La notizia – una grande notizia – è arrivata nel tardo pomeriggio di giovedì 21 settembre. Ed è la seguente: il Supremo tribunale federale (Stf) del Brasile, il più alto organo del potere giudiziario, il «guardiano della Costituzione federale» del paese latinoamericano, ha respinto la tesi (discussa dal dicembre del 2016) conosciuta come «marco temporal» e sostenuta dal potente fronte dai rappresentanti dell’agrobusiness e dei latifondisti (e dai parlamentari riuniti attorno alla «bancada ruralista»).
Questa tesi si fonda su un’interpretazione forzata e interessata dell’articolo 231 della Costituzione federale promulgata il 5 ottobre del 1988, articolo che recita: «Agli indigeni sono riconosciuti organizzazione sociale, costumi, lingue, credenze e tradizioni, nonché i diritti originari sulle terre che tradizionalmente occupano, essendo l’Unione responsabile per delimitarle, proteggere e garantire il rispetto di tutti i loro beni». Secondo i sostenitori del marco temporal, sarebbero terre indigene soltanto quelle da loro effettivamente occupate all’atto della promulgazione della Costituzione, il 5 ottobre 1988. Le terre restanti sarebbero disponibili, cioè libere da pretese indigene. Detto in altre parole, il marco temporal mirava a cancellare in toto la storia indigena precedente a quella data, una storia fatta di allontanamenti dalle terre e usurpazione delle stesse.
Finalmente, dopo anni di dibattito, l’Stf, formato da 11 membri (qualificati con il termine di ministri), ha respinto con 9 voti contro 2 il progetto del marco temporal. Hanno votato a favore di questo i due rappresentanti (Nunes Marques e André Mendonça) legati a Jair Bolsonaro, a dimostrazione di quanto fosse reale l’accusa di essere anti indigeno formulata verso l’ex presidente.
La vittoria del 21 settembre è frutto in primis della grande mobilitazione dei popoli indigeni brasiliani (riuniti soprattutto attorno ad Apib, Articulação dos povos indígenas do Brasil) ma anche del loro sostegno da parte di organizzazioni come il Cimi (Conselho indigenista missionário) guidato da dom Roque Paloschi e l’Isa (Instituto socioambiental). La cancellazione del marco temporal è un passo fondamentale, ma la lotta per l’affermazione e il rispetto dei diritti dei popoli indigeni sarà – questa è una certezza – ancora lunga e difficile. In Brasile, come nel resto del mondo.
Paolo Moiola
Noi e Voi, dialogo lettori e missionari
«Grande cuore» è andata in Cielo
«Ltau sapuk» (cuore grande), questo il nome dato dai Samburu a Mirella Menin (1941 – 2023), la laica missionaria di Collegno (Torino) che in tanti abbiamo conosciuto nei suoi viaggi in Kenya per oltre quarant’anni e per il suo infaticabile lavoro e dedizione per aiutare i più poveri e i bambini in particolare. Il Signore l’ha chiamata a sé il 29 maggio 2023 in modo inaspettato.
La sua vita è stata un vulcano di iniziative, attività, incontri, viaggi. Tutto fatto con passione, dedizione missionaria e spirito profetico. Oltre all’esperienza del Kenya aveva vissuto anche quella in El Salvador negli anni in cui era vescovo san Oscar Romero che lei accompagnava nei villaggi dei campesinos e che ha visto morire, ucciso, mentre celebrava l’Eucarestia.
Mirella tante volte era scomoda perché diceva la verità senza mezze misure e con coraggio. Aveva «fame e sete di giustizia» come è scritto sul ricordino del suo funerale.
Durante il rosario che si è pregato nella sua parrocchia di Collegno (To), la sera prima del funerale, il parroco, don Teresio Scuccimarra, ha voluto fermarsi su quattro misteri e momenti evangelici vedendone la realizzazione nella vita di Mirella: il suo amore ai bambini, la cura e assistenza delle persone con handicap psichici, il suo desiderio di giustizia ricordando la sua esperienza in El Salvador e la dedizione alla sua comunità.
Mirella, nel suo «darsi da fare» per la missione, ha raccolto e donato molto. Come dice l’Allamano, è stata un canale che ha fatto sempre scorrere ciò che riceveva senza trattenere nulla per sé, vivendo la sua vita nella semplicità ed essenzialità. Ha compiuto le «opere più grandi» (Gv 14,12) che Gesù ha promesso ai suoi discepoli perché era una donna di fede, una fede non bigotta, ma tenace e concreta. La fede che sa vedere Gesù in ogni persona, che ha compreso e vissuto il «tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt 25,40).
Per tutto questo, e per quello che lei è stata, le siamo grati.
Completiamo queste note con due testimonianze significative che sono state lette al suo funerale: quella di Agata Lekimencho, già catechista a Maralal, e quella di mons. Virgilio Pante, vescovo emerito di Maralal.
padre Michelangelo Piovano, Torino 03/05/2023
Omaggio alla nostra amata mamma Mirella
È con profondo dolore e tristezza che abbiamo appreso la notizia della scomparsa della nostra grande amica e madre.
Per noi Mirella è stata una madre amorevole che ha condiviso con noi tutta la sua vita qui nel Samburu: soldi, tempo, vestiti, e persino il sapone e prodotti di igiene personale.
Molti hanno potuto studiare grazie al sostegno economico che proveniva dal suo grande cuore. Si occupava delle spese ospedaliere ed era sempre preoccupata per il benessere delle persone bisognose.
Ha sostenuto le spese per l’educazione di oltre 250 bambini che, grazie a quello, hanno poi aiutato a migliorare il tenore di vita delle loro famiglie. Alcuni ora sono insegnanti, dottori, meccanici, falegnami, ecc. Ha anche aiutato i loro genitori che hanno potuto iniziare attività che hanno permesso loro di avere una vita dignitosa.
Mirella ha davvero toccato vite e le sue azioni si vedranno per sempre nelle nostre comunità. È stata mandata dal cielo e nessuna parola può descrivere appieno il suo amore per l’umanità.
Nonostante le condizioni ambientali qui da noi siano molto dure, il suo grande cuore compassionevole la faceva camminare instancabilmente per visitare i malati, gli anziani e le persone meno fortunate e i bambini nei villaggi e nelle scuole.
Le piaceva passare il tempo con i bambini, giocare e scattare foto insieme con loro. Mirella era una specie di figura che senti di volere sempre vicino.
Abbiamo davvero visto come Dio usa le persone per aiutare gli altri, Mirella era davvero una sua serva.
Ltau sapuk, riposa in pace. Ci mancherai senza dubbio. Mentre riposi, prega per noi di emulare il tuo cuore in modo che possiamo anche noi aiutare gli altri nel modo in cui tu hai amato.
da Agata Lekimencho tutore dei bambini Maralal, Samburu, Kenya
Ciao, Mirellona
Mirella, che io chiamavo Mirellona, è entrata nella mia vita una quarantina di anni fa, durante i suoi viaggi in Kenya. Un dono di Dio per me e per tanti altri, specialmente i più poveri della società. Aveva un cuore grande, sempre al servizio degli ultimi.
Per me prete missionario e poi vescovo, era una sfida e una voce profetica, molto scomoda. Sia in America Latina che in Africa ha mandato «milioni» per sfamare e per far studiare i più svantaggiati del mondo.
Sapeva anche essere affettuosa, sotto una scorza dura, e si commuoveva per i piccoli, i disabili mentali (ne sanno qualcosa quelli della casa di Collegno che ha servito con amore per tanti anni).
Mirella non sapeva misurare le parole contro le ingiustizie e le falsità nella società e, talvolta, nella chiesa stessa.
Ciao Mirellona. Grazie di avermi incontrato nella vita. Ci ritroveremo in Paradiso circondati dal sorriso dei piccoli.
+ Virgilio Pante 01/05/2023, Maralal, Kenya
Creazione da reinterpretare?
Leggo sempre con molto interesse la rubrica «Camminatori di speranza» del biblista Angelo Fracchia. Mi sembra di capire che egli tenti di spiegare la maggior parte dei cosiddetti miracoli in chiave naturalistica, essendo il primo aspetto frutto della mentalità del tempo di redazione. Alla luce dell’accettazione sempre più profonda delle coppie omogenitoriali da parte di varie correnti cristiane, della Chiesa Valdese e della stessa Chiesa cattolica, dobbiamo forse aspettarci una rilettura dell’atto di creazione della donna come atto di creazione di una persona a cui ciascuno attribuisce il sesso che desidera?
Grato dell’attenzione porgo cordiali saluti.
Saverio Compostella 01/04/2023
Abbiamo girato la domanda ad Angelo Fracchia. Ecco la sua risposta.
Ringrazio intanto della generosa attenzione. Provo a rispondere in tre punti.
1) La lettura «naturalistica» dei miracoli è in effetti quella preferita oggi, per ragioni anche culturali, in quanto fatichiamo ad ammettere la presenza di eventi inspiegabili, laddove l’antichità era molto più pronta ad accoglierli. L’interpretazione preferita dall’approccio storico critico è tuttavia quella che cerca di cogliere che cosa un testo antico volesse effettivamente significare, al di là delle interpretazioni e premesse culturali di chi scriveva.
2) Leggere in questo modo il racconto della creazione della donna in Gen 2 porta a cogliere che il cuore di quell’episodio è individuare come fondamentale per gli esseri umani non solo un rapporto verso l’alto (con Dio) e il basso (con gli animali, la creazione), ma anche alla pari, in una relazione che è segnata dall’affinità («osso delle mie ossa, carne della mia carne») e insieme dalla chiara differenza (a essere chiamati a diventare «una carne sola» sono «i due»).
3) Restando dentro la logica del testo, a porre come differenti e complementari i due è l’opera divina, ossia qualcosa che gli esseri umani non decidono. Ci sono molti aspetti della nostra esistenza che semplicemente ci troviamo a gestire (dove e da chi nasciamo, il nostro aspetto, persino il nostro carattere…) senza averli scelti.
Consapevolezza culturale e ascolto di situazioni umane complesse portano anche le chiese, sempre più, a rendersi conto che la stessa condizione omosessuale, o come ci si percepisce, sono un «dato» non scelto da chi la vive. Per questo si sta uscendo dalla condanna di persone che sono autenticamente in questa realtà, perché se non c’è scelta non c’è colpa. Non è però che queste persone abbiano «deciso» di essere come sono. Piuttosto, si tratta di riconoscere chi siamo e decidere come gestire questa nostra esistenza che non abbiamo stabilito noi.
Poi, dal rispetto e accoglienza piena di una persona omosessuale e della sua dimensione di compimento di sé non consegue per forza accettare l’omogenitorialità. È altra cosa che merita di essere rimeditata con calma, ricordandoci che nel generare, il centro non sono i genitori, ma i figli.
Angelo Fracchia 13/05/2023
È chiaro che la questione dell’omogenitorialità è tutt’altro che semplice, con differenze profonde a seconda che si tratti di una coppia gay o lesbica. La posizione della Chiesa, ribadita sia nel Catechismo che nel Compendio della dottrina sociale della Chiesa cattolica, è che le unioni di fatto (tra persone omosessuali) non sono equiparabili al matrimonio tra uomo e donna.
Ovvio che non è questo il luogo per approfondire il tema. A noi sta certamente a cuore il rispetto e l’amore per ogni persona, contro ogni discriminazione di sesso, etnia, cultura, posizione sociale o colore della pelle.
Assalto all’occidente?
Buon giorno,
qualche parolina su cosa dobbiamo imparare dagli indigeni oceanici. Il timore reverenziale verso la natura era terrore degli spiriti che popolavano le foreste i fiumi le montagne. Ma ciò non impediva loro di praticare l’infanticidio quando la foresta aveva esaurito i frutti, di torturare i nemici o stranieri, straziandoli in modo indicibile (i sopravvissuti rimanevano terrorizzati per giorni e giorni), e non diciamo degli stupri, incesti, cannibalismo, promiscuità, ecc. comuni a tutti i primitivi, compresi i popoli amazzonici, campioni di orrori anche peggiori.
Se l’uomo bianco non avesse lavorato modificando la natura infida del caos primordiale, non ci sarebbe nulla sulla terra, né case confortevoli, né elettrodomestici, e cibo ogni giorno dell’anno, scuole, ospedali, strade, neanche i giornali da cui parlate, ecc.
Tutto ciò che chi non è occidentale invidia vorrebbe possedere senza aver mai lavorato, e tenta di depredare insozzando i luoghi in cui vengono accolti per amore fraterno, ma i fratelli uccidono e restano impuniti, vedi Caino.
La povertà materiale si combatte col lavoro, attività sconosciuta per gran parte di africani, indios, asiatici i quali sono ai primi posti per omicidio, stupro, spaccio di droga violenza contro le donne e i bambini, abbandono dei deboli e malati, terrorismo, conflitti tribali, ecc., bei regali del terzo mondo che non si sviluppa soprattutto in etica.
La natura non ha moralità (papa Wojtyla) e chi vive in armonia con essa diventa una bestia. A questa bestia si stanno avvicinando gli europei. Da quando amano la natura infatti sono diventati animalisti, sodomiti legalizzati (pratica diffusa tra i selvaggi), abortisti gratuiti e altre aberrazioni tipiche di questi individui non certo buoni, miti e innocenti.
I volontari continuano ad essere uccisi. Nonostante il Vangelo la luce è ancora lontanissima. Se scompare la cultura occidentale (ancora in maggioranza buona) sarà la fine per tutti, ma siamo a buon punto verso l’abisso grazie alla vile sovrappolazione di Africa, Asia, America Latina, ricchi di risorse ma non di gente che lavora cioè i maschi le donne sono oberate di tutto e nessuno le protegge. Saluti.
Gli occidentali email di L.V., 29/04/2023
Forse lo spunto di questa email è stato il nostro articolo sul Pacifico come Territorio di caccia (MC 4/2023, p. 10). Sarebbe stato un testo da ignorare, ma non è stato possibile visto che assurdità simili sono oggi anche sulla bocca di politici con responsabilità di governo.
Molte delle accuse fatte ai popoli indigeni sono quelle che, nei secoli, hanno giustificato il colonialismo e anche la cosiddetta «civilizzazione cristiana». In realtà oggi possiamo tranquillamente dire che sono pure fandonie per giustificare una pseudo superiorità culturale e morale che, di fatto, noi occidentali non abbiamo.
Primo. Cocktail di etnie.
Noi occidentali (e noi italiani, in particolare) esistiamo perché siamo il risultato di un’incredibile mescolanza di etnie diverse: dagli indoeuropei agli schiavi nordafricani, asiatici e nordici che i Romani importavano a migliaia; dai popoli dell’Est (Unni, Longobardi, Mongoli, Slavi e affini), che hanno invaso o trovato casa nelle nostre pianure, ai «mori» che hanno scorazzato per anni nelle nostre valli e razziato le nostre coste.
Secondo. Violenze.
Quanto a violenze ed efferatezze non siamo secondi a nessuno. Basta ricordare l’Olocausto, la bomba atomica, la schiavitù praticata per secoli e che, pur ufficialmente abolita, continua di fatto in tantissime fabbriche delocalizzate e con la tratta di persone per lavoro nero, prostituzione e pornografia, il colonialismo che ha espropriato tanti popoli delle loro terre e delle loro risorse, il cambiamento climatico in corso causato dal nostro stile di vita, il traffico di armi, le guerre dirette e per procura, fino all’attuale follia in Ucraina.
Terzo. Lavoro.
Siamo davvero sicuri che il nostro modo di lavorare sia il migliore e il più umano? Lavoriamo davvero per vivere meglio e creare un mondo più bello o per avere sempre di più anche sulla pelle degli altri e a spese dell’ambiente?
Quanto a tutto il resto: davvero possiamo vantare superiorità su altri popoli e culture? E circa la fola della sovrappopolazione come minaccia per la nostra etnia, siamo seri per favore. Siamo noi che stiamo scegliendo di morire, rifiutandoci di fare figli.
Senza dire del presunto piano di islamizzazione dell’Europa tramite l’invasione degli immigrati. Fosse vero, basterebbe che i cristiani nominali dell’Occidente tornassero a praticare una fede sincera.
Nove anni con i Warao
Missionario argentino, ha lavorato lungamente tra i Warao, popolo indigeno del Delta Amacuro, in Venezuela. Da qualche mese opera a Boa Vista, Roraima, dove molti indigeni sono immigrati, spinti dalla necessità e per iniziare (o provare a iniziare) una nuova esistenza. In queste pagine, padre Juan Carlos Greco ricorda gli anni trascorsi nelle loro terre.
Da quest’anno sono a Boa Vista, nello stato brasiliano di Roraima. Nei precedenti nove anni ho vissuto tra i Warao del Venezuela, quasi sempre nel loro habitat tradizionale: i canali del rio Orinoco, nello stato del Delta Amacuro. Oggi, i Warao si possono incontrare in paesi inaspettati – da Cuba a Trinidad e Tobago -, luoghi spesso raggiunti dopo viaggi avventurosi.
Gli anni trascorsi in mezzo a loro mi hanno lasciato un piacevole ricordo e molteplici insegnamenti che sarebbero sufficienti per scrivere un libro. In queste pagine, però, mi limiterò a evidenziare alcuni pensieri e sentimenti legati a quelle che io chiamo «le tre “o”» dei Warao: oralidad, oyentes y orgullo, che, in italiano, diventano «oralità, ascoltatori e orgoglio».
Il «quaderno dei ricordi»
La vita di un Warao tradizionale – «morichalero», come dicono alcuni – si svolge nell’immediatezza, il che implica un modo di concentrarsi sul lavoro di coltivazione dell’ocumo cinese1, sull’estrazione dei prodotti del moriche2, sull’uscita in canoa a pescare. Tutto ciò potrebbe sembrare qualcosa di paradisiaco. Tuttavia, la realtà dei Warao non è così idilliaca, visto che i problemi da affrontare sono tanti.
La distanza che separa un villaggio dall’altro, l’assenza di acqua non contaminata (potabile), la carenza di cibo, sono solo alcune delle difficoltà che essi devono affrontare.
Qualcuno ha detto che è molto difficile ascoltare una storia o raccontarla quando si ha fame, e la fame, purtroppo, riguarda tante comunità warao del Venezuela.
Sono sempre meno gli anziani che, al mattino o alla sera, si siedono per raccontare storie ai loro figli o nipoti. Alcuni ricordano i miti solo quando arrivano persone non indigene che li stimolano a ricordare. Sicuramente, alcuni aidamos (anziani, soprattutto uomini) e i wisiratu (figure simili agli sciamani) sono ancora attenti a mantenere viva la tradizione perché sono consapevoli che è l’unico modo per i Warao di conservare la propria memoria: il pensiero è come un quaderno, dove la storia può essere «scritta» in modo che sia costantemente ricordata. Insomma, nonostante l’oralità stia perdendo terreno di giorno in giorno, essa rimane ancora un elemento centrale della cultura warao.
Nel nostro contesto postmoderno l’oralità passa attraverso l’uso dei media (whatsapp, messaggi, zoom, ecc.) e, soprattutto dopo la pandemia, è diminuita quella «faccia a faccia». Quanto investiamo in questo tipo di scambio di conoscenze? Quanto le nuove generazioni apprezzano questa modalità di comunicazione? L’uso che facciamo dei media, il tempo che dedichiamo a essi, il mondo dell’intelligenza artificiale, ci stanno rendendo più cibernetici ma meno civilizzati. Imparando dall’oralità tradizionale warao una persona viene arricchita e si mette in discussione.
L’orgoglio dei Warao
Il Warao è orgoglioso della sua capacità di ricordare cose ed eventi attraverso la ripetizione di storie e miti. Compone narrazioni, le varia, per comprendere e dare un significato «logico» all’esistenza e alle sue esperienze. Le storie raccontano il moriche (albero madre), il morocoto (pesce preferito per il cibo), la janoko (la palafitta, la casa del Warao), il giorno, la notte e gli altri elementi della vita di ogni giorno. Ma storie e miti servono anche a comprendere la causa dei bisogni attuali, oltre a confrontare il mondo warao nei tempi antichi con quello presente, pieno di cambiamenti e circostanze avverse che essi attribuiscono a eventi soprannaturali, a punizioni divine, conseguenze della disobbedienza di qualche individuo o famiglia.
I miti parlano di personaggi fantastici che sono reali per il narratore, così come perfetti sono il tempo e lo spazio che, nella suspense della narrazione, paiono infiniti.
Il clima di attenzione che si crea quando la persona sta narrando è straordinario: gli ascoltatori rimangono attenti alla storia vivendo ogni suo dettaglio.
Il silenzio circostante è rotto soltanto dalla voce del narratore, attraverso la quale ciascuno dei personaggi prende vita, mentre il pubblico immagina volti, voci, gesti, azioni.
I bambini sono attenti, alcuni seduti sul pavimento, altri sulle amache, mentre le donne allattano i più piccoli cullati dal suono morbido della voce.
Mi è capitato che un’unica storia, di quelle che venivano narrate a messa dopo la comunione – specialmente in comunità come Muhabaina de Araguao – durasse il doppio della mia omelia.
Ascoltatori
Quando visitavamo le comunità ed esprimevamo il desiderio di ascoltare i loro miti, coloro che sapevano mostravano con orgoglio le loro conoscenze. La janoko dove si svolgeva l’incontro si riempiva con decine di bambini, giovani e persino anziani che ascoltavano attentamente la storia raccontata. Alla fine gli ascoltatori rimanevano a riflettere su quanto appreso, altri sorridevano a qualcosa di umoristico, altri si rattristavano per una storia pietosa. Miti o racconti educativi (deneabu) non vengono spiegati e finiscono quando lo stabilisce l’oratore. Sono i creoli (jotarao) a pretendere che, dopo la storia, essa sia ampliata, spiegata o che continui in un’altra forma.
Per i Warao, invece, termina lì, ma tornerà nella loro mente in un altro momento per trarre conclusioni o applicazioni pratiche (il saggio è colui che tira fuori dal baule dei ricordi ciò che è utile per la sua sopravvivenza).
Sono innumerevoli le esperienze che si vivono ascoltando i miti dalla voce di uomini e donne saggi che ancora li ricordano, portando quegli eventi nel qui e ora, come se li facessero rinascere.
Paternalismo versus compassione
Alcune frasi di Eduardo Galeano, il grande scrittore uruguaiano, mi hanno fatto riflettere.
«C’è chi crede che il destino poggi sulle ginocchia degli dèi, ma la verità è che agisce, come una sfida ardente, sulle coscienze degli uomini».
Parte della missione sarà cercare di pensare, nello stile warao, che il nostro futuro dipende soprattutto dal nostro sforzo, non dal caso o dall’intervento divino e non si può sempre aspettare passivamente le azioni paternalistiche dello Stato o delle Ong.
«C’è solo un luogo – ha scritto sempre Galeano – dove ieri e oggi si incontrano, si riconoscono e si abbracciano. Quel posto è domani». Occorre ampliare la visione del futuro, che, in generale, nella maggior parte delle popolazioni indigene, è piuttosto breve, ancora di più nel contesto dell’immigrato o del rifugiato.
Partendo dalle tre «o», occorre aiutare a capire che «colto non è colui che legge libri. Colto è colui che è in grado di ascoltare l’altro», di unire comunità e famiglie warao negli insediamenti, occupazioni, rifugi e ovunque essi si siano spostati.
A livello missionario, occorre comprendere sempre di più che, come ha sentenziato lo scrittore uruguaiano, «la carità è umiliante perché si esercita verticalmente e dall’alto; la solidarietà è orizzontale e implica rispetto reciproco». Essere di supporto implica aiutare l’altro considerandolo un pari. Donare in una prospettiva di vera carità è guardarlo negli occhi, con compassione che non genera paternalismo ma consolazione.
«La mia sfida»
Sono arrivato in Venezuela nel 2012. Sono «emigrato» in Brasile, nello stato di Roraima, nel 2023, per accompagnare i Warao in questo nuovo paese. Dal 2016 a oggi, infatti, circa il 15% di essi è emigrato dalle proprie terre. Molti altri sono in viaggio o ci stanno pensando seriamente o sono in attesa delle risorse per un’avventura che non tarderà. Non posso classificare tutti come «immigrati venezuelani», dal momento che, tra i Warao presenti qui, il 18-25% sono già nati in Brasile3.
In questa terra s’intravede che per loro c’è speranza, e l’intenzione è di rimanere qui. Solo una minoranza di Warao vuole tornare a vivere in Venezuela. Quelli che ci vanno, di solito lo fanno per visitare i propri familiari.
Personalmente, io sono ancora ai miei primi passi, ma intuisco che, tra le esigenze di queste persone, c’è quella di salvaguardare i ricordi. Tra gli studiosi di culture indigene, si sottolinea l’importanza dell’oralità nei processi di ricostruzione della memoria etnostorica, antica o contemporanea, perché attraverso di essa si può conoscere ogni giorno qualcosa di più su una comunità, una regione, o una certa famiglia.
Non è un compito facile. Se per il cibo e i rimedi si possono trovare fondi e solidarietà, per i processi culturali è tutto molto difficile. E senza la loro cultura, senza i loro valori, i Warao finiranno per essere manodopera a basso costo o lavoratori schiavi.
Tra i compiti che ci prefiggiamo, c’è quello di far crescere la loro autostima, in modo che riescano a farsi riconoscere come una ricchezza che il Venezuela sta esportando. Occorre, poi, cercare di integrarli nella nuova terra che presenta situazioni e contesti molto diversi da quelli a cui i Warao sono abituati. Accogliere, proteggere, promuovere e integrare sono, secondo papa Francesco, atteggiamenti fondamentali per garantire che i diritti umani dei migranti siano rispettati e le persone trattate con dignità. E questa è la nuova missione che mi sfida.
Juan Carlos Greco
Note
(1) Pianta della famiglia delle Aracee, con un gambo corto, foglie triangolari, fiori gialli e un rizoma contenente amido usato come alimento.
(2) Buritì, canangucha, mirití, palma real, aguaje, la palma moriche cambia nome a seconda dell’area in cui cresce. S’incontra nelle zone umide dell’America Latina. Dal suo tronco pendono migliaia di frutti rossi e carnosi.
(3) Le cifre indicano un totale di settemila indigeni di cui l’80 per cento sarebbe warao. Il numero di figli nati in Brasile si aggira sulle mille unità.
Breve storia del Venezuela
Da Chávez a Maduro
Indipendente dal 1811, il Venezuela è un paese con molte esperienze di regimi autoritari. Negli anni Cinquanta attraversa una dittatura militare – quella del generale Marcos Pérez Jiménez -, ma la democrazia torna un decennio dopo. La politica, tuttavia, contina a essere dominata da partiti legati agli interessi dell’élite. Negli anni Novanta nasce una fase di liberalizzazione dell’economia, una situazione che, nel febbraio 1992, spinge un gruppo di militari di sinistra a tentare un colpo di Stato. Il suo fallimento porta Hugo Chávez Frías, leader del Movimento rivoluzionario bolivariano, in carcere. Un anno dopo, il presidente Carlos A. Pérez riceve un impeachment e viene destituito dall’incarico.
Nel 1994, Hugo Chávez è graziato e rilasciato dal presidente Rafael Caldera. Quattro anni dopo, viene eletto presidente, avviando immediatamente quella che chiama la «rivoluzione bolivariana», con riforme della costituzione e della struttura dello stato. Durante i suoi 14 anni di governo, si presenta come difensore dei poveri destinando miliardi di dollari – originati dalle vendite di petrolio – in programmi sociali (las misiones). Nell’aprile 2002 viene sventato un golpe contro di lui e nel 2012 vince ancora le elezioni.
Pochi mesi dopo, la morte di Chávez coglie di sorpresa il paese e il mondo. Il governo del suo successore (ad interim, al momento della sua morte), Nicolás Maduro, deve inaspettatamente affrontare varie difficoltà a causa della riduzione del valore del petrolio, i debiti in sospeso, un’escalation della corruzione e il peso della sostituzione di un leader carismatico come Chávez. La crisi economica e politica porta il Venezuela vicino al collasso.
Nel 2015 si tengono le elezioni parlamentari per rinnovare tutti i seggi dell’Assemblea nazionale. I deputati eletti dovrebbero servire per 5 anni. Sono le prime elezioni parlamentari tenute dopo la morte di Hugo Chávez e si tramutano nella prima – umiliante – sconfitta del chavismo. Le elezioni portano alla vittoria della tavola rotonda dell’Unità democratica (Mud), con 112 dei 167 deputati dell’Assemblea nazionale (56,2% dei voti), e la prima grande vittoria elettorale per l’opposizione in 17 anni. A differenza del suo predecessore (che, dopo aver perso un plebiscito, aveva accettato la decisione popolare),
Maduro rifiuta la sconfitta creando un’Assemblea costituente che eclisserà quella democraticamente eletta.
Nel maggio 2018, viene rieletto per un secondo mandato di sei anni, in una elezione segnata dal boicottaggio dell’opposizione e da accuse di frode.
Colpita dal crollo dei prezzi del petrolio e dalle severe sanzioni economiche imposte dagli Stati Uniti, l’economia venezuelana cade in profonda recessione con i prezzi di tutte le merci alle stelle e una grave scarsità di prodotti. La situazione provoca un enorme esodo di venezuelani principalmente verso i paesi vicini (Colombia, Perù ed Ecuador).
All’inizio del 2019, il leader dell’opposizione Juan Guaidó si dichiara presidente ad interim e si appella (senza successo) alle forze armate per rovesciare Maduro. L’Unione europea, gli Stati Uniti e molti altri paesi riconoscono Guaidó come presidente. Tuttavia, visti gli scarsi risultati ottenuti, a dicembre 2022, la stessa opposizione venezuelana decide di porre fine all’esperimento dell’interinato a far data dal 5 gennaio 2023.
J.C.Greco
La migrazione venezuelana
Fuga da Súper Bigote
Lo scorso maggio a Brownsville, in Texas, un suv ha investito un gruppo di persone in attesa dell’autobus fuori da un rifugio per migranti. Tra gli otto morti e i dodici feriti, la maggioranza era venezuelana.
L’emigrazione dal paese latinoamericano è iniziata poco dopo la prima presidenza di Nicolás Maduro, mediocre successore di Hugo Chávez, ma si è intensificata a partire dal 2016, in concomitanza con l’aggravarsi della crisi economica. Sui numeri non c’è certezza, ma la fuga dal paese è certamente imponente.
Secondo R4V (Plataforma de coordinación interagencial para refugiados y migrantes, che comprende anche le agenzie dell’Onu), i venezuelani usciti dal paese sarebbero oltre sette milioni, di cui oltre sei sarebbero andati verso paesi latinoamericani, in particolare in Colombia (2,5 milioni) e in Perù (1,5), seguiti a distanza da Ecuador, Cile e Brasile.
Come accade sempre e ovunque, questa emigrazione di massa genera molti problemi. I venezuelani arrivano in paesi già di loro problematici con uno stato sociale (sanità, istruzione, ecc.) debole e un mondo del lavoro dominato da impieghi informali. Questa situazione origina reazioni xenofobe da parte della popolazione residente e misure populiste da parte dei governi. In mezzo, ci sono i migranti – oltre la metà sono donne con bambini – che necessitano di tutto: cibo, alloggi, lavoro, assistenza.
A fine aprile, per frenare l’immigrazione illegale, il governo peruviano di Dina Boluarte ha decretato lo stato d’emergenza ai confini del paese. I più recenti episodi di intolleranza si sono verificati in Cile (che ospita circa 450mila venezuelani), nella regione desertica di Arica, alla frontiera con il Perù. Qui i due paesi andini si rimpallano la responsabilità di risolvere la questione dei migranti venezuelani bloccati al confine.
Nell’ultimo anno, la situazione economica del Venezuela è leggermente migliorata. L’inflazione rimane iperinflazione, ma pare stabilizzata: 471 per cento all’anno, secondo l’Observatorio venezolanos de finanzas. Da tempo, per uscire dall’isolamento internazionale, il paese intrattiene rapporti di collaborazione con le dittature, in particolare con l’Iran, la Russia e la Cina, paesi con cui Caracas condivide l’avversione verso gli Stati Uniti (combattuti anche da Súper Bigote, Super Baffo, il cartone animato venezuelano che esalta un Maduro dotato di superpoteri).
In aprile, ha fatto tappa a Caracas il ministro degli esteri russo, Sergei Lavrov, per ribadire la vicinanza di Mosca. Tuttavia, queste alleanze in chiave anti americana sono del tutto insufficienti per uscire dalla crisi. Più utile si sta dimostrando il riavvicinamento alla Colombia. Sempre in aprile, in un incontro a Washington, il presidente colombiano Gustavo Petro ha chiesto a Biden di ripensare le sanzioni contro il Venezuela. Il presidente Usa ha chiesto garanzie per le prossime elezioni del 2024. Elezioni alle quali l’opposizione si dovrebbe presentare con un candidato unitario che sarà eletto nelle primarie previste per il 22 ottobre 2023. Nel frattempo, il governo Maduro ha preso atto delle gravi difficoltà di Pdvsa, la compagnia petrolifera statale, un tempo vanto (e cassaforte) del Venezuela. Anche per questo ha recentemente concluso accordi con alcune compagnie petrolifere occidentali per esportare il proprio gas: con l’italiana Eni, la spagnola Repsol e la statunitense Chevron (tutte già presenti nel paese ma da tempo ferme a causa dell’embargo imposto dagli Usa). Soltanto con un miglioramento delle condizioni materiali della popolazione venezuelana Súper Bigote potrebbe riuscire a porre un freno alla fuga dal paese.
Perù. Popoli indigeni ancora isolati. Per fortuna.
In Perù, una parte del Congresso voleva depotenziare una legge che protegge i popoli indigeni isolati. Pericolo scampato. Per il momento.
Secondo i dati del ministero della Cultura del Perù, nel paese andino ci sono 55 popoli indigeni, di cui 51 vivono in Amazzonia e 4 sulle Ande. Si parla di circa 4 milioni di persone, pari al 26% della popolazione totale. Di queste all’incirca settemila vivono in isolamento, cioè volutamente separate dal resto della società. Ad esse ci si riferisce con il termine di «Pueblos indígenas en situación de aislamiento y contacto inicial» (Piaci, in sigla).
Lo scorso 23 giugno, una commissione (Comisión de descentralización) del Congresso peruviano ha «fermato» (momentaneamente) il progetto n. 3518 presentato da Jorge Morante Figari, esponente di Fuerza popular, il partito fujimorista. Il progetto legislativo mira a modificare radicalmente la norma 28736, nota come «Ley Piaci», che dal 2006 difende (almeno in linea teorica) l’esistenza e l’integrità dei popoli indigeni isolati.
Qualora la proposta venisse approvata, la competenza in materia di Piaci passerebbe dal ministero della Cultura ai governi regionali i quali potrebbero riconoscere o meno l’esistenza stessa dei popoli isolati, cancellare riserve indigene già riconosciute e sospenderne la creazione di altre.
Contro le riserve indigene e, in generale, contro i diritti dei popoli indigeni sono in campo forze poderose, di solito guidate da imprenditori bianchi. Una delle più note è la «Coordinadora por el desarrollo sostenible de Loreto» (Cdl). Loreto è la regione amazzonica del Perù che ospita il maggior numero di popoli indigeni: ben 32. Secondo Christian Pinasco Montenegro, presidente della Cdl, nella regione non esistono popoli indigeni isolati e, pertanto, le riserve non hanno ragione di esistere. Per Belvi Gelith Saldaña Calderon, vicegovernatrice di Loreto, la legge Piaci va modificata perché è un ostacolo allo sviluppo della regione. Sul lato opposto, a difesa dei popoli isolati e della legge del 2006 c’è l’organizzazione che raggruppa i popoli indigeni dell’Amazzonia peruviana («Asociación interétnica de desarrollo de la selva peruana», Aidesep). Infine, tra i più rispettati difensori dei diritti dei popoli indigeni s’incontra anche mons. Miguel Ángel Cadenas, vescovo di Iquitos, con una lunga esperienza missionaria tra i Kukama (il maggiore gruppo indigeno di Loreto).
Per il momento l’offensiva anti indigena è stata bloccata. Ma c’è da scommettere che i fautori di essa torneranno alla carica, magari sotto altre insegne o in altre forme. In Perù come altrove, le terre indigene fanno gola.
Paolo Moiola
Colombia. Mai fare tabula rasa
Un missionario racconta come è cambiata la propria percezione delle popolazioni autoctone. Un nuovo atteggiamento che ha dato buoni frutti. Per esempio, con il popolo dei Nasa, in Colombia, nella regione del Cauca, dove l’Imc è presente da quasi quarant’anni.
Quando, nel novembre del 1986, arrivai nel seminario internazionale dei Missionari della Consolata a Bogotá, in Colombia, il formatore era padre Antonio Bonanomi. Prima di conoscere questo paese multietnico, con una grande biodiversità ecologica, visitandone i luoghi, attraversandone le strade, padre Bonanomi fece a me e ai miei cinque compagni un’introduzione sulla complessa realtà latinoamericana e colombiana a livello sociale, politico, religioso, storico e culturale. Padre Bonanomi fu la mia guida nei primi quattro anni colombiani durante gli studi di teologia, terminati con l’ordinazione diaconale (poi, nel dicembre 1990, rientrai in Italia per un periodo di animazione missionaria).
Quei giorni sono rimasti nel mio cuore perché mi aprirono gli occhi su un nuovo mondo. C’è una frase, in particolare, che mi è rimasta nel cuore e nella testa come un tarlo: «Il futuro d’America è nei popoli originari».
Per anni ho cercato di capire cosa volesse dire. Oggi quell’affermazione ha trovato delle risposte nelle esperienze con i popoli indigeni e nel lavoro realizzato dai nostri missionari in tutti paesi dove siamo presenti. Non posso non ricordare la bella e difficile esperienza Imc in Brasile, a Catrimani o tra gli indigeni delle pianure amazzoniche di Roraima per il recupero della loro terra.
Penso anche a Licto Riobamba, nelle Ande dell’Ecuador, dove le comunità indigene sono impegnate nelle attività e i missionari le accompagnano nella formazione e nelle celebrazioni. Qui, padre Giuseppe Ramponi ha lavorato per molti anni imparando la lingua e apportando alle comunità molti elementi di formazione umana e recupero della loro cultura.
In Colombia, con i popoli dell’Amazzonia, condividiamo un dialogo interreligioso molto profondo: la nostra esperienza di fede cristiana e cattolica si è incontrata con la loro spiritualità che ha molti punti d’incontro con la fede in Cristo. E abbiamo anche conosciuto il loro amore e rispetto per la Madre Terra che noi bianchi finora abbiamo concepito soltanto come un luogo di sfruttamento senza limiti.
Nel 1991 la nuova Costituzione colombiana ha rivalutato i popoli indigeni. Prima di essa, essere indigeno era sinonimo di inferiorità. Per questo motivo molti hanno abbandonato la propria identità e si sono uniformati alla cultura occidentale.
Toribío e il progetto Nasa
Lo scorso settembre sono stato alcuni giorni a Toribío, nella regione andina del Cauca, per un incontro con i rappresentanti dei Nasa. È stata l’occasione per toccare con mano come un popolo originario che recupera la propria identità e ne è fiero, può contribuire a dare uno stile alternativo al nostro modo di vivere.
In quei giorni ho compreso il grande accompagnamento realizzato da oltre cinquanta missionari che, in 38 anni di presenza dell’Istituto della Consolata, hanno vissuto con il popolo nasa. È stata realizzata un’evangelizzazione che non partiva dal principio della «tabula rasa» per imporre la «nostra religione», ma dall’identità di questo popolo, nel recupero della sua storia, della sua cultura, spiritualità, organizzazione politica, venendo a creare così un interscambio molto interessante tra i Nasa e gli altri soggetti (lo Stato, la Chiesa, il mondo).
A Toribío noi Missionari della Consolata siamo arrivati dopo la morte violenta (nel 1984) di padre Alvaro Ulcué Chocué, primo sacerdote indigeno di questa etnia, ordinato nella Chiesa dell’arcidiocesi di Popayan. Per venti anni i padri Antonio Bonanomi ed Ezio Roattino, assieme a un’équipe missionaria e all’associazione Nasa hanno animato il territorio.
Come missionari e missionarie che vivono attualmente con le comunità indigene, il motivo dell’incontro dello scorso settembre è stato quello di una verifica critica e propositiva, per poi riprendere alcuni elementi che potrebbero essere utili per l’accompagnamento del cammino dei popoli originari non solo in Colombia, ma anche in Perù ed Ecuador.
Ci siamo trovati con un nutrito gruppo di indigeni «mayores» (capi, anziani del popolo nasa) catechisti e coordinatori di diverse aree del progetto Nasa. La grande maggioranza delle persone presenti sono state formate dall’équipe missionaria e hanno condiviso il significato della presenza dei Missionari della Consolata nel territorio, che è stata una grande ricchezza per tutti.
Abbiamo realizzato il primo giorno dell’incontro nella scuola agroecologica del Cecidic, un Centro di studio e formazione in difesa della cultura del territorio, fondato da padre Antonio Bonanomi.
Il secondo giorno è stato scandito da tre momenti: il refresco, la limpieza e il trueque. Ai piedi di una meravigliosa cascata, i vari capi anziani delle comunità Nasa hanno voluto pregare per noi. «Voi – hanno spiegato – avete pregato molte volte per noi, adesso noi vogliamo pregare per voi», e ci hanno coinvolti in un rito di purificazione con canti, benedizioni e offerte di frutta alla madre terra.
Dopo la «limpieza», abbiamo avuto la gioia di partecipare a un evento annuale noto come «trueque», lo scambio di sementi e di prodotti agricoli che ha coinciso con i 42 anni del progetto Nasa e i 38 della nostra presenza come Consolata nel territorio nasa.
L’attività si è svolta proprio nel luogo dove è nato questo progetto promosso e animato da padre Alvaro Ulcué per recuperare l’identità del suo popolo che rischiava di perdere le proprie origini. Hanno partecipato circa tremila indigeni. È stata una festa, con cibo per tutti, come espressione di un popolo che è cresciuto in comunione, in organizzazione e partecipazione.
L’incontro di settembre è servito per scoprire che la vita «offerta» in équipe trasforma l’ambiente, le persone con la presenza del Signore che motiva, dà forza, sostiene e si fa consolazione.
In quei giorni, i Nasa ci hanno fatto sentire parte di loro e ci hanno chiesto di continuare ad accompagnarli.
Ci hanno hanno anche proposto di collaborare nella missione verso altri popoli indigeni dove siamo presenti perché tutti possano sperimentare il processo realizzato nel Cauca. Oggi, qui operano due missionari Imc: padre John Wafula Wamalwa del Kenya e Francis Gerard Shau del Tanzania.
Ci siamo lasciati con l’impegno di continuare il dialogo e di realizzare, in futuro, un nuovo incontro con il popolo nasa e altri popoli indigeni che vogliono continuare ad approfondire e conservare la propria identità.
Dopo i giorni dell’incontro, siamo tornati ai nostri rispettivi luoghi di fede, comunione e vita. Siamo rientrati «a casa», con la soddisfazione di essere stati testimoni dei frutti di un’evangelizzazione che parte da un’équipe di vita, dove si sperimenta la spiritualità, la fraternità e si lavora in comunione.
Angelo Casadei
L’esperienza Imc nel Cauca sulla strada di padre Alvaro
Al centro di tutto c’è il popolo dei Nasa, un insieme di famiglie indigene in lotta fra di loro ma che, per difendersi dai nuovi invasori, si unisce per non perdere le proprie terre e tradizioni.
Fondamentale diventa la figura del padre Alvaro Ulcué Chocué, sacerdote diocesano di origine nasa che presta il servizio pastorale in mezzo alla sua gente e, al tempo stesso, elabora con la comunità il progetto Nasa per il recupero dell’identità indigena. Questa nuova consapevolezza porta la gente a lottare per la propria cultura, spiritualità e recupero del territorio.
I potenti della zona non ci stanno: sono loro i mandanti dell’assassinio di padre Alvaro, che viene ucciso da sicari il 10 novembre del 1984. Il Progetto però non muore. Anzi, prende più forza perché la popolazione ha ormai preso coscienza.
Il padre Ezio Roattino (oggi residente ad Alpignano, Torino, ndr), a quel tempo a Bogotà come provinciale dei Missionari della Consolata ed amico del padre Alvaro, appena appresa la notizia della sua morte si precipita a Toribío e accompagna il popolo Nasa in lutto.
Quando rientra A Bogotà, fa la proposta ai Missionari della Consolata di continuare il progetto di padre Alvaro. Padre Armando Olaya risponde «A la orden» (sono disponibile) e, con alle spalle un solo anno di sacerdozio, parte per il Cauca. Senza sapere più di tanto della realtà di quel popolo, si mette in cammino con loro. Anche padre Ezio Roattino, terminato il suo mandato come superiore, partirà per questa terra ed è l’unico missionario che imparerà la lingua «Nasa Yuwe».
Dopo tre anni di permanenza a Toribío padre Armando viene richiamato a Bogotá come formatore del Seminario filosofico Imc, ma è subito pronto a sostituirlo padre Antonio Bonanomi che realizza così il sogno della sua vita: vivere la missione con un popolo autoctono. Rimarrà a Toribío per 16 anni.
In questo tempo, grazie all’équipe missionaria formata da missionari, sacerdoti, laici locali delle varie parrocchie affidate ai Missionari della Consolata e presa a cuore da padre Antonio Bonanomi, le comunità autoctone del Cauca crescono moltissimo mediante una formazione che è, a un tempo, spirituale, sociale, politica e culturale. Sempre senza forzare ma scoprendo i valori del Vangelo dentro la cultura locale, attraverso la conoscenza della Parola di Dio, con l’eucaristia e partecipando ai riti di purificazione («limpieza») proprie della cultura nasa.
In questo impegno missionario s’inserisce anche la presenza silenziosa di padre Rinaldo Cogliati che, oltre ad accompagnare le comunità, è di grande aiuto come amministratore dei progetti di padre Antonio, che lo riconosce come suo braccio destro.
In seguito, molti altri missionari arrivano nel Cauca: colombiani, latinoamericani, nord americani e africani. L’impegno è apprezzato dalle comunità indigene, che lo vedono come un’apertura verso di loro e un’opportunità di raccontare se stessi.
An.Ca.
La Colombia e il riscatto indigeno, dalla fuga al ritorno alle origini
Per trovare i popoli ancestrali della Colombia occorre salire sulle alte catene montuose o giù verso il bacino amazzonico. Questa posizione è in parte spiegabile con il fatto che gli invasori spagnoli si appropriarono delle terre migliori, quelle delle valli e delle colline pedemontane.
Per i popoli invasi, una delle forme di resistenza è stata quella di occupare i luoghi geografici di difficile accesso: le montagne e la foresta.
L’indipendenza dall’oppressione della Spagna, a cui parteciparono i popoli nativi, i popoli afro e i meticci, non portò loro grandi guadagni. In verità, non c’è stata una vera indipendenza. Piuttosto, essa ha lasciato il posto a nuove modalità di oppressione, esilio, esclusione ed emarginazione.
La storia però non si ferma. La mente si illumina ed esce dal letargo. Ed è così che, da qualche anno, si è generata un’altra dinamica: il ritorno alle origini, alle sorgenti d’acqua ancora fresche, ma nascoste.
Non è un ritorno anacronistico. Tiene conto di tutte le implicazioni sociali, politiche, economiche e culturali del mondo di oggi. Il ritorno alle fonti è una discesa verso i tesori più preziosi che gli invasori non potevano portare via o distruggere: «Hanno raccolto i nostri frutti, tagliato i nostri rami, bruciato i nostri tronchi, ma non hanno potuto uccidere le nostre radici» (Popol Vuh, libro sacro dei Maya).
È necessario scendere in profondità per ascoltare gli spiriti degli antenati, ascoltare la Madre Terra, il canto degli uccelli, il mormorio del vento, la voce dei più grandi viventi, le voci degli alleati delle cause liberatrici.
Così come l’uscita è stata un volo doloroso, il rientro di questi ultimi anni è piena di speranza: scendere per liberare la spiritualità, la terra usurpata, i luoghi sacri, le voci degli anziani, dei giovani e dei bambini, e unirsi alle voci e al canto di tutti i popoli: neri, contadini, tutti gli esclusi.
È una discesa per una liberazione totale, tra musica, canti, danze, mingas…, con il fertilizzante del sangue dei martiri. In questo andare su e giù c’è la conquista della fraternità, lo stare insieme.
La montagna non sarà più un luogo nel quale fuggire; le valli non saranno più i territori dei grandi proprietari terrieri. La terra liberata sarà il luogo dell’incontro fraterno, del baratto dove brulica la vita, dove il bambino potrà scambiare il suo bel cavolo per un delizioso gelato e la nonna potrà scambiare la sua jigra (tipica borsa indigena portata al collo, ndr) per qualche chilo di riso…
È il Sumak Kawsay, è il buon vivere, il sogno possibile della terra senza mali. È un’utopia. È il sogno di un Dio, manifestatosi in Gesù Cristo.
È il sogno che i Missionari della Consolata hanno accompagnato e continueranno ad accompagnare scalando le montagne e entrando nella bellissima e oltraggiata Amazzonia. Essi hanno raccolto alleati e continuano a essere alleati del Regno del Padre buono, Padre di tutti, del Regno in cammino insieme ai discepoli di Gesù.
Questo è qualcosa che abbiamo visto e sentito nel nostro incontro con alcuni dei sognatori combattenti del popolo nasa-páez a Toribío. Queso è ciò che ci incoraggia a continuare a condividere con loro le lotte per la costruzione di un’umanità autentica.
Armando Olaya (formatore nel Centro alternativo per la formazione di missionari – Caf a Medellín)
La Colombia su Mc
Joaquín H. Pinzón Gũiza con Angelo Casadei, Dieci anni di sogni e sognatori, gennaio-febbraio 2023.
Idrogeno in Amazzonia
Una centrale elettrica a idrogeno nel cuore della foresta pluviale guianese. In nome della transizione energetica si rischia di devastare l’ambiente e uccidere l’identità originaria dei popoli indigeni.
Transizione energetica, crisi climatica, green new deal e nuovi patti per il clima. Ne abbiamo sentite tante di possibili «soluzioni» e «politiche rivoluzionarie» da parte di governi e imprese per affrontare i problemi ambientali.
Una di queste è l’idrogeno, considerato una fonte energetica pulita e abbondante. Soprattutto se si tratta di idrogeno «verde», prodotto a partire da fonti rinnovabili. Ma è proprio così?
L’opposizione indigena
Nel momento in cui scriviamo, dall’altra parte dell’Oceano, presso il villaggio Prospérité, nella zona nord ovest della Guyana francese, quasi al confine con il Suriname, si stanno preparando azioni di protesta per fermare la distruzione di una vasta area di foresta pluviale destinata alla più grande centrale solare a idrogeno del mondo, la Centrale électrique de l’Ouest Guyanais (Ceog).
La popolazione indigena locale e molte organizzazioni della società civile hanno espresso a più riprese la loro opposizione al progetto, o almeno la loro perplessità sulla sua sostenibilità, ma le autorità lo hanno approvato ugualmente, e persino adoperato metodi repressivi per eseguire la deforestazione.
Un pezzo di Unione europea
La Guyana francese è un dipartimento d’oltremare della Francia, situato sulla costa settentrionale del Sud America.
Confinante con il Suriname a ovest e con il Brasile a est e a sud, la Guyana francese ha una popolazione di circa 300mila abitanti, la metà della quale vive nella capitale Caienna.
È la seconda regione più grande della Francia e la più grande regione ultraperiferica dell’Unione europea. Il 98,9% del suo territorio è coperto da foreste.
Il parco amazzonico presente sul suo territorio, che rappresenta il più grande parco nazionale dell’Unione europea, copre il 41% della superficie del Paese.
La centrale solare a idrogeno
Il progetto prevede la costruzione di una centrale solare collegata a un elettrolizzatore alcalino ad alta pressione da 16 Mw (megawatt) che divide l’acqua per produrre idrogeno. L’accumulo di energia avverrebbe durante il giorno e il suo sfruttamento durante la notte.
La capacità di stoccaggio, sotto forma di serbatoi di idrogeno, sarà di 128 Mwh (megawattora), che sarà convertita in elettricità da una cella a combustibile.
Secondo il progetto, la centrale potrà consegnare alla rete 10 Mw di giorno e 3 Mw di notte. Dovrebbe entrare in funzione nel 2024, e durerà 25 anni.
Il progetto fu presentato nel 2020 nei pressi del villaggio Prospérité da Meridiam, fondo d’investimenti vicino a Macron, Sara e Hydrogène de France.
La Ceog promette di ridurre le emissioni di CO2 e di porre fine alle frequenti interruzioni di elettricità nella zona con una fornitura stabile per 70mila persone, soprattutto alla vicina città di Saint Laurent du Maroni.
Perché le proteste?
Sembrerebbe un progetto buono e poco contaminante, ma i leader indigeni locali, conosciuti come yapoto, appartenenti alla popolazione dei Kali’na, l’hanno rifiutato fin dall’inizio.
La comunità di Prospérité che abita la terra interessata ha lottato per più di 30 anni per ottenere la tutela consuetudinaria del proprio territorio e la delimitazione di una Zona protetta a uso collettivo (Zduc, Zone de droit d’usage collectifs). Essa denuncia che la Ceog ha impiegato meno di un anno per ottenere i permessi necessari a disboscare 76 ettari di foresta per impiantare i pannelli solari.
Gli abitanti del villaggio temono che la costruzione del parco solare impedirà loro l’accesso a un vicino torrente, loro fonte d’acqua, e ai loro tradizionali territori di caccia e coltivazione.
Se questo dovesse accadere, il loro rapporto con la terra e la trasmissione delle pratiche tradizionali alle generazioni future verrebbero compromessi.
In sintesi, i Kali’na considerano il progetto come un attacco alla loro identità di popolo originario e al loro modo di vivere.
Distruggere la foresta significa per loro affermare l’oppressione della cultura occidentale sulle culture indigene.
Ascoltare la Terra
Nel dicembre scorso, «Reporterre», sito d’informazione indipendente sui temi ecologici con sede a Parigi, ha intervistato Roland Sjabere, lo yapoto di Prospérité, e il portavoce della Jeunesses autochtones de Guyane (Gioventù indigena della Guyana), Christophe Yanuwana Pierre, in occasione di una loro visita di denuncia in Francia.
Sjabere ha affermato di non volersi opporre allo «sviluppo» in quanto tale, ma di criticare piuttosto uno sviluppo frettoloso e orientato al profitto, «l’écolonialisme», l’ecocolonialismo, basato su infrastrutture giganti che non tengono conto della presenza dell’altro nei territori destinati alla loro costruzione.
Il popolo kali’na chiede che la centrale venga trasferita lontano dai loro insediamenti, o quantomeno che le autorità chiedano il consenso alla comunità indigena; ma l’azienda sostiene che i fondi sono già stati impegnati e che andrebbero persi se si dovesse sviluppare un nuovo progetto.
In sostanza, le decisioni sono già state prese senza le consultazioni che le convenzioni internazionali prevedono per i territori indigeni (ad esempio la 169 dell’Organizzazione mondiale del lavoro).
Nelle parole dei due leader intervistati da «Reporterre», il popolo kali’na ha «stretto un’alleanza con la foresta. Se essa è minacciata, noi dobbiamo aiutarla. Questa è la nostra missione in cambio della felicità che la foresta ci offre.
È una necessità per l’equilibrio della nostra comunità e della nostra civiltà. Non possiamo vivere senza la foresta. Le apparteniamo. Attaccandola, le autorità ci danneggiano. […] Sentiamo come una minaccia che aleggia perché i nostri territori spirituali sono colpiti.
Certo, abbiamo anche molti argomenti legali e razionali per lottare contro questi progetti aberranti, ma la nostra lotta è alimentata da molte altre cose, radicate nella nostra cultura. La Terra ci parla e noi dobbiamo imparare ad ascoltarla».
Associazioni in campo
La posizione delle popolazioni indigene viene sostenuta anche da gruppi di ambientalisti. Questi ultimi denunciano in particolare l’impatto sugli habitat di specie rare e in via di estinzione, come l’opossum d’acqua.
Nel febbraio 2022, le associazioni Maiouri nature guyane, Village Prospérité Atopo WePe, Kulalasi e l’Association pour la protection des animaux sauvages hanno intentato una causa contro le autorità della Guyana francese chiedendo la revoca della licenza ambientale per il progetto della Ceog, a causa della scarsa valutazione di impatti sulle specie minacciate.
Tuttavia, a luglio, il tribunale amministrativo del Paese ha confermato l’autorizzazione.
Una seconda causa, tuttora in esame, è stata intentata dagli abitanti del villaggio insieme all’Association nationale pour la biodiversité nel novembre 2022.
Dal canto loro, i promotori del progetto affermano che esso non minaccia la biodiversità o le pratiche tradizionali della popolazione locale e aggiungono che gli abitanti del villaggio sono stati debitamente consultati fin dall’inizio, e che è stato loro offerto il passaggio gratuito alle loro terre abituali e un progetto di sviluppo comunitario.
Tuttavia, esiste una forte asimmetria di potere tra i soggetti in causa che si esprime, ad esempio, nel fatto che tali consulte e i materiali informativi sono stati fatti in lingua francese, ignorando che essa non è la lingua madre degli abitanti locali.
Il riconoscimento della specificità dei gruppi umani e delle loro culture è un principio chiave della giustizia ambientale. La sua mancanza è una strategia molto diffusa nello sviluppo di infrastrutture e progetti estrattivi.
Nel caso della Ceog, l’impossibilità da parte delle comunità locali di comprendere i documenti disponibili ha portato alla firma di accordi indesiderati.
Ancora colonialismo
Oltre ai documenti non tradotti, le forti e ripetute pressioni sullo yapoto affinché accetti il progetto in cambio di una compensazione economica, sono metodi collaudati che fanno parte della lunga storia coloniale, non ancora finita, della Guyana francese: un territorio che subisce da secoli la spoliazione delle sue terre, lo sterminio dei suoi abitanti originari, la deportazione di schiavi, le piantagioni intensive, l’uso del suo territorio come colonia penitenziaria, le miniere, gli impianti industriali nel cuore della foresta.
Sui libri di storia si studia il colonialismo come una forma di dominazione oramai passata. Per gli abitanti della Guyana francese il colonialismo non è mai finito, lo vivono in un continuum storico nel quale cambia le sue vesti e il suo linguaggio, ma applica drammaticamente gli stessi meccanismi.
AmaZone a Défendre
La costruzione della centrale è iniziata nel settembre 2021. A gennaio 2023, sedici ettari erano già stati disboscati, con il taglio di numerosi alberi di valore spirituale per il popolo kali’na.
Nell’ultimo anno, a fronte della sordità delle autorità, la mobilitazione si è radicalizzata e ha adottato la nozione della zone autochtone à défendre (Zad), «zona indigena da difendere», coniata in Francia da comunità di agricoltori e attivisti in opposizione all’aeroporto di Notre-Dame-des-Landes nel 2010.
Il concetto di zone autochtone à défendre è stato, dunque, adattato al contesto guianese e modificato in AmaZone a Défendre.
Nell’intervista ai due leader, il sito «Reporterre» riporta: «Usiamo un linguaggio comprensibile in Francia per dimostrare che siamo determinati a difendere le nostre terre e a condurre una forte resistenza […]. I promotori del progetto della centrale si aspettavano che ci saremmo indignati solo con la bocca e con la parola. Credevano che noi indigeni fossimo deboli, incapaci di sollevarci. Noi dimostriamo loro il contrario. Ci opponiamo fisicamente con le nostre braccia, i nostri corpi, i nostri figli, le nostre famiglie e riusciamo a respingere le macchine. Le autorità hanno la polizia e l’amministrazione, noi abbiamo la nostra conoscenza ancestrale, il legame con la Terra e l’amore per i vivi. Sono forze da non sottovalutare».
Proteste e repressione
Nell’ottobre 2022 la protesta ha alzato i toni, spinta dalla mancanza di volontà politica per una negoziazione giusta.
Gli abitanti mobilitati contro il progetto hanno cercato di sabotare il magazzino delle attrezzature di costruzione con bombe molotov, e hanno costruito capanne nell’area destinata alla centrale.
I rifugi, alla stessa maniera di quelli impiantati dalle tante famiglie e attivisti francesi nella zona dell’aeroporto, vogliono ribadire il messaggio che la foresta è la loro casa e che sono determinati a non cederla.
La protesta ovviamente si è scontrata con l’apparato repressivo dello Stato. La polizia ha usato gas lacrimogeni sui manifestanti e ha arrestato due abitanti del villaggio, un ambientalista e persino Roland Sjabere, lo yapoto di Prospérité, prelevato dal villaggio all’alba e portato in custodia a 150 km di distanza, senza rispettare il suo diritto di parlare con la famiglia.
In risposta agli arresti, le famiglie hanno organizzato una mobilitazione molto più ampia per l’11 novembre 2022, invitando i sostenitori di tutta la Guyana francese ad «andare fino alle ultime conseguenze» per difendere Prospérité.
Con tristezza, ma determinazione, lo yapoto ha dichiarato di «non essere più per il dialogo» e ha ribadito la richiesta di uno spostamento equo del progetto.
Anche il presidente della Jeunesses autochtones de Guyane, ha risposto alla repressione della polizia: «Le persone chiedono rispetto, fanno valere i loro diritti millenari, ma sono considerate criminali. Abbiamo fatto il gioco dello Stato per un po’, ma se vogliono affrontare la resistenza, ci solleveremo. Siamo pronti a combattere».
La montagna d’oro
Oltre che con la Ceog, il popolo kali’na deve fare i conti anche con altri progetti industriali: enormi centrali a biomassa, siti di estrazione dell’oro, miniere come la Montagne d’Or, promossa dal consorzio russo-canadese della Columbus Gold e Nordgold. Riguardo quest’ultima, dopo forti opposizioni, nel 2019 il governo ha annunciato l’abbandono del progetto a causa della sua incompatibilità con i requisiti ambientali. Tuttavia, una miniera d’oro fa gola a troppi, e finché la Francia non tornerà a negoziare il codice minerario e non porrà dei limiti chiari su che cosa e dove può essere estratto, ogni progetto sarà soggetto a possibili riattivazioni.
La protesta arriva in Francia
La mobilitazione ha fatto appello anche alla Francia metropolitana. Il presidente del Ceog e fondatore di Meridiam è un uomo vicino a Macron. Una sua donazione alla prima campagna elettorale del presidente ha alimentato la preoccupazione per un possibile trattamento di favore nei suoi confronti da parte delle autorità francesi.
Per quanto riguarda Macron, recentemente è stato criticato per aver permesso la deforestazione dell’Amazzonia in Guyana mentre stigmatizzava sulla scena mondiale quella brasiliana con toni severi contro Bolsonaro.
Lo yapoto di Prospérité aveva già visitato Parigi ed era intervenuto alla manifestazione per la giustizia climatica durante la Cop 26 nel novembre 2021.
Una delegazione di Kali’na è stata invitata a presentare il proprio caso all’Assemblée nationale – il parlamento francese – lo scorso dicembre 2022.
Nel gennaio 2023, Jean-Luc Melenchon, leader del partito di sinistra La France insoumise, ha visitato il cantiere della Ceog in Guyana e ha dato il suo sostegno alla lotta per fermarne la costruzione.
In una tribuna di «Le Monde» indirizzata a Macron, una rete di associazioni indigene della Guyana e i loro sostenitori hanno chiesto che il progetto venga delocalizzato: «Questo progetto viola il nostro diritto a dare un consenso libero, preventivo e informato, protetto anche dal diritto costituzionale, all’informazione e alla partecipazione pubblica».
E hanno avvisato ulteriormente: «Vi ricordiamo che un fondo di investimento, prima di produrre elettricità, cerca di ottenere un profitto. Corriamo il rischio che quella che chiamate “transizione energetica” diventi solo una nuova schiavitù dei popoli e degli ambienti naturali».
Daniela Del Bene
ATLANTE DELLA GIUSTIZIA AMBIENTALE
Questo articolo fa parte di una collaborazione fra Missioni Consolata e l’Ejatlas (Environmental Justice Atlas) nell’ambito della quale portiamo a conoscenza dei nostri lettori storie e analisi riguardanti alcuni dei conflitti ambientali presenti nell’Atlante.
Per tutti i casi menzionati nell’articolo sono disponibili nell’Atlas le relative schede informative.
• www.ejatlas.org
• www.envjustice.org
• http://cdca.it (atlante conflitti ambientali italia).
Zarco riposa sulla Luna
Manuel Antonio Zarco era un «cacique» degli Emberá, uno dei sette popoli indigeni di Panama. Negli anni Sessanta la sua strada s’incrociò con quella degli astronauti della Nasa che si preparavano a sbarcare sulla Luna. Zarco è scomparso nel 2010, ma la sua storia – incredibile e poco conosciuta – è sopravvissuta.
Nella conquista umana dello spazio, l’esplorazione della Luna è una tappa fondamentale che passa dal programma statunitense Apollo 11 del 1969 fino ad Artemis, attualmente in corso.
Apollo fu il famoso programma spaziale dell’Ente nazionale per le attività spaziali e aeronautiche, più conosciuto per la sua sigla inglese Nasa. Il programma fu messo in opera dagli Stati Uniti negli anni Sessanta per vincere la corsa allo spazio contro l’Unione Sovietica, all’epoca della Guerra fredda. Quel programma fu la continuazione di Mercury, le missioni che vennero lanciate dalla Nasa per identificare la zona della Luna più idonea per un possibile atterraggio di una capsula con equipaggio a bordo: allunaggio che avvenne il 20 luglio 1969 e che consegnò alla storia la frase «Questo è un piccolo passo per un uomo, ma un grande passo per l’umanità» .
Artemis è invece il nome scelto per la nuova sfida della Nasa che promette di riportare sulla Luna gli esseri umani nel 2024. Un progetto che ha già fatto il primo passo a fine 2022 con la missione spaziale Artemis 1, partita con il lancio del 16 novembre dal Kennedy space center (Merritt Island, Florida) e conclusa l’11 dicembre con l’ammaraggio della navicella Orion nell’Oceano Pacifico, al largo della costa settentrionale del Messico.
Artemis 1 ha fatto ben sperare e ha battuto molti record: il veicolo spaziale senza equipaggio ha, infatti, realizzato un viaggio di 25 giorni percorrendo 2.254 milioni di chilometri attorno alla luna. Orion ha sorvolato per due volte la superficie lunare arrivando ad una distanza di soli 130 km dalla stessa. Nel suo punto più lontano dalla Terra, la navicella si è trovata a quasi 435mila chilometri di distanza, circa mille volte superiore alla lunghezza dell’orbita che percorre la Stazione spaziale internazionale attorno al nostro pianeta.
Una sfida lunga più di 60 anni, quella della conquista della Luna, che ha visto successi e fallimenti, momenti di grandezza e di profondo sconforto e che probabilmente ci riserverà ancora molte sorprese.
Se la storia dei programmi spaziali è generalmente nota, c’è però una storia dentro la storia che pochi conoscono e che lega la missione Apollo 11 alle popolazioni indigene dell’America Latina.
Un cacique come istruttore
Negli archivi della Nasa si trova il nome di un cacique (capo), un indigeno panamense leggendario per il suo popolo, legato a doppio filo ai nomi degli astronauti Neil Armstrong, Edwin Aldrin e Michael Collins. Si tratta del jaibaná (guida spirituale) del popolo indigeno Emberá, Manuel Antonio Zarco.
Per conoscere la sua storia dobbiamo viaggiare fino a Panama e entrare nella selva del paese centroamericano, il Darién. Il nostro nacque nel 1914 a Rio Chico (Darién panamense) all’interno di una comunità del popolo indigeno Emberá. Gli Emberá sono uno dei sette popoli indigeni della Repubblica di Panama (insieme agli Ngäbe, i Buglé, i Guna o Dule, i Wounaan, i Bri bri e i Naso Tjërdie – vedere riquadro a pag. 24, ndr) e sono come gli altri sei, custodi di una connessione ancestrale con gli elementi della natura, una conoscenza profonda che permette loro di vivere in armonia con l’ambiente selvaggio e, all’apparenza, ostile nel quale sono immersi.
La zona nella quale Manuel Antonio trascorse i primi anni di vita è ancora oggi impervia, coperta di selva e piena di insidie. In quel contesto l’adolescente Zarco apprese i segreti della caccia, della pesca, delle piante medicinali e della comunicazione con la Madre Terra.
La destrezza con arco e freccia, la sua profonda conoscenza di flora e fauna e il suo carisma, lo fecero diventare presto un punto di riferimento per tutta la comunità, che iniziò a trattarlo con rispetto vedendo in lui una guida.
Intorno al 1940, Zarco, già maturo e sperimentato con i suoi 26 anni, decise di trasferirsi con la sua famiglia a Gamboa, zona del Canale di Panama nella quale il lago artificiale Gatún si unisce al fiume Chagres. La sua idea era quella di ampliare le frontiere della sua comunità, trovando nuove aree nelle quali vivere e prosperare.
Storia del Canale e dell’enclave Usa
A quell’epoca era già operativo il Canale di Panama, colossale opera ingegneristica che taglia in due l’istmo di Panama consentendo il traffico marittimo di navi di grosse dimensioni (oggi conosciute come Panamax).
Il canale collega l’Oceano Atlantico con l’Oceano Pacifico arrivando a una lunghezza totale di 81,1 km, una profondità massima di 12 m e una larghezza che varia dai 240-300 m del lago Gatún e ai 90-150 m nel tratto del taglio della Culebra. Quello che è considerato una delle meraviglie del mondo moderno fu inaugurato al traffico marittimo il 15 di agosto del 1914.
All’epoca dell’arrivo di Manuel Antonio Zarco nell’area, il Canale era, dunque, già operativo da più di 20 anni. La zona del Canale divideva di fatto il paese centroamericano in due: in una fascia di territorio larga 16 km che costeggiava il Canale sui due lati, vivevano migliaia di statunitensi con le loro famiglie, in una vera e propria enclave Usa che funzionava con leggi e regole autonome. Un territorio al quale i panamensi non avevano accesso (se non con permessi speciali) e nel quale il tenore di vita era molto più alto che nel resto del Paese. Questa situazione derivava dalla firma del trattato Hay-Bunau Varilla del 18 novembre 1903 che di fatto cedeva una parte del territorio di Panama agli Stati Uniti per la realizzazione dei lavori prima e della manutenzione e gestione del Canale poi.
A difesa dei loro interessi gli statunitensi avevano dispiegato un contingente militare e la United States air force aveva stabilito una base aerea ad Albrook, nella zona del Canale.
Una scuola molto speciale
Nella base aerea era presente anche la Tropical survival school (Scuola di sopravvivenza tropicale) che era stata trasferita lì dalla California. Alla guida della scuola era stato scelto H. Morgan Smith, antropologo che ben conosceva Panama e che aveva già collaborato per i suoi studi con Manuel Antonio Zarco negli anni Cinquanta.
Smith era stato diretto testimone delle capacità di adattamento di Zarco alla vita in foresta. Così gli chiese di diventare istruttore di tecniche di sopravvivenza nella selva per i soldati dell’esercito statunitense. In questo modo, Zarco cominciò a lavorare nella base aerea di Albrook in un momento particolarmente teso per le relazioni tra Usa e Panama.
Nel 1958, infatti, tra i panamensi stava emergendo un sentimento di rivalsa nei confronti dei privilegi di cui godevano da cinquant’anni i loro connazionali residenti nella zona del Canale, chiamati zonians perché isolati dal resto della popolazione e protetti dagli Usa.
In quell’anno ebbe luogo la dimostrazione chiamata Operación soberania (Operazione sovranità), durante la quale un gruppo di studenti universitari piantarono 75 bandiere panamensi nella zona del Canale. Il motto era el que siembra banderas, cosecha soberanía (chi semina bandiere, raccoglie sovranità).
L’anno successivo gli stessi studenti organizzarono quella che venne chiamata «Marcia patriottica», invitando i cittadini panamensi a entrare in modo pacifico nell’area sotto giurisdizione Usa. Il governatore della zona del Canale, che all’epoca era William Everett Potter, diede però l’ordine alla polizia di fermare i manifestanti e di impedire loro l’ingresso, scatenando tumulti e scontri che terminarono con un saldo di vari feriti.
Arrivano gli astronauti
Nel 1963, proprio mentre la situazione politica nell’istmo diventava ancora più incandescente (sarebbe sfociata nei fatti del 9 gennaio 1964, ricordato oggi come el día de los martires, «il giorno dei martiri»), arrivarono alla Scuola di sopravvivenza sedici astronauti del programma spaziale Apollo.
L’inizio delle missioni con destinazione la Luna erano imminenti, ma c’era un problema: non era possibile calcolare con precisione in quale punto della Terra sarebbe rientrato il modulo lunare e per questo bisognava che gli astronauti fossero pronti a ogni evenienza. Tra i sedici c’erano anche Armstrong, Aldrin e Collins, che per un mese seguirono gli insegnamenti di Zarco per capire come sopravvivere in mezzo a una giungla.
L’addestramento si realizzò nelle vicinanze della comunità Emberá Purú, lungo il rio Chagres (dove oggi vivono i discendenti di Manuel Antonio) e continuò fino alla frontiera con la Colombia, nella selva conosciuta come Darién gap.
Il cacique insegnò loro come procurarsi cibo e acqua, come evitare le trappole mortali della selva, come cacciare e come difendersi dai pericoli e ripararsi dalle intemperie. Oltre agli insegnamenti pratici però, Zarco spiegò agli astronauti che lassù, sulla Luna, secondo la tradizione del suo popolo, riposavano gli spiriti degli antenati Emberá.
Fu così che, nella selva panamense, la tecnologia più avanzata dell’epoca incontrò il sapere ancestrale indigeno, in un connubio al servizio di una missione spaziale che ha segnato la storia dell’umanità.
Dopo quella missione il jaibaná Manuel Antonio Zarco continuò a prestare il suo servizio, sia per l’esercito statunitense dal quale ricevette onorificenze, sia per la sua comunità, insediata sulle rive del fiume Chagres.
Per il suo popolo, lo spirito di Manuel Antonio Zarco, scomparso nel 2010, oggi riposa proprio là, su quella Luna che anche lui ha aiutato a toccare.
Diego Battistessa
I sette popoli indigeni di Panama
Qui è nata «Abya yala»
Secondo i dati del censimento del 2010 (l’ultimo disponibile), a Panama sono 417.559 le persone che si riconoscono come indigene, un numero che corrispondeva per quell’anno a poco più del 12% della popolazione. Parliamo di un gruppo molto eterogeneo che si diversifica in sette popoli indigeni: gli Emberà, i Ngäbe, i Buglé, i Guna (o Dule), i Wounaan, i Bri bri e i Naso Tjërdie. Per questi popoli ancestrali, dopo le due indipendenze (nel 1821 dalla Corona spagnola e nel 1903 dalla Colombia) di quella che oggi è la Repubblica di Panama è iniziato un lungo e lento processo di emancipazione e rivendicazione di diritti nel nuovo spazio geografico e amministrativo del giovane paese centroamericano. Un processo fatto di accordi, scontri e rivoluzioni che ha portato il movimento indigeno a ottenere un certo grado di autonomia. A oggi, infatti, esistono a Panama sei comarcas indigene (contee) le cui leggi costitutive contengono il riconoscimento della tradizionale struttura politico amministrativa di questi popoli, della loro autonomia, della loro identità e dei loro valori storico culturali, dentro il sistema dello stato panamense. Le sei comarcas indigene coprono attualmente un’area di 1,7 milioni di ettari e sono state create in epoche diverse: Guna Yala (1938), Emberá-Wounaan (1983), Guna Madungandi (1996), Ngäbe-Buglé (1997), Guna Wargandí (2000) e Naso Tjër Di Comarca (2020).
In questo processo di emancipazione e lotta per i diritti, una menzione speciale merita la rivoluzione Guna scoppiata tra febbraio e marzo 1925, che portò alla creazione dell’effimera Repubblica di Tule. La ribellione fu la risposta del popolo indigeno Guna alla forzata occidentalizzazione imposta dal governo centrale che cancellava così secoli di storia dei nativi. Dopo gli scontri si arrivò a un accordo e la comarca di Guna Yala fu la prima a essere creata.
Da sottolineare che proprio dalla lingua di questo popolo indigeno arriva «Abya Yala», termine ancestrale che sempre più viene utilizzato per riferirsi alle Americhe.
Di.Ba.
Il Darién, dove la selva vince
Il Darién è una regione geografica del continente americano che ha resistito ai vari tentativi di conquista e antropizzazione. Stiamo parlando di una estesa e fitta selva, che divide il Sud di Panama dal Nord Ovest della Colombia (dipartimento del Chocó) e che storicamente ha ospitato le popolazioni indigene Emberá-Wounaan e Guna. Durante l’epoca della corona spagnola molti africani fuggiti dalla schiavitù (chiamate cimarrones) trovarono rifugio in questa selva, creando vere e proprie comunità autonome come quelle guidate da Baiano o da Felipillo, accrescendo il mito dell’impenetrabilità di questa zona di 5mila km² che separa il Sud America dal Centro America. In inglese ci si riferisce a questa zona come Darien gap, dove il termine «gap» (divario, vuoto) viene a significare l’impossibilità di continuare la costruzione della Panamericana, la famosa strada che collega i due estremi del continente americano. A Yaviza, ultimo villaggio nella parte panamense del Darién, il percorso della strada, infatti, s’interrompe per poi riprendere a Turbo in Colombia.
Un progetto viario mastodontico, di circa 18mila km e che attraversa 14 paesi da Nord a Sud del continente ma che, di fronte al Darién, ha dovuto arrendersi. Secondo altre interpretazioni, però, il vero motivo per cui la Panamericana s’interrompe è che gli Stati Uniti non hanno voluto che si facesse, perché avrebbe favorito il traffico di droga.
Oggi questa selva è famosa soprattutto per essere una delle rotte delle migrazioni che portano decine di migliaia di persone a rischiare la loro vita per raggiungere Panama dalla Colombia, e da lì proseguire verso Nord, verso l’«American dream»: solo nel 2022 si stima che siano passati dal Daríen gap circa 250 mila persone (130mila nel 2021).
Sonia, Anielle, Margareth, Marina. Il governo del neo presidente Lula pensa ai popoli indigeni e scommette sulle donne.
Indigene e afrodiscendenti, ex faveladas e seringueiras: le donne dei ministeri chiave del nuovo governo del presidente Lula provengono dalle periferie geografiche e simboliche, militano nel movimento indigeno, femminista e ambientalista e avranno il compito di rivoluzionare la politica per costruire un paese veramente plurale. I nomi erano stati annunciati già lo scorso dicembre. Tuttavia, assistere alle cerimonie di insediamento di Marina Silva al ministero per l’Ambiente e il contrasto al Cambiamento climatico, di Margareth Menezes al rinato ministero della Cultura e, soprattutto, di Anielle Franco e Sonia Guajajara ai nuovi ministeri dell’Uguaglianza etnica e dei Popoli indigeni, è stato motivo di euforia e rinnovata speranza.
Sonia Guajajara
Sonia è nata nella terra indigena Arariboia, nel Maranhão, uno stato che, pur conservando solo il 20% di foresta primaria, è abitato da una decina di popoli indigeni, compresi alcuni gruppi isolati del popolo Awa Guajà. Dal 2013 è stata coordinatrice dell’Apib, che riunisce le principali organizzazioni indigene del paese, e nel 2018 è stata candidata per il Psol (socialismo e libertà) a vicepresidente della repubblica. Presentatasi alle recenti elezioni, è stata eletta deputata federale per lo stato di San Paolo, incarico a cui ha rinunciato per diventare ministra. Ha aperto la cerimonia del suo insediamento scuotendo un maracà, quasi a voler adunare non solo i presenti ma anche gli spiriti degli antenati. In quello che ha descritto come un momento emblematico della storia del Brasile, davanti a un pubblico composto anche da diversi leader indigeni, ha dichiarato: «Il mio insediamento e quello della ministra per l’Uguaglianza etnica, sono il simbolo della resistenza secolare nera e indigena».
Ricordando i doni ricevuti ancora adolescente dalla zia, una collana e il maracà, e soprattutto il «potere della parola», ha aggiunto: «Oggi non sono qui da sola ma accompagnata dalla forza della nostra ancestralità. La società fa una lettura totalmente distorta della realtà dei popoli indigeni: o ci idealizzano o ci demonizzano. Al contrario di come ci ritraggono i libri di storia, noi esistiamo in forme molto diverse: siamo nelle città, nei villaggi, esercitando i mestieri più vari; viviamo nel vostro stesso tempo e spazio, siamo contemporanei di questo presente e costruiremo il Brasile del futuro, perché il futuro del pianeta è ancestrale».
Joenia Wapishana
Oltre a un ministero e due seggi in parlamento (anche Celia Xacriabà è stata eletta per lo stato di Minas Gerais), il movimento delle donne indigene ha ottenuto anche un’altra vittoria. Joenia Wapishana è stata eletta presidente della Funai: per la prima volta una rappresentante dei popoli indigeni a guidare l’organo responsabile della loro protezione (*). Ancora un primato per l’avvocatessa di Roraima, visto che già era stata la prima donna indigena a entrare in Parlamento nel 2018. Il suo insediamento è stato visto come simbolica «retomada» di un’istituzione che è stata completamente smantellata dal governo precedente.
Queste donne hanno aperto, dunque, la strada per «aldear a politica» (vediglossario), slogan della loro campagna elettorale, rafforzando il protagonismo indigeno nelle istituzioni e nello scenario politico brasiliano.
D’altronde si tratta di un processo già in atto in altri paesi latinoamericani come il Cile, dove la mapuche Elisa Logon è stata eletta a capo dell’Assemblea costituente, e la Bolivia, che ha affidato a una donna quechua, Sabina Orellana, il ministero per la Cultura, la decolonizzazione e la depatriarcalizzazione, a dimostrazione del fatto che le rivendicazioni per una maggiore presenza indigena nella politica vanno di pari passo con quelle per l’emancipazione delle donne dal dominio maschile.
Anielle Franco
Contemporaneamente all’affermazione delle donne indigene, dai villaggi alla scena nazionale, giovani donne nere faveladas assumono la leadership di associazioni e collettivi per contrastare la violenza (domestica, di genere, della polizia) che affligge le proprie comunità. Nel 2016, una rappresentanza di queste lanciava il movimento «Occupare la politica», eleggendo diverse deputate a livello municipale, statale e federale.
La nuova ministra per l’Uguaglianza etnica, Anielle Franco, sorella di Marielle (la consigliera comunale carioca impegnata nella difesa dei diritti delle donne nere, del movimento omosessuale – in sigla, Lgbtqiap+ – e delle persone che vivono nelle periferie, barbaramente uccisa il 14 marzo 2018), condivide con le donne di questo movimento la stessa origine, essendo nata e cresciuta nella Marè (una favela di Rio de
Janeiro) e gli stessi obiettivi: abbattere i privilegi dell’élite bianca e garantire l’accesso universale ai servizi di base ai segmenti della popolazione più svantaggiati ed emarginati.
Anielle ha promesso di portare avanti la sua battaglia per porre fine allo stato di guerra nelle favelas e nelle periferie, alle incarcerazioni di massa e agli abusi della polizia, parte del progetto genocida nei confronti della popolazione nera. Nel suo discorso le parole ricorrenti sono state: «unità e ricostruzione», ma anche «riparazione e memoria», perché «solo ripagando i debiti del passato e restituendo dignità a coloro che hanno resistito a secoli di violenza di stato, si potrà costruire il Brasile del futuro».
La ricostruzione del paese è possibile soltanto se si riconoscono e riscattano le radici ancestrali. Per questo, in un passaggio toccante, anche Anielle ha rivolto una richiesta a tutto il popolo brasiliano: «Camminate con noi finché il nostro popolo non sarà veramente libero, protagonista della propria traiettoria accedendo a diritti, dignità e ad una vita piena. Camminate con noi finché i sogni dei nostri antenati non diventino realtà».
Silvia Zaccaria
(*) Mentre scriviamo, il mondo pare essersi accorto del genocidio degli Yanomami, di cui MC si è sempre occupata. Ci torneremo prossimamente.
Incontro con Sydney Possuelo
Anche gli indigeni sono uomini
Sydney Possuelo, esperto di indios isolati («sertanista», nel gergo tecnico), è stato presidente della Fondazione nazionale per l’indio (Funai) e direttore del Dipartimento per gli indios isolati, da lui creato nel 1987. Durante il periodo di permanenza alla guida dell’organo indigenista, è stata riconosciuta l’area indigena degli Yanomami (1992).
Per le operazioni di delimitazione fisica del territorio e il coordinamento delle operazioni di espulsione dei cercatori d’oro (i garimpeiros), il sertanista aveva scelto la Missione Catrimani dei missionari della Consolata come uno dei suoi centri operativi. In quell’occasione, padre Silviano Sabatini ebbe modo di conoscerlo e apprezzare il suo operato, benché – fino ad allora – i rapporti dei missionari della Consolata con la Funai fossero sempre stati difficili.
Per il suo impegno a favore dei popoli indigeni, Possuelo ha ricevuto numerosi riconoscimenti. Tra questi, la medaglia al Merito indigenista che ha deciso di restituire nell’aprile scorso, perché la stessa onorificenza era stata conferita a Bolsonaro e ai suoi ministri.
Sydney, qual è oggi lo stato di salute dei popoli indigeni in Brasile?
«La situazione dei popoli indigeni del Brasile non è mai stata esaltante, ma con l’amministrazione Bolsonaro è drammaticamente peggiorata sul piano sanitario, della sostenibilità economica e ambientale e del diritto alla terra.
L’ex presidente ha presentato in parlamento proposte di legge [dalla 191/2020 che prevede la legalizzazione dello sfruttamento minerario nelle terre indigene, al vecchio progetto 490/2007 conosciuto anche come “Marco temporal” che altererebbe i criteri per il loro riconoscimento, ostacolando l’espansione delle terre già delimitate] che, se fosse stato rieletto, avrebbero determinato un ulteriore arretramento dei loro diritti».
Bolsonaro è stato sconfiitto. Pensi che ci saranno dei cambiamenti con Lula al governo?
«Viste le premesse – creazione di un ministero dei popoli indigeni; leadership indigena della Funai; ripristino del Fondo per l’Amazzonia – ritengo che Lula possa determinare un cambiamento di rotta non solo per la questione indigena, ma anche per quella ambientale, perché non possiamo parlare dei popoli indigeni senza parlare di ambiente, da cui questi popoli dipendono.
Sotto il governo Bolsonaro abbiamo assistito a una devastazione senza precedenti e a una nuova invasione delle terre indigene, da parte di madeireiros, garimpeiros, cacciatori e pescatori di frodo, fazendeiros e grileiros.
Per citare il caso più eclatante, quello della Terra indigena Yanomami, a dicembre 2022 si stimavano più di 20mila cercatori d’oro nell’area, quando all’epoca della demarcazione [nei primi anni Novanta] eravamo riusciti a espellere tutti i 40mila garimpeiros presenti al suo interno. Tra le priorità del suo governo, Lula dovrà, dunque, contrastare questo fenomeno».
La società brasiliana come percepisce l’indigeno?
«Storicamente, l’indio è stato sempre visto in modo negativo dai governi e dalla società nazionale, a eccezione di una piccola fetta di intellettuali, scrittori, giornalisti e antropologi.
La maggior parte della popolazione brasiliana continua, però, a essergli ostile, considerando gli indigeni come subumani [gli “animali da giardino zoologico” dell’ex capo dello stato] o comunque reietti della società, alla stregua dei gruppi emarginati delle città, oppure, nella migliore delle ipotesi, come attrazione da manifestazione folcloristica o da festival tribale. Addirittura, i caboclos – ribeirinhos che condividono lo stesso ambiente e la stessa origine – sono nemici dei popoli indigeni».
Qualche mese fa ha fatto il giro del mondo la notizia della morte (agosto 2022) del cosiddetto «indio del buco» (indio do buraco, ndr) definito dai media «l’uomo più solo al mondo», per aver vissuto per almeno 26 anni isolato in un’area di foresta dello stato di Rondônia. Cosa hai provato alla notizia della sua morte?
«Nella regione del Tanarù (nome dell’area interdetta, ndr) è operativa una delle sei “frentes de Proteção etnoambiental” che io stesso ho creato in Amazzonia, quando ho fondato il Dipartimento per la protezione degli indios isolati. Da allora questo “fronte” si occupa di monitorare due gruppi indigeni, oltre all’“indio del buco”.
Negli anni abbiamo provato a comunicare con lui, ma non parlava. E non abbiamo mai saputo se non parlava perché non voleva o perché non sapeva parlare. Abbiamo anche provato ad avvicinarci a lui e abbiamo trovato diverse capanne di paglia di forma triangolare con una buca di circa due metri al centro. Non sappiamo perché scavasse quelle buche, se per proteggersi o per catturare animali.
Quando è morto sono usciti vari articoli ma si tratta di speculazioni, perché non sappiamo se fosse effettivamente l’ultimo membro di un gruppo indigeno o se sia stato abbandonato nella foresta ancora bambino. Storie come questa sono peculiari di luoghi distanti e inaccessibili come l’Amazzonia, ed è naturale che restino avvolte in un alone di mistero, vista la sua impenetrabilità e la difficoltà a ricostruire i contorni reali degli eventi che in essa si verificano».
Cosa ha rappresentato la Funai sotto Bolsonaro?
«La Funai è stata militarizzata e svuotata di risorse economiche e umane. Portando avanti la politica apertamente anti-indigena del governo, tanto da essere definita, con un rimaneggiamento sarcastico dell’acronimo, un’“anti Funai” (Fundação anti indìgena, ndr), ha tradito il proprio mandato, cioè quello di identificare e delimitare le terre e proteggere i popoli indigeni.
La maggior parte dei sertanistas e degli antropologi della vecchia guardia, con l’ascesa di Bolsonaro sono stati rimossi e sostituiti da missionari evangelici e militari, di certo non fedeli al motto del generale Rondon, padre dell’indigenismo: “Morire se necessario, uccidere mai”.
Qualcuno è stato vittima di atti disciplinari e altri, come Bruno Pereira (indigenista assassinato nel giugno 2022, ndr), ha pagato con la vita il proprio impegno per la causa indigena».
Quale messaggio vorresti mandare al presidente Lula?
«Vorrei chiedergli innanzitutto di riprendere il processo di riconoscimento delle terre indigene che è stato vergognosamente paralizzato durante il governo Bolsonaro – che aveva tra i propri slogan “neanche un centimetro in più di terra per gli indigeni” – e di tutelare la volontà dei popoli indigeni in isolamento di non essere contattati.
Ciò può essere realizzato soltanto restituendo dignità alla Funai, dotandola cioè delle risorse umane e finanziare necessarie per onorare il proprio mandato.
La creazione di un ministero dei popoli indigeni, diretto da un rappresentante, per giunta una donna, di quei popoli, è un atto senza precedenti ma, come qualsiasi ministero, può essere abolito dai successori. La Funai, invece, è un organo creato per legge, quindi più solida e duratura in quanto, per abolirla, sarebbe necessario passare per il parlamento».
Si.Za.
Glossario
Aldear: «indigenizzare» la politica, rendendola meno dominata dai «bianchi».
Caboclos ribeirinhos: popolazione tradizionale che abita lungo i fiumi amazzonici derivante dall’incrocio tra discendenti di popoli indigeni, «bianchi» (soprattutto nordestini) e afrodiscendenti.
Grileiros: speculatori fondiari.
Madeireiros: commercianti di legname.
Faveladas: donne residenti in comunità spesso prive dei servizi di base.
Frentes de proteção etnoambiental: équipe specializzate nella protezione etnoambientale, composte da conoscitori della zona (mateiros) e esperti in tecniche di contatto (sertanistas) che hanno il compito di localizzare i popoli indigeni isolati e di recente contatto, di monitorarne gli spostamenti e le condizioni di salute e vigilare sulle aree da questi abitate.
Remotada: riconquista non violenta, da parte degli indigeni, di un territorio tradizionale.
Seringueiras: lavoratrici rurali dedite all’agroestrattivismo, in particolare all’estrazione del lattice dall’Hevea brasiliensis, l’albero della gomma.
Si.Za.
Dieci anni di sogni e sognatori
È un giovane vicariato posto in una regione amazzonica tanto affascinante quanto difficile. In queste pagine, mons. Joaquín Humberto Pinzón Güiza, il vescovo che lo guida, ne ricorda il decennale (2013-2023) della nascita.
Puerto Leguízamo. Ricordare è qualcosa di essenziale nella vita umana. La memoria è alla base della nostra identità e del rapporto con il mondo in cui viviamo. È la mappa dei nostri ricordi che ci dice chi siamo e dove siamo. Basta, infatti, un blackout della memoria per perdere la nozione di noi stessi, del mondo e del nostro posto in esso, come succede a volte alle persone anziane.
Questo febbraio celebriamo i dieci anni (febbraio 2013 – febbraio 2023) di vita e storia del vicariato apostolico di Puerto Leguízamo-Solano. E, quando parliamo di celebrare, ci riferiamo a quel «ri-cordare» che, etimologicamente, significa riportare al cuore il sognato, il vissuto, ciò che abbiamo raccolto («cor-cordis», cuore, il muscolo che dagli antichi era ritenuto sede della memoria). Anche se pare ridondante ripassare attraverso il cuore ciò che dal cuore è uscito e ciò che è stato fatto mettendoci il cuore, è così che possiamo contemplare ciò che abbiamo vissuto in questi dieci anni di storia, sfide e opportunità.
Un buon punto di partenza per la commemorazione del nostro vicariato è il ricordo delle persone che hanno sognato questa Chiesa particolare: da chi non è più tra noi, come mons. Luis Augusto Castro e padre Bruno del Piero, fino a mons. Francisco Javier Múnera e padre Gaetano Mazzoleni, e a tutti i missionari della Consolata che, assumendo lo «ius comissionis», hanno generosamente sostenuto e continuano a sostenere questo progetto.
Partendo dai nostri fiumi
Questa commemorazione ci spinge, anzitutto, a ripercorrere attraverso la memoria il cammino fatto, guardando all’esperienza fondante, alle nostre origini, allo scopo di dare slancio al cammino futuro, rivitalizzando ciò che rischia di perdere il suo significato. È un’altra cosa da imparare dalle dinamiche dei nostri fiumi: nelle origini c’è sempre la freschezza dell’acqua: più si sale verso la sorgente, più se ne percepisce la purezza.
La storia ci porta al 2013, anno in cui il contesto sociale del territorio era carico di grandi aspettative per i negoziati di pace tra il governo centrale e le Farc-Ep. Tutti sognavamo tempi migliori per i nostri popoli. Tre anni dopo, nel 2016, abbiamo apprezzato l’armonia dell’accordo e le nuove dinamiche sociali che il post accordo ha generato, ma abbiamo anche assistito all’emergere di altri attori armati che, ancora una volta, hanno messo in ombra quella pace che tutti aspettavamo.
Un altro ingrediente che ha generato dinamiche di vita e morte è stata l’attività mineraria che ha letteralmente ferito e dissanguato i nostri fiumi, con l’illusione di migliori condizioni per le persone e le comunità. Senza dimenticare la pandemia di Covid 19 e le sue conseguenze.
Il contesto ecclesiale ispirava molta speranza. La proposta di papa Francesco per una Chiesa in uscita, una Chiesa in cammino missionario, è sorta come un flusso di vita. Nella gioia del Vangelo ci ha proposto:
«[…] Osiamo un po’ di più di prendere l’iniziativa! Come conseguenza, la Chiesa sa “coinvolgersi”. Gesù ha lavato i piedi ai suoi discepoli. Il Signore si coinvolge e coinvolge i suoi, mettendosi in ginocchio davanti agli altri per lavarli. Ma subito dopo dice ai discepoli: “Sarete beati se farete questo” […]» (Eg 24).
È in questo contesto che abbiamo intrapreso l’avventura: tre laici, sette religiose (due suore domenicane della Presentazione e cinque Missionarie della Consolata), un sacerdote diocesano (padre José María Córdoba Rip, mandato da mons. Francisco Múnera, vescovo dell’allora vicariato di San Vicente Puerto
Leguízamo poi diviso per costituire questo secondo vicariato), otto missionari della Consolata, un missionario di San Juan Eudes e il vescovo di questa nuova giurisdizione.
Con tanti sogni nello zaino, ci siamo dati il compito di assumere il progetto, di lanciare la nuova giurisdizione, e semplicemente sognare la strada, con la ferma convinzione di camminare e costruire insieme. Per fare questo, il 7 ottobre di quello stesso 2013 ci incontrammo per vivere la prima Assemblea pastorale che aveva come obiettivo: «Avvicinarsi al progetto del nuovo Vicariato», e lo abbiamo fatto con un sentimento di novità. Da quell’assemblea sono nati tanti sogni, accompagnati da creatività e impegno missionario. Da allora, altri evangelizzatori si sono uniti, mettendo il cuore nel dare il meglio di sé a questo progetto.
Dalla Laudato Si’ al Sinodo amazzonico
Quasi non bastasse la sfida di una Chiesa in uscita, il pontefice ci ha rallegrati con un altro grande dono per noi come giovane Chiesa in Amazzonia: l’enciclica Laudato si’, con l’invito a una conversione integrale, che ci rende responsabili della cura della «casa comune». Per noi che, proprio in quel momento (era il novembre del 2017), stavamo preparando la prima Minga amazonica y fronteriza (incontro tra popolazioni dell’Amazzonia e della frontiera), è stato un balsamo che non solo ci ha fatto sentire di navigare nella giusta direzione con una causa risolutamente assunta dalla Chiesa, ma ci ha anche spinti a rispondere fedelmente all’impegno con il nostro contesto amazzonico.
La sintonia e l’impegno si sono ulteriormente rafforzati con la convocazione nell’ottobre 2017 del Sinodo sull’Amazzonia, con il quale Francesco ha inteso: «Metterci alla ricerca di nuovi cammini per la Chiesa in Amazzonia e per un’ecologia integrale». Negli anni, abbiamo camminato in questo flusso di ricerca, discernimento e costruzione collettiva.
In mezzo a tante sfide sociali e all’abbondante ricchezza ecclesiale, è nato il nostro primo progetto pastorale, ispirato dal Vangelo del buon Samaritano (Lc 10, 25-37). È lì che abbiamo sognato una Chiesa dal volto, dal pensiero e dal cuore amazzonici. Come, in seguito, verrà affermato nell’esortazione apostolica Querida Amazonía del sinodo per l’Amazzonia: «È la Chiesa dei seguaci di Gesù» che s’incarna in questo contesto e acquista un volto con le seguenti caratteristiche: è difensore della Casa comune; è senza confini; è fraterno, perché l’altro che cammina con me è mio fratello; è arricchito dalle spiritualità dei popoli che la abitano; è servo al servizio della comunità; è celebrante la vita e il cammino delle persone e delle comunità; è aperto all’universalità, in comunione con tutta la Chiesa.
Anche la riflessione ecclesiale e l’animazione vocazionale fanno parte dei raccolti ottenuti lungo il cammino. Tra i più recenti frutti raccolti in questo percorso, c’è senza dubbio la riflessione che si è sviluppata a partire dalle quattro opzioni missionarie (indigena, contadina, urbana e afrodiscendente) che oggi ci permette di fare chiarezza sul modo in cui dovremmo camminare con ognuno di quei quattro gruppi umani. Poi, come espressione di partecipazione al processo sinodale, abbiamo formato un’équipe interecclesiale in comunione con il fratello Vicariato di San José del Amazonas (Perù), per navigare sognando tra le due sponde. E ancora: l’équipe intercongregazionale, il gemellaggio missionario con la provincia ecclesiastica di Bucaramanga, la creazione delle nuove parrocchie (Nuestra Señora la Consolata, San Francisco de Asís e Nuestra Señora de la Asunción), per essere più vicini a paesi e comunità, e il «Centro amazzonico per il pensiero interculturale», che sta nascendo e si sta rafforzando.
Tutto questo raccolto è stato possibile grazie allo spirito di famiglia che abbiamo creato fin dall’inizio; una famiglia che si rafforza e cresce e che accoglie tutti coloro che entrano a far parte del progetto.
Alcuni partono e altri arrivano: le suore Serve dello Spirito Santo, le Missionarie della Speranza, l’Arcidiocesi di Bucaramanga, la Diocesi di Málaga-Soata, le
Carmelitane missionarie, le suore della Compagnia di Maria, le suore Missionarie dell’Immacolata Concezione, le suore Domenicane di Santa Caterina da Siena, le suore Missionarie del Buon Pastore, alcuni missionari laici, la diocesi di Ismina Tadó, i paesi, le comunità e le persone con cui camminiamo e, naturalmente, i benefattori.
In attesa della seconda «Minga amazonica»
L’assemblea pastorale, svoltasi a Puerto Leguízamo dal 7 all’11 novembre dello scorso anno, ha fatto da cornice all’inizio dei festeggiamenti. Sotto il motto: «Dieci anni di cammino insieme perché in Cristo abbiamo la vita». Viviamo questa celebrazione nel contesto in un altro momento ecclesiale molto importante, un’altra proposta di papa Francesco, il sinodo della sinodalità, dove ci viene chiesto di tornare su tre aspetti importanti ed essenziali della Chiesa: comunione, partecipazione e missione. Indubbiamente, questo quadro o meglio questa spiritualità ci permetterà di leggere i primi dieci anni di storia e continuare il cammino.
Questo 2023 chiuderà i festeggiamenti per il decennale del Vicariato con l’esperienza della seconda «Minga amazonica», che avrà il titolo di: «Un modello di vita dal e per il contesto». Partendo dall’«ecologia della speranza», uno sguardo interdisciplinare e interistituzionale per sognare insieme un nuovo modello di vita.
Per una storia plurale
La celebrazione dei nostri primi dieci anni ci ha permesso di avere una visione retrospettiva del cammino fatto e una proiezione verso il futuro, verso nuovi tempi e nuove mete, avendo come obiettivo una buona vita per una buona convivenza. Tutti siamo incoraggiati a continuare a forgiare percorsi per i nuovi tempi, armonizzando metodi e strategie. In altre parole, la storia che sta scrivendo il Vicariato Apostolico di Puerto Leguízamo-Solano è una storia plurale, costruita a più mani, contemplando un ampio orizzonte, camminando insieme affinché i popoli e la gente di questo territorio abbiano la vita in Cristo.
Joaquín H. Pinzón Güiza
Il Vicariato e l’opzione indigena
Il «rostro indigeno»
Il Vicariato apostolico di Puerto Leguízamo-Solano si trova in un territorio amazzonico bagnato dai fiumi Caquetá e Putumayo. Territorio e fiumi nascondono diversità di specie che, intrecciate, proteggono l’ecosistema e danno speranza al mondo. Questa zona racchiude una varietà di volti tra i quali molti popoli indigeni: Murui, Koreguaje, Inga, Kichwa, Siona, Kofane, Nasa.
Sono popoli originari che alla Chiesa chiedono un’evangelizzazione differenziata che, attraverso il dialogo interreligioso, rispetti le loro conoscenze ancestrali e la loro visione del mondo. Sono indigeni che chiedono l’accompagnamento della Chiesa per affrontare le nuove sfide dell’epoca attuale, segnata dall’ondata di violenza, dalla difesa dei propri territori e dal continuo esodo migratorio verso le aree urbane.
Eduardo Reye Prada (Imc)
Il Vicariato e l’opzione contadina
Il «rostro campesino»
In questa immensa, bella e sorprendente Amazzonia troviamo anche il volto contadino. La stragrande maggioranza proviene da altri luoghi della Colombia spinta da ragioni diverse: per occupare terre abbandonate, per cercare guadagno, per fuggire alla violenza che purtroppo affligge il nostro paese. Sono venuti qui con la loro cultura e le loro tradizioni cercando di ricostruire la loro vita.
La Chiesa rende visibili i bambini contadini, i giovani e gli anziani prematuramente invecchiati a causa delle difficili condizioni di vita. Hanno vissuto e vivono realtà molto dure: come possiamo aiutarli? Tra le difficoltà che incontriamo ci sono l’isolamento, la mancanza di opportunità in materia di istruzione, sanità, comunicazione, strade di accesso, pagamento equo per i loro prodotti, abusi da parte di diversi gruppi armati.
Le comunità campesine rivendicano e apprezzano la presenza della Chiesa. Noi rispondiamo con una pastorale di presenza incarnata nelle popolazioni rurali, con un essere con loro. Questo ci ha richiesto lo sforzo di conoscere la storia del mondo contadino, d’incarnarci come Gesù, di scendere nel profondo, ascoltarli, cercare di vedere il mondo, la realtà dal loro punto di vista, uscire, camminare con e verso di loro, cercandoli.
Consapevoli che la pastorale contadina deve abbracciare l’ecologia integrale mettendo in relazione tra loro Dio, i fratelli, il creato; consapevoli che Gesù ha parlato ai contadini della terra, del seme, del frutto, del raccolto, del- la zizzania; consapevoli che il cristianesimo è nato in ambiente contadino, nel nostro essere missionario noi coltiviamo una disposizione umile, semplice e vicina; una vita sobria, vivendo la spiritualità del presepe, del lievito, del piccolo. Impariamo da loro riconoscendo e rafforzando i loro valori: lavoro, pazienza, perseveranza, rispetto dei processi, accettazione, spirito di sacrificio, tenacia, capacità di ricominciare.
Nella nostra visita permanente alle famiglie e alle scuole contadine, promuoviamo iniziative che migliorino la loro qualità di vita (come la coltivazione di prodotti regionali) e contribuiamo a sensibilizzare alla cura della Casa comune. E, soprattutto, aiutiamo tutti a riscoprire valori, come la Parola di Dio, la preghiera, la celebrazione dei sacramenti e la proposta di un cammino di crescita e maturazione nella fede. Cerchiamo leader e collaboriamo alla formazione dei nostri agenti di evangelizzazione al fine di fornire un catechista a ogni comunità contadina, perché in Cristo tutti abbiamo la vita.
Maria del Carmen López (Cm)
Il Vicariato e l’opzione afro
Il «rostro afroamazonico»
Il popolo afroamazzonico apprezza la vicinanza e il sostegno che, in questi dieci anni, ha trovato nel Vicariato apostolico di Puerto Leguízamo-Solano. Vicinanza e sostegno nella ricerca per rafforzare la propria identità e soprattutto per cercare uno spazio in questa Amazzonia, dove gli afrodiscendenti sono arrivati in momenti diversi della storia recente e per circostanze diverse. Gli afrodiscendenti sono consepevoli che stanno crescendo in questo territorio di pari passo con la Chiesa e sono disposti a continuare a partecipare alle dinamiche pastorali che si stanno portando avanti.
Essi chiedono al Vicariato di continuare ad accompagnare i loro processi. Vogliono sentirsi parte delle dinamiche ecclesiali. Chiedono sostegno per poter acquisire uno spazio dove costruire la loro casa ancestrale: è essenziale avere uno spazio per rafforzare la cultura e la spiritualità. Vogliono continuare a partecipare e ad animare le celebrazioni della fede cattolica che li identificano come comunità afro: la festa di Nuestras Señora de la Candelaria (2 febbraio) e la festa di San Francesco d’Assisi («San Pacho», 4 ottobre).
Come Chiesa del Vicariato apostolico di Puerto Leguízamo-Solano dal volto amazzonico, noi ci sentiamo felici di avere la ricchezza (anche) del volto afro e vogliamo diventare partecipi delle loro ricerche e dei loro processi affinché insieme possiamo avere la vita in Cristo.
Lelia Yaneth Márquez (Op)
Il Vicariato e l’opzione urbana
Il «rostro urbano»
Nel contesto urbano, il Vicariato apostolico di Puerto Leguizamo-Solano ha potuto conoscere una serie di realtà che, essendo particolarmente diverse, richiedono uno speciale programma di evangelizzazione.
Inizialmente, al loro arrivo in questa regione, i primi missionari e missionarie avevano una visione generica del modo di vivere degli abitanti nel settore urbano.
La realtà in cui vivono le famiglie in questo «giardino esotico» che è l’Amazzonia, si riassume sostanzialmente nelle poche opportunità di lavoro per la loro sussistenza. Si può osservare che vivono a malapena di pesca e di lavoro nei campi da cui ricavano prodotti come manioca, piantaggine, papaya, mais, tra gli altri frutti che questa buona terra permette loro di raccogliere.
Come Vicariato ci troviamo in contatto anche con il mondo giovanile, che diventa una grande sfida per svolgere la nostra opera di evangelizzazione. Ai giovani mancano le opportunità per realizzare il loro progetto di vita. E questo causa problemi come droga, alcolismo, prostituzione e alcuni stili di vita che possono addirittura spingere molti giovani a entrare nelle fila dei gruppi armati clandestini che fanno parte del tessuto sociale di questa regione.
La popolazione fluttuante, invece, include tutti quegli abitanti giunti sul territorio in cerca di nuove opportunità, di una nuova strada, e che, nella maggior parte dei casi, fuggono dalle incertezze del passato. È proprio qui, nella ricerca di una direzione inedita, che con il nostro lavoro essi possono trovare un modello per cristianizzare la loro vita, evitando con ciò che le realtà negative della loro nuova casa diventino troppo gravose.
In conclusione, guardare al settore urbano richiede una visione ampia attraverso un servizio vocazionale e di evangelizzazione per andare alla ricerca di uno sviluppo per ogni volto che questo contesto amazzonico ospita. Ci riferiamo ai volti urbano, afro, contadino e indigeno che compongono questo paradiso multiculturale.
Fernando Ramirez e Ricardo Bocanegra (Imc)
Archivio MC
Paolo Moiola, È l’Amazzonia, dossier, marzo 2018.
È il reportage sulla prima «Minga amazonica y fronteriza» del Vicariato apostolico di Puerto Leguízamo-Solano. La seconda edizione si svolgerà quest’anno.
Nel 49° stato degli Usa – posto a ridosso del Circolo polare artico – il cambio climatico è molto più evidente che altrove. Come dimostra il rapido scioglimento dei ghiacciai con tutte le conseguenze che ciò comporta. Eppure, oggi si discute su come portare le trivellazioni petrolifere in altre aree dello stato. Aree ancora intonse e selvagge.
Seward (Kenai). È una fila di cippi in legno, ciascuno con segnato un anno: 1830, 1917, 1926, 1951, 2015… Distano qualche decina di metri l’uno dall’altro: più recente è l’anno, maggiore è la distanza tra un cippo e l’altro, una distanza che misura il regresso del ghiacciaio. I numeri parlano da soli. Tra il 1815 e il 2015, esso si è ritirato di 2,5 chilometri con una progressione costante: da 19,7 metri all’anno a 29,4 (2006-’10) a 44,5 (2011-’15). In questi ultimi anni poi, l’«eccezionale» (secondo la University of Alaska-Fairbanks) incremento delle temperature medie ha ulteriormente accelerato il ritmo dello scioglimento.
Quei cippi in legno sono come lapidi funerarie che rammentano, a chiunque voglia vedere, l’agonia di Exit, questo il nome del ghiacciaio, il più accessibile tra i 35 ospitati dall’altopiano di Harding, nel Kenai Fjords National Park, sulla penisola del Kenai, a Sud di Anchorage, la città più grande (290mila abitanti) dell’Alaska.
Il ritiro di Exit è impressionante, ma probabilmente il sentimento più forte è la tristezza di vedere una meraviglia della natura contrarsi, rattrappirsi come un corpo che invecchia. Exit è soltanto uno degli oltre 27mila ghiacciai (dato 2021) dell’Alaska, che, in totale, occupano circa il 5 per cento del suo territorio (costituito a Sud dalla taiga e a Nord dalla tundra).
Oggi l’Alaska – 49° stato ad aderire agli Usa (3 gennaio 1959), il più grande (quasi sei volte l’Italia) e il meno popolato (meno di 800mila abitanti) – è la rappresentazione plastica e tangibile dei mutamenti climatici.
L’Alaska sta sperimentando profonde alterazioni ambientali dovute a eventi meteorologici estremi e mutamenti nel clima storico. Le conseguenze – temperature più alte, perdite di ghiaccio marino, riduzione del manto nevoso, degradazione del permafrost, inondazioni, incendi, acque dell’oceano più calde e cambiamenti dell’ecosistema (sia marino che terrestre) – stanno producendo impatti sulla vita quotidiana degli abitanti dello stato.
L’innalzamento della temperatura varia notevolmente da regione a regione, con il riscaldamento nelle parti settentrionali e occidentali che è doppio rispetto al tasso riscontrato nell’Alaska Sudorientale. L’International Arctic Research Center (Iarc, Università di Fairbanks, 2019) ha, infatti, registrato temperature fino a 3,2 gradi Celsius più elevate nelle zone settentrionali, fino a 2,0 gradi Celsius nelle zone meridionali e fino a 1,1 gradi Celsius lungo le coste e negli arcipelaghi.
Se crescono più alberi
Le poche strade dell’Alaska hanno caratteristiche precise: dritte, lunghissime e praticamente senza traffico, si addentrano tra la taiga o la tundra. La taiga è l’ambiente tipico dell’Alaska meridionale. Più si procede verso il centro e verso Nord, più gli alberi si riducono in dimensioni (diventano piccoli e sottili) e numero, fino a scomparire del tutto, dando origine alla tundra. Tuttavia, negli ultimi anni, a causa dei mutamenti climatici, questa ha mostrato una crescita verde (greening, più piante) maggiore rispetto alla media nel lungo periodo. Un fenomeno evidenziato anche nei parchi nazionali dall’innalzamento della cosiddetta «linea degli alberi» (treeline). Come nel parco del Denali dove il passaggio dalla taiga alla tundra si distingue nitidamente. «Guardate – ci fa notare Laurie, una guida del parco -, oggi gli alberi crescono più in alto. Con conseguenze a catena, in primis sulla fauna».
Per ammirare il parco dall’alto e in particolare il Denali (per quasi un secolo chiamato Monte McKinley), per prominenza la terza montagna al mondo (6.138 metri), il piccolissimo aeroporto di Talkeetna è la base di partenza migliore. Fondata nel secondo decennio del Novecento, con circa mille abitanti ufficiali, la cittadina è, a conti fatti, una strada fiancheggiata da una fila di ristorantini e negozietti.
Entriamo al Village Arts and Crafts, uno dei piccoli empori aperti a beneficio dei turisti. Alla cassa c’è Ruth Cook, la proprietaria, una donna anziana e minuta. «Sono qui da tutta la mia vita – racconta con voce amichevole -, e ho visto tante cose cambiare. Sono cresciuti i turisti, i rifiuti e la mancanza di rispetto. E, soprattutto, i mutamenti causati dall’aumento delle temperature».
Anche se oggi il cielo è molto coperto e la pioggia incombente, i piccoli velivoli decollano da Telkeetna: volare sulla catena montuosa del Denali è un’esperienza imperdibile perché permette di ammirare lo spettacolo delle vette e dei ghiacciai. E, infatti, le aspettative sono ampiamente ripagate. Tuttavia, ai nostri occhi inesperti la visione dall’alto non consente di distinguere i segni della malattia climatica. Segni che invece appaiono evidenti in un’altra zona geografica.
Will Popoli non ha ancora vent’anni e studia geologia e storia all’Amherst College, nel Massachusetts. A McCarthy-Kennicott, all’interno del vastissimo parco nazionale Wrangell St. Elias, sta facendo esperienza come guida con l’agenzia St. Elias Alpine Guide.
Mentre, con i ramponi ai piedi, camminiamo sul Root Glacier, ci spiega le cose essenziali del ghiacciaio: i detriti morenici, la colorazione blu del ghiaccio e, soprattutto, la sua progressiva riduzione. «Sì, penso che in Alaska stia accelerando la velocità con cui i ghiacciai si stanno sciogliendo. Questo è un fatto molto preoccupante». Il Root è un affluente del Kennicott, il ghiacciaio principale. Le ricerche degli scienziati confermano che questo continua a ritirarsi ed espandere l’area coperta da detriti.
Dominio conservatore
Va riconosciuto che i 16 parchi nazionali dell’Alaska, a cui vanno aggiunti i National wildlife refuges (rifugi nazionali per animali selvatici), hanno finora rappresentato una diga contro gli interessi dei politici repubblicani e le mire dei signori del petrolio. Ma cosa pensano gli alaskani della situazione ambientale del loro stato?
Nelle conversazioni, la sensazione è che nessuno neghi gli effetti della crisi climatica, ma – allo stesso tempo – sono in molti a ritenere i mutamenti ambientali come un fenomeno naturale negando o sminuendo le responsabilità umane. Una constatazione questa che trova spiegazione (anche) nella storia dell’Alaska.
Già dal 1867 (anno in cui gli Usa l’acquistarono – a prezzo di saldo – dalla Russia zarista), la regione è stata terra di conquista del Gop (Grand old party), il partito conservatore statunitense che, per Dna, considera il cambio climatico alla stregua di una fake news. Come hanno dimostrato anche le elezioni locali (sia primarie che suppletive) dello scorso 16 agosto (e quelle di mid-term dell’8 novembre), dominate da esponenti repubblicani, eccezion fatta per la performance della democratica Mary Peltola, candidata di etnia Yup’ik, il maggiore tra i popoli indigeni dello stato (che, in totale, rappresentano il 21% della popolazione). La Peltola ha sconfitto addirittura Sarah Palin, l’ex governatrice (ed esponente del Tea Party) sostenuta da Trump.
Per ironia della sorte, le votazioni alaskane di agosto si sono tenute nello stesso giorno in cui un redivivo Joe Biden firmava la legge nota con l’acronimo di Ira (Inflation reduction act of 2022), un piano in cui sono previsti 369 miliardi di dollari di investimenti per l’energia e il contrasto ai cambiamenti climatici.
Andare oltre Prudhoe Bay?
La crisi climatica che ha investito l’Alaska è certificata da decine di studi scientifici, eppure oggi non si discute su come contrastare o, almeno, mitigare la contrazione dei ghiacciai. No, si discute di come portare le trivellazioni petrolifere nel Nord dello stato, al di fuori di Prudhoe Bay (davanti al Mar Glaciale Artico), il sito dove, da 45 anni, si estrae il petrolio dell’Alaska. Lo stato è il sesto produttore statunitense, ma la produzione è in costante declino dal 1990, arrivando oggi a 448mila barili al giorno contro i due milioni di un tempo (dati Eia, 2020).
L’espansione avverrebbe sia a Nord Ovest (nella National petroleum reserve-Alaska) che a Nord Est, nella ragione al confine con il Canada e nota come Arctic national wildlife refuge, paradiso ancora incontaminato dei caribou (renne selvatiche), ma anche di orsi (compresi quelli polari), volpi artiche, alci, buoi muschiati e lupi grigi. Dopo il permesso di esplorazione petrolifera nell’area concesso da Trump già nel dicembre 2017, il presidente Biden è riuscito – almeno per ora – a fermare il progetto (ordine esecutivo del 20 gennaio 2021).
Tuttavia, la partita non è certamente chiusa, soprattutto nella National petroleum reserve-Alaska, dove – sotto la superficie della tundra – sono state individuate vaste riserve d’idrocarburi.
Qui il progetto di trivellazione della ConocoPhillips – noto con il nome di Willow project – è stato approvato da Trump nel 2020, fermato dai tribunali nel 2021 e ancora in corso di valutazione da parte dell’amministrazione Biden da luglio 2022.
In agosto, i cartelloni elettorali di Lisa Murkowski, senatrice repubblicana dell’Alaska (considerata moderata e ben vista anche da alcuni avversari perché anti trumpiana), erano visibili anche nei posti più impensabili e disabitati dello stato.
La senatrice ha ottimi rapporti con l’industria petrolifera e, in particolare, proprio con la ConocoPhillips, il principale produttore (con ExxonMobil e Chevron che seguono a distanza) dell’Alaska, compagnia da cui lei ha ricevuto anche fondi per la propria campagna elettorale. Non stupisce, pertanto, che la Murkowski appoggi il Willow project. «Produrrà – scrive la senatrice – fino a 160mila barili di petrolio al giorno e creerà oltre duemila posti di lavoro ben pagati per gli abitanti dell’Alaska». Ben diversa è la posizione degli scienziati e della Wilderness society: Willow è una bomba al carbonio (carbon bomb) che aggiungerebbe più di 250 milioni di tonnellate di CO2 all’atmosfera nei prossimi 30 anni e probabilmente stimolerebbe la costruzione di strade, oleodotti e impianti di lavorazione.
Come prevedibile, il progetto è altamente divisivo tra gli stessi nativi. L’Arctic slope regional corporation (Asrc), società degli Iñupiat (creata nel 1972 in seguito all’Ancsa, la legge sulle terre), lo appoggia, mentre gli indigeni ambientalisti (per esempio, quelli riuniti nell’Alaska climate alliance) lo contrastano con forza. Ma si tratta di una lotta impari perché l’industria petrolifera è «la vacca sacra della politica dell’Alaska» (the sacred cow of Alaskan politics), secondo la definizione dell’Earth island institute di Berkeley.
Disastri ambientali e dollari
Lo si capisce anche a Valdez, tra le penisole, i fiordi e i «ghiacciai di marea» (quelli che terminano nell’acqua del mare) dello stretto Prince William.
Il suo piccolo porto ha un fascino particolare, con i pescherecci, i battelli turistici e gli uccelli in attesa dei resti del pesce che, appena sbarcato sulla banchina, viene subito tagliato e ripulito da addetti rapidissimi. Più lontana e defilata, confusa nella nebbia, c’è un’altra banchina, molto anonima. Alla fonda c’è una lunga nave cisterna e sulla terraferma, posti in posizione sopraelevata, dei grandi serbatoi circolari e un lungo serpente di tubi. È la stazione finale del Trans Alaska pipeline system (Taps), l’oleodotto che, dal 1977 e per 1.300 chilometri, attraversa l’Alaska da Nord a Sud.
Le sue tubazioni, innalzate a un metro dal terreno (per questioni di permafrost), affiancano la strada da Prudhoe Bay a Fairbanks (seconda città dello stato, situata a circa 200 chilometri dal Circolo polare artico) fino al terminal di Valdez. È da qui che, nel marzo del 1989, partì una superpetroliera della multinazionale Exxon che s’incagliò poco dopo riversando nel golfo dell’Alaska milioni di litri di petrolio, producendo uno dei peggiori ecocidi (morirono, tra l’altro, balene, lontre marine, salmoni, uccelli marini, aquile) della storia moderna, con l’inquinamento di duemila chilometri di costa e 28mila chilometri quadrati di oceano: a 33 anni da quel disastro non si è ancora tornati alla normalità.
Eppure, nonostante problemi e rischi ambientali, il petrolio e l’oleodotto che lo trasporta continuano a foraggiare gran parte del bilancio dell’Alaska e sono anche un persuasivo strumento politico, come ben sa Mike Dunleavy, il governatore repubblicano dello stato. Già a luglio, con la dovuta enfasi accentuata dalla vicinanza delle elezioni (poi vinte), Dunleavy aveva annunciato che, dal 20 settembre, a ogni residente alaskano sarebbe stata pagata la somma di 3.200 dollari come dividendo derivante dallo sfruttamento delle risorse petrolifere e minerarie dell’Alaska. In realtà, il Pfd (Permanent fund dividends) non costituisce una novità, considerato che viene distribuito ogni anno dal 1976 rappresentando per molte famiglie una fonte di reddito importante in uno stato con un costo della vita elevatissimo.
Trivelle versus ambiente
Alla fine, anche in Alaska, il dibattito è sempre lo stesso: una visione economicista e di corto respiro (lo sfruttamento delle risorse petrolifere) ma molto ben pubblicizzata, contro una visione dell’esistenza più complessiva e più preoccupata del futuro della «casa comune».
«The last frontier», si legge sovente sulle targhe automobilistiche dell’Alaska. In verità, l’ultima frontiera territoriale è divenuta l’ultima frontiera climatica: luogo simbolico in cui i ghiacciai si sciolgono a un ritmo sempre più sostenuto, ma dove l’homo politicus prosegue con tracotanza su strade che, al di là delle circostanze attuali (guerra e tensioni internazionali), la natura e la storia hanno già bocciato.
Paolo Moiola
Da Jack London ad Alex
Autobus 142, ultima fermata
Jack London e Charlie Chaplin, ma anche il fumetto di zio Paperone. Personaggi diversi con storie diverse, ma con un elemento in comune: l’Alaska e la corsa all’oro che, a fine Ottocento, richiamò in quelle regioni almeno centomila cercatori. Il californiano Jack London aveva solo 21 anni quando – era il 1897 – sbarcò in Alaska per fare fortuna. Non trovò il prezioso metallo, ma trovò la fama scrivendo due piccole gemme della letteratura The call of the wild (Il richiamo della foresta) e White Fang (Zanna bianca).
L’attore e regista Charlie Chaplin in realtà non girò The gold rush (La febbre dell’oro) in Alaska, ma ricreò quei luoghi in maniera stupefacente considerando che correva l’anno 1925. Sia la versione muta del film che quella sonora (uscita nel 1942) sono considerati capolavori del cinema mondiale.
Nel 1947 arrivò anche zio Paperone (Uncle Scrooge), i cui ideatori fanno risalire la sua immensa fortuna all’oro trovato nel fiume Klondike, nella regione canadese dello Yukon, ai confini con l’Alaska.
Non cercava l’oro, ma una diversa esperienza di libertà il giovane Alex Supertramp (soprannome di Chris McCandless) che, nell’agosto del 1992, morì di fame e di stenti in un vecchio autobus – verniciato di bianco e verde e segnato con il numero 142 – abbandonato dal 1961 nelle foreste dell’Alaska, vicino al Denali National Park. La sua storia, tanto straordinaria quanto tragica, è stata raccontata in un libro (di Jon Krakauer) e poi in un film (di Sean Penn) dal titolo Into the wild. Il 19 giugno 2020 l’autobus 142 (conosciuto come «Magic bus») è stato trasportato all’Università dell’Alaska, a Fairbanks. Ultima fermata per una moderna icona di libertà.
Pa.Mo.
Non chiamateli Eschimesi
I popoli nativi
In Alaska, ci sono oltre centosettantamila indigeni (alaskan natives) divisi in una decina di gruppi principali. Il loro destino non è dissimile da quello dei popoli autoctoni di altre regioni del mondo: la difficile lotta per la terra e per preservare la propria cultura. Con un problema in più: la cooptazione nel sistema dei bianchi attraverso una legge del 1971.
Anchorage. Nel buio della stanza, i volti illuminati dei nativi risaltano sul grande schermo interattivo. Ognuno racconta la propria storia. Una storia incredibile, a lungo tenuta nascosta e ancora oggi poco conosciuta.
«Durante gli anni Cinquanta e l’inizio dei Sessanta – si legge -, i nativi del Nord dell’Alaska furono deliberatamente esposti a radiazioni senza esserne a conoscenza o senza il loro consenso. Gli esperimenti inclusero la somministrazione di pillole ad alta radioattività di iodio (I-131) per studiare come l’ambiente freddo influisse sulla ghiandola tiroidea. I rifiuti radioattivi furono bruciati vicino ai villaggi per testare come le radiazioni si diffondessero nell’Artico».
Gli esperimenti rientravano nell’ambito del «Project Chariot» della Commissione statunitense per l’energia atomica il cui obiettivo dichiarato era la creazione di una baia per costruire un porto a Point Hope, un piccolo e isolatissimo villaggio Iñupiaq, attraverso l’utilizzo di ordigni atomici.
L’installazione – chiamata «cold treatment» (trattamento a freddo) – si trova nello spazio Alaska Exhibition all’interno dell’Anchorage Museum, il moderno e interessantissimo museo della più grande città alaskana.
La vicenda del Project Chariot e quanto raccontato nella sala dedicata ai popoli nativi dell’Alaska (Smithsonian arctic studies center gallery) porta ad affermare che la storia dei nativi dell’Alaska è identica a quella di tanti altri popoli indigeni invasi, uccisi, conquistati o schiavizzati dai bianchi.
Cittadini di seconda classe
Il quattordicesimo emendamento della Costituzione degli Stati Uniti, che prevede la cittadinanza a chi nasca sul territorio nazionale, risale al 1868. Incredibilmente ne rimasero esclusi i nativi americani. Non avendo la cittadinanza statunitense, non potevano vantare diritti sulla terra, a tutto beneficio dei bianchi. Essi furono cittadini di seconda classe per ben 56 anni. Infatti, soltanto nel 1924 il Congresso emanò l’«Indian citizenship act» che concedeva la cittadinanza (e, quindi, il diritto di voto) anche a loro. Tuttavia, alcuni stati vietarono ai nativi di votare ancora per decenni. L’ultimo a conformarsi al dettato costituzionale fu il Maine nel 1954.
Per vedere posto un limite al processo di assimilazione e riconosciuto il diritto all’autodeterminazione, i nativi dovettero però attendere fino al 1934, quando il presidente Roosevelt firmò l’«Indian reorganization act». Ancora più lunga fu l’attesa per la completa libertà religiosa che arrivò soltanto nel 1978 con l’«American indian religious freedom act».
I nativi dell’Alaska e l’Ancsa
Era comune riferirsi ai popoli nativi dell’Alaska e delle altre regioni artiche (Siberia, Nord del Canada e Groenlandia) con il termine di «Eschimesi» (Eskimo, in inglese). L’etimologia non è chiara, spaziando da «fabbricanti di racchette da neve» a «mangiatori di carne cruda» a «scomunicati» (perché non cristiani). Introdotto dai colonizzatori bianchi, il termine andrebbe evitato essendo considerato razzista e dispregiativo, oltre che generico, visto che si riferisce a etnie con tratti fisici e culturali (ad esempio, la lingua) diversi.
La riscossa indigena iniziò il 5 novembre 1912 quando undici nativi (del gruppo dei Tlingit) e una nativa fondarono la Fratellanza dei nativi dell’Alaska (Alaska native brotherhood, Anb), seguita nel 1914 dalla Sorellanza (Alaska native sisterhood, Ans).
Le due organizzazioni si prefiggevano la promozione della solidarietà tra le popolazioni autoctone, il raggiungimento della cittadinanza statunitense (ottenuta nel 1924), l’abolizione del pregiudizio razziale e il riconoscimento dei diritti economici attraverso l’attribuzione dei titoli sulla terra e sulle risorse minerarie, nonché la difesa del salmone, loro alimento essenziale.
Dopo l’ammissione nell’unione statunitense come 49° stato, avvenuta il 3 gennaio 1959, l’Alaska divenne ancora di più terra di conquista.
Nel 1966, Willie Hensley, un Iñupiaq nato poche decine di chilometri sotto il Circolo polare artico, fondò la Federazione dei nativi dell’Alaska (Alaska federation of natives, Afn) allo scopo di difendere le terre indigene.
La questione fondiaria divenne esplosiva nel 1968, quando la Atlantic-Richfield Company (Arco, oggi Bp Amoco) scoprì ingenti riserve di petrolio a Prudhoe Bay, sulla costa artica dello stato, e, successivamente, propose la costruzione fino al porto di Valdez di un oleodotto (il Trans Alaska pipeline, Tap), che transitava su territori indigeni.
Una soluzione fu trovata con la legge sulla risoluzione dei reclami dei nativi dell’Alaska (Alaska native claims settlement act, Ancsa), firmata da Richard Nixon il 18 dicembre 1971. «Una pietra miliare nella storia dell’Alaska e nel modo in cui il nostro governo tratta i nativi», commentò il presidente. Per essi la legge stabilì un’assegnazione di terre (44 milioni di acri, pari a circa il 13 per cento dell’intero territorio), una compensazione monetaria (quasi un miliardo di dollari) e un’organizzazione dei nativi in società a scopo di lucro (corporations, 12 più una nata in seguito) e villaggi (200) attraverso cui gestire le terre da loro occupate e i profitti derivanti dallo sfruttamento delle risorse minerarie (petrolio, in primis). L’impatto dell’Ancsa sulle popolazioni autoctone fu enorme dando loro potere e influenza, ma non fu privo di conseguenze negative su stili di vita e cultura.
Chi sono, quanti sono
Stando agli ultimi dati (U.S. Census bureau, 2020), oggi in Alaska si contano 172.712 indigeni, pari al 21,86 per cento della popolazione, la percentuale più alta tra gli stati americani.
Secondo l’Alaska federation of natives (Afn), si distinguono una decina di gruppi principali distribuiti in specifiche regioni del paese: Iñupiaq e Yup’ik di San Lorenzo (Alaska Nordoccidentale, Mare di Bering e isola di San Lorenzo); Yup’ik e Cup’ik (Alaska Sud occidentale); Athabascan e Dena’ina (Alaska interna); Alutiiq (o Sugpiaq; nel Kenai, Kodiak, Prince William Sound) e Aleut (o Unangax, sulle isole Aleutine); Eyak, Tlingit, Haida, Tsimshian (Alaska Sud orientale). Per consistenza i gruppi maggiori sono gli Yup’ik (34mila), gli Iñupiaq (20.800) e i Tlingit (14mila).
Le comunità native più isolate, quelle non raggiungibili via strada (chiamate «bush communities»), vivono ancora oggi della pesca (salmone e halibut, soprattutto) e della caccia di animali selvatici (renne-caribou e alci-moose, in primis).
Mary Peltola: «I am pro fish»
Per i popoli indigeni dell’Alaska una buona notizia è arrivata lo scorso agosto (e ribadita l’8 novembre nelle elezioni di mid term) con l’entrata di una loro rappresentante nel Congresso degli Stati Uniti. Lei – Mary Peltola, democratica di etnia Yup’ik – è la prima nativa alaskana eletta deputata a Washington.
Nata a Bethel, sul fiume Kuskokwim, cinquanta anni fa, la donna è un avvocato e una politica specializzata nella difesa della pesca in Alaska. Tanto che, sul suo sito, lei dichiara: «I am pro fish» (Sono a favore del pesce) e «Fighting for our fish is critical to preserving our Alaska way of life» (Lottare per il nostro pesce è fondamentale per preservare il nostro stile di vita alaskano). Non sono affermazioni esagerate. In effetti, la pesca – quella del salmone, in particolare – è un’attività vitale per le popolazioni autoctone. La stessa Peltola racconta di aver iniziato a pescare con il padre all’età di sei anni.
Oggi la pesca è un’attività in grave rischio, soprattutto la pesca del salmone, il pesce più pregiato e richiesto. Nella loro migrazione fiume-oceano-fiume, i salmoni tornano indietro in numero sempre minore. Tra le possibili cause vengono annoverati i cambiamenti climatici, l’acidificazione degli oceani e i troppi pescherecci stranieri. Per i molti nativi che ancora vivono di questa attività il problema è diventato una questione di sopravvivenza.
Paolo Moiola
Strumenti di assimilazione
I nativi e la trappola del petrolio
«Appartenevo – ha raccontato Willie Hensley, Iñupiaq, tra i fondatori dell’Alaska federation of natives – a quella generazione che stava ancora cacciando e pescando e vivendo in tende di zolle e usando i cani per muoversi. C’erano pochissimi soldi allora e abbiamo dovuto lottare davvero. Ricordo di avere avuto molti denti marci fino alle gengive e nessuno che si prendesse cura di essi. Abbiamo davvero lavorato sodo. Era una vita normale; era solo una vita dura. Semplicemente non avevamo reti di sicurezza».
Oggi, per i nativi dell’Alaska le «reti di sicurezza» ci sono, ma anche altre cose sono cambiate e non per il meglio. Dopo la scoperta dei giacimenti petroliferi, nel 1971 la legge del Congresso statunitense, nota con l’acronimo di Ancsa (Alaska native claims settlement act), ha in gran parte eliminato le rivendicazioni sulla terra da parte dei popoli indigeni a favore della creazione di società a loro affidate (Alaska native regional corporations e Alaska native village corporations). Queste società – create sulla base di zone geografiche ed etnicamente connotate – sono nate come entità private orientate al profitto.
Tra le 13 società regionali, le principali sono la Arctic slope regional corporation degli Iñupiat, la Nana regional corporation, anch’essa con azionisti Iñupiat, la Aleut corporation degli Unaganx, la Doyon corporation degli Athabasca, la Calista corporation degli indigeni Yup’ik, Cup’ik e Athabasca. Sui siti web di queste compagnie sono magnificati i benefici arrivati alle popolazioni locali, ma non tutti sono d’accordo.
Già negli anni Settanta, anche prima della costruzione della Trans Alaska pipeline, Eben Hopson (1922-1980), leader iñupiaq e politico democratico, aveva avvertito dei pericoli insiti nel denaro derivante dal petrolio. In un suo discorso pubblico, affermò: «La politica dell’Artico non è più la politica delle persone, ma è la politica del petrolio». E aggiunse: «La politica del boom petrolifero crea dipendenza».
In questi anni sono aumentati i nativi preoccupati per uno sviluppo fondato su petrolio e gas, sviluppo che implica inevitabili impatti ambientali (e culturali) in uno stato già colpito duramente dagli effetti del cambiamento climatico. Vanno menzionati, per esempio, il Native movement, l’Alaska climate alliance, l’Alaska native oil and gas working group.
Questi gruppi si oppongono ai nuovi progetti petroliferi e propongono di puntare sulle energie rinnovabili diversificando l’economia dello stato. Tuttavia, al cospetto delle società dei nativi e delle compagnie petrolifere, la loro voce è ancora un sussurro. Almeno per il momento.
Pa.Mo.
Cacciatori di pellicce e missionari
Religione e chiese in Alaska
I primi non indigeni s’insediarono in Alaska all’inizio del 1700. Dopo di loro, arrivarono anche i missionari, prima gli ortodossi russi, poi gli anglicani e i cattolici.
Hope (Kenai). A lato della strada forestale, ad alcuni chilometri da Hope, villaggio che in inverno non raggiunge i cento abitanti, c’è una chiesetta in legno. Al momento non è aperta, ma le evidenze esteriori dimostrano che è funzionante. A parte quelle di Anchorage, Fairbanks e Jeneau – le tre principali città dello stato – la maggior parte delle chiese (di tutte le confessioni) dell’Alaska sono strutture isolate, solitarie, in apparenza abbandonate.
Questo non significa che in questo territorio la religione non sia una presenza importante. Al contrario, anche qui l’offerta religiosa – se così possiamo chiamarla – è molto ampia, anche se relativamente recente.
Fino alla fine del 1600, la regione era abitata esclusivamente da popoli indigeni, stimati attorno alle 80-100mila persone che seguivano religioni sciamaniche. Fu all’inizio del 1700 che, dalla confinante Russia, arrivarono i primi esploratori, cacciatori e commercianti attratti dal business delle pellicce. Il più famoso fu Grigory Shelekhov, che nel 1784 massacrò centinaia di indigeni dell’arcipelago di Kodiak, salvo poi chiedere all’imperatrice Caterina di Russia l’invio di missionari ortodossi. La prima missione fu fondata nel settembre del 1794 sull’isola di Kodiak dal monaco Herman (Germano d’Alaska) che subito e fino alla sua morte (nel 1837) si distinse nella difesa della popolazione indigena, schiavizzata dai mercanti russi.
Nel 1799 Nikolaj Petrovič Rezanov e lo stesso Shelekhov fondarono la Compagnia russo americana (Rac), una compagnia commerciale partecipata da molti esponenti dell’impero russo, con sede nell’attuale Sitka. I nativi, esperti cacciatori, venivano arruolati con la forza. È per la loro difesa che si battè una parte importante della Chiesa ortodossa russa in Alaska.
Di essa va ricordata soprattutto la figura e l’opera di padre Ivan Veniaminov (in seguito, Innocenzo d’Alaska). Nato in Siberia nel 1797, arrivò in Alaska (prima in Analaska sulle isole Aleutine e poi nell’attuale Sitka) nel 1824 assieme alla famiglia, e vi rimase, con alcune interruzioni, fino al 1867, quando venne nominato metropolita di Mosca. Persona eclettica, primo vescovo ortodosso dell’Alaska, Veniaminov si distinse subito in quanto, al contrario dei colonizzatori, instaurò un rapporto paritetico con i popoli nativi (prima Aleuti, poi Tlingit), rispettandone tradizioni e lingua.
Politica coloniale e missionari
Dopo gli ortodossi russi, nell’Ottocento, dal confinante Yukon inglese (canadese dal 1869), arrivarono sparuti gruppi di missionari anglicani.
La situazione cambiò con la vendita – avvenuta con il trattato sottoscritto il 30 marzo 1867 (la Russia zarista si riteneva proprietaria di quei territori senza considerare i suoi veri abitanti) – dell’Alaska agli Stati Uniti.
I primi cattolici ad arrivare nella regione furono gli Oblati attorno al 1871, viaggiando sullo Yukon, il fiume artico divenuto scenario della corsa all’oro alla fine dell’Ottocento. Furono gli Oblati a fondare, nel 1879, la prima chiesa cattolica: Santa Rosa di Lima, sull’isola di Wrangell.
All’epoca del passaggio agli Stati Uniti, l’Alaska era abitata soprattutto dai popoli nativi. Come sempre accade durante i processi di colonizzazione, all’inizio l’idea guida fu quella dell’assimilazione: gli indigeni sarebbero dovuti diventare come i colonizzatori, abbandonando la propria cultura, incluse le credenze religiose.
Come affermava il rapporto annuale del Consiglio dei commissari indiani per il 1869, «Si ritiene che la religione del nostro benedetto Salvatore sia l’agente più efficace per la civiltà di qualsiasi popolo». Per lungo tempo ancora la politica coloniale degli Stati Uniti in Alaska si fondò sull’idea che gli indigeni dovessero «essere portati sotto l’influenza cristiana dai missionari».
L’Università dell’Alaska-Anchorage (Uaa) ha analizzato una foto del 1914 scattata alla scuola della St. Mary’s Mission ad Akulurak (delta dello Yukon-Kuskokwim, sul mare di Bering). In quella immagine si vede un gruppo di studenti nella sala mensa e, sulla parete dietro di loro, un poster con la scritta «Please, do not speak eskimo» (Per favore, non parlare eschimese).
Fu John Collier, commissario per gli affari indigeni dal 1933 al 1945, a iniziare a battersi per la libertà religiosa degli indiani d’America, mettendo in discussione i divieti locali e regionali alle cerimonie e alle pratiche tradizionali. Tuttavia, soltanto con l’American indian religious freedom act (Airfa) dell’agosto 1978, legge firmata dall’allora presidente Jimmy Carter, venne formalmente riconosciuta la piena libertà religiosa dei popoli indigeni. Nel firmare la legge, il presidente ammise che, a dispetto del primo emendamento della Costituzione Usa, «in passato, agenzie e dipartimenti governativi hanno occasionalmente negato ai nativi americani l’accesso a siti particolari e interferito con pratiche e costumi religiosi».
Le Chiese in Alaska, oggi
Le statistiche più affidabili sulle fedi religiose in Alaska risalgono a uno studio del Pew Research Center (The 2014 U.S. Religious landscape study). Secondo i ricercatori dell’istituto, i cristiani sarebbero il 62% della popolazione adulta. Questa percentuale si dividerebbe in: 22% di evangelici (cioè protestanti non tradizionali), 16% di cattolici, 12% di protestanti (storici), 5% di ortodossi (di cui 4% di ortodossi russi). La Chiesa cattolica dell’Alaska conta su due diocesi: quella di Anchorage-Juneau e quella di Fairbanks. Entrambe hanno uffici che si dedicano alle relazioni con i popoli indigeni dello stato.
Al riguardo, va ricordata l’esperienza di Stan Jaszek, missionario polacco arrivato in Alaska nel 2002. Padre Jaszek, appartenente alla diocesi di Fairbanks (la più estesa degli Stati Uniti), ha lavorato per 15 anni nei villaggi del delta dello Yukon-Kuskokwim, tra i Yup’ik, lo stesso popolo nativo cui appartiene anche Mary Peltola, prima indigena dell’Alaska eletta al Congresso Usa. «Il popolo Yup’ik è profondamente radicato nella natura, quindi comprende intuitivamente la connessione tra il mondo fisico e quello spirituale», ha spiegato padre Jaszek.
Paolo Moiola
Natale e Babbo Natale
La festa e il business
North Pole, agosto. Il nome di questa cittadina può trarre in inganno. In realtà, a dispetto di esso, il North Pole (Polo Nord) dista ancora 2.700 chilometri e il Circolo polare artico più o meno 200. La cittadina di North Pole – meno di tremila abitanti, a circa 20 chilometri da Fairbanks, seconda città dell’Alaska – ospita una base militare, ma è conosciuta soprattutto per la presenza della Santa Claus House, il negozio di Babbo Natale, fondato nel 1952.
La rivendita è in posizione commercialmente strategica, sorgendo accanto alla Richardson Highway. Colore bianco candido con geometrie rosse e, sui muri, tanti disegni di renne, slitte, Babbi Natale, folletti. Detto questo, la struttura esterna non ha nulla di memorabile: forse dipende dai 20 gradi di questo caldo agosto, forse il tutto si dovrebbe vedere con la neve. Entrando, però, il giudizio non cambia.
Alberi di Natale, addobbi per alberi di Natale, maglioni con le renne, pantaloni, cappellini, tazze dipinte, dolci in tema. È un tripudio dell’inutile, dell’eccessivo e del kitsch.
E tutto, o quasi, pare essere più per un pubblico di adulti che di bambini. Il sito internet del Santa Claus racconta delle sue lettere intestate e personalizzate spedite (a partire da 9,95 dollari) a bambini di tutto il mondo e delle migliaia di lettere ricevute da ogni dove (a cui però – viene precisato – «non è possibile rispondere»).
In un recinto poco distante dal negozio, a lato del grande parcheggio, ci sono anche le renne, quelle vere. Probabilmente non sono contente di essere lì, con una temperatura inusuale e non libere di «volare» come vuole la tradizione.
Nessuna ragione per non credere alla felicità natalizia in offerta speciale, ma che la Santa Claus House sia soltanto una redditizia trovata commerciale è ben più di un’impressione.
Pa.Mo.
Ha firmato questo dossier:
Paolo Moiola
Giornalista redazione MC; ha viaggiato in Alaska lo scorso agosto.
Fonti principali
Per la storia dei popoli nativi e dell’Alaska: Harry Ritter, Alaska’s History, West Margin Press, 2020; Steve J. Langdon, The Native People of Alaska, Greatland Graphics, Fairbanks 2022.