Catrimani e Parima). L’attività mineraria, viene osservato, non è più quella dell’uomo solitario che cerca l’oro con strumenti artigianali. Oggi è diventata un’attività d’impresa con investimenti importanti in macchinari, materiali e logistica e l’utilizzo di aerei, elicotteri e barche. I vari addetti vengono normalmente pagati in grammi d’oro.
Inoltre, la vicinanza forzata con i garimpeiros ha prodotto tra gli indigeni un’esplosione di casi di malaria (le aree disboscate facilitano la diffusione delle zanzare) e di Covid-19, oltre che di avvelenamento da mercurio (utilizzato dai minatori).
Complicità internazionali
Se non ci fossero sbocchi di mercato per i prodotti amazzonici, verrebbero meno le motivazioni economiche e speculative di latifondisti, tagliaboschi e minatori.
Un rapporto prodotto da un’altra organizzazione indigena (Articulação dos povos indígenas do Brasil – Apib con Amazon Watch, 2020) concentra l’attenzione sulle «complicità nella distruzione» dell’Amazzonia da parte di imprese, banche (tra cui GP Morgan Chase, Citigroup, Bank of America), istituti finanziari e società di fondi d’investimento stranieri (come la BlackRock, la più grande del mondo).
«Ogni giorno – si legge all’inizio del rapporto -, la soia, la carne, i minerali e altre materie prime prodotte su larga scala in Brasile sbarcano nei porti dei paesi di Europa, Sud America, Cina, Stati Uniti e altri mercati globali. Molte volte, queste merci lasciano dietro di sé ferite di abusi dei diritti umani e di devastazione ambientale che minacciano il futuro della più grande foresta tropicale del mondo e i suoi popoli e, di conseguenza, il futuro del nostro clima». «Non c’è dubbio – si legge ancora – che sia l’avanzata illegale sulle terre indigene che la distruzione dilagante dei biomi brasiliani sono collegati direttamente ai vantaggi estrattivi ottenuti dall’iniziativa privata».
L’accusa è chiara e non smentibile: «La devastazione della più grande foresta pluviale del pianeta, con le sue gravi implicazioni per la stabilità climatica, non può essere intesa semplicemente come una questione brasiliana, ma come una tragedia resa possibile e potenziata dai mercati globali. Dalle società che acquistano e commerciano materie prime, le quali guidano la deforestazione e i conflitti per la terra, alle istituzioni che finanziano i comportamenti illeciti degli attori complici della distruzione, il capitale globale è decisivo per il mantenimento di un sistema economico fallimentare e del potere politico di coloro che lo difendono».
Se non bastasse questo rapporto, a confermare le complicità internazionali nella distruzione dell’Amazzonia provvede Beef, banks and the brazilian Amazon, un lavoro di Global Witness (dicembre 2020). Secondo questo studio, le tre principali compagnie brasiliane della carne – Jbs (la più grande al mondo), Marfrig e Minerva – esportano i loro prodotti in tutto il globo, rifornendo anche grandi catene di supermercati.
Si stima che, in Brasile, il 70% delle terre disboscate sia ora popolato da bovini, tanto che il paese ha la seconda mandria più grande del mondo. Oggi in Brasile ci sono più mucche che persone: 232 milioni contro 211. Il 40% dei bovini si trovano in territorio amazzonico.
Come aiutare la resilienza indigena
I popoli indigeni sono i soli in grado di convivere con l’ambiente naturale dell’Amazzonia (Fao-Filac, 2021; Ipam, 2021). Non si tratta soltanto di una correttezza storica (visto che ne sono gli originari abitanti), ma anche di una constatazione scientifica: le foreste in territorio indigeno si sono conservate in modo migliore delle altre consentendo tra l’altro la preservazione della biodiversità e la stabilità climatica. Demarcare e titolare i territori occupati da popoli indigeni sarebbe, dunque, un investimento per il futuro.
Come abbiamo visto, oggi la situazione pare però indirizzata in senso opposto. La resilienza messa in atto dai popoli indigeni non è sufficiente a fermare un’invasione e una distruzione che coinvolgono attori poderosi. Per fare effettivi passi avanti, occorrerebbe un coinvolgimento maggiore dei non indigeni e, in particolare, dei cittadini occidentali. Infatti, pur in presenza di innumerevoli denunce scientifiche, giornalistiche e – come abbiamo visto – papali, molti obiettano che così va il mondo e che non si può fare nulla per cambiare la situazione dell’Amazzonia. Che non sia facile è certamente vero, ma è altrettanto vero che non è impossibile se si assumono comportamenti da consumatori informati e responsabili. Per esempio, rifiutando di acquistare prodotti e merci legate allo sfruttamento dell’Amazzonia e dei suoi popoli o respingendo trattati commerciali insostenibili come quello tra Unione europea e paesi del Mercosur (riquadro pag. 20).
Una spinta arriva anche dal citato rapporto di Apib-Amazon Watch che, dopo aver criticato la nostra complicità, si conclude con una nota di incoraggiamento: «Il momento di agire è ora. C’è ancora tempo».
Paolo Moiola
L’Amazzonia sui media italiani
Gli anaffettivi e i miracolati
Era stata una piacevole sorpresa vedere un’inchiesta della Rai sulla situazione dell’Amazzonia. Un lavoro accurato (*). Poi, però, si è tornati alla «normalità». Il 12 febbraio il Corriere della Sera ha pubblicato un lungo articolo sugli Yanomami scadendo nei luoghi comuni (parlando, ad esempio, di alta aggressività e violenza anaffettiva). Francesca Casella, direttrice di Survival International Italia, ha scritto una lettera di protesta al direttore del quotidiano milanese. Il giornale si è però mostrato recidivo in fatto di completezza informativa.
Domenica 28 marzo un articolo e un video sul sito hanno raccontato con toni entusiastici la sopravvivenza nella foresta per 36 giorni di un brasiliano precipitato con il suo Cessna. Riducendo a fatto secondario che quell’uomo facesse un volo illegale per portare materiale ai garimpeiros, i minatori illegali che imperversano indisturbati nei territori indigeni.
Anche il New York Times ha raccontato (sempre il 28 marzo) la storia. Tuttavia, l’articolo ha pubblicato una foto dell’Amazzonia aggredita e ha dato ampio spazio al motivo del viaggio: «Il suo (del sopravvissuto, ndr) racconto, tuttavia, ha anche messo in luce l’industria mineraria illegale del Brasile, che è fiorita negli ultimi decenni nei territori indigeni e in altre parti dell’Amazzonia che dovrebbero essere santuari». Il quotidiano Usa ha anche descritto il pentimento del protagonista.
Quello stesso giorno, al Tg3 delle 19,00 è stato trasmesso un servizio in cui si descriveva l’avventura nella foresta del pilota miracolato. Peccato che, anche in questo caso, non sia stata detta una sola parola sul motivo per il quale quell’uomo sorvolasse con il suo piccolo aereo quella parte della foresta amazzonica. Volendo dare la notizia, correttezza e professionalità giornalistica avrebbero dovuto suggerire un’informazione completa. Bene che una persona si sia salvata da un incidente. Benissimo, aggiungiamo noi, che un carico di strumenti di morte e distruzione sia andato perso e che, dal fatto raccontato nella sua completezza, più persone possano comprendere cosa significhi il business delle miniere illegali (garimpos).
P.M.
L’accordo Unione europea-Mercosur
«Auto per carne e soia»
L’accordo di libero commercio (Free trade agreement, Fta) tra l’Unione europea (Ue) e i paesi aderenti al Mercosur (Argentina, Brasile, Uruguay e Paraguay) è del luglio 2019. Il Centro studi della Confindustria ha commentato (17 febbraio 2020) positivamente («un buon inizio») l’intesa, vedendo un aumento delle esportazioni italiane verso «un mercato di 260 milioni di consumatori». L’accordo però non è ancora in vigore perché non è stato ratificato dai governi dei vari paesi, ma soprattutto perché sono emerse criticità e lacune, molto gravi soprattutto per l’ambiente e i popoli indigeni.
L’accordo in questione mira a facilitare le esportazioni degli uni e degli altri: carne (bovina e da pollame), soia e zucchero dal Mercosur; auto e macchinari dall’Europa. In America Latina, i costi ambientali e sociali, già altissimi ora in assenza dell’intesa, esploderebbero. Più carne, soia e canna da zucchero richiederebbero infatti più aree da adibire a pascoli e terreni agricoli. Sarebbe un’ulteriore spinta a un insano e ingiusto sistema di produzione fatto di latifondi e monocolture, a scapito delle foreste, della biodiversità, del clima, dei piccoli agricoltori, dei popoli indigeni. I più drastici (ma, purtroppo, non lontani dal vero) hanno sintetizzato l’accordo Fta in una formula: «Auto per carne e soia da deforestazione».
Verrebbero eliminati quote e dazi import-export, ma anche le cosiddette «barriere commerciali non tariffarie», che significa tagliare o alleggerire norme ambientali e sanitarie (per esempio, in materia di agrotossici, ormoni della crescita e organismi geneticamente modificati), nonché diritti dei lavoratori e, in ultima istanza, dei consumatori. Significa – è stato ancora sottolineato – innescare una guerra dei prezzi con i piccoli produttori europei costretti a ridurre costi e qualità per poter rimanere sul mercato.
A parte i decision makers (politici, imprese transnazionali e lobbisti), in tanti hanno smontato la presunta bontà dell’intesa win-win («io vinco-tu vinci»): ecologisti, Ong cattoliche e ambientaliste (come Greenpeace), sindacati europei e latinoamericani, un gruppo di quasi 200 economisti.
Quest’accordo Ue-Mercosur non va ratificato. Non per questioni ideologiche, politiche o economiche, ma perché è insostenibile e anacronistico.
Sottotraccia da tempo, la rivolta cilena è scoppiata nell’ottobre del 2019. È costata molto, ma ha raggiunto un obiettivo impensabile: la formazione (ad aprile 2021) di un’assemblea che dovrà redigere una nuova Costituzione, sostitutiva di quella del 1980 voluta dal generale Augusto Pinochet.
Santiago del Cile, Metro Estación Central, 18 ottobre 2019. Il governo ha annunciato l’aumento di 30 pesos del biglietto della metro, meno di 4 centesimi di euro. Una ragazza salta il tornello ed entra senza pagare. La segue un altro, poi una ragazza. In breve, si diffonde l’evasione massiva in decine di stazioni della metro di Santiago: «Evadir es otra forma de luchar», «non pagare è un’altra forma di lottare», gridano i giovani.
È il primo smottamento, al quale il governo risponde con la repressione. La protesta aumenta e viene imposto il coprifuoco. La rabbia esplode e in poco tempo l’urlo indistinto si traduce in una voce chiara che domanda un radicale ripensamento del paese. Il 25 ottobre 2019 si riuniscono pacificamente nella piazza centrale di Santiago, Plaza Italia o Plaza Baquedano, ribattezzata «Plaza de la Dignidad», due milioni di persone nella marcia «más grande de Chile» per chiedere un nuovo patto sociale, per ridefinire le regole del gioco da cima a fondo. In questa giornata si saldano le proteste degli studenti, delle femministe, dei lavoratori della salute, dei movimenti indigenisti, ma soprattutto il malessere della gente comune.
«Chile despertó», gridano i manifestanti, il Cile si è risvegliato, cantano uomini e donne di tutte le generazioni, nelle piazze di tutto il paese, dai deserti del Nord fino alle città della Tierra del Fuego. Nelle piazze convivono manifestanti pacifici, gruppi musicali, performance teatrali, assemblee improvvisate e frange più violente. Il paese arde: bruciano edifici di banche, fondi pensione, supermercati, infrastrutture pubbliche e anche qualche chiesa (il clero cileno è scosso da scandali di abusi sessuali, sui quali sta cercando di far luce papa Francesco, e di cui parliamo nell’ultima parte di questo dossier). Il governo di centro destra, guidato dal magnate Sebastian Piñera, sembra sul punto di crollare quando cede a una richiesta che fino a poco fa sembrava irrealizzabile. Il 15 novembre 2019 «l’Accordo per la pace e la nuova Costituzione», sottoscritto trasversalmente dai partiti, disegna uno scenario inedito: l’apertura di un processo costituente che porterà a superare la Costituzione del 1980, imposta dalla dittatura militare e architrave del modello neoliberista che ha dato forma al Cile odierno.
Comincia così il percorso costituente che il paese da oltre un anno sta sperimentando. «La protesta di ottobre 2019 nasce da un movimento ampio, senza leader né richieste precise. Va inquadrata nella dinamica dei grandi movimenti globali, dagli Usa a Hong Kong. Ci sono importanti aspettative verso la nuova Costituzione, ma è bene chiarire che molte richieste di cambiamento non riguardano la Carta, ma politiche pubbliche e cambi culturali: «Penso alle pensioni basse», spiega a Missioni Consolata Josè Antonio Viera-Gallo, primo presidente della Camera del Cile della transizione democratica, tra il 1990 e il 1993. Fa poi un parallelo con l’Italia, paese dove – insieme a migliaia di connazionali – trovò rifugio dalla dittatura di Pinochet. «Il momento costituente cileno è privo dell’epica della Costituente italiana, della volontà di ricostruire il paese distrutto dalla guerra e dal fascismo. E privo dei grandi leader della Costituente spagnola che, pur di superare la dittatura accettarono la monarchia, la stessa che combatterono nella guerra civile. Per questo credo si debba puntare sull’essenziale: un ruolo più ampio dello stato in economia; ridurre i quorum ipermaggioritari; decentralizzare lo stato; riconoscere i popoli originari, un dramma del Cile odierno; allargare i diritti sociali e politici. Fare queste cose sarebbe già tanto, cambierebbe il paese. Tuttavia, il processo ha una sua originalità: l’assemblea che dovrebbe redigere la nuova Costituzione avrà perfetta parità di genere, un unicum al mondo. Questo è il risultato di un voto trasversale in parlamento che mi fa pensare che alcuni risultati per l’uguaglianza di genere siano ormai irreversibili», conclude il politico cileno.
La pandemia di Coronavirus rallenta il processo costituente, ma senza interromperlo. Inizialmente previsto per aprile, il referendum viene celebrato il 25 ottobre 2020. E i risultati sono incontrovertibili: i «Sì» per la nuova Costituzione raggiungono il 78,25%. Il secondo quesito, «Quale organo dovrà redigere la nuova Costituzione?», vede prevalere con il 79% l’opzione di un’assemblea interamente eletta dai cittadini. L’affluenza è stata la più alta dal ritorno alla democrazia, ma comunque inferiore al 50%. Adesso la sfida è trasformare la forza del risultato elettorale in un nuovo patto sociale, passare dal «voto destituente al patto costituente», ha scritto il politologo Juan Pablo Luna.
Un occhio della testa
Plaza de la Dignidad è l’epicentro del processo costituente cileno. Lì, nei mesi della protesta, si ritrovano mamme con i passeggini, coppie di innamorati, anziani che ricordano i tempi di Pinochet. E, quasi a ogni corteo, volano pietre, si costruiscono barricate, si respira aspro l’odore dei lacrimogeni, crepita il fuoco. C’è certamente una componente di violenti organizzati tra i manifestanti. La rabbia però trabocca oltre questa organizzazione e coinvolge anche i manifestanti a volto scoperto, le persone comuni che assistono agli abusi della polizia. Agli occhi di un europeo abituato alle categorie di buoni e cattivi, al Pasolini di Valle Giulia che difende i poliziotti contro gli studenti borghesi, quel che succede in Cile non è comprensibile. Per due motivi: primo, qui i manifestanti non sono studenti borghesi, ma i rappresentanti di un malcontento condiviso dalla maggioranza della popolazione; secondo, qui la polizia ha una lunga e consolidata tradizione di abusi di potere al proprio attivo, come testimonia il report della missione Onu sulla violenza durante la protesta. Un libro dell’orrore che ripercorre, col linguaggio formale del resoconto, l’insieme di violenze, abusi, torture, morti sospette. La specialità della polizia cilena è generare danni permanenti alla vista, con l’uso di proiettili di gomma. Analisi ex post sui bossoli mostrano la presenza di piombo dentro le cartucce. Così, 472 persone sono ferite agli occhi dall’inizio delle proteste. Tra queste c’è Gustavo Gatica, uno studente di psicologia di 21 anni. Il pomeriggio dell’8 novembre 2019 passeggia per Plaza de la Dignidad insieme al fratello e scatta delle fotografie con la sua nuova macchina Sony. Viene colpito dagli spari dei carabineros a entrambi gli occhi. Resterà cieco per sempre. «In Cile, la dignità vale un occhio della testa», recita una scritta di vernice in Plaza Dignidad.
Lo stato di diritto europeo qui non esiste. Pertanto, non si possono applicare le stesse categorie interpretative per capire ciò che avviene. Pasolini ci viene in aiuto quando dice che «chi viene odiato inizia a odiare»: questa è una buona chiave per intendere il clima d’odio che attraversa il paese. Un odio tra manifestanti, polizia, classi sociali.
La violenta repressione delle forze dell’ordine si accompagna con le azioni di resistenza della primera línea, l’avanguardia delle manifestazioni, composta da giovanissimi che costruiscono barricate, affrontano le forze dell’ordine con pietre, fionde e si difendono con caschi e scudi di plastica. Molti di loro provengono da uno dei più grandi fallimenti delle politiche pubbliche cilene, il Sename, «Sistema nazionale dei minori», che dovrebbe prendersi cura dei minori soli, ma che, invece, è un inferno in terra: violenze sessuali, adozioni illegali, vendita di organi. Chi entra al Sename è condannato a una vita di marginalità, dalla quale è quasi impossibile venir fuori. Una parte di questi ragazzi ha trovato nella primera línea un luogo di rappresentanza, scrive la giornalista Carolina Rojas. «Ragazzini cresciuti nella violenza si esprimono con il linguaggio della violenza, impossibile chiedere loro un elenco delle riforme urgenti per il paese», afferma la politologa Javiera Arce. La grande maggioranza dei manifestanti è assolutamente pacifica, ma tra alcuni di loro prevale un sentimento di tolleranza della violenza della primera línea. «Ci proteggono dai carabineros, permettono a tutti di manifestare pacificamente», racconta Marcia, manifestante in Plaza de la Dignidad.
Frustrazione e consapevolezza
La domanda è: perché nel paese più florido e pacifico dell’America Latina, che si vantava di essere il più europeo, è bastato l’aumento di pochi spiccioli del biglietto della metropolitana per far detonare un processo di radicale ripensamento sfociato nell’avvio di una nuova fase costituente? Per lungo tempo considerato un caso di successo tra i paesi latinoamericani, il Cile ha sconfitto la povertà assoluta, ma ha fallito nella redistribuzione della ricchezza. Oggi fa parte del club dei paesi ricchi Ocse e ha un reddito pro capite di circa 24mila $, la soglia attorno alla quale un paese si considera di reddito medio, ma le diseguaglianze sono profonde: il 75% dei lavoratori guadagna meno di 700 $ al mese e la pensione media è di 300 $. Come mostrano i dati Cepal (Comisión económica para América Latina), un quarto del totale della ricchezza è nelle mani dell’1% della popolazione, mentre il 10% concentra il 66% della torta. All’estremo opposto, la metà delle famiglie più povere detiene il 2% della ricchezza.
Per tutti gli anni Novanta, il Cile ha davvero sognato di toccare il cielo con un dito. Il sogno si materializzava in consumi di massa: televisori, case, auto, assicurazioni sanitarie, università per i figli e vacanze, grazie a un sistema di credito al consumo che ha permesso anche alle classi più umili di consumare al di sopra delle proprie possibilità. Così è nata la bolla dell’iper-indebitamento nella quale la famiglia media cilena ha un debito di circa il 75% del proprio reddito. Con il rallentamento della crescita mondiale, il peso del debito è aumentato e si è persa l’idea di un futuro migliore. «I cileni ricchi vivono come i ricchi in Germania, i poveri come in Mongolia», nota Branko Milanovic, ex capo economista della Banca mondiale.
La disuguaglianza tra ricchi e poveri si riconosce anche dal diverso sguardo sul futuro. Le élite cilene hanno sempre a disposizione opportunità personali o di corporazione, mentre i ceti popolari senza aspirazioni collettive e gravati dal peso del debito individuale sono spinti verso l’impoverimento. L’uguaglianza materiale è una delle basi su cui poggia la domanda popolare per una nuova Costituzione.
«Ci trattano come consumatori, non come cittadini», ci spiega Claudia Heiss, direttrice del corso di Scienza politica della Universidad de Chile. La frustrazione è forte soprattutto nei giovani professionisti, cresciuti con la democrazia, che non hanno conosciuto la povertà né la dittatura, e hanno creduto alla promessa della meritocrazia: «Sei padrone del tuo destino, dipende tutto da te». Sono «l’eroe sconfitto del paese. Lavorano in ambiti diversi da quelli per cui hanno studiato, si sono rassegnati a un futuro più piccolo di quello che avevano sognato», li descrive il sociologo Manuel Canales.
«I giovani professionisti frustrati sono la coscienza sociale del movimento popolare del 2019», continua Canales, che ha promosso dei laboratori di ricerca su questo segmento di popolazione. Hanno studiato, affogano nei debiti per pagarsi la laurea, ma è grazie all’educazione se parlano il linguaggio della scienza e della legge, grazie all’educazione hanno preso coscienza dell’ingiustizia di una società dove le relazioni contano più di titoli di studio e sacrifici. Con la protesta del 2019 hanno compreso che il loro malessere non è un fallimento individuale, ma un fatto collettivo. La protesta li ha liberati dal senso di colpa, da debitori sono diventati creditori, chiedono indietro le promesse tradite. «Abbiamo aperto gli occhi», «Ci siamo tolti la benda», spiegano al gruppo di ricerca di Canales. La teoria neoliberista, di cui sono impregnate la Costituzione vigente e la società, non è stata sostituita da un’ideologia diversa. Ma qualcosa è cambiato, si è liberata un’energia, una forza di cooperazione, come nel caso delle ollas comunes, i pasti organizzati dai vicini durante la quarantena. «C’è rabbia e c’è speranza in questi giovani professionisti», conclude la ricerca di Canales.
Provare a inventare un paese
Di cosa è fatta l’energia sprigionata dalla frustrazione dei cileni? Si è posta la stessa domanda Clelia Bartoli, filosofa del diritto presso l’Università di Palermo, che ha raccolto in un libro, «Aquí se funda un país», i suoi studi sul paese. La ricercatrice siciliana ha visitato il Cile durante la rivolta e ha potuto fare esperienza di quella felicità pubblica di cui parlava Hannah Arendt, che nasce dalla scoperta collettiva che ciò che esiste può essere messo in discussione, tentando una riconfigurazione della comunità tramite la comunità stessa. La differenza, spiega Bartoli, è che la felicità privata si gusta solo quando l’oggetto del desiderio è stato conquistato, mentre la felicità pubblica è un processo. L’improvviso moltiplicarsi di iniziative di mobilitazione, resistenza e dibattito in Cile si può spiegare con il fatto che le persone abbiano assaporato l’inatteso piacere dell’agorà. Lo sforzo di trasformare il mondo in un posto migliore è gratificante già in corso d’opera, durante la lotta per raggiungerlo.
«Così, la percezione improvvisa (o l’illusione) che posso agire per cambiare la società in meglio, e che inoltre posso unirmi ad altri con lo stesso obiettivo è, in tali circostanze, piacevole in sé. Per assaporare questo piacere non è necessario che la società venga effettivamente trasformata nel breve periodo: è sufficiente agire come se il cambiamento fosse possibile», ragiona l’autrice. Lo slogan «Chile despertó» è una maniera per descrivere questo insight collettivo: l’eccitante scoperta che la realtà non è un copione già scritto dalle autorità, ma qualcosa di cui si può divenire artefici insieme ad altri.
Il titolo del libro della professoressa Bartoli – Qui si fonda un paese – riprende quello di un’esperienza di teatro di cittadinanza ideata da un gruppo di giovani attori cileni. La performance, che dura un giorno intero, invita gli spettatori a inventare insieme la bandiera, l’inno, le regole, i principi, i diritti e i servizi di uno stato immaginario. «Quando ho chiesto a quei ragazzi e a quelle ragazze come era venuta loro in mente questa idea, mi hanno risposto: “Reimmaginare insieme il paese che vorremmo abitare è esattamente quello che stiamo provando a fare adesso qui in Cile”», racconta Bartoli.
Un processo costituente sui generis
Il processo cileno è interessante anche perché mostra le contraddizioni e le relazioni tra poteri costituiti e il potere costituente. I poteri costituiti sono, nel caso cileno, tutto ciò che era riconosciuto come legittima autorità fino allo scoppio della rivolta del 2019: il governo, i carabineros, il parlamento, la Costituzione del 1980. Il potere costituente è invece Plaza de la Dignidad, una potenza distruttrice del vecchio assetto e creatrice di quello venturo. Esso è, per definizione, indisciplinato ed extralegale. «Nei cambi di sistema, chi si impadronisce del potere costituente stralcia le vecchie norme e permane in una dimensione priva di legge, finché una nuova Costituzione non verrà emanata e, con essa, il nuovo ordine», prosegue Bartoli. Il problema è ciò che avviene nella transizione tra il vecchio e il nuovo ordine. Si pensi al passaggio tra il regime fascista e la Repubblica italiana, nella transizione tra il vecchio potere e la costituente, la resistenza diede vita ad atti extralegali (ad esempio, Mussolini appeso per i piedi a piazzale Loreto), finché, tramite la Costituzione repubblicana, furono reinventate le regole, i principi della comunità e nacque una nuova legittimazione. «ll momento di transizione da un ordinamento a un altro, è il vero scoglio per i filosofi del diritto poiché avviene uno spiazzante sovvertimento del rapporto tra fatti e norme. In tempi di ordinaria amministrazione, la legge giudica i fatti e decreta se questi siano legittimi o meno. In tempi di profonda crisi politica, il rapporto tra regole e realtà si inverte. Sono i fatti che imperiosamente dettano legge alla legge, che determinano l’abrogazione e la sostituzione dei poteri fino ad allora vigenti», spiega Bartoli.
Tornando al Cile, il caso è un unicum poiché il parlamento e il governo – i soggetti titolari dei poteri costituiti – hanno ceduto alla possibilità che si avvii una nuova fase costituente, ma hanno trovato la maniera di indirizzare il potere costituente, mantenendo il controllo della situazione, attraverso l’«Accordo per la pace e la nuova Costituzione» firmato a novembre 2019. È piuttosto scontato che i custodi dello status quo provino a non lasciarsi scalzare, mentre gli insorti tentino di riscrivere le regole del gioco senza i vincoli imposti da chi ha governato fino a ora. «La stranezza del caso cileno consiste quindi nel fatto che i poteri costituiti – che la rivolta popolare addita come illegittimi – siano riusciti a dare norme al potere costituente, ammansendolo e disciplinandolo. Evitando che vi sia quell’intervallo extralegale che solitamente si frappone tra il vecchio e il nuovo corso», conclude la ricercatrice palermitana.
Verso l’Assemblea costituente
L’11 aprile 2021 si terranno le elezioni dei 155 membri della Convenzione costituzionale (Cc), la prima Assemblea costituente con perfetta parità di genere al mondo. Vi saranno anche seggi garantiti per i dieci popoli originari (il 10,8% dei 18 milioni di cileni), tra questi gli Aymara dei deserti del Nord, i Rapanui dell’isola omonima, e il più grande: il popolo Mapuche. Vi è un grande dibattito sulla possibilità di eleggere membri indipendenti dai partiti tradizionali nella Cc, poiché, come spiega lo storico cileno di origini liguri Sergio Grez Toso, «la legge che regola le elezioni per la Costituente è la stessa per il parlamento, favorisce dunque i partiti tradizionali, i quali non devono raccogliere firme per presentare le liste». Ma «il problema non è escludere i politici di professione a favore degli indipendenti, né escludere le élite di Santiago, o che un settore politico schiacci un altro. Il dilemma è come rappresentare proporzionalmente la diversità del paese, dato il clima di diffidenza, le regole e l’iniqua distribuzione di risorse economiche e reti relazionali», afferma il politologo Juan Pablo Luna.
Una volta eletta, la convenzione costituente lavorerà da maggio 2021 a maggio 2022 per redigere la proposta di nuova Costituzione, il testo dovrà essere approvato con 2/3 dell’assemblea – clausola imposta dai partiti di destra per consentire l’avvio del processo costituente – e sarà poi sottoposto a voto referendario di ratifica nell’agosto 2022. Se la proposta dovesse essere respinta, resterà in vigore la Costituzione del 1980.
Il processo costituente è complesso, ma tutto sommato lineare. L’esito non scontato, la domanda di fondo è se si raggiungeranno i 2/3 della Cc per approvare un testo minimo che metta d’accordo tutti sull’essenziale, rischiando così però di deludere le aspettative popolari. O se invece, si possa osare di più, accordarsi su un testo costituzionale più ricco che risponda alle pressanti esigenze di cambiamento che sono venute dal movimento del 2019.
Federico Nastasi
Il popolo dei Mapuche
Combattuti e discriminati (ma mai sconfitti)
Incas e conquistatori spagnoli non riuscirono a sottometterli. Dopo l’indipendenza dalla Spagna, furono traditi. La dittatura di Pinochet non riconobbe mai i loro diritti e li escluse dalla Costituzione. Oggi la scrittura di una nuova carta fondamentale potrebbe dare ai Mapuche un po’ di giustizia.
Tra le mille bandiere che sventolano a Plaza Dignidad, spiccano gli stendardi mapuche: l’unico popolo indigeno che è riuscito a tener testa ai conquistadores, sebbene a carissimo prezzo, e tuttora vittima di plurime discriminazioni. Nella wenüfoye, la bandiera mapuche, è riassunta la cosmogonia di quel popolo: le tre fasce orizzontali rappresentano le diverse dimensioni dell’esistenza (la blu si riferisce a quella celeste, la verde a quella terrestre, la rossa alla dimensione interiore, della natura e dell’uomo); al centro, c’è il tamburo sacro, le cui decorazioni alludono ai punti cardinali e al ciclo delle stagioni.
Cosa simboleggia la wenüfoye per gli insorti cileni? Per intendere il Cile e il momento costituente in atto, è indispensabile comprendere cosa rappresenta il popolo mapuche nella cultura cilena.
Due visioni del mondo opposte
La questione mapuche risale ai tempi della colonizzazione, un conflitto secolare basato su due visioni del mondo inconciliabili: quella europea legata all’idea di progresso, a una concezione del tempo lineare e fondata sulla proprietà privata; e quella mapuche che pensa il tempo in maniera circolare e non conosce l’idea di progredire. I Mapuche vivono in comunità, vedono come un abominio la proprietà privata della terra. Il mapu è la terra, vi sono terre sacre ed è lì che vivono gli antenati. È, dunque, inconcepibile che qualcuno recinti i boschi, mettendoci un cartello «proprietà privata» e separando i Mapuche dai loro predecessori e dalle terre ancestrali del Wallmapu, la terra mapuche.
I Mapuche resistettero prima agli Incas, poi ai conquistatori spagnoli, i quali, non potendoli sconfiggere, nel 1641 firmarono con essi un trattato di pace. Come fece a resistere una popolazione nomade e apparentemente meno potente di altri regni indigeni, i quali invece furono travolti dagli invasori? La forza dei Mapuche sembra stia proprio nell’assenza di un’organizzazione politica centralizzata. Tradizionalmente, questa popolazione si aggregava in nuclei piccoli, sparpagliati e mobili, con una leadership fluida, a metà tra la sfera politica e spirituale. Ciò li avrebbe resi più sfuggenti alla capacità del conquistatore di sconfiggerli, sottometterli o corromperli.
All’inizio del XIX secolo, le diverse comunità indigene ebbero un ruolo determinante nel conseguimento dell’indipendenza cilena dal dominio spagnolo. Ma una volta che la nuova nazione fu costituita, ne furono traditi. Le terre nelle quali i Mapuche e gli altri popoli originari vivevano di agricoltura e allevamento, furono un po’ alla volta vendute «legalmente» o addirittura donate dalla classe dirigente cilena a magnati locali e stranieri e a multinazionali in cambio di appoggio e favori. Da metà Ottocento, i Mapuche si trovarono a combattere contro le truppe del nuovo Cile indipendente. E contro i coloni, migranti europei ai quali era stato promesso un sogno di prosperità, un pezzo di terra e che invece si ritrovarono in mezzo a un conflitto che non conoscevano. Il governo socialista di Allende (1970-1973) avviò una riforma per l’esproprio dei latifondi e la loro statalizzazione o redistribuzione ai contadini e ai popoli originari. La dittatura, sostenuta dai grandi proprietari fondiari, non solo interruppe questo processo, ma varò una controriforma agraria attraverso cui le terre confiscate vennero restituite ai vecchi detentori. E i Mapuche, in gran numero contadini e comunisti, furono tra i primi obiettivi della repressione seguita al golpe.
Le ferite procurate da secoli di conflitti sono profonde: sottomissione, razzismo, conversioni forzate, culture cancellate.
Lo scontro tra stato e movimenti indigenisti è ancora vicenda di cronaca. Uno dei casi che ha destato maggiore indignazione nell’opinione pubblica cilena è stato quello dell’uccisione di Camilo Catrillanca per mano del comando Jungla, una squadra speciale di carabineros, addestrata tra Colombia e Stati Uniti per svolgere operazioni preventive nelle regioni del Bio Bio e dell’Araucania, dove è più presente la popolazione mapuche. Il giovane contadino mapuche è stato freddato mentre lavorava il suo campo, esattamente un anno prima dello scoppio della protesta di Plaza de la Dignidad.
Il «colonialismo giuridico» dello stato cileno
Oggi, nel processo costituente in atto, i Mapuche vedono un’opportunità. Il «colonialismo giuridico» si manifesta anche nella grande omissione della Costituzione, l’unica in America Latina a non menzionare i popoli indigeni. In tal modo non sono tutelate le lingue e le culture, né tantomeno riconosciuti – anche solo parzialmente – gli istituti, le norme e le consuetudini che caratterizzano la vita dei nativi del subcontinente americano fin dall’epoca precolombiana. Ecco perché una delle richieste più condivise della mobilitazione attuale è per una nuova Costituzione «plurinazionale».
«Partecipiamo al processo, vogliamo una nuova Costituzione che riconosca le varie nazionalità presenti in Cile, come è successo in Brasile e Bolivia di recente», spiega Jessica Cayupi, avvocata e portavoce della Rete delle donne mapuche. E continua: «Chiediamo diritti collettivi come popolo: libertà di insegnamento della nostra lingua, di cultura, autodeterminazione. E terre. Non vogliamo essere indipendenti, è un risarcimento per tutto ciò che ci è stato tolto in passato. La nuova Costituzione, scritta con la partecipazione diretta dei popoli originari, è il primo passo».
Una cultura di libertà e dignità
«I Maya e gli Aztechi hanno lasciato templi e piramidi, gli Incas il Cuzco. Perché dovremmo essere orgogliosi della cultura mapuche? – si chiede il filosofo Gastón Soublette -. Sono gli unici che non si sono arresi agli spagnoli. A questa resistenza è dedicato “La Araucana”, poema epico in lingua spagnola della fine del XVI secolo. Ma cosa hanno difeso per tre secoli? La loro cultura materiale era povera, la ceramica banale. L’opera magna dei Mapuche è immateriale: è una cultura di libertà e di dignità umana. I Mapuche sono come il popolo di Israele: non ha lasciato tracce materiali rilevanti, ma ha dato il monoteismo al mondo». Forse anche per questo la wenüfoye è diventata uno dei simboli della grande protesta sociale di fine 2019.
Visione europea e cosmovisione mapuche
In mapudungún (letteralmente, parlare della terra), la lingua dei Mapuche, esistono quattordici verbi per descrivere modi e gradi del risvegliarsi. Questa attenzione meticolosa al passaggio tra sonno e veglia è legata alla cosmovisione di questo popolo. Nella cosmologia mapuche, l’uomo – Wenchu, da wen (cielo) e chu (contrarre; cfr. Diccionario Mapuche), traducibile come «l’uomo è un cielo contratto in un corpo» – cascò dal cielo perdendo i sensi nell’impatto sulla terra. Allora la donna – Dhomo, cioè «lei per la quale siamo di più», poiché dà luce, ma anche perché eleva, risveglia l’uomo – scese dal cielo a risvegliarlo, ma dimenticò di svegliare il cuore. Da allora la missione dell’essere umano è fare in modo che la propria anima torni a essere pienamente vigile e cosciente.
La cultura mapuche, la lingua in particolare, è stata per lungo tempo un elemento di discriminazione. Jessica Cayupi è una warriachi, una Mapuche nata in città. «Sono nata a Santiago in una famiglia mapuche. I miei non mi hanno insegnato il mapudungun, perché non volevano trasmettermi lo stigma di essere indigena. Ho vissuto il razzismo e sono cresciuta con il mito della discendenza europea. Un cognome spagnolo è più prestigioso di uno mapuche. Ma ci si dimentica che gli spagnoli qui arrivavano spesso come uomini soli. Non si sono riprodotti tra loro, hanno trovato le donne indigene, molte sono state violentate. E i battesimi forzati hanno cancellato i nostri nomi. Ci hanno imposto lo spagnolo e la loro religione, cancellando la nostra lingua e la nostra cosmovisione. La nostra cultura è per certi versi superiore a quella europea, che mette l’uomo al centro del mondo. Per noi si deve vivere in armonia con tutte le forme di vita, umane e non. Tutto ha uno spirito. Da bambina litigavo con i miei coetanei quando spezzavano il ramo di un albero per gioco. Per me è un abominio. È superiore alla nostra, la cultura dell’accumulazione e dell’individualismo che ha prodotto il disastro ambientale in atto?», si chiede Cayupi.
Violenza e camion
Nella divisione amministrativa odierna, la Wallmapu corrisponde all’Araucania, la regione più povera del paese dove industrie estrattive, spesso straniere, hanno un comportamento predatorio, distribuiscono poca ricchezza e lasciano siccità e inquinamento. In Wallmapu si respira un clima di violenza latente: zone militarizzate, fondi agricoli protetti dai carabinieri, camion bruciati, blocchi stradali. Ogni tanto la violenza esplode e qualcuno muore. È successo a una coppia di anziani proprietari terrieri, discendenti di europei, bruciati vivi in casa. Ed è successo a diversi Mapuche, colpiti alle spalle dalle pallottole dai carabinieri, i quali hanno poi messo in piedi goffi tentativi di depistaggio.
Ad agosto 2020, numerosi tir hanno bloccato importanti snodi stradali del paese, richiamando alla memoria quanto avvenne nell’ottobre del 1972 (paro de los camioneros), quando quarantamila autisti incrociarono le braccia per quasi un mese. Allora si trattò di un piano per destabilizzare il governo Allende, promosso dal padronato economico e industriale, supportato dagli Stati Uniti di Richard Nixon e Henry Kissinger (come confermano gli archivi Usa desecretati a fine 2020) e realizzato d’intesa con gli apparati militari che, infatti, non intervennero a bloccare la protesta.
La manifestazione degli autotrasportatori del 2020, come quella del 1972, è uno sciopero padronale in quanto promosso dai proprietari dei camion più che dai camioneros stessi. I tir che trasportano i prodotti di quelle aziende sono stati sovente il bersaglio degli attacchi di membri di gruppi radicali mapuche. Le organizzazioni di categoria hanno promosso l’agitazione reclamando e ottenendo maggiori interventi e investimenti per incrementare la sicurezza nelle rotte verso il Sud del paese, nonché drastiche misure repressive nei confronti dei riottosi.
Passata la tormenta dei giorni di protesta di agosto, è tornato il quotidiano: nei disegni dei bambini dell’Araucania, insieme al prato alla casa e al cielo, ci sono gli elicotteri e le camionette dei militari. I figli degli opposti fronti crescono dentro un contesto di violenza. Per fare la pace, conclude Jessica Cayupi, «serve giustizia innanzitutto. Il processo costituente è il primo passo, non l’ultimo. La nostra lotta durerà ancora».
Federico Nastasi
La Chiesa cattolica cilena durante la dittatura
Solidarietà (ma anche connivenza)
La Chiesa cattolica cilena ha conosciuto luci ed ombre. Le prime sono legate alle azioni meritorie della Vicaría de la solidaridad, le seconde ad alcuni scandali per i quali papa Francesco ha chiesto perdono.
Durante la lunga notte della dittatura militare di Pinochet (1973-1990), la chiesa cilena ha vissuto due esperienze completamente diverse, opposte tra loro.
Ha visto nascere la Vicaría de la solidaridad, un centro di aiuto giuridico, di coordinamento dei familiari delle vittime della dittatura, dove la fede si intrecciava con l’azione sociale, spesso con veri e propri atti di eroismo. Contemporaneamente, un’altra parte della chiesa è stata refugium peccatorum dei sostenitori della dittatura, offrendo un porto sicuro a quella parte di società cilena conservatrice che la notte del golpe militare aveva brindato con champagne per celebrare la fine del governo di Unidad Popolar del presidente Allende.
Due sono le figure che rappresentano questa dualità: Fernando Karadima e Raúl Silva Henríquez.
Il Rasputin di Santiago
Fernando Karadima Fariña, sacerdote dal 1958, era il parroco della chiesa El Bosque, nella provincia di Santiago, punto di riferimento delle élite cilene. La sua figura è un enigma nella storia del paese: un uomo «volgare e illetterato» che è giunto a «dominare il settore conservatore della società cilena», diventando il responsabile di molti giovani rampolli di quel mondo. Molti di essi sono poi diventati vittime dei suoi abusi sessuali per anni.
La parrocchia El Bosque era l’opposto della chiesa post conciliare di Medellin e Puebla, ovvero di quella chiesa latinoamericana che univa la fede alla prassi assumendo un ruolo sociale. Il «Rasputin di Santiago» non si preoccupava delle ingiustizie sociali e infantilizzava i fedeli pretendendo sottomissione, minacciando continuamente l’inferno e disprezzando le donne, per le quali era previsto un ruolo di obbedienza e subalternità. L’accesso al paradiso era garantito solo dalla fede cieca ne «El Rey» o «El Santito», come si faceva chiamare Karadima. Assistevano alle sue messe consiglieri di Pinochet, ricchi impresari, ex terroristi di estrema destra, e soprattutto un gruppo di adolescenti fragili, spesso cresciuti senza padre. Quest’ultimo elemento era una delle chiavi che Karadima utilizzava per annichilire quei ragazzi e ottenerne favori sessuali, sfruttando il suo ruolo di padre spirituale e i segreti della confessione. Le vittime avrebbero in seguito dichiarato di essersi sentite colpevoli di aver svegliato in lui il desiderio sessuale, a riprova della pervasività del controllo psicologico del loro carnefice.
Il prete svolgeva poi un ruolo fondamentale: induceva – con ogni mezzo – «la vocazione» al sacerdozio nei giovani. El Bosque era un’oasi nel deserto delle vocazioni che la chiesa cilena stava attraversando. Karadima era il direttore spirituale di giovani brillanti che venivano da famiglie di destra, i quali poi scalavano facilmente le gerarchie. Si stima abbia indirizzato una cinquantina di giovani al sacerdozio e che, grazie a loro, abbia costruito una ragnatela di potere nella nomenklatura ecclesiastica cilena, «una rete di protezione attorno ai suoi abusi, l’alibi della sua perversione», dice Luis Lira (in J.A. Guzmán, G. Villarrubia, M. González, Los secretos del imperio Karadima, 2011). Grazie a questa rete, alla conoscenza degli indicibili segreti di molti prelati e alla sua consuetudine con il potere, Karadima è entrato in relazione con Angelo Sodano, nunzio apostolico in Cile tra il 1977 e il 1988, l’epoca feroce della dittatura militare. Sodano lo avrebbe promosso negli ambienti romani, cercando i suoi consigli nelle nomine dei vescovi. Il punto di contatto tra Karadima e Sodano sarebbe stato Rodrigo Serrano Bombal, funzionario della Dina, la polizia segreta di Pinochet, secondo quanto ha raccontato il medico James Hamilton, una delle vittime del prete, che ha aggiunto: «Karadima era ultra pinochettista».
Sodano era assai vicino alla dittatura di Pinochet. È stato lui a coordinare, nel 1987, la visita di Giovanni Paolo II in Cile. Soltanto nel dicembre 2019, il prelato è stato allontanato da incarichi di responsabilità da papa Francesco, per la copertura che aveva fornito all’ex padre messicano Maciel Marcial, fondatore dei Legionari di Cristo, pedofilo e abusatore seriale.
La ragnatela di Karadima è stata squarciata da una donna: Veronica Miranda. È stata lei, la sposa di James Hamilton, che ha cominciato a rifiutarsi di obbedire agli ordini del sacerdote, il quale l’aveva accusata davanti al marito di essere posseduta dal demonio. È stata lei che prima è riuscita a far parlare il marito in casa, poi ha sporto pubblica denuncia. Quando il matrimonio tra i due si è rotto, i coniugi sono stati inizialmente isolati dal loro circuito sociale e accusati di mentire. Ma ormai il guscio era rotto. Insieme ad Hamilton, molti altri uomini hanno denunciato Karadima per gli abusi subiti. La verità è venuta a galla, nonostante numerosi tentativi di insabbiamento del clero cileno: Karadima (condannato nel 2011 dal tribunale ecclesiastico e nel 2018 ridotto allo stato laicale da Francesco) è stato il punto più evidente di una rete di perversione presente dentro la chiesa cilena.
Il viaggio di Francesco
Nel suo (difficile) viaggio nel paese (15-18 gennaio 2018), papa Francesco ha incontrato una delegazione delle vittime di abusi: «Sento dolore e vergogna per il danno irreparabile causato ai giovani da alcuni ministri della Chiesa. È giusto chiedere scusa e appoggiare con ogni mezzo le vittime, e impegnarsi perché non accada mai più» ha detto il pontefice.
Come si spiega dunque l’enigma Karadima? Come ha fatto un uomo «di tanta poca luce e tante meschine ambizioni» ad arrivare a guidare la spiritualità della élite cilena, a costruire una rete di favori, abusi e silenzi? Lo ha fatto solo «grazie a giganteschi aiuti arrivati dalle convinzioni politiche e morali delle élite degli anni ’80, le quali erano attratte dal suo messaggio semplice: il peccato peggiore è quello sessuale, la salvezza e la bontà si raggiungono pregando in una cappella, senza occuparsi di ciò che accade al di fuori del proprio circolo sociale». Nell’ambiente di El Bosque, la predicazione di Karadima permetteva alle élite di conciliare la ricchezza materiale, la condizione di classe dominante e la fede, dentro un sistema di protezione garantita dalla dittatura militare. Il messaggio di Karadima «riscaldava le loro anime», conclude l’inchiesta del libro I segreti dell’impero Karadima.
L’arcivescovo della Solidaridad
Mentre le élite cilene accorrevano al pulpito di Karadima e si tappavano occhi e orecchie di fronte ai mormorii di abusi e di corruzione, nella stessa città di Santiago vi era un’altra chiesa.
Il 4 ottobre 1973, nel giorno di San Francesco, meno di un mese dopo il golpe militare, è nato il «Comitato di Cooperazione per la pace», promosso dall’arcivescovo di Santiago, Raúl Silva Henríquez, per la chiesa cattolica, insieme ai rappresentanti dell’ebraismo e delle confessioni luterana e ortodossa e alcuni pastori evangelici. L’obiettivo era quello di vigilare in modo stabile sulla violazione dei diritti umani perpetrati fin dal primo giorno dell’insediamento di Augusto Pinochet. Per due anni, questo gruppo ha offerto assistenza sociale e legale ai detenuti, a coloro che subivano le torture e le crudeltà degli agenti del generale.
Nel 1975, a causa delle pressioni della dittatura, il Comitato è stato sciolto. L’arcivescovo Raúl Silva Henríquez ha però reagito chiedendo e ottenendo da Paolo VI la creazione della «Vicaría de la solidaridad».
Così, mentre la repressione di Pinochet non conosceva pause, la Vicaría, grazie alla protezione della Chiesa cattolica, ha potuto continuare il lavoro interrotto del Comitato per la pace. Le sue attività erano divise in quattro dipartimenti: giuridico, del lavoro, agricolo e territoriale, arrivando a impiegare fino a 300 persone, tra giuristi, medici, psicologi e altro personale. Oltre a offrire difesa giuridica, promuoveva attività lavorative e di formazione, pubblicava la rivista Solidaridad, organizzava mense sociali che alimentavano migliaia di persone al giorno durante la crisi del 1982. Ed è diventata il punto di raccolta delle denunce di sparizione, permettendo così di costruire un archivio dei desaparecidos. In almeno due occasioni, nel 1978 e nel 1984, ha promosso eventi pubblici a favore dei diritti umani. Non potendo chiuderla, il governo militare ha provato a più riprese a terrorizzare i suoi membri, tramite minacce, persecuzioni, espulsioni e anche assassinii. Ciononostante, la Vicaría ha continuato ad operare durante tutta la lunga notte della dittatura e si è sciolta solo nel 1992, con il ritorno della democrazia. Oggi esiste una Fondazione che ne conserva l’archivio e ne promuove la memoria.
Due modi di intendere la fede
Raúl Silva Henriquez e Fernando Karadima sono le due facce della Chiesa in America Latina. Nelle differenze tra queste due figure, vi è la differente concezione della fede, del ruolo del pastore, del Concilio Vaticano II, del rapporto con le ingiustizie sociali. Una differenza che ha attraversato la Chiesa latinoamericana nel corso della seconda metà del Novecento e che è tuttora vigente.
Federico Nastasi
Archivio MC
Paolo Moiola, «Buon lavoro, presidenta», maggio 2014;
Paolo Moiola, Il peso della memoria, giugno 2014;
Paolo Moiola, Forse Darwin piangerebbe, luglio 2014;
Paolo Moiola, Eroi e terroristi in un paese ingiusto, gennaio 2011;
C. Meneses – L. Rubino, Dietro i sorrisi, l’ombra del generale, aprile 2010.
Hanno firmato questo dossier:
Federico Nastasi – Dottorando in economia, ricercatore presso il Cepal (Comisión económica para América Latina), giornalista indipendente. Vive in America Latina, tra Montevideo e Santiago del Cile, collaborando con radio, riviste, quotidiani in italiano e spagnolo. Ha raccontato il referendum cileno con la newsletter «Plaza Dignidad – Lettere dal Cile». È alla sua prima collaborazione con MC.
A cura di Paolo Moiola – Giornalista, redazione MC.
Uniti in difesa dell’Amazzonia
testo di Paolo Moiola |
A novembre si è tenuta, a Mocoa (Colombia), la nona edizione del «Foro social panamazónico» (Fospa). Un’occasione per fare il punto sull’Amazzonia e su una situazione complessiva aggravata dalle conseguenze della pandemia.
Il logo del Foro Social Panamazónico (Fospa, in sigla) è particolarmente indovinato. È composto di due profili sovrapposti che, al posto dei capelli, hanno la mappa della Panamazzonia. Il significato implicito è che popolazioni amazzoniche – indigene in primis, ma anche fluviali, contadine e afrodiscendenti – e ambiente naturale debbono essere in simbiosi per poter esistere. Una simbiosi ben descritta nella dichiarazione finale del Fospa del 2017: «Un senso di territorialità basato su rapporti di rispetto e integrazione con il tessuto amazzonico in tutte le sue dimensioni, non solo materiali, ma anche spirituali, culturali e d’uso».
Il cammino del Fospa
Del Foro Social Panamazónico fanno parte organizzazioni laiche e cattoliche (tra queste ultime, Repam, Cimi, Cpt, Fundación Jubileo, Caaap) dei nove paesi che compongono la regione della Panamazzonia. Dalla nascita nel 2001, il Fospa ha tenuto nove incontri: in Brasile (cinque), Venezuela, Bolivia, Perù e infine a Mocoa, nel Putumayo, Colombia. Quello colombiano è stato un incontro virtuale visto che la pandemia non ha risparmiato neppure la Panamazzonia.
Ognuno dei due ultimi incontri si è concluso con un manifesto d’intenti che riassume la filosofia e gli obiettivi dei popoli amazzonici: si tratta della Carta di Tarapoto (2017) e della Carta di Mocoa (2020).
La resistenza contro il modello imperante
Gli aderenti al Foro si propongono di assicurare a tutti una vita degna rispettando la diversità di ogni soggetto nonché di agire congiuntamente per curare e difendere l’Amazzonia.
Cosa essa sia lo descrive bene il manifesto redatto a Mocoa. «L’ecosistema amazzonico – vi si legge – è una giungla di complesse interazioni e saggezza naturale con mega-biodiversità, espressioni naturali e culturali, dalle Ande all’Atlantico. La difesa della giungla implica imparare a conviverci, condividere in comunità le proprie forme abitative, cibo, economia, medicina e saggezza ancestrale; significa promuovere rapporti di rispetto e uguaglianza nelle nostre comunità, sradicare ogni forma di violenza».
In questi anni, l’avversario principe non è cambiato: è un modello di sviluppo definito «estrattivista, depredatore, patriarcale, colonialista e discriminatorio», portato avanti da governi e imprese (Fospa Perù, novembre 2020). Un modello che mette in serio pericolo la sostenibilità ambientale e la sovranità alimentare, aumentando la vulnerabilità agli impatti dei cambiamenti climatici.
In questo scenario, la sovranità e l’autodeterminazione sono sempre più limitate e i diritti sono meno riconosciuti e più violati. Come è successo con lo strumento della consultazione preventiva libera e informata.
«Nonostante ciò, i popoli amazzonico e andino resistono e sopravvivono con l’impegno incrollabile di difendere la vita nei nostri territori», scrive la Carta di Tarapoto (Fospa, 2017).
Neppure il Covid
Ambiente e popolazioni della Panamazzonia non sono stati immuni dalle conseguenze della pandemia. Anzi, l’emergenza ha acuito le problematiche di sempre. Le attività estrattive, i megaprogetti, l’invasione e l’accaparramento delle terre non si sono fermati, moltiplicando il contagio tra le popolazioni amazzoniche.
«In mezzo all’intensificarsi della crisi climatica e sanitaria che colpisce soprattutto le persone povere, le donne e le popolazioni indigene, i governi hanno colto l’opportunità per dettare politiche di “ripresa economica” che avvantaggiano apertamente gruppi finanziari e imprenditoriali. Il confinamento è servito a intensificare i megaprogetti minerari ed energetici, le infrastrutture e l’espansione dell’agrobusiness e dell’allevamento estensivo. Queste misure indicano un momento di massima spoliazione degli elementi vitali per la sostenibilità fisica e culturale di tutti i popoli dell’Amazzonia, rurali e urbani.
A tutto questo si aggiunge la presenza di attività illegali, con organizzazioni mafiose impegnate nel disboscamento, nell’estrazione mineraria, nel traffico di droga e altre che minacciano e assassinano i difensori di Madre Natura, dei diritti territoriali e ambientali.
Sia la Carta di Tarapoto che quella di Mocoa pongono un’attenzione particolare ai più deboli tra i deboli: i cosiddetti «popoli in isolamento volontario e contatto iniziale» (in sigla, Piaci). Si ribadisce la difesa della loro decisione di vivere distaccati dalla società e l’intangibilità dei territori da loro occupati.
«Natura sana, popolazioni sane»
La Carta di Mocoa, documento finale del Fospa del 2020, elenca una serie di obiettivi e proposte in tre macroaree d’interesse: popoli e culture con identità amazzonica, territori e cammini di vita, autonomia e autogoverno.
Nella prima, si legge ad esempio: «Sulla base del principio “natura sana – popolazioni sane”, proponiamo di rafforzare il nostro sistema sanitario basato sulla medicina ancestrale e il riconoscimento di aspetti culturalmente appropriati della salute occidentale».
Si chiede di riconoscere e proteggere gli anziani come garanti della saggezza ancestrale e della memoria culturale, di fronte alla commercializzazione delle conoscenze amazzoniche. E di sviluppare l’educazione comunitaria interculturale per la costruzione di una cittadinanza plurinazionale come popoli amazzonici.
Nell’area territori e cammini di vita, il manifesto del Fospa ricorda di promuovere l’agroforestazione ecologica, l’agricoltura familiare contadina e la gestione comunitaria della giungla e delle foreste, per assicurare la sicurezza e la sovranità alimentare.
Nel campo dell’autonomia, si chiede di valorizzare le iniziative di governo comunitario e le organizzazioni proprie; di valorizzare le unioni meticce (bianchi con indigeni) e mulatte (bianchi con neri) come parte integrante della costruzione sociale del territorio andino-amazzonico; di rafforzare le esperienze della guardia indigena, contadina e afro come protezione dell’Amazzonia e dei processi comunitari.
Tra gli obiettivi prioritari la Carta di Mocoa vede la promozione della «Dichiarazione universale sui diritti dei fiumi» e sull’intangibilità dei bacini, sorgenti d’acqua, fiumi e foreste nei territori dell’Amazzonia, per evitare gli impatti negativi delle attività estrattive, agroindustriali, idroelettriche e delle vie navigabili transnazionali.
Viene inoltre sottolineata l’esigenza che nessun territorio amazzonico sia dichiarato «distretto minerario», rispettando il suo status di soggetto di diritti come riconosciuto dalle normative nazionali e internazionali per la protezione e la cura dell’Amazzonia.
Il manifesto chiede di promuovere campagne e richieste internazionali per comminare sanzioni legali e sociali contro le imprese che violano i diritti umani. Domanda agli stati coinvolti di ratificare e attuare l’accordo di Escazú (firmato da 24 paesi latinoamericani nel 2018, ma ancora inapplicato) per la protezione della natura e dei suoi difensori. Chiede altresì di favorire azioni che promuovano la consapevolezza ambientale in seno alle varie società.
La Carta di Mocoa chiede, infine, agli stati di riconoscere i «diritti della natura».
Le direzioni della storia
Discorsi interessanti e spesso affascinanti, ma – volendo leggere con occhi critici – si tratta forse di un elenco eccessivamente lungo e ambizioso, con proposte a volte troppo generiche, a volte ripetitive.
La filosofia di fondo espressa nel manifesto è però totalmente condivisibile e riassunta nelle poche righe di quest’appello: «Tutto indica che abbiamo perso l’orizzonte della vita ed è necessario recuperarlo con urgenza. Ecco perché l’appello a tornare alle origini, alle nostre radici territoriali e culturali, a correggere in profondità le direzioni che la storia ha preso, in particolare in Amazzonia».
Correggere il cammino della storia è un programma impegnativo, ma dimostra che c’è ancora qualcuno che non si arrende ai vari Bolsonaro, alle imprese minerarie, agli sfruttatori, agli invasori. Qualcuno che ha ancora voglia di combattere per difendere l’Amazzonia e le proprie scelte di vita.
Era il febbraio del 2016 quando per la prima volta ho visitato il «Chin state», un piccolo stato che fa parte di quello che, con il dominio coloniale britannico, era chiamato la Birmania e poi, sotto la dittatura militare, è stato ribattezzato Myanmar.
Gli abitanti del Chin sono di origine sino-tibetana e occupano quella catena montuosa che copre approssimativamente la Birmania (oggi Myanmar) occidentale fino a Mizoram, nel Nord Est dell’India, e piccole parti del Bangladesh. Non costituiscono un unico gruppo, ma hanno tra di loro diverse etnie come Asho, Cho, Khumi, Kuki, Laimi, Lushai e Zomi, ciascuna con la propria lingua appartenente alla famiglia linguistica tibeto-birmana.
Per circa l’80% sono cristiani, mentre la popolazione rimanente è buddhista o animista. Il loro numero in Myanmar è incerto a causa dell’assenza di statistiche demografiche affidabili sin da prima della seconda guerra mondiale. Oggi si stima che ci siano circa mezzo milione di Chin nello stato omonimo e nel Sagaing, nel Nord Ovest del Myanmar.
Poveri e accoglienti
La maggior parte dei Chin vive in villaggi o piccolissime città. Le loro case sono tradizionalmente costruite in legno e appoggiate spesso in maniera precaria su pilastri consumati dal tempo; hanno tetti di paglia e pareti di bambù. Nonostante le loro condizioni di vita siano estreme, i Chin sono sempre disposti ad aprire le porte delle loro case con il sorriso per accogliere i rari stranieri che riescono a raggiungere i loro villaggi remoti. Hanno un desiderio insaziabile di conoscere e scoprire tutto ciò che sta al di là delle loro montagne.
Lo stato di Chin è una delle zone più povere del Myanmar. Più di sette persone su dieci sono sotto la soglia di povertà e circa l’80% delle famiglie vive in condizioni al limite della sopravvivenza e con carenza alimentare. Recenti statistiche stimano che un bambino su dieci muoia entro entro i cinque anni di vita, con un tasso di arresto della crescita infantile pari al 41% e con il 20% dei bambini sottopeso. Basti pensare che qui solo il 15% dei bambini è nato in una struttura sanitaria.
I bambini protagonisti
Nel 2016 Unicef Myanmar mi affidò l’incarico di documentare la campagna di vaccinazione contro la poliomielite appena lanciata. Il team sul campo mi informò della difficoltà del viaggio, soprattutto durante la stagione dei monsoni, quando interi versanti delle montagne franano a valle rendendo le strade impraticabili. Ma la proposta costituiva per me un’opportunità più forte di qualsiasi difficoltà. Mi ritrovai nella capitale dello stato del Chin, Hakha, dopo tre settimane di viaggio estenuante, prima in aereo e poi in auto su strade sterrate, spesso ridotte a pietraie, che si inerpicano sulle montagne al confine con l’India e il Bangladesh. Tracciati di terra di un giallo intenso su strapiombi mozzafiato, con pareti di roccia, spesso segnati da frane, contro le quali lungo tutto il percorso sono pronti scavatori e camion durante tutto l’anno.
Per due settimane sono poi passato di villaggio in villaggio, di casa in casa con gli operatori sanitari per sensibilizzare sui benefici della vaccinazione contro la poliomielite e somministrare i vaccini. Una campagna che ha cercato di colmare i ritardi decennali causati da strutture inadeguate e soprattutto da anni di guerra civile che hanno provocato la fuga e la migrazione di gran parte della popolazione.
Il racconto di Eint
Particolarmente toccante per me fu la testimonianza di Eint, una mamma di sette figli, che con il suo ultimo nato appena vaccinato in braccio, mi raccontò che non avrebbe mai dimenticato quanto era accaduto un anno prima, nell’ottobre 2015, quando suo figlio di circa due anni era stato in condizioni fisiche precarie e, nonostante le medicine, aveva continuato ad avere una febbre persistente. «Un giorno, dopo aver partecipato a una festa nel villaggio dei miei genitori, tornati a casa, notai che mio figlio era febbricitante e cadeva a terra ogni volta che cercava di alzarsi».
Per questo Eint lo aveva portato d’urgenza in ospedale. Dopo la visita medica, «i medici mi hanno detto che era la poliomielite. È stato un momento molto duro e complicato», mi disse Eint. «Mi sentivo una mamma inutile».
Suo figlio era uno delle decine di migliaia di bambini che ogni anno contraggono l’infezione da virus della poliomielite, ma era stato salvato grazie alla prontezza della madre che lo ha portato all’ospedale ai primi sintomi.
La sfida
I servizi di immunizzazione, specialmente nelle aree difficili da raggiungere come lo stato del Chin, rappresenta una sfida per il sistema sanitario del Myanmar. Di conseguenza, i bambini sono meno protetti dai virus. Nei villaggi dove la maggioranza della popolazione è musulmana, ci sono anche barriere linguistiche e culturali che aumentando la distanza tra la comunità e il personale sanitario e i volontari.
La violenza intercomunitaria scoppiata nel 2012 nel vicino stato di Rakhine – dove vivono i Rohingya – ha complicato ulteriormente la situazione e, di conseguenza, i bambini di tutte le comunità corrono rischi maggiori.
Sono stato testimone di come l’Oms, insieme a Ong internazionali e al ministero della Salute del Myanmar, stia cercando di debellare la polio, sia con l’informazione e campagne di sensibilizzazione che con la vaccinazione sistematica in tutto il Myanmar e in particolare nelle aree più remote come Rakhine, Chin, Magway, Bago e Ayeyarwady. Le immagini di queste pagine cercano di documentare l’ambiente nel quale vive la minoranza cristiana Chin e la campagna di vaccinazione rivolta a salvare bambini sotto i cinque anni dalla polio.
Per la Bolivia è stato un anno vissuto pericolosamente. Il paese andino è passato dal golpe del novembre 2019 al ritorno alla democrazia dell’ottobre 2020. Un periodo molto difficile dal punto di vista politico e sociale, complicato anche dalla presenza della pandemia.
Non sarà facile governare il paese. Rimangono divisioni gravi e problemi seri. Eppure, almeno per ora, i boliviani ce l’hanno fatta: dopo un golpe e un anno di governo de facto il paese andino ha scelto il ritorno alla democrazia attraverso un processo elettorale libero, pacifico e molto partecipato.
Nonostante una tensione diffusa e le difficoltà imposte dalla pandemia, le elezioni dello scorso 18 ottobre hanno infatti registrato una grandissima affluenza, pari all’87 per cento degli aventi diritto. Il risultato è stato netto: Luis Arce Catacora, candidato del Mas-Ipsp (Movimiento al socialismo – Instrumento por la soberanía de los pueblos), ha vinto con il 55,1 per cento dei voti, con un vantaggio abissale su Carlos Mesa di Comunidad ciudadana (28,83%) e Luis Fernando Camacho di Creemos (14%). La presidenta de facto Jeanine Áñez e Carlos Mesa hanno subito riconosciuto la vittoria di Arce e del Mas. Cosa che non è avvenuta con Camacho, il leader dell’estrema destra separatista. È facile prevedere che da quest’ultimo arriveranno i maggiori problemi per il nuovo presidente e il suo governo.
Subito dopo la vittoria, il vincitore aveva scritto un tweet sobrio e distensivo: «Siamo molto grati per il sostegno e la fiducia del popolo boliviano. Recuperiamo la democrazia e riacquisteremo stabilità e pace sociale. Uniti, con dignità e sovranità».
Gli anni di Evo Morales
I boliviani – 11 milioni di persone di cui circa il 60 per cento indigeni (Aymara, Quechua e altre 34 etnie minori) – hanno scelto la continuità con i quasi 14 anni (gennaio 2006 – novembre 2019) di governo di Evo Morales, il primo indigeno eletto presidente.
I meriti di Evo Morales sono indubitabili, a iniziare dal riscatto e dall’inclusione sociale dei popoli indigeni. Con lui questi ultimi hanno riconquistato dignità e orgoglio, pure sulla scia delle tutele introdotte dalla nuova carta costituzionale, in vigore dal febbraio 2009. Anche in campo economico i risultati raggiunti sono stati estremamente lusinghieri.
È altrettanto certo che Evo Morales abbia commesso alcuni errori: sul tema della coltivazione della foglia di coca, sul parco nazionale del Tipnis, sulla gestione dell’Amazzonia boliviana. Probabilmente, il suo sbaglio più grande è stato però quello di forzare la mano per un nuovo mandato presidenziale (sarebbe stato il quarto). Detto questo, il golpe contro di lui del novembre 2019 e il (pessimo) governo de facto che ne è seguito non hanno avuto nulla a che vedere con la democrazia.
In questo momento, l’ex presidente, rientrato in patria dopo l’esilio prima in Messico poi in Argentina, ha sulle spalle una serie impressionante di accuse: dal terrorismo fino alla pedofilia e allo stupro. A tal punto che anche l’organizzazione Human rights watch, pur non lesinando critiche ai suoi anni di governo, nel rapporto «La giustizia come arma» (dell’11 settembre 2020) non ha esitato a etichettare come persecutorie e politicizzate le iniziative giudiziarie contro di lui.
Dopo la vittoria elettorale del 18 ottobre, ci si interroga su un eventuale ruolo politico di Morales. Tuttavia, se è vero che l’ago della storia boliviana non si è spostato a destra e il Mas è tornato centrale, è altrettando vero che oggi i protagonisti sono altri.
L’oggi di Luis Arce
Il nuovo presidente è Luis Arce, nato a La Paz nel 1963 da una famiglia di insegnanti. Economista, Arce è stato funzionario pubblico, professore universitario e soprattutto ministro dell’economia sotto Evo Morales. Durante il suo lungo operato come ministro (interrotto soltanto per curare un tumore), l’economia boliviana è cresciuta in maniera sorprendente (una media del 4,9 per cento all’anno) e soprattutto ha visto la drastica riduzione del tasso di povertà. Il tutto nell’ambito di una politica economica contraria al pensiero unico neoliberista e iniziata – era il maggio del 2006, primo governo Morales – con la nazionalizzazione del petrolio e del gas.
Al fianco di Arce, come vicepresidente, ci sarà David Choquehuanca, già ministro degli esteri, ex sindacalista e soprattutto aymara, caratteristica importante per quella parte di indigeni boliviani scontenta di aver lasciato la presidenza a un bianco (meticcio, a voler essere precisi).
Dal gas al litio
A parte la presenza di grandi bellezze culturali e naturali (dalle Ande all’Amazzonia), che cosa rende la piccola nazione latinoamericana strategicamente rilevante? La Bolivia del 2020 non è più soltanto il paese con giacimenti di gas (importanti, ma in rapido calo). È anche e soprattutto il paese con le più grandi riserve di litio al mondo, precedendo Argentina e Cile, come dimostrano tutte le principali rilevazioni geologiche (fonte Bbc). Il litio è il metallo del presente e del futuro se si considera che esso è componente essenziale delle batterie delle auto elettriche (oltre che di cellulari e vari dispositivi elettronici). Con l’elezione di Arce pare esclusa la privatizzazione della Yacimientos de litio bolivianos (Ylb), la compagnia statale che tratta il prezioso metallo. Tuttavia, il neopresidente non dovrà cadere nell’errore di puntare sull’estrattivismo, affidandosi cioè a una politica di semplice sfruttamento ed esportazione delle materie prime. La sfida è la creazione di una industria nazionale e la ricerca di una (difficile) compatibilità ambientale.
La foglia di coca e la mezza luna bianca
Come per tutti i paesi amazzonici, anche in Bolivia la preservazione dell’ambiente è, e sarà, un tema fondamentale. Finora l’Amazzonia boliviana (che interessa il 44 per cento del territorio) non è stata difesa in maniera adeguata, ripetendo gli errori dei paesi vicini (disboscamento ed espansione della frontiera agricola).
Il nuovo presidente dovrà affrontare anche la controversa questione della produzione della foglia di coca e il problema dei rapporti con la regione chiamata Media Luna (Mezza Luna, per via della sua forma).
La foglia di coca è parte della cultura boliviana e come tale protetta dalla legge (articolo 384 della Costituzione). Il problema nasce dalle quantità prodotte e dal loro uso. Secondo l’agenzia delle Nazioni unite contro la droga (Unodc), nel 2019 la Bolivia ha aumentato del 10 per cento le sue coltivazioni di foglia di coca (stimate in circa 25mila ettari). Nel paese il consumo di coca è legale per alcuni usi (infusione, rituali religiosi andini e mascado, la sua masticazione). Il problema è dato dal fatto che la Bolivia è anche il terzo produttore mondiale di cocaina dopo la Colombia e il Perù.
Quanto alla regione della Mezza Luna, essa comprende le pianure orientali del paese e quattro dipartimenti (Santa Cruz, Pando, Beni e Tarija). È abitata da una popolazione bianca o meticcia. Si tratta della regione più ricca della Bolivia per via dell’agricoltura estensiva, dell’allevamento. e dei campi petroliferi, che nel 2006 Evo Morales riportò – attraverso la compagnia pubblica Ypfb – sotto il controllo dello stato, con grandi proteste delle compagnie private e della comunità internazionale neoliberista.
Queste diversità hanno prodotto nella regione la nascita di un forte movimento separatista (Nación Camba), reso ancora più aggressivo dall’arrivo al governo del Mas. Proprio da Santa Cruz de la Sierra, capoluogo politico della Mezza Luna, arriva il personaggio dell’opposizione più controverso, sicuramente pericoloso: quel Luis Fernando Camacho giunto terzo nelle elezioni di ottobre. Cattolico fondamentalista (ma che strizza l’occhio agli evangelici), durante i suoi comizi era solito ripetere: «Dios va a volver a Palacio». E così ha fatto, rispettando tutti i canoni della visibilità mediatica: domenica 10 novembre 2019, in concomitanza con le dimissioni (forzate) del presidente Morales, Camacho è entrato a Palazzo Quemado, sede del governo a La Paz, e si è inginocchiato davanti a una Bibbia, aperta al centro di una bandiera boliviana. Due giorni dopo è stata la senatrice Jeanine Áñez, appena proclamatasi presidenta ad interim della Bolivia, ad affacciarsi al balcone del palazzo mostrando la Bibbia alla folla assiepata nella piazza sottostante.
Un anno dopo, alle elezioni del 18 ottobre 2020, la bianca Áñez si è ritirata, mentre il bianco Camacho si è piazzato molto lontano da Arce e Mesa, raccogliendo però parecchi voti nei dipartimenti della Mezza Luna.
Cosa l’estremista Camacho vorrà fare di quel consenso è una questione rilevante per il futuro del paese andino.
«No hay plata»
In una riunione tenuta pochi giorni prima di assumere la guida del paese, Arce e Choquehuanca hanno affermato che dovranno ridurre il numero dei ministeri perché «no hay plata» (non c’è denaro). Il vicepresidente ha polemicamente aggiunto che il governo transitorio è venuto per «assaltare» invece che per «governare».
A proposito di ricchezze, in «Le vene aperte dell’America Latina», il compianto Eduardo Galeano parla molto della Bolivia e del suo «aver nutrito la ricchezza dei paesi più ricchi». Proprio per il suo passato di dipendenza e sottomissione, oggi per il paese andino la cosa più importante è proseguire lungo la strada che assicuri un’esistenza degna a tutti i suoi abitanti e una reale sovranità nazionale.
Insomma, per il nuovo presidente Luis Arce governare la Bolivia si prospetta più impegnativo di quanto non sia stato vincere le elezioni.