Popolazioni perseguitate: Yazidi


Sommario

Introduzione. Guerre e colpi di spugna.

Yazidi, una minoranza in pericolo. Quando vincono la diffidenza e il pregiudizio.

Racconto di un massacro. Quando a Sinjar arrivarono i miliziani

Incontro con Nadia Murad. Storia di Nadia, da schiava ad ambasciatrice.

Scheda 1. Genocidio.

Scheda 2. Le guide e le caste.

Scheda 3. La diaspora.

Infodossier

 

Abstract

Questo è il primo di due dossier che dedicheremo alle minoranze dimenticate ed oppresse. In esso Simone Zoppellaro parla degli YAZIDI dell’Iraq. Il prossimo, a firma di Piergiorgio Pescali, sarà centrato sui ROHINGYA, la minoranza musulmana perseguitata nel Myanmar buddhista di Aung San Suu Kyi, premio Nobel per la pace. (pa.mo.)

Introduzione

Guerre e colpi di spugna

Secondo il dizionario Treccani, genocidio è un termine coniato, in forma inglese (genocide), dal giurista polacco Raphael Lemkin nel 1944 e pubblicamente usato nel processo di Norimberga (1946). «Grave crimine – continua il Treccani -, di cui possono rendersi colpevoli singoli individui oppure organismi statali, consistente nella metodica distruzione di un gruppo etnico, razziale o religioso, compiuta attraverso lo sterminio degli individui, la dissociazione e dispersione dei gruppi familiari, l’imposizione della sterilizzazione e della prevenzione delle nascite, lo scardinamento di tutte le istituzioni sociali, politiche, religiose, culturali, la distruzione di monumenti storici e di documenti d’archivio, ecc.».

Alla luce di questa definizione, è facile rendersi conto che la storia annovera molti genocidi (anche se alcuni non sono unanimemente riconosciuti come tali): lo sterminio dei popoli amerindi durante la conquista delle Americhe, il genocidio armeno ad opera della Turchia ottomana (1915-16), lo sterminio degli ebrei e dei rom durante l’epoca nazista, quello perpetrato dai Khmer rossi in Cambogia (1977-79), quello dei musulmani di Bosnia nella guerra della ex Jugoslavia (1995), quello dei Tutsi in Rwanda nel 1994.

Senza dimenticare, ai giorni nostri, i molti popoli indigeni – alcuni formati da poche decine di individui – che sono a rischio d’estinzione a causa dei «bianchi».

In Siria (nella parte settentrionale, denominata Rojava) e Iraq i Curdi sono in prima fila nella guerra contro il Daesh (Isis). Ma sono osteggiati – per questioni politiche – da tutti gli stati della regione, a iniziare dalla Turchia del dittatore Erdogan. Gli Yazidi sono una piccola popolazione kurdofona – le stime più alte parlano di 700 mila persone – a sua volta perseguitata e oggi vittima dei miliziani del Daesh. Nella regione natale, nel Nord Ovest dell’Iraq, attorno alla città di Sinjar, migliaia dei loro uomini sono stati uccisi, mentre un numero imprecisato delle loro donne sono state fatte schiave sessuali dagli uomini del Califfo nero. Nel 2016 due di esse, Nadia Murad Basee Taha e Lamiya Aji Bashar, fuggite in Germania, sono state insignite del «Premio Sacharov per la libertà di pensiero», assegnato dal Parlamento europeo (dal 1988). Lamiya (nella foto) porta sul viso e sul corpo i segni delle sofferenze patite. Sappiamo che il traffico di esseri umani e la riduzione in schiavitù è un affare mondiale. Il Daesh è un passo avanti: utilizza il Corano per giustificare questo trattamento. In Dabiq, la sua rivista (dalla grafica ricercata), sono stati pubblicati articoli per spiegare la correttezza del comportamento dei propri miliziani stupratori. Per credere leggere Dabiq n. 4 e n. 9.

Terrorismo, guerre non dichiarate, conflitti cosiddetti a bassa intensità: le definizioni non mancano. Probabilmente la sintesi più efficace è da attribuire a papa Francesco che, nell’agosto del 2014, disse: «Siamo entrati nella Terza guerra mondiale, solo che si combatte a pezzetti, a capitoli».

Ci sono popolazioni che si vorrebbe cancellare con un colpo di spugna. Ma che, in un modo o nell’altro, riescono a resistere e a sopravvivere. Anche, una volta tanto, grazie all’informazione. Quella poca che rimane nell’epoca del post-giornalismo e della post-verità.

Paolo Moiola


Yazidi, una minoranza in pericolo

Quando vincono la diffidenza e il pregiudizio

La storia di ieri e di oggi è piena di minoranze perseguitate. Con una religione e una cultura poco conosciute gli?Yazidi sono spesso fraintesi e diventano un facile bersaglio. Il rischio è che la loro diaspora porti all’assimilazione e quindi alla loro scomparsa. Rendendo il mondo più povero.

Contrariamente a quanto spesso si pensa, l’islam non ha mai cercato di estirpare con la spada le altre religioni. Pur marginalizzando, penalizzando e, in alcuni periodi, anche perseguitando i membri di altre fedi, la dominazione musulmana ha permesso di mantenere in vita per oltre un millennio, nei vasti territori conquistati, una sorprendente pluralità religiosa, impensabile nell’Europa pre-illuminista.

Cristiani, ebrei e zoroastriani – fra gli altri – hanno potuto così godere per secoli, sotto la mezzaluna, di una libertà che solo il colonialismo, l’emergere del nazionalismo e il conflitto arabo-israeliano hanno purtroppo spezzato. Questo discorso vale anche per gli Yazidi, piccola minoranza religiosa nella sua quasi totalità di lingua curda che, abbarbicata alle sue montagne nell’odierno Iraq Nord occidentale, ha potuto tramandare di generazione in generazione – pur fra mille difficoltà e privazioni – la sua cultura e la sua fede. Un contesto per nulla affatto casuale, quello montuoso, se si pensa ad esempio alla sopravvivenza millenaria di insediamenti a maggioranza cristiana come Ma‘lula in Siria, dove ancora oggi si parla una variante dell’aramaico, una moderna derivazione della lingua parlata da Gesù. O ancora al Caucaso, che gli arabi chiamavano jabal al-alsun, la «Montagna delle lingue», per la sua sorprendente varietà linguistica e culturale, ma anche religiosa. E proprio l’isolamento e la protezione fornita da questo contesto geografico arduo e impervio hanno permesso agli Yazidi di mantenere una fede che, seppur influenzata dall’islam per molti aspetti e ad esso in parte riconducibile fin dalle sue origini, si è sviluppata in seguito in modo irrimediabilmente «altro». Una religione – spesso definita in modo dispregiativo come setta – che, se fosse nata nell’Europa medievale anziché nel mondo musulmano, sarebbe stata indubbiamente bollata come «eresia».

Se non che, questa tradizione di tolleranza, sancita anche dal Corano nell’invito alla protezione e al rispetto per ebrei e cristiani, è entrata in crisi al tempo del colonialismo, per essere poi spazzata via, nel modo più violento, nei luoghi caratterizzati di recente in vario modo dall’insorgere del fondamentalismo islamico. Certo, non in tutti i paesi musulmani ciò è vero, come d’altronde non in tutti i governi islamici le cose funzionano allo stesso modo: la Repubblica islamica nata in Iran nel 1979 grazie alla guida carismatica dell’ayatollah Khomeini, per non fare che un esempio, ha mantenuto intatta – con la sola dolorosa eccezione dei bahai – la pluralità religiosa che ha caratterizzato da sempre questo grande paese. Altrove, invece, e soprattutto nei territori segnati dall’influenza del wahabismo propagandato a suon di petroldollari dalle monarchie del Golfo, la storia ha preso purtroppo un’altra piega. E le conseguenze sono ben note, almeno per chi presti attenzione in modo non estemporaneo a quanto succeda lontano da noi.

E così, a un secolo dal Medz Yeghern, il genocidio armeno del 1915, e a oltre settant’anni dalla Shoah, la pagina ignominiosa dei genocidi sembra non trovare fine. Gli Yazidi lottano oggi per la loro sopravvivenza, sterminati, cacciati dai loro villaggi e ridotti in schiavitù nei territori conquistati in Iraq dal Daesh. Ieri come oggi, l’indifferenza del mondo è grande, e sul destino di questo piccolo popolo – composto (forse) da 700 mila persone – si consumano i grandi giochi della geopolitica e dell’economia. Una lotta, quella degli Yazidi, che si svolge in una solitudine disperata e che ha luogo senza che nulla si voglia fare sia da parte di chi muove le leve del potere, che a livello locale e della società civile. Persino i Curdi, con i quali condividono una lingua comune (nella variante settentrionale detta «Kurmanji») e molti aspetti della loro cultura, il più delle volte di fronte alle loro sofferenze si sono limitati a guardare da un’altra parte, quando non a cercare il proprio vantaggio. Una denuncia, questa, sentita più volte ripetere dai rappresentanti yazidi, a partire dalla più famosa di tutte: la candidata al Nobel per la pace Nadia Murad.

Privi di una chiesa o uno stato che li protegga, anche la diaspora – a differenza di quanto avvenuto in passato in altri casi – è troppo frammentata e recente per essere in grado di incidere, o anche solo di fornire qualche conforto ai profughi che oggi si trovano, privi di una cornordinazione, dispersi per il mondo. E così, anche per la maggioranza di coloro che riescono (spesso in circostanze rocambolesche) a fuggire dalla schiavitù e dalla guerra, il destino che li attende sono i campi profughi della Turchia o di altri paesi, dove mancano spesso i beni più basilari. Nessuno stato al mondo (con la sola eccezione della Germania, che ha ospitato e fornito assistenza medica e psicologica a diverse migliaia di Yazidi e, più di recente, del Canada) ha infatti voluto finora assumersi l’onere di accogliere i sopravvissuti, facendosi carico dei loro traumi e delle storie di violenza e orrore che essi, inevitabilmente, portano con sé. Inutile ricordare come, per questi sopravvissuti a un genocidio – che poi in molti casi sono donne, vittime di abusi sessuali e ridotte in schiavitù dagli uomini dell’Isis – non bastino solo un pezzo di pane e un tetto per alleviarne il dolore e ridare loro dignità.

Questa assenza di sostegno da parte della comunità internazionale costituisce un paradosso. Infatti, sebbene sia unanime la condanna del terrorismo islamista e tutte le forze politiche di ogni paese siano oggi parimenti concordi nel riconoscimento della violenza perpetrata dai miliziani dell’Isis contro le minoranze religiose, la campagna portata avanti dagli attivisti per il riconoscimento del genocidio yazida non ha finora raccolto i risultati sperati. Eppure, un raffronto con il passato, con l’Olocausto degli armeni e degli ebrei, innanzitutto, dovrebbe gettare luce sul destino di questa gente. Si è di fronte ancora una volta al sistematico tentativo di annientamento non solo fisico, ma anche culturale e spirituale di un intero popolo, portato avanti da un manipolo di fanatici, ma con la complicità e la collaborazione di una parte delle popolazioni sottoposte al dominio del Califfo al-Baghdadi. La persecuzione e lo sterminio avvenuti dall’agosto 2014 a oggi non sono – come raccontano i rappresentanti stessi della comunità yazida – che l’ultimo e più sanguinoso epilogo di una persecuzione in atto sin dall’Ottocento, che periodicamente riaffiora. «Gli eventi del 2014 rappresentano per loro – ha scritto Vicken Cheterian su Le Monde Diplomatique (gennaio 2017) – il settantatreesimo massacro».

Il monoteismo degli Yazidi

I fondamentalisti di oggi trovano nella fede e cultura yazida la ragione principale per perseguitare e cercare di eliminare quella popolazione. Una diffidenza e un pregiudizio ormai radicati per una fede sentita come estranea, chiusa, sincretistica, e perciò difficilmente classificabile. Eppure, a ben guardare, lo Yazidismo è anch’esso, al pari delle tre religioni abramitiche (ebraismo, cristianesimo e islam), una religione monoteistica, seppure con alcuni tratti originali.

I suoi seguaci fanno risalire le loro origini indietro di migliaia di anni, e lo sviluppo di riti e credenze fu senza dubbio il frutto di un lungo processo di commistioni religiose e di acculturazione. Ma fu solo in epoca islamica, ci dicono gli specialisti, che gli Yazidi acquisirono un’identità precisa e distinta sia in termini etnici che religiosi. In particolare, vi è un personaggio che ricorre come fondamentale nell’etnogenesi di questa minoranza. Ci riferiamo alla carismatica figura del mistico sufi Shaikh Adi ibn Mussafir (morto nel 1162) che predicò nella regione divenendo, dopo la sua dipartita, oggetto di grande venerazione. «È il loro profeta, il loro grande santo, adorato quasi come Dio», scriveva lo storico delle religioni Giuseppe Furlani, «la cui tomba, nel tempio che hanno a Nord Est di Mossul, essi riguardano come loro santuario nazionale».

Di questo loro pellegrinaggio al santuario di Lalish ci ha lasciato un racconto suggestivo, in un articolo pubblicato sul portale Treccani, Gianfilippo Terribili, docente all’Università La Sapienza di Roma. Terribili ha preso parte di persona nel 2015, ovvero a un anno esatto dalla data di inizio del genocidio yazida, alle festività stagionali estive che raccolgono ogni anno pellegrini provenienti dalla regione, ma anche ogni angolo del mondo. Il pellegrinaggio, infatti – come ricorda Terribili – «è tra i principali doveri del fedele yazida ed è un evento che struttura i legami sociali interni ad una comunità spesso emarginata e chiusa alle influenze esterne». Un evento ricco di tradizioni, rituali e suggestioni che rimandano, spesso, a pratiche analoghe tipiche dell’islam e del cristianesimo, altre volte a pratiche ancora più remote. «L’intera valle», prosegue lo studioso, «è un microcosmo sacro che include i santuari costruiti intorno alle tombe dei principali sette personaggi santi venerati dalla tradizione, con luoghi o edifici connessi che costituiscono il circuito attraverso il quale è scandito il pellegrinaggio e i suoi atti rituali».

L’accusa: «Adoratori del diavolo»

La paura e la diffidenza – ma in parte anche il grande fascino – che circondano gli Yazidi ruotano attorno alla leggenda, diffusa in terra di islam come anche fra viaggiatori e fonti orientalistiche occidentali, che li identifica come «adoratori del diavolo». Un pregiudizio del tutto infondato, come ricorda Furlani: «Tanto sono lontani anzi da tale adorazione che non hanno affatto nella loro religione il diavolo: essi negano addirittura l’esistenza del male». Un epiteto, e insieme uno stigma, che traggono origine da una delle caratteristiche fondamentali del monoteismo yazida, che affianca, a un unico Dio creatore, sette entità angeliche, chiamate i Sette Misteri (haft surr), che nel corso della storia si sono periodicamente reincarnate in forma umana. Dio ha affidato loro il governo del mondo, sotto la guida dell’Angelo Pavone (Malak Tawus), emanazione divina posta come intermediario fra il cielo e gli uomini. Suggestivo a questo proposito l’incipit di uno dei due testi sacri degli Yazidi, il Libro nero, redatto in lingua curda, che riportiamo nella traduzione di Giuseppe Furlani:

«In principio Dio creò la perla bianca dal suo prezioso seno e creò un uccello di nome Anfar. Egli pose la perla sopra la sua schiena e dimorò sopra di essa quarantamila anni. Il primo giorno in cui Dio creò fu una domenica. Egli creò in essa un angelo dal nome ‘Azra’il: esso è il Pavone Angelo, il capo di tutti».

Il racconto prosegue con la descrizione di come Dio creò i sette angeli che a loro volta partecipano alla creazione dell’uomo (ascritta all’ultimo di loro, Nura’il) e di tutte le altre creature. Dopo l’opera della creazione, il mondo, come detto, fu affidato da Dio proprio alle sette entità angeliche, che agiscono come protezione e guida.

L’Angelo Pavone – questa l’origine del «mito satanista» sugli Yazidi – corrisponde poi per alcuni aspetti a Iblis, il Satana della religione musulmana, con tratti che sembrano filtrati in particolare dalla rielaborazione della tradizione mistica sufi, di cui resta abbondante traccia anche nella letteratura persiana medievale. Un Satana, quindi, che dopo la sua ribellione si è pentito ed è stato accolto di nuovo da Dio. Ma gli Yazidi negano con forza questa identificazione fra le due figure, al punto – come scrive l’orientalista Christine Allison – di arrivare a proibire la pronuncia stessa della parola Satana (Shaitan), e persino di alcune parole che la richiamano da un punto di vista fonetico.

Il divieto dei matrimoni misti

A contribuire al pregiudizio e alla paura nei confronti degli Yazidi furono anche la naturale chiusura di questo gruppo religioso, che non accetta conversioni da altre fedi e vede in modo negativo – ma è così per molte minoranze in Medio Oriente, soprattutto se esigue da un punto di vista numerico – i matrimoni misti. Pratiche e tabù particolarmente severi riguardano molti aspetti della vita dei fedeli, dal cibo, fino alla proibizione di pronunciare un certo numero di parole. Un’altra peculiarità yazida è il fatto di credere di essere discendenti del seme di Adamo ma – a differenza del resto dell’umanità – non di Eva. Questo a ulteriore testimonianza di come gli Yazidi si autorappresentino come un popolo «altro» rispetto al resto del mondo. A contribuire al mistero che circonda questa religione sono anche i suoi testi esoterici, tramandati oralmente di generazione in generazione, e perciò assai poco noti ieri come oggi al di fuori dei circoli dei correligionari. Come già nell’islam, l’«ortoprassi» ha un ruolo preponderante rispetto all’«ortodossia», il che vuol dire che rituali e pratiche hanno più importanza nella vita del fedele rispetto alle disquisizioni teologiche, viste come secondarie e accessorie. Fondamentale nello yazidismo anche la suddivisione sociale in tre caste (si veda il riquadro alla pagina 46, ndr), nettamente divise, aspetto che si interseca a un’altra importante caratteristica della loro fede: la credenza nella metempsicosi, cioè nella reincarnazione. Le due caste superiori rappresenterebbero infatti niente di meno che la discendenza delle più recenti reincarnazioni delle entità angeliche, i Sette Misteri che, come detto, tornano periodicamente a rivestire forma umana. Come nelle religioni abramitiche, anche nello yazidismo esistono paradiso e inferno, ma altri aspetti della loro cosmogonia rimandano invece alle antiche religioni iraniche, come ad esempio allo zoroastrismo.

Il pericolo

Un patrimonio religioso e culturale, quello da noi qui tratteggiato con un breve schizzo, che rischia di venire annullato da qui a pochi anni, se non avverrà presto un’inversione di tendenza: una presa di coscienza del mondo nei confronti di questa tragedia. Dispersi per il pianeta, gli ultimi figli di questo antico popolo sopravvissuti alle persecuzioni di ieri e di oggi, rischiano l’assimilazione e la scomparsa definitiva dei loro usi, costumi e credenze. Questo il significato più profondo e drammatico della parola genocidio: il tentativo posto in atto sistematicamente di eliminare non solo un intero popolo, ma anche la sua cultura materiale e immateriale, insieme al suo lascito spirituale. L’orrore del sangue, e insieme la maledizione di aver reso il nostro mondo più povero, senza possibilità di appello, destinando a definitiva scomparsa persino la memoria di una minoranza, e non solo la sua esistenza fisica.

Simone Zoppellaro


Racconto di un massacro

Quando a Sinjar arrivarono i miliziani

I miliziani dello Stato islamico considerano gli Yazidi degli «infedeli». Nell’agosto del 2014 arrivati nella loro regione hanno compiuto una strage. E costretto alla schiavitù sessuale migliaia di donne e bambine.

Chi scrive ha incontrato sopravvissuti Yazidi ed è rimasto impressionato dai loro racconti, soprattutto se paragonati ai resoconti di ebrei e armeni. Un’analogia che lascia senza fiato. È come se il tempo, vinto da una maledizione, fosse condannato a ripetersi in tutto e per tutto, con schemi fissi e immutabili, e producendosi solo in minime varianti. Stessa la furia cieca dei carnefici, così come egualmente scientifica, gelida e ben ponderata è l’organizzazione che sta alla base di tutto. Stesso il dolore delle vittime, un dolore tanto forte a tratti da spogliare chi vi viene investito di ogni dignità umana e amore di sé e del prossimo. Stesso l’opportunismo, e in molti casi la complicità, delle popolazioni sottoposte al terrore, pronte a girarsi dall’altra parte, ma anche a cercare di massimizzare il profitto che deriva dalle altrui disgrazie e dalla morte. Stessa anche l’indifferenza del mondo, che finge di non vedere e di non sapere, un po’ per noia o apatia, o per pigrizia mentale, ma anche perché il dolore – quando è così grande e lontano – ci lascia impotenti e confusi. Stessa infine anche l’azione solitaria di alcuni giusti: pochi uomini, forse pochissimi che – andando in controtendenza rispetto a tutti e anche alla storia – rischiano la loro vita, i loro beni e il proprio status, per dimostrarci che neppure il male più feroce è capace di cancellare le ultime tracce di bene e di umanità che affiorano anche qui, dove la Terra sembra aver già toccato l’inferno.

Durante la dominazione ottomana

Come si è arrivati alla riduzione in schiavitù di donne e bambini, alla persecuzione sistematica e ai massacri del 2014 che gli Yazidi rivendicano ostinatamente come un genocidio? Si tratta di una storia che parte da lontano. Anzi, a sentire quanto raccontano i stessi membri di questa comunità, gli Yazidi avrebbero già subito addirittura 72 genocidi nel corso della loro storia. Si tratta forse di un’iperbole, diranno in molti, eppure è un’affermazione significativa almeno per capire due cose. In primis, che la questione yazida non è nata con i miliziani dell’Isis, ma ha radici assai più profonde e, per questa ragione, molto più difficili da estirpare. In secondo luogo che, esattamente come per gli armeni e gli ebrei, la memoria delle persecuzioni subite è ormai divenuta parte fondamentale della identità propria degli Yazidi, del loro modo di autorappresentarsi come gruppo. E in effetti si può ben dire che, fin dall’inizio, l’identità yazida sia stata forgiata anche dal sangue e dalla violenza subita nel corso di un millennio.

Già fra XII e XV secolo, infatti, questa popolazione si trovò a subire continui attacchi da parte di chi non tollerava la sua fede e la sua identità. Le cose andarono peggiorando ulteriormente in epoca ottomana. Nel 1892 – negli stessi anni in cui avvenivano i primi massacri degli armeni che sfociarono a inizio novecento in un vero e proprio progetto di genocidio – ebbe luogo una spedizione guidata dal governatore di Mossul che portò a numerose uccisioni e a conversioni forzate. All’inizio del nuovo secolo, poi, nel 1904, il sacro tempio di Lalish venne trasformato in moschea.

Da Saddam al Daesh

In epoca più recente, durante il regime di Saddam Hussein gli Yazidi si trovano di nuovo a essere, al pari dei curdi, bersaglio di persecuzioni e attacchi. Migliaia di loro in quegli anni lasciarono l’Iraq per cercare scampo e fortuna in Europa. Dopo la caduta di Saddam, nel vuoto di potere creatosi in seguito all’invasione americana e all’incauto smantellamento delle forze di sicurezza ereditate dal precedente regime, gli Yazidi si trovarono in una situazione, se possibile, ancora più difficile. Il 14 agosto del 2007, quattro attacchi suicidi cornordinati fra loro colpirono gli Yazidi a Kahtaniya e Jazeera, nei pressi di Mossul. Sconvolgente il bilancio delle vittime, come riportato dalla Mezzaluna Rossa irachena: almeno 500 morti e 1.500 feriti. Una macabra anticipazione di quanto sarebbe avvenuto, con numeri ancora maggiori, pochi anni dopo, quando, siamo nel 2014, un nuovo e temibile attore arriva a sconvolgere – a suon di vittorie repentine, massacri e propaganda – l’Iraq, la Siria e l’intero Medio Oriente. Ci riferiamo allo Stato islamico guidato da Abu Bakr al-Baghdadi. Il contesto da cui ha origine il genocidio degli Yazidi è delineato con precisione da Patrick Cockburn, giornalista del quotidiano   Independent e testimone diretto fra i più autorevoli di questa guerra:

«Nel corso dell’estate, lo Stato islamico aveva sconfitto con campagne fulminee prima l’esercito iracheno, poi quello siriano, i ribelli siriani e i peshmerga curdo-iracheni, creando un dominio che si estende da Baghdad ad Aleppo, e dal confine siriano con la Turchia al deserto dell’Iraq occidentale. Gruppi etnici e religiosi di cui il mondo non aveva mai sentito parlare prima o di cui si sapeva pochissimo, come gli Yazidi di Sinjar o i cristiani caldei di Mossul, sono caduti vittime della crudeltà e del fanatismo settario dell’Isis».

Ma, anche stando a quanto afferma un’investigazione condotta dalle Nazioni Unite e pubblicata nel giugno 2016, si tratterebbe di più di semplici atti di crudeltà e fanatismo. Nel rapporto pubblicato con il titolo di «Sono venuti per distruggere: i crimini dell’Isis contro gli Yazidi» (They Came to Destroy: Isis Crimes against the Yazidis), l’indagine condotta dall’Onu utilizza ben 97 volte in 40 pagine la parola genocidio. Un riconoscimento inequivocabile e significativo, dato anche che, per la prima volta, un riconoscimento viene fatto prima da un attore non-statale che da parte di un singolo paese. Ed ecco una breve descrizione di quanto avvenuto, per come la leggiamo nel rapporto dell’Onu:

«Nelle prime ore del 3 agosto 2014, i combattenti del gruppo terroristico chiamato Stato Islamico dell’Iraq e al-Sham (Isis), si riversano fuori dalle loro basi in Siria e in Iraq, e si dirigono rapidamente verso il Sinjar. La regione del Sinjar nel nord dell’Iraq è, nel suo punto più prossimo, a meno di 15 chilometri dal confine con la Siria. È la sede della maggioranza degli Yazidi nel mondo, una comunità religiosa distinta le cui credenze e pratiche risalgono a migliaia di anni, e i cui aderenti l’Isis taccia pubblicamente di essere infedeli. Pochi giorni dopo l’attacco, emergono i primi resoconti delle atrocità inimmaginabili commesse dall’Isis contro la comunità yazida: uomini uccisi o costretti a convertirsi; donne e ragazze, alcune giovani fino a nove anni, vendute al mercato e tenute in uno stato di schiavitù sessuale dai combattenti dell’Isis; ragazzi strappati dalle loro famiglie e costretti ad andare in campi di addestramento dell’Isis. È stato da subito evidente che gli orrori commessi sugli Yazidi catturati si verificavano sistematicamente anche in tutti territori controllati dall’Isis in Siria e Iraq».

Un altro testo, utile ad abbozzare il quadro dei crimini commessi, e soprattutto del piano genocidario messo in atto dai fondamentalisti, lo riprendiamo invece da un rapporto pubblicato dall’Ong Yazda e dalla Fondazione Free Yazidi, redatto in collaborazione con le autorità del governo regionale del Kurdistan iracheno:

«Rimuovendo l’intera popolazione yazida dalla loro patria, infliggendo il danno psicologico e fisico della violenza sessuale contro le donne e le ragazze, l’Isis si è assicurato che questi non sarebbero più stati in grado di tornare alle loro comunità. Forzando i giovani maschi a cambiare la loro religione e a diventare combattenti nelle loro stesse fila, l’Isis ha cercato di annientare l’identità religiosa, le tradizioni e l’esistenza stessa degli Yazidi. Durante l’attacco alla piana di Ninive, l’Isis ha anche distrutto 19 santuari religiosi».

Il 3 agosto 2014 i miliziani dell’Isis non incontrarono quasi nessuna resistenza. I peshmerga curdi, come riportano fonti yazide e lo stesso documento delle Nazioni Unite, decisero di ritirarsi lasciando la popolazione, non preventivamente avvertita, in balia della violenza. Nel giro di poche ore, vinta con facilità la resistenza improvvisata da alcuni uomini nei villaggi, gli uomini dello Stato islamico assunsero il pieno controllo della regione. Nella confusione di quelle ore, che videro migliaia di civili darsi alla fuga senza neppure il tempo di raccogliere il minimo indispensabile dalle loro case, un episodio particolarmente drammatico investì coloro che cercarono di trovare scampo sul monte Sinjar.

Leggiamo ancora dal rapporto delle Nazioni Unite:

«Coloro che sono fuggiti in tempo per raggiungere l’altopiano superiore del monte Sinjar vengono assediati dall’Isis. Una crisi umanitaria ha luogo non appena l’Isis intrappola decine di migliaia di uomini, donne e bambini Yazidi, in un luogo dove le temperature superano i 50 gradi e impedendo loro l’accesso all’acqua, al cibo o all’assistenza medica. Il 7 agosto 2014, su richiesta del governo iracheno, il presidente degli Stati Uniti Barack Obama annuncia un’azione militare americana per aiutare gli Yazidi intrappolati sul monte Sinjar. Forze americane, irachene, inglesi, francesi, australiane vengono coinvolte in lanci di acqua e altre forniture agli Yazidi assediati. Il tutto mentre i combattenti dell’Isis sparano contro gli aerei impegnati nel lancio di aiuti, e contro gli elicotteri che tentano di evacuare gli Yazidi più vulnerabili. Centinaia di Yazidi – inclusi neonati e bambini – trovano la morte sul monte Sinjar prima che le forze curde siriane, il Ypg (nome dell’esercito kurdo della regione siriana di Rajava, ndr), siano in grado di aprire un corridoio dalla Siria al Monte Sinjar, consentendo agli assediati sul monte di essere spostati in sicurezza».

Uccisi, schiavizzati, dimenticati

Lontano dal monte Sinjar, il progetto di sterminio viene portato avanti con uno stesso schema, villaggio per villaggio, con rapidità sistematica. Una ripetizione di atti e violenze che non lascia nulla al caso e che rende evidente come quello commesso (e in parte ancora in atto) contro gli Yazidi sia un genocidio e non una serie di massacri verificatisi in modo spontaneo. In ogni luogo della regione, vengono divisi uomini, donne e bambini. I primi – che includono anche gli adolescenti dai dodici anni in su – vengono uccisi seduta stante o costretti a convertirsi all’islam, mentre le seconde, insieme ai loro bambini, vengono vendute come schiave. Non lascia adito ad ambiguità la conclusione del rapporto dell’Onu già citato: «L’Isis ha commesso e continua a macchiarsi del crimine di genocidio, ma anche di diversi crimini contro l’umanità e crimini di guerra, contro gli Yazidi».

Un riconoscimento importante, che però non è finora riuscito a scongiurare o a alleviare il dramma in corso. Private di un passato e di un futuro, molte migliaia di Yazidi sono tuttora ridotte in stato di schiavitù nei territori dello Stato islamico, o accampate nei campi profughi di Siria, Turchia e Grecia. Qui, troppo spesso, i rifugiati si trovano privi dei servizi essenziali, senza che venga fornita loro l’assistenza medica e psicologica che potrebbe contribuire a ridare loro un minimo di dignità e coraggio.

Simone Zoppellaro


Incontro con Nadia Murad

Storia di Nadia, da schiava ad ambasciatrice

Rapita, venduta, violentata dagli stupratori dell’Isis, Nadia Murad, oggi 23enne, è la donna simbolo della lotta degli Yazidi. Divenuta mondialmente conosciuta, riempita di riconoscimenti, lei chiede che questa attenzione si trasformi in aiuti concreti per il suo popolo ferito e disperso.

Stoccarda. È una ragazza semplice, la candidata al Nobel per la pace Nadia Murad, appena 23 anni, ma già donna simbolo della lotta degli Yazidi per la sopravvivenza. Nel condominio dove la incontro ad agosto, subito fuori Stoccarda, insiste per accompagnarmi giù dalle scale fino in strada per salutarmi, come si usa fare in Medio Oriente. Veste in modo semplice, di nero, come semplici sono le passioni di cui parla, dal calcio all’Italia, che ha visitato da poco. Ed umile è anche il palazzo popolare in cui ci incontriamo, un alloggio per rifugiati dove risuonano di continuo le grida festanti dei bimbi yazidi arrivati da poco dall’Iraq. Proprio non sembra di avere di fronte una delle 100 persone più influenti al mondo, secondo la classifica della rivista Time (aprile 2016). Eppure, fra i tanti incontri fatti in questi anni, quello con Nadia Murad è stato di gran lunga quello che più mi ha colpito. Dettagli: il tono della voce, calmo e ieratico, con cui mi racconta in lingua kurda l’epopea di orrore che ha investito la sua famiglia e la sua gente. E poi quegli occhi profondi di chi ha guardato in faccia il male e la morte, di chi all’inferno è già stata salvo riuscire a riemergervi e a tornare fra noi. Miracolosamente.

Quell’estate del 2014

Sulla sua pelle si scorgono piccole cicatrici, bruciature di sigaretta inflitte al tempo della schiavitù cui l’avevano ridotta gli uomini dell’Isis. Anche la postura chiusa del suo corpo racconta in modo inequivocabile delle violenze subite. Eppure, mentre si lascia fotografare, sorride serena, quasi pacificata. Ho davanti a me una ragazza con una calma e una forza fuori dal comune, dolce e insieme inflessibile, con qualcosa di oscuro, ma anche di caldo e materno. «Non ho mai pensato di uccidermi, ma ho sperato che fossero altri a farlo», racconta, rievocando l’orrore della sua lunga prigionia. Sì, perché Nadia Murad in quei giorni dell’agosto 2014 ha visto morire davanti a lei sei suoi fratelli, diciotto familiari, e larga parte degli abitanti del suo villaggio, Kocho, stretto d’assedio dai miliziani dell’Isis.

Nei due anni e mezzo trascorsi da quell’estate del 2014, l’attivista yazida è stata coperta di onori per il suo coraggio e la sua determinazione. Candidata al Nobel per la pace, ambasciatrice di buona volontà delle Nazioni Unite per la dignità dei sopravvissuti alla tratta di esseri umani e ancora vincitrice del Premio Václav Havel per i diritti umani, conferitole dal Consiglio d’Europa, e del Premio Sakharov per i diritti umani, assegnatole dall’Europarlamento, insieme a Lamiya Aji Bashar.

Donne e bambine in balia dei miliziani

Grandi onori e attenzioni da parte dei media di tutto il mondo. Eppure, con una lucidità e una fermezza sorprendente, mi racconta tutta la sua solitudine, l’impotenza e la disperazione di fronte al dramma della sua gente.

«Non ho alcuna speranza», confessa Nadia, a due anni esatti dal genocidio. «La mia comunità è in via di estinzione. Il 90% dei nostri sopravvissuti vivono dispersi in campi profughi. Abbiamo ancora migliaia di bambini tenuti come schiavi dall’Isis, e quanto ai pochi che sono riusciti a fuggire, nessuno se ne occupa. Oggi siamo dispersi in giro per il mondo, e i nostri villaggi – anche quelli liberati – sono distrutti e non possiamo farci ritorno. La nostra sola, piccola speranza è la comunità internazionale. Senza il loro aiuto, per noi non c’è futuro».

Secondo le cifre fornite da Yazda, l’ong yazida, sono 5.000 gli Yazidi che hanno perso la vita per mano dell’Isis, mentre altri 7.000 sono stati rapiti. Un computo ancora incerto, purtroppo, come grandi sono le incertezze circa il possibile ritorno in patria dei sopravvissuti, anche una volta che il Daesh sia stato debellato. Nadia Murad era una ragazza di 19 anni, una studentessa, il giorno in cui la storia ha fatto irruzione nella sua vita, stravolgendola per sempre.

«Dopo che hanno preso noi donne dal villaggio – racconta Nadia -, ci hanno raccolte e messe insieme a centinaia di altre ragazze provenienti da altri villaggi del Sinjar. Abbiamo chiesto loro cosa ci facessero lì e cosa fosse successo loro. Ci hanno risposto che venivano picchiate ogni giorno e che ogni giorno venivano a scegliere alcune di loro per abusarne in diversi modi, inclusi stupri di gruppo. Poi ci prendevano per portarci in stanze dove i militanti dell’Isis venivano, ci guardavano e sceglievano le ragazze che volevano portarsi via. Questo capitava a bambine e donne dai 9 ai 60 anni. E così è capitato a me. Ci prendevano e ci obbligavano a convertirci, portandoci alla Corte islamica di Mossul. Lì venivamo registrate come schiave, senza alcun diritto, a differenza delle loro madri, mogli e figlie. Ci spartivano fra loro e abusavano di noi. Inoltre, dovevamo servirli».

All’origine del suo salvataggio, avvenuto dopo un primo tentativo di fuga fallito – cui era seguita una punizione crudele – è l’opera di una famiglia di giusti che le offre aiuto e protezione, a rischio della loro stessa vita. Questi forniscono infatti alla Nadia documenti falsi, in cui risulterebbe essere una loro parente, moglie di loro figlio. Con un velo e una veste integrale islamica riesce così a fuggire e a rifugiarsi in Kurdistan, al sicuro.

Finiscono così i tre mesi di prigionia e tortura a cui, a differenza di tante altre donne yazide, è riuscita a sottrarsi. Da lì, poi, muoverà in Germania, a Stoccarda, dove riceverà aiuto e assistenza e dove avrà inizio il suo impegno politico per il riconoscimento del genocidio yazida. Certo, aveva altri sogni nella vita, Nadia, prima di quell’agosto: diventare un’insegnante di storia o una truccatrice, racconta.

Tanti premi, nessun impegno concreto

Ne siamo certi, non esiste premio al mondo, per quanto prestigioso, che possa consolarla della perdita della sua vita di un tempo, scomparsa nel giro di pochissimi giorni.

Quella vita semplice di cui racconta, pur segnata da povertà e stenti, resta impressa nella sua memoria come simbolo di una felicità perduta, quasi un idillio. Oggi l’indifferenza del mondo sembra non darle pace. Un muro di gomma, quello che si trova ad affrontare ogni giorno, fatto di grandi eventi e onori, di premi, immagini e marketing, ma di nessun impegno e sostanza politica. La verità – e Nadia lo sa benissimo – è che nessuno li vuole, i sopravvissuti yazidi. Nessuno vuole prendersi l’onere e l’onore di aiutare questa gente. In un’Europa che – pur di tenersi lontani i profughi – è persino disposta a finanziare lautamente regimi liberticidi, dalla Turchia alla Libia. Degli Yazidi non importa nulla a nessuno. O quasi a nessuno.

E non sarà un caso allora, come mi ha raccontato la stessa attivista yazida, che una felice eccezione sia costituita dal Land tedesco del Baden-Württemberg, guidato dal governatore verde Winfried Kretschmann.

Cattolico praticante, proveniente lui stesso da una famiglia di profughi rifugiatisi nel Sud della Germania al tempo della seconda guerra mondiale, Kretschmann ha voluto impegnarsi di persona non solo per accogliere, ma anche per fornire assistenza medica e psicologica alle vittime yazide. Certo si tratta solo di un timido barlume in un mare di tenebra. Eppure, per questo piccolo popolo, anche i 2.500 bambini e donne traumatizzati accolti e curati in questo Land rappresentano una grande conquista, e una speranza per il domani. O, forse, molto di più: il sogno di un domani ancora possibile che si concretizza per gli adoratori dell’Angelo Pavone e per i loro figli, là dove solo morte e orrore sembravano possibili. E qui, in questo piccolo segnale di un’umanità ritrovata, scopro forse il segreto di Nadia Murad, della sua ineluttabile forza.

Simone Zoppellaro


Scheda 1: Genocidio

Chissà che cosa avrebbe pensato Raphael Lemkin, il giurista polacco che inventò e definì la parola «genocidio», se avesse potuto guardare avanti fino al nostro presente. La sua grande intuizione, che legava in modo indissolubile in un solo lemma il dramma degli armeni nel 1915 e quello della Shoah – di cui lui aveva ben colto, prima di ogni altro, le profonde analogie – guardava certo al passato e al presente insieme ma, in modo profetico, anche al nostro oggi. Chissà cosa avrebbe pensato Lemkin, dunque, se avesse potuto vedere il genocidio compiuto dai Khmer rossi in Cambogia, il Rwanda, Srebrenica, e ora anche il dramma in corso di cui sono vittime gli Yazidi. Come dimostra il suo acume nello scoprire e denunciare – oltre ai casi già menzionati dell’Olocausto degli armeni e degli ebrei – anche l’Holodomor degli anni Trenta, «la distruzione della nazione ucraina», come lui l’aveva definita, non abbiamo dubbi che nei nostri anni avrebbe trovato un ennesimo, terribile riscontro alla sua intuizione, che ora è parte della coscienza e del vocabolario di tutti noi, e di ogni lingua del mondo. Il suo termine, inventato perché neppure la parola «atrocità» era più sufficiente per esprimere l’orrore di Auschwitz, e adottato dalla convenzione delle Nazioni Unite nel 1948, arriva così a investire nuovi contesti e aree geografiche assai vaste, e un’epoca diversa e lontana da quella in cui Lemkin stesso si trovò ad operare. «Genocidio – ha scritto lo storico Boris Barth – è quando un gran numero di persone vengono uccise per motivi razziali, etnici o religiosi. Come regola generale, l’esecutore è uno stato che ha l’intenzione dichiarata di annientare alcuni gruppi etnici o religiosi. Così viene anche definito nella Convenzione delle Nazioni Unite».

Si.Zo.

Scheda 2: Le guide e le caste

In cima alla scala sociale e alla divisione per caste che caratterizzano la vita della minoranza yazida troviamo due figure chiave, il Mir e il Baba Sheikh. Il primo, il cui titolo potremmo tradurre come «principe», assomma in sé il potere temporale e quello spirituale. L’attuale Mir degli Yazidi è Tahsin Said (nella foto), posto a guida del Consiglio spirituale degli Yazidi, il Majlesi Rohani. Una figura che, secondo gli Yazidi, discende dalle sette entità angeliche presiedute dall’Angelo Pavone. Con funzioni di guida spirituale, ma in realtà subordinato al Mir anche da questo punto di vista è la figura del Baba Sheikh. A rivestire questo ruolo attualmente è Khurto Hajji Ismail. Questi presiede a tutte le cerimonie più importanti della vita spirituale della comunità, e in particolar modo a quelle che avvengono presso il sacro tempio di Lalish. Entrambe le figure sono parte della più importante delle tre caste yazide, quella degli Sheikh. Sempre elevata, anche se per alcuni aspetti in subordine rispetto alla prima, è la casta dei Pir, gli «anziani». Anche questi, come gli Sheikh, ricevono un’elemosina in forma di una tassa dall’ultimo gruppo: i Morid, i «discepoli», che sono tenuti a scegliere come loro guida una figura per ciascuna delle due caste superiori. Questi rappresentano la larga maggioranza della popolazione e non rivestono alcuna particolare funzione rappresentativa. Le caste degli yazidi – che conoscono al loro interno ulteriori, complesse, sottoclassificazioni – sono perlopiù endogame, e vietano cioè il matrimonio fra gli appartenenti ai diversi gruppi sociali.

Si.Zo.

Scheda 3: La diaspora

Uno dei pericoli maggiori che si trova oggi ad affrontare la comunità yazida è quello della sua dispersione. Un fenomeno non nato in questi ultimi anni, ma che ha conosciuto di recente una spaventosa accelerazione. Questa, unita al numero esiguo dei suoi membri, e all’assenza pressoché totale di centri di potere economico, politico o religioso che possano supportarla, rischia di condannare la minoranza in questione a una rapida scomparsa. Difficile, anche a causa della situazione in divenire e della dispersione, avere un’idea chiara di quanti siano effettivamente gli Yazidi. Si stima che, prima dell’invasione dell’Isis, se ne trovassero in Iraq fino a un massimo di mezzo milione. Altri insediamenti storici di questa minoranza, con numeri assai più ridotti, si trovano in Siria, in Turchia, in Russia e nel Caucaso del Sud, ovvero in Georgia e Armenia. In quest’ultimo paese, dato il notevole numero di profughi e la buona integrazione nella società che li accoglie, è in via di costruzione – caso unico al mondo – un tempio yazida. Il paese europeo che più ha aperto le porte ai membri di questa minoranza perseguitata è stato senza dubbio la Germania, dove si trovano oggi oltre 100.000 Yazidi. Qui, prima e in maggior misura che altrove, è stato possibile avviare programmi di riabilitazione anche psicologica per i sopravvissuti allo sterminio e per le donne yazide che hanno subito violenze. Oltre alla Germania, altri paesi europei che li hanno accolti sono, per esempio, Francia, Gran Bretagna e Olanda. Al di fuori del nostro continente, il Canada sembra aver deciso di recente di seguire l’esempio della Germania nel fornire asilo e assistenza ai profughi yazidi.

Si.Zo.


Infodossier:

Fonti e bibliografia

  • Patrick Cockburn, L’ascesa dello stato islamico. ISIS, il ritorno del jihadismo, edizioni Stampa Alternativa, 2015.
  • Christine Allison, Yazidis, voce dell’Encyclopædia Iranica pubblicata dalla Columbia University e disponibile online, 2004.
  • Gianfilippo Terribili, Via della seta. In pellegrinaggio con gli Yazidi, 2 settembre 2015, Atlante, rivista del portale Treccani.
  • Giuseppe Furlani, Gli adoratori del pavone. I yezidi: i testi sacri di una religione perseguitata, ed. Jouvence, 2016.
  • Simone Zoppellaro, La guerra agli yazidi sul corpo delle donne, 9 agosto 2016, il Manifesto.
  • Claudia Ryan, Hana la Yazida. L’inferno è sulla Terra, Edizioni San Paolo, 2016.

Sitografia

  • www.yazda.org -Il sito dell’omonima organizzazione degli Yazidi.
  • www.nadiamurad.org -Il sito ufficiale di Nadia Murad.

Autori

  • Simone Zoppellaro – Nato a Ferrara, è giornalista freelance. Dopo gli studi ha trascorso otto anni lavorando fra l’Iran, l’Armenia e la Germania. Ha lavorato per oltre due anni come corrispondente per l’«Osservatorio Balcani e Caucaso». I suoi articoli appaiono regolarmente su vari quotidiani e riviste nazionali. Collabora con l’Istituto italiano di cultura a Stoccarda, dove vive. Per MC ha pubblicato i reportage su Nagorno Karabahk (agosto 2016) e Armenia (ottobre 2016).
  • A cura di: Paolo Moiola, giornalista redazione MC.



Guatemala: La pace è una chimera


In un paese di solida tradizione machista, confermata anche dal nuovo presidente Jimmy Morales, le donne che riescono a emergere sono una forza della natura. Come Claudia Samayoa, cornordinatrice di Udefegua, un’organizzazione che protegge i difensori dei diritti umani. Perché in Guatemala la guerra è finita da tempo, ma la pace non è mai arrivata. Lo sperimentano sulla propria pelle non soltanto le donne, ma anche gli indigeni che pure costituiscono la metà della popolazione totale.

Sono trascorsi venti anni. La guerra civile è infatti ufficialmente terminata nel dicembre del 1996. Eppure, in Guatemala la pace rimane una chimera. La violenza, la povertà, le ingiustizie sono la quotidianità. Il paese conta 16,5 milioni di abitanti (stime 2016). Circa il 45 per cento di essi sono indigeni (Xinka, Garifuna e soprattutto Maya, questi ultimi divisi in una ventina di gruppi). Secondo i dati ufficiali dell’Istituto nazionale di statistica (Ine), il 59,3 per cento della popolazione vive in povertà. In particolare, ogni 5 indigeni 4 sono poveri, in maggioranza nelle aree rurali (2014).

Esasperati da una classe politica corrotta e malavitosa, nell’ottobre del 2015 i cittadini guatemaltechi hanno ritenuto di individuare una soluzione eleggendo presidente un personaggio sui generis, Jimmy Morales, noto attore comico e membro di una chiesa evangelica. Come quasi sempre accade, il nuovo è però diventato vecchio in brevissimo tempo.

In un contesto tanto complicato chiedere il rispetto dei diritti umani è un’impresa difficile e spesso molto pericolosa. Un dato per capire meglio: tra gennaio e novembre 2016 in Guatemala ci sono state 223 aggressioni contro difensori dei diritti umani, 14 dei quali sono stati assassinati. Si trattava di persone che difendevano l’ambiente, il diritto alla verità e alla giustizia, il diritto alla terra e quello al lavoro.

Per proteggere e aiutare i difensori dei diritti umani o – come recita lo slogan – «per il diritto a difendere i diritti» (por el derecho a defender derechos), dal 2000 nel paese centroamericano opera l’organizzazione «Unità di protezione per le difensore e i difensori dei diritti umani in Guatemala» (Unidad de Protección a Defensoras y Defensores de Derechos Humanos Guatemala), in sigla Udefegua.

Di tutto questo abbiamo parlato con la fondatrice e responsabile dell’organizzazione, Claudia Samayoa, che lo scorso novembre per la sua attività è stata premiata dal Procuratore nazionale per i diritti umani (Pdh), Jorge Eduardo De León Duque.

Dopo la guerra, nessuna pace

Claudia, due parole per auto presentarti.

«Sono guatemalteca. Ho il privilegio di avere 3 figli e un compagno di vita che mi ha accompagnato in questa mia esistenza tutta dedicata ai diritti umani. Sono laureata in filosofia ma il mio paese mi ha costretto, fin dagli anni Ottanta, a occuparmi di diritti. Diritti alla verità e alla giustizia, all’educazione, diritti degli indigeni».

Chiusi 36 anni di sanguinosa guerra civile, per il Guatemala la strada pareva in discesa. Invece, a 20 anni dagli accordi di pace, il paese pare pacificato soltanto formalmente. Come mai?

«Dopo la firma della pace, ingenuamente credevamo di essere finalmente liberi. Invece, tra il 1998 e il 2000 – all’epoca io ero direttrice della Fondazione Rigoberta Menchú – il controllo del paese è stato ripreso da quella che io chiamo la mafia militare. Si tratta di un’organizzazione che include militari della contro-insurrezione guatemalteca e uomini del crimine organizzato (quello che si occupa di narcotraffico, contrabbando, traffico di esseri umani). Assunto il potere, costoro hanno iniziato a combattere tutti coloro che lavoravano per la pace e i diritti. Giovani e donne, in primo luogo».

La nascita di Udefegua

Davanti a questo potere intollerante avete deciso di reagire. In che modo, esattamente? 

«Assieme a varie entità abbiamo deciso di fare qualcosa di diverso: non lasciare solo chi lotta per i diritti. È così nata l’“Unità di protezione dei difensori dei diritti umani”, Udefegua, con un solo obiettivo: tutti – indipendentemente dalla propria ideologia, non importa se sono giovani o anziani, indigeni o non indigeni – hanno il diritto di lavorare per la difesa dei diritti umani. Perché non occorre essere un avvocato o appartenere a un’organizzazione per farlo».

In concreto, cosa fa Udefegua per coloro che lottano per i diritti umani?

«Noi li affianchiamo. Ci prendiamo carico di loro e delle loro investigazioni affinché possano svolgere il loro lavoro in sicurezza. Facciamo opera di informazione producendo bollettini (El Acompañante) con analisi, grafici e statistiche. In Guatemala abbiamo seguito più di 5.200 casi. Oggi lavoriamo non soltanto qui da noi, ma anche in molti altri paesi, dal Messico a Panama».

Sul corpo delle donne

Voi lavorate per la protezione dei difensori dei diritti umani, ma la violenza si manifesta già tra le mura domestiche. Si ritiene che nel paese 8 donne su 10 subiscano violenza fisica, psicologica, sessuale e patrimoniale da parte del proprio marito o compagno.

«Sì, c’è tanta violenza. La violenza sessuale ha raggiunto livelli mai visti prima. In soli due mesi ci sono state quasi 1.000 violenze sessuali denunciate. Questo significa che nella realtà sono state molte ma molte di più. In tutta la regione stiamo vivendo una guerra sul corpo delle donne. Come dimostra l’assassinio di Berta Caceres».

Di presidente in presidente: da un corrotto a un comico

Nel settembre 2015 i guatemaltechi hanno cacciato il presidente Otto Fernando Pérez Molina, eletto nel 2012 e coinvolto in un grave scandalo. Due mesi dopo hanno eletto presidente, a grande maggioranza, Jimmy Morales, di professione attore comico. Com’è accaduto?

«Non aveva nessuna possibilità, poi – a partire da giugno 2015 – i pastori evangelici hanno iniziato a dire di votare per lui, perché Jimmy era la soluzione. Ad essi si sono presto uniti i militari e gli ex paramilitari (appartenenti alle Pac, le Patrullas de autodefensa civil, nate nel 1981 e formalmente sciolte nel 1996, ndr). Morales non aveva alcuna proposta, però ha vinto con una grande partecipazione popolare».

In campagna elettorale il suo slogan è stato: «Ni corrupto, ni ladrón». Che presidente è Jimmy Morales?

«È machista, razzista, autoritario. Per Jimmy Morales i popoli indigeni sono soltanto dei guatemaltechi e non capisce perché debbano essere trattati diversamente. Lui sta promuovendo visioni vecchie di stampo nazionalista: tutti siamo Guatemala, dice. Però il suo Guatemala è il Guatemala che parla soltanto spagnolo e che non riconosce modi diversi di fare politica. La sua concezione è molto machista: le donne non possono fare politica se non dopo aver chiesto il permesso ai loro mariti. Sono posizioni molto antiche che hanno a che vedere con la sua appartenenza a una chiesa evangelica fondamentalista di matrice statunitense».

Nonostante i disastri perpetrati dalla destra, i partiti di sinistra – da Urng-Maiz a Winaq, dal Frente Amplio a Encuentro por Guatemala – non hanno mai ottenuto un consenso significativo. Come si spiega?

«Il Guatemala è un paese molto conservatore e di destra. La sinistra è sempre stata assolutamente minoritaria: in parlamento oggi ci sono pochissimi deputati di sinistra e centrosinistra. Per la gente è difficile votare diversamente, considerando valido il detto “meglio il vecchio conosciuto, che il nuovo sconosciuto”».

La condizione indigena

Circa metà della popolazione del Guatemala è indigena. La sua condizione continua a essere drammatica.

«Negli ultimi anni la popolazione indigena si è impoverita. Nelle comunità indigene la miseria è aumentata del 12 per cento. Nel paese c’è denutrizione cronica: uno ogni due bambini è denutrito e questa percentuale sale tra i bambini indigeni. Sono cifre ufficiali. In Guatemala tutto si manipola, ma in questo caso neppure il governo può nascondere la realtà. Purtroppo, non abbiamo ottenuto quanto sognavamo negli anni Ottanta, eppure c’è stata una mobilitazione importante dei popoli indigeni».

Intende dire che, nonostante le oggettive difficoltà, c’è stato un cambio in positivo?

«Quando io lavoravo per la Fondazione Menchú, l’enfasi era sull’educazione bilingue. Oggi questo è stato superato. Oggi i popoli indigeni lottano come comunità e non più come singoli soggetti. Lottano per i loro diritti (incluso il diritto allo sviluppo e quello a essere consultati). Hanno anche iniziato a costruire ponti con la popolazione non-indigena. In questo modo si riducono le barriere del razzismo e quelle nate durante la guerra armata. È un modo per arrivare a una conciliazione».

L’avanzata evangelica

Anche in Guatemala le chiese evangeliche sono in continua crescita a scapito della chiesa cattolica. Come vede la situazione?

«Gli evangelici sono ormai il 35 per cento della popolazione. Quanto alla chiesa cattolica, è divisa in due correnti, come accade in molti paesi. Una è quella della gente, quella che lotta per l’ambiente e contro il crimine organizzato. Una chiesa che fa molto arrabbiare la destra, che l’accusa di promuovere la guerra, di essere marxista e comunista (come si diceva un tempo). Con l’arrivo di Francesco questa chiesa è stata rafforzata. Poi c’è la chiesa tradizionale che non appoggia i poveri, che dice di voler mantenere una posizione distaccata. Questa è rappresentata dalla Nunziatura, per esempio. Come cattolica io spero che, presto o tardi, il messaggio di Francesco arrivi a tutta la struttura. Già oggi abbiamo vescovi molto compromessi con la realtà. Mons. Ramazzini e mons. Cabrera sono i più rappresentativi, ma non sono più soli».

Il Guatemala cambierà

Claudia, passano i decenni ma sembra che il Guatemala abbia sempre gli stessi problemi e qualsiasi soluzione, alla fine, sia destinata al fallimento. C’è troppo pessimismo in questa visione?

«Secondo me, il nostro presente e il nostro futuro stanno nel diritto a difendere i diritti umani. In questi anni mi ha mantenuta viva la visione di tanta gente. Se riusciremo a liberarci delle forze intolleranti, il Guatemala cambierà e non soltanto esso, ma l’intera regione. Assieme abbiamo un grande potere e questa è la mia speranza».

Paolo Moiola




Cari missionari dialogo con i lettori

Un anno senza Romolo

Ci lasciava un anno fa Romolo Momo Levoni, poeta dialettale, esperto di tradizioni locali e campione di solidarietà, fondatore e presidente del Grg (Gruppo Resurrection Garden).

È stato un anno duro, il 2016, un anno passato senza la presenza abituale, familiare, patea, rassicurante di quel piccolo grande uomo che era Romolo Levoni, per gli amici della sua terra Momo. Chi era abituato a vederlo nelle piazze di tutta la provincia di Modena col suo mulino ad acqua e con gli amici del Grg, quest’anno non l’ha più ritrovato, chi frequentava gli appuntamenti fissi con la cena di Castelnuovo Rangone e la festa della Manyatta su ai Roncaccioli di Lama Mocongo, non ha voluto mancare comunque, chi aspettava il sabato per leggere le sue «brontolate» in dialetto sulla Gazzetta di Modena, si è dovuto rassegnare e ormai da dodici mesi deve fae a meno, e, infine, chi attendeva, con l’ansia dei bambini la notte di Natale, i suoi auguri, che, da 38 anni, sotto forma di filastrocca dialettale (zirudele si chiamano a Modena) arrivavano puntuali per posta, ha dovuto accettare che non siano arrivati, com’era successo nel 2015. Le migliaia di amici e affezionati lettori di Romolo, dopo trentotto anni, non hanno ricevuto quella fotocopia in bianco e nero, fronteretro, che ogni Natale allietava, con allegria e lucida sagacia, raccontando i più significativi fatti e personaggi dell’anno in una zirudela (filastrocca dialettale in rima baciata, «per gli uomini in lingua» come avrebbe detto lui). Romolo la pensava, la scriveva, la stampava e la spediva, quella zirudela, sapendo di far felici amici sparsi per l’Italia.

Ci ha fatto una brutta sorpresa, dodici mesi fa, l’amico Romolo, poeta dialettale, esperto e scrittore di tradizioni locali, il saggio montanaro, ma soprattutto infaticabile benefattore, andandosene a 83 anni e lasciandoci un po’ più soli.

Soli, ma non rassegnati, né tantomeno fermi, i «suoi» infaticabili volontari del Grg, l’associazione che Romolo aveva fondato nel lontano 1991, con l’adorata moglie Carmen, poi trasformata in onlus nel 1999, per consentire gli studi a bambini della baraccopoli di Soweto, a Nairobi, in Kenya, in strutture create e gestite dai Missionari della Consolata. Quella straordinaria e unica esperienza che si chiama Familia Ufariji.

Solidarietà che ha saputo, per strada e negli anni, coinvolgere e raccogliere sempre più amici pronti a donare tempo, idee, lavoro e passione per raccogliere fondi per i piccoli «poveri, sfortunati fratellini» come li chiamava lui.

Fratellini che sicuramente ricordano le svariate visite che Romolo fece loro, direttamente a Nairobi e dintorni, che sentiranno di sicuro la mancanza del suo sguardo buono, del suo sorriso sereno, dei suoi abbracci sinceri.

Ma siccome Romolo ha seminato bene, i «poveri sfortunati fratellini» possono, e potranno, continuare a contare sul Grg che, nonostante altre perdite dolorose, come quella di padre Ottavio Santoro, e di un altro dei volontari, il consigliere Franco Muzzioli, superato il legittimo momento di dolore e sgomento, si sono riorganizzati e sono ripartiti mantenendo regolari le attività in Italia e in Kenya.

Questo grazie anche al fatto di aver trovato due nuovi fondamentali interlocutori in Kenya, come padre James Lengarin, amministratore regionale, e padre Joseph Mwaniki, responsabile del Resurrection Garden, conosciuti personalmente nella straordinaria visita che alcuni rappresentanti hanno effettuato in Kenya questo 2016. Padre James e padre Joseph sono giovani, attivi e affidabili e rappresentano una garanzia di buon uso delle risorse affidate loro.

«Romolo ci ha lasciato – scrive il presidente Sotero Marasti nella lettera d’autunno – consegnandoci una bellissima eredità fatta di bimbi che grazie al Grg possono istruirsi e avere un pasto assicurato… abbiamo avuto in eredità una associazione sana, viva e vitale con tante persone che per essa s’impegnano».

Tra questi vanno sicuramente ricordati Emilio, lo chef laziale trapiantato in Toscana che ogni anno emigra per un giorno a Castelnuovo per organizzare impeccabilmente la cena d’autunno del Grg, o come il suo grande amico Ermes, l’oste dei gabbiani, al quale Momo aveva dedicato un libro nel 2006 «Un gabian a Modna» e proprio nelle ultime settimane il seguito virtuale «Un eter gabian», la sua ultima pubblicazione. E ancora vanno ricordate le tante associazioni come il circolo di Castelnuovo, il Gruppo Alpini di Pavullo, gli Amici di Ermes, il Filo di Marinetta, le ragazze del Banchetto di natale e i ragazzi del Mercatino di Natale, i tanti che collaborano e rendono possibili iniziative come il picnic sotto le stelle o la Festa della Manyatta del 26 giugno, ricorrenza della Madonna Consolata, dal cui istituto provengono i padri che operano col Grg in Kenya.

Ma Romolo ha pensato ai suoi bimbi della scuola della Familia Ufariji anche in altro modo, cioè con il suo testamento: ha lasciato al Grg parte dei suoi beni, compresa la preziosa sede nella quale i volontari operano.

Era nato a Castelnuovo, ma da molti anni, con la moglie Carmen, si era trasferito tra i monti di Lama Mocogno, dove poteva dedicarsi all’orto, alla terra e ai boschi tanto amati; dopo gli anni del lavoro, da capostazione, memore della figura del padre ferroviere e amatissimo, si è dedicato agli studi delle tradizioni locali e alla scrittura. Da «sapiente della montagna», come lo definì il prof. Fabio Marri, diventò alla fine degli anni ’70 un vero esperto delle tradizioni locali, scrivendo, dal 1979 al 2015, e pubblicando decine di volumi tra i quali ricordiamo «Rosch e Bosch», «Mo… cojozzi», «Don Mario e noi», «Magner in dialat», «Piazza nuova e vecchi giuochi», «Un gabian a Modna», «Castelnuovo, gente e vita, da la saraca all’aragosta», lucidissima disamina su come la nostra società sia diventata da rurale a industriale e tecnologica.

Tra i tanti amici che sentiranno la sua mancanza ci sono anche Ermes, l’oste più famoso di Modena, che in tante occasioni ha destinato i fondi raccolti con le sue iniziative a base di gnocco fritto al Grg e che aveva seguito Romolo anche a Nairobi, in mezzo ai bambini adottati nella Familia Ufariji, Angelo Giovannini, che proprio insieme a Momo ha realizzato la sua ultima opera «Un eter gabian», Roberto Alperoli, ex-sindaco di Castelnuovo e intellettuale vero, che lo definì «un discolo senza età, dagli occhi indaffarati e dalle mani febbrili, sempre intento a cercare di aggiustare (almeno un poco) il mondo».

Esattamente come aveva fatto fino a un anno fa. Ciao discolo, tranquillo… i tuoi ragazzi vanno avanti, il Grg e i tuoi bimbi hanno un futuro.

Angelo Giovannini
per il Grg, Modena, 06/12/2016

Fratel Carlo da Catrimani

Pubblichiamo qui, con qualche taglio, l’interessantissima lettera di Natale di fratel Carlo Zacquini, missionario della Consolata tra gli indios Yanomami. I titoletti sono nostri.

Amici carissimi,
[…] cercherò di aggioarvi su alcune situazioni locali e attività che stiamo svolgendo.

Invasioni

In questi ultimi tempi, abbiamo avuto parecchie notizie sulla situazione dell’invasione illegale della Terra Indigena Yanomami e Ye’kuana, da parte dei cercatori d’oro. L’attività non tende a scemare, anzi, pare si stia spargendo. Un’operazione militare è stata fatta lungo il corso del rio Uraricoera, il mese scorso. Era il luogo che apparentemente aveva la maggior concentrazione di «garimpeiros», che stavano aumentando a vista d’occhio. L’operazione ha portato alla distruzione di una dozzina di chiatte e relativi macchinari che erano usati per l’estrazione dell’oro dal fondale del fiume.

In seguito, è stata montata un’altra operazione che ha forzato alcune centinaia di cercatori d’oro ad abbandonare le località che avevano occupato. Si spera sempre che il governo la smetta di giocare al ritiro di «garimpeiros», come azione per far tacere le denunce. Di fatto, in seguito, gli invasori ritornano agli stessi luoghi in poco tempo, e il governo (polizia, militari, …) può giustificarsi dicendo che reprimono l’attività illegale, ma non «riescono» a impedire il ritorno degli invasori. Indagini fatte dalla stessa Polizia Federale hanno scoperto come funziona il tutto: chi finanzia gli invasori, quanto rende questa attività e come è «lavato l’oro estratto illegalmente, per mezzo di una compagnia di valori di São Paulo. Non ho conoscenza di persone punite per queste attività illegali. In questo contesto di impunità, chi finisce per avere la peggio sono gli Yanomani.

Uccisioni

Ciononostante non sono gli unici a soffrie le conseguenze. È stata confermata l’uccisione di sei «garimpeiros» da parte di un gruppo di Yanomami, in una regione non lontana dalle sorgenti del rio Catrimani. La notizia che si è sparsa dopo la denuncia anonima di un cercatore d’oro «sconosciuto», è stata poi confermata da alcuni Yanomami a mezzo radio. Essi hanno anche avvisato che avevano bruciato i cadaveri. Due settimane fa, il governo ha organizzato una spedizione per riscattare i cadaveri. La spedizione che si è recata sul luogo con un elicottero (si tratta di località di difficile accesso in piena foresta), ha riportato a Boa Vista i resti dei corpi che erano stati bruciati con un fuoco molto grande, probabilmente ottenuto con l’uso del combustibile che i «garimpeiros» usavano per azionare i motori necessari per l’estrazione del minerale. L’identificazione dei «corpi» è stata affidata a specialisti che avranno certamente molto lavoro per arrivare a stabilire a chi appartenevano.

Mi sono chiesto come può essere capitato questo «incidente». Non è facile poterlo affermare. Anche se, come sempre, si sa che il modo di fare degli invasori è quello di cercare di ingannare gli indigeni, facendo promesse, distribuendo piccoli regali, foendo un po’ di alimenti (riso, sale, …). In alcuni casi offrono armi da fuoco ai leaders più influenti (fucili da caccia), e poi li tengono buoni lesinando le munizioni. Mi è stato detto anche che sarebbero morti tre bambini in poco tempo, forse per causa di malattie introdotte involontariamente dai cercatori d’oro; un indigeno ha detto che i «garimpeiros» avrebbero minacciato qualcuno di loro. Sta di fatto che il famoso massacro di Haximu, nel quale persero la vita sedici Yanomami, in maggior parte bambini, avvenne molto vicino al nuovo luogo del conflitto; gli Yanomami erano al corrente di come il tutto era avvenuto in quell’occasione, e con ogni probabilità hanno riscontrato qualche analogia nel comportamento di quelli che a suo tempo avevano partecipato all’atto genocida.

Funai ridimensionata

Su un’altra questione, abbiamo finalmente ottenuto da un funzionario della Funai delle buone fotografie aeree del villaggio di indigeni isolati che da oltre un anno sono in una località prossima ad uno dei luoghi di «garimpo» clandestino, e senza la possibilità di controlli, a causa della ristrettezza di fondi che il Goveo Federale ha stabilito per la Funai. Ho l’impressione che, in alto loco, stiano tentando di rendere la Funai un organo decorativo. Ci sono parecchi indizi, non solo a Roraima, che questo stia avvenendo.

È abbastanza frequente che autorità di vari livelli si pronuncino sfavorevolmente circa il rispetto dei diritti dei popoli indigeni garantiti nella Costituzione Federale.

Ad ogni modo, per lo meno per ora, pare che il villaggio isolato goda di buona salute; sono sulle spine perché questa situazione può precipitare in qualsiasi momento e nessuno sta prendendo provvedimenti per cercare di evitarlo.

Più morti che in guerra

Saltando di palo in frasca. Vi riporto alcuni dati che ho trovato sul giornale EcoDebate, il giorno 08/11/16: «Secondo i dati dell’Istituto di Ricerca Economica Applicata (Ipea) e del Forum Brasiliano di Sicurezza Pubblica, il Brasile ha raggiunto la cifra record di 59.627 omicidi nel 2014, il che equivale a 160 morti al giorno. Giovani neri, con poca scolarità, e donne sono le principali vittime di un paese il cui popolo, al contrario di ciò che si divulga, non è allegro, né pacifico o tollerante in relazione alle differenze. In verità, il Brasile si è mostrato uno dei paesi più violenti del mondo, nel quale le morti banali e futili, sono più numerose di quelle che succedono in nazioni in guerra». La traduzione veloce è mia, per cui ci può essere qualche errore. Ho paura di dimostrare col mio scritto molto pessimismo, me ne scuso, e cambio argomento.

Centro di Documentazione Indigena

I consiglieri della nostra Regione missionaria hanno deciso che si può mandare avanti il progetto di costruzione di un edificio ad hoc per il Centro di Documentazione Indigena (Cdi); ora si tratta di trovare qualche tecnico che si incarichi di elaborae il progetto. Per ora il Cdi funziona in locali improvvisati, e mi sembra che stia riscuotendo sempre maggiori consensi tra gli indigeni e tra gli studenti e insegnanti specialmente delle università locali. Sono sempre più frequenti quelli che ci cercano e consultano i nostri archivi; inoltre gradualmente finiscono per ingaggiarsi nel nostro lavoro e nel nostro sport preferito che è quello della difesa dei diritti dei popoli indigeni. A tutti voi che seguite le nostre attività/avventure, un buon Natale e un anno nuovo degno di buoni missionari; vi ricordo sempre nei miei sciamanismi. Con affetto.

fratel Carlo Zacquini
Boavista, Roraima, 05/12/2016

Mafie e denaro pubblico

La trasformazione dell’economia normale in economia criminale

I soldi pubblici (provenienti da appalti, sovvenzioni, contributi, concessioni e così via) costituiscono lo scopo primario del potere delle nuove mafie in Italia e segnano il connubio tra organizzazioni criminali, mondo dell’imprenditoria e politica. Quest’alleanza genera un vero e proprio sistema criminale, parallelo a quello legale, poco rischioso e dai guadagni incalcolabili. La criminalità organizzata ormai ha esteso i suoi tentacoli in ogni regione italiana condizionando il settore dell’imprenditoria che lavora soprattutto con i soldi pubblici. L’infiltrazione nel sistema di assegnazione e gestione del denaro pubblico avviene attraverso imprese «immacolate» sotto ogni punto di vista ma che, di fatto, sono già controllate dalla criminalità organizzata. L’intimidazione è l’extrema ratio, in quanto la mafia, attraverso il sistema corruttivo e il sostegno economico a queste imprese, che spesso sono in crisi, riesce a gestire il tutto senza particolari clamori e nella massima trasparenza. Per far sì che le imprese «mafiosizzate» siano beneficiarie dei fondi pubblici la criminalità organizzata deve fare in modo che le altre imprese non presentino offerte o si ritirino dalle gare. Le organizzazioni criminali se riescono, fanno presentare offerte ad altre imprese che già gestiscono, in caso contrario, utilizzano il metodo mafioso «classico» (intimidazioni di ogni genere fino all’omicidio) per far sì che l’impresa che l’organizzazione ha cornoptato risulti aggiudicataria unica. Nel caso d’imprese non controllate ed escluse dalla gara, occorre impedire alle medesime di rivolgersi agli organi giudiziari ed anche in questa ipotesi, all’intimidazione si preferisce il meccanismo corruttivo mediante la promessa di vantaggi economici o di partecipazione a future gare, fermo restando che se non funziona il metodo «dolce» si utilizzerà quello violento. In questo sistema particolarmente articolato, svolgono una parte predominante imprenditori, politici, funzionari pubblici, progettisti, direttori dei lavori, tutti con funzioni e compiti specifici. Utilizzando lo strumento delle tangenti, la politica garantisce alle mafie l’erogazione dei soldi pubblici e il sistema del massimo ribasso costituisce il terreno fertile per l’infiltrazione mafiosa e per il perfezionamento dell’alleanza. L’alterazione della gara avviene sempre determinando in via preventiva i ribassi che ciascun’impresa deve indicare nella sua offerta. A questa situazione ormai endemica imposta dalle mafie, soggiacciono quasi tutte le imprese sul territorio nazionale che estendono i loro affari anche in ambito europeo e internazionale, poiché, di fatto, non avrebbero alternative plausibili. Come porre rimedio a una situazione a dir poco aberrante come questa in precedenza esposta? A tal proposito ci vengono in soccorso le intuizioni di Rocco Chinnici, di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino, secondo i quali bisognerebbe indagare sui flussi di denaro e sui complici «puliti» delle mafie, ad esempio, controllando tutte le ditte partecipanti a una gara, disciplinando in maniera ferrea il sistema della revisione dei prezzi, delle varianti in corso d’opera e degli enti appaltanti. A mio giudizio, andrebbe tassativamente eliminato il sistema del massimo ribasso che offre notevoli possibilità di falsare le gare pubbliche. In conclusione, vorrei ricordare che l’ex magistrato Antonio Ingroia, dichiarò dinanzi alla Corte d’Assise di Caltanissetta che Paolo Borsellino gli confidò di essere convinto che, attraverso il carteggio di Giovanni Falcone sull’inchiesta «Mafia e Appalti», si sarebbero potuti individuare i moventi della strage di Capaci. Questo dimostra quanto importante sia il settore dell’erogazione di denaro pubblico e dunque occorre battersi per la prosecuzione delle attività e delle idee di Falcone e Borsellino. Prevenire, controllare e sanzionare ogni abuso in questo particolare settore significa non far passare più il messaggio che le mafie danno lavoro mentre lo Stato no! Oltre alla magistratura e alle forze di polizia occorrono adeguate forme di organizzazione e mobilitazione affinché tutti uniti si ponga fine a un sistema altamente nocivo che sta trasformando l’economia legale in economia criminale.

Vincenzo Musacchio,
giurista e direttore della Scuola di Legalità «don Peppe Diana» di Roma e del Molise, 19/11/2016

Colombia

Gentilissimo Dr. Moiola,
martedì scorso sono venuta in Via Cialdini per il documentario di Gianni Minà e ho preso uno dei numeri della Rivista MC Novembre 2016, che gentilmente offrivate. Già da tempo conosco i suoi articoli ed ora ho appena finito di leggere quelli sulla Colombia e voglio manifestarle tutto il mio apprezzamento per la chiarezza e il rigore con cui li costruisce. Leggere pagine come le sue, è un vero piacere! Ho ritrovato nomi di missionari e luoghi a me molto cari e non soltanto per aver parlato dei progetti Missionari per molti anni nelle mie lezioni, ma anche per evocazioni di un passato personale. Grazie ancora per la sua costante attenzione per la Colombia e per le sue popolazioni indigene! Molto cordialmente

Silvia Giletti
Progetto Diritti Umani e Globalizzazione, Università degli Studi di Torino, 26/11/2016

 




Perdenti 21: Tupac Amaru


Túpac Amaru (Cuzco, Perù, 1741 – 1781) era il pronipote di Juana Pilco-Huaco, figlia dell’ultimo sovrano inca, Túpac Amaru I, che era stato condannato a morte dagli spagnoli due secoli prima (1572). La sua formazione culturale e spirituale avvenne nel collegio dei gesuiti della sua città. Finiti gli studi, si mise in affari avviando un’attività redditizia di trasporto di prodotti minerari dall’interno del Perù ai porti. Il prestigio acquisito come apprezzato uomo d’affari e l’autorevolezza che aveva presso la sua comunità lo posero alla testa della ribellione che indios e meticci fecero scoppiare contro gli spagnoli per i tributi e le prestazioni obbligatorie di lavoro che l’autorità coloniale iberica imponeva. Egli, presentandosi come restauratore e legittimo erede della dinastia inca, mandò uomini fidati per tutto il territorio del Perù affinché si alimentasse la ribellione contro le autorità coloniali spagnole, mai però mise in discussione la lealtà alla corona di Spagna.

Caro Túpac, la conoscenza del tuo paese e della tua figura spesso si ferma ai «cliché». Ci puoi aiutare a superarli?

Sono ben felice di venire incontro a questa esigenza. Mi preme far conoscere la nostra storia.

Tu appartieni al secolo XVIII che ha visto consolidarsi, in quella che noi chiamiamo America Latina, il potere di Spagna e Portogallo.

Sì. Dopo due secoli di amministrazione iberica, pur appartenendo al glorioso popolo inca, anche io mi sentivo un leale suddito di Carlo III, Re di Spagna, monarca assoluto.

Gli spagnoli a Cuzco, nella tua città, attraverso l’azione culturale dei gesuiti, crearono delle ottime scuole per la formazione dei figli della nobiltà inca.

Anche questo corrisponde a verità. Io, così come molti altri giovani, frequentai i corsi accademici che i gesuiti tenevano nelle loro scuole aprendo i miei orizzonti sia culturali che spirituali.

Allo stesso tempo però mantenevi tutti i compiti a cui eri preposto per il culto e avevi la responsabilità di vegliare sui riti e sulle reliquie del tuo popolo.

Come membro di una delle famiglie inca più influenti ero incaricato dei riti tradizionali per onorare i defunti della nostra gente. Era mio fratello maggiore che usava tutta la sua abilità per contenere sul piano diplomatico le mire e le pretese che gli spagnoli avevano sulla nostra terra.

Ma l’opera di contenimento degli spagnoli non dava frutti.

Gradualmente prendevamo coscienza che era impossibile raggiungere accordi con i coloni spagnoli: a loro interessava solo trovare oro e argento da portare in Spagna. Per questo i nostri risentimenti nei confronti degli invasori crescevano, e con essi gli scontri. Ebbe origine una guerriglia costante tendente a sfiancare le truppe spagnole, sebbene noi fossimo armati solo di lance e frecce, mentre loro di archibugi.

La vostra era una situazione in continua ebollizione.

Pattuglie a cavallo, con la scusa di stanare coloro che non volevano convertirsi, si muovevano in tutto il nostro territorio cercando il fantomatico tesoro del Perù, ovviamente senza successo, e questo li rendeva ancora più rabbiosi.

Essendo tu parte della nobiltà nella società inca eri una preda piuttosto ambita da parte dei conquistadores.

Infatti cercai di fuggire per non farmi trovare, ma siccome mia moglie era incinta, volendo stare accanto a lei che stava per partorire, gli spagnoli ci raggiunsero. Fui fatto prigioniero, condotto a Cuzco e mi fu richiesto di abbracciare la fede cristiana.

Ma mica potevano obbligarti a convertirti?

Misero insieme le menti più brillanti del clero spagnolo presente in Perù in quegli anni e permisero loro di colloquiare con me quando volevano, anche tutti i giorni. Il loro sforzo ebbe successo e alla fine mi feci battezzare assumendo il nome di Pedro.

Nel frattempo in Europa si era avviata una disputa teologica e all’università di Salamanca a larghissima maggioranza fu affermato che anche gli indios avevano un’anima.

Proprio per questo è incredibile costatare che, mentre in Spagna veniva affermata la nostra dignità di uomini in quanto figli dello stesso Padre, a casa nostra eravamo calpestati e derisi in quanto ritenuti solo schiavi da sfruttare.

Conscio delle tue responsabilità, a un certo punto riuscisti a eludere la sorveglianza degli spagnoli e a metterti a capo di una massa di Incas che intendeva ripristinare l’antico regno.

Dopo alcune scaramucce in cui avemmo la meglio, gli spagnoli, forti di un contingente di 17mila uomini, ci sconfissero nella battaglia di Checacupe, il 6 aprile 1781, in cui io venni fatto prigioniero.

Gli spagnoli volevano risolvere il problema del regno inca eliminando tutta la classe dirigente.

Io e i miei compagni fummo condannati a morte. Molti ecclesiastici sollecitarono una misura di clemenza nei nostri confronti, ma fu inutile: il viceré di Spagna fu implacabile e, senza neppure lo straccio di un processo, decretò la condanna a morte per tutti noi. Il supplizio, nelle loro intenzioni, doveva essere esemplare per dare una lezione a coloro che non intendevano arrendersi.


Il 18 maggio 1781 Túpac Amaru venne giustiziato sulla piazza centrale di Cuzco. Affinché più nessuno osasse ribellarsi ai conquistadores, l’esecuzione fu una delle più terrificanti che si possano immaginare. Il corpo di Túpac Amaru, legato mani e piedi a quattro cavalli, indirizzati verso i quattro punti cardinali, venne squartato orribilmente. Ai cavalli, per farli correre il più lontano possibile con i resti del condannato, erano state conficcate delle spine di rovi nella pelle. Ma tanta ferocia non sortì l’effetto sperato, anzi creò la leggenda di un suddito del Nuovo Mondo leale e fedele alla corona di Spagna che si ribellò alle angherie dei conquistadores prendendo le difese della sua gente vilipesa e angariata. Gli ideali di giustizia e libertà a cui Túpac Amaru ispirò tutta la sua vita, alimentarono lungo i secoli in America Latina altri combattenti per la liberà che ne assunsero anche il nome. Basti pensare al Movimento di Liberazione Tupamaros, che in anni più vicini a noi in Uruguay, ribellandosi alla dittatura militare che con un colpo di stato aveva preso il potere nel piccolo paese affacciato sul Rio de la Plata, vollero definirsi appunto Tupamaros in omaggio al leader del passato morto combattendo per la dignità e la libertà del suo popolo.

Don Mario Bandera




Pigmei piccolo uomo fratello mio


Negli ultimi mesi c’è stata una recrudescenza dei massacri nell’Est del Congo. Qui gli interessi di potenze straniere e del governo centrale creano una situazione esplosiva. In questo contesto un missionario italiano lotta per la difesa dell’etnia più oppressa: i pigmei.

«Il mio pensiero va agli abitanti del Nord Kivu recentemente colpiti da nuovi massacri che da tempo vengono perpetuati nel silenzio vergognoso, senza attirare neanche la nostra attenzione. Fanno parte purtroppo dei tanti innocenti che non hanno peso sulla opinione mondiale».

Questo l’emblematico, coraggioso e condivisibile messaggio lanciato lo scorso mese di agosto da papa Francesco durante l’Angelus per la festa dell’Assunta, a seguito del massacro di civili avvenuto nella Repubblica democratica del Congo, per opera di un commando armato. Le vittime degli eccidi, nella zona Butembo-Beni (Nord Kivu), non sono quantificabili in modo esatto, ma fonti locali parlano addirittura di 500 morti, tra questi anche donne e bambini.

Un’annosa questione

Nell’Est Congo Rd la situazione è complessa. È in atto una guerra che ha le sue radici nella conquista del potere da parte di Paul Kagame in Rwanda, nel 1994. Da allora decine di milizie si combattono nel Sud e nel Nord Kivu, spesso appoggiate dai governi di Uganda, Rwanda e Burundi, talvolta in contrapposizione. I tre stati confinanti, da oltre 20 anni approfittano della guerra per sfruttare le ricchezze minerarie e forestali del Congo (vedi MC giugno 2016). Le milizie, molto sanguinarie, alcune composte da poche centinaia di uomini armati, si scontrano tra loro, talvolta contro le Forze armate congolesi (Fardc), ma sempre commettendo atrocità nei confronti dei civili.

«Nel Nord Kivu – afferma padre Antonio Mazzucato, classe 1938, sacerdote fidei donum della diocesi di Bolzano, e missionario nella diocesi di Butembo-Beni – sono in atto cruenti attacchi a danno della popolazione da parte di diversi gruppi armati. In particolare Forze democratiche per la liberazione del Rwanda (costituita da hutu contro il regime tutsi di Kigali, ndr) e le Forze democratice alleate (ugandesi di fede islamica contro il governo di Uganda e Rdc, ndr).  In questo scenario la Monusco, la missione Onu per la stabilizzazione della Rdc, non riesce a proteggere la popolazione. I soldati Onu non fanno nulla per bloccare i massacri, intervengono troppo in ritardo. Si limitano a operazioni umanitarie. Inoltre, non contrastano, né denunciano, il traffico di minerali, come diamanti e coltan. Ed è proprio il quest’ultimo uno dei fattori che alimenta l’instabilità politica e i massacri» .

A causa del saccheggio delle risorse naturali, nel Nord Kivu continuano i massacri, nella più totale impunità. Secondo padre Gaston Mumbere, della congregazione degli Agostiniani dell’assunzione, soltanto in questa regione della Rdc si conterebbero 8 milioni di vittime negli ultimi vent’anni (si veda il rapporto Rapport du Projet Mapping, dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani). Un genocidio denunciato da padre Mumbere tramite una lettera appello, indirizzata lo scorso maggio a Joseph Kabila, in cui si legge: «A questo ritmo, voi potreste essere ricordato come il presidente dei morti, dei cimiteri, delle fosse comuni».

La missione Etabe

Padre Antonio opera in Nord Kivu dal 1989. Una regione difficile e al contempo straordinaria dal punto di vista naturalistico e culturale. Padre Antonio ha deciso di aiutare gli ultimi tra gli ultimi, i pigmei, con la creazione di un progetto concreto a loro favore. Chiamato inizialmente «Progetto pigmei Teturi», questo programma fu sottoscritto e sostenuto dall’allora vescovo di Butembo-Beni, monsignor Emmanuel Kataliko. Il progetto, nell’arco di pochi anni, pur con limitati mezzi a disposizione, si è radicato, tanto da coinvolgere diversi clan (o famiglie allargate) di pigmei nella partecipazione al suo sviluppo. Intanto, il nome è stato modificato in «Progetto pigmei Etabe». Etabe deriva dall’appellativo dell’originaria missione istituita nella prima metà del ´900 dai Piccoli fratelli di Charles De Foucauld, i quali stavano cercando di emancipare i pigmei. Anche per questo motivo, nel 1964, alcuni preti di questa comunità missionaria vennero uccisi dai ribelli Simba istigati, secondo padre Antonio, dal gruppo dei Babila. Questi ultimi erano e rimangono i principali oppositori di chiunque tenti di aiutare il popolo della foresta.

L’obiettivo del progetto è quello di offrire ai pigmei gli strumenti per sottrarsi al dominio-sfruttamento da parte  degli altri congolesi, e degli stranieri. L’emancipazione avviene a più livelli. Sul piano economico, con l’acquisizione di conoscenze legate all’agricoltura, come forma di integrazione delle fonti di sussistenza tradizionali quali caccia, pesca e raccolta. A ciò si aggiungono l’apprendimento di competenze legate all’artigianato del legno, alla meccanica, alla sartoria.

Sul piano politico, sostenendo una forma di autonomia giuridica e amministrativa delle popolazioni pigmee, all’interno dell’ordinamento dello stato. Sul piano culturale, appoggiando l’istruzione dei pigmei attraverso scuole gestite da loro stessi, per proteggere e valorizzare le varie forme espressive e artistiche originali. Sul piano religioso, l’annuncio evangelico viene inserito rispettando la religiosità dei pigmei.

Padre Antonio, appoggiato dal fratello Benito, insegnante in pensione, da Alexandre Muhongya, già collaboratore dei Piccoli fratelli di De Foucauld, e da padre Piero Lombardo (poi spostatosi verso Sud, oltre Byakato), ha continuato a consolidare il progetto Etabe. A ciò hanno contribuito alcuni gruppi pigmei, i quali hanno aiutato a costruire le capanne in legno e fango, ricevendo in cambio assistenza sanitaria e beni di prima necessità, come cibo e vestiario.

I diritti dei pigmei

Il progetto Etabe si è sviluppato a partire dal 1994, quando venne edificata la missione a Mikelo-Kadodo, poi chiamata semplicemente Kadodo. Sempre con l’aiuto dei pigmei, sono state realizzate diverse opere, tra cui una cappella in legno, bambù e lamiere ondulate; un laboratorio di falegnameria; un magazzino; un ufficio; un piccolo refettorio; una cucina con l’alloggio per il personale della cucina; un piccolo dispensario con camera da letto per le infermiere; un laboratorio di sartoria.

Nell’arco di quasi 30 anni molto è stato fatto, sia per proteggere la cultura e le attività tradizionali dei Pigmei, sia per fornire loro conoscenze teorico-pratiche al fine di alfabetizzarli e insegnare utili saperi artigianali.

«Con il progetto aiutiamo i pigmei a convivere con la modeità, e allo stesso tempo manteniamo viva la loro cultura e la loro civiltà. Per esempio, quando inizia il periodo dedicato alla caccia tradizionale, i bambini al mattino non frequentano la scuola, ma sono liberi di andare in foresta coi genitori per imparare a cacciare. Gli scolari sono accompagnati anche dai maestri che insegnano loro le caratteristiche e i nomi delle piante e degli animali. È una conoscenza diretta della natura che li circonda e da cui traggono sostentamento. I maestri, dopo l’esperienza sul campo, danno loro dei compiti da svolgere».

Continua il missionario: «Questo metodo è importante per valorizzare la loro cultura, per permettere ai pigmei di capirla a fondo, documentarla. In questo modo non rischia di andare perduta. Vivendola e praticandola viene conservata. Ma l’economia di caccia non è più sufficiente per permettere loro di sopravvivere. Decenni fa, nella foresta, vivevano poche centinaia di persone, e i clan di pigmei si suddividevano le zone. Con l’arrivo degli stranieri, delle multinazionali del legno, dei cacciatori e dei bracconieri, la selvaggina e le altre risorse naturali sono sempre più scarse. In passato i pigmei cacciavano secondo i bisogni quotidiani, rispettando il ciclo ecologico. Ma ormai anche questa attività non sempre da risultati.

Inoltre è sempre più pericoloso andare a caccia o raccogliere erbe e frutti, a causa della presenza di mine antiuomo.

Ecco che insegnando non solo a leggere e a scrivere, ma anche conoscenze di meccanica e di falegnameria, i pigmei imparano un mestiere. Da qui la decisione di creare gli atelier artigianali. Quando hanno appreso bene le tecniche, foiamo ai pigmei l’attrezzatura per lavorare. Così vanno al villaggio più vicino e riparano le bici o le motociclette».

Un progetto scomodo

Proprio perché difende i diritti di questo popolo, padre Antonio ha subito minacce. Più volte la missione e la sede del progetto Etabe sono state prese di mira da ribelli e da chi è contrario a una possibile emancipazione dei pigmei. «Nel 2003 – ci racconta padre Antonio – i soldati governativi hanno distrutto e saccheggiato la missione che avevamo a Etabe. Hanno portato via attrezzi di meccanica, falegnameria e strumenti elettrici. Nel fango e in mezzo all’erba hanno lasciato brandelli di abiti, quadei e libri della scuola». Secondo padre Antonio quel saccheggio nascondeva la volontà di attuare un genocidio programmato contro la popolazione dei pigmei. Questi si sono salvati miracolosamente grazie alla pronta fuga e poi all’intervento degli osservatori Onu, all’epoca guidati dal generale italiano Roberto Martinelli.

Ci spiega padre Antonio: «Per farmi paura i soldati governativi hanno persino divelto materassi e sollevato i mattoni del pavimento di casa, perché pensavano avessi nascosto qualcosa di prezioso. Mi hanno distrutto tutto alla missione. Per ben due volte ho ricominciato da zero.

Nel 2015 sono dovuto fuggire con mio fratello, perché i gruppi ribelli erano arrivati vicino a casa nostra. Nella missione a Etabe, in piena foresta, non possiamo più andare perché è circondata da milizie. A Mangina (località a 65 km dalla missione, ndr) sono state saccheggiate numerose case. Il parroco locale ci aveva esortato ad andarcene. Anche lui è stato costretto a scappare. A Beni vengono ammazzate in media due persone al giorno. L’Onu è un semplice osservatore. I caschi blu distribuisce la carità. Non intervengono. Si spostano protetti nei loro fuoristrada».

Voglia di continuare

Tante amici in Italia hanno implorato padre Antonio di abbandonare il progetto, di non rischiare più andando in una zona così pericolosa. Ma lui non si perde d’animo, nonostante sia stato minacciato più volte dal capo locale dei Babila: «Questo gruppo è contrario al progetto per varie ragioni», ci dice padre Antonio. «La più importante è razziale. I pigmei non sono considerati uomini e la loro etnia non viene riconosciuta a livello ufficiale. Questo accade da sempre, sin da prima del colonialismo. Poi con Mobuto la situazione è peggiorata. I pigmei durante il mobutismo venivano costretti a sposarsi e a mescolarsi con le altre etnie, per far sì che, progressivamente, la loro scomparisse. Ma la discriminazione verso i pigmei la si può vedere anche in coloro che apparentemente fanno del bene. Per esempio, chi va in Africa con l’idea che si debba “civilizzare” gli africani è spinto da un principio razzista, a scopo di bene, certo, ma è comunque mosso da atteggiamenti patealistici e di superiorità. Tante volte, quando faccio notare questa subdola forma di razzismo, mi si obietta: “Ma come? Tu non civilizzi quella gente”? E io immancabilmente rispondo che “No, io mi sono fatto civilizzare dai pigmei, perché ho imparato il rispetto delle culture proprio stando con loro”».

A padre Antonio e a suo fratello le autorità non hanno concesso una scorta per la protezione nei loro spostamenti. «Noi abbiamo richiesto la scorta a Beni – ricorda padre Antonio – e ci hanno risposto che dovevamo rivolgerci agli uffici della sicurezza di Kinshasa. I funzionari a Kinshasa ci hanno detto che dovevamo munirci di determinati documenti. E così è iniziato il girone infinito della burocrazia congolese. Rimane il fatto che non abbiamo ancora la scorta. Negli ultimi anni, anche da parte dell’Onu non ho trovato appoggi. Solo alcuni amici locali ci aiutano».

Nonostante la mancanza di sicurezza, padre Antonio, in Italia per vacanza “forzata”, sta già pianificando il ritorno nel Nord Kivu. «È da tempo che non riesco a raggiungere la mia missione a causa dei massacri. Sono stato costretto più volte a fermarmi a Mangina, perché la strada era taglieggiata dai soldati e dai banditi. Anche se cammino col bastone devo tornare. I pigmei mi aspettano, hanno bisogno che continui la mia opera».

Silvia C. Turrin


Archivio MC

Abbiamo parlato di pigmei in: Marco Bello, Echi dalla foresta, ottobre 2012.




Brasile grida perdute nell’indifferenza


Dimenticate le Olimpiadi, il Brasile è tornato ai problemi di questi ultimi anni: crisi economica e crisi morale. Il governo Temer, nato da un golpe parlamentare ed espressione dell’oligarchia, non ha in agenda la difesa dei diritti dei popoli indigeni. Al contrario, accentuerà la loro erosione, spinto da un Congresso dominato dagli «uomini BBB» (pallottole, vacche, Bibbia). Ne abbiamo parlato con dom Roque Paloschi, arcivescovo di Porto Velho e presidente del Cimi, la combattiva organizzazione indigenista contro la quale il governo del Mato Grosso del Sud ha addirittura istituito una Commissione d’inchiesta. Per aver difeso i popoli indigeni dalle violenze dei propri latifondisti.

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Dopo dieci anni e mezzo come vescovo di Boa Vista, nello stato di Roraima, dal dicembre 2015 mons. Roque Paloschi è arcivescovo di Porto Velho, capitale di Rondonia. Alcuni mesi prima del suo trasferimento, il prelato – nato nella cittadina di Progresso, nello stato di Rio Grande do Sul, da una famiglia di origine italiana – era stato nominato presidente del Conselho indigenista missionário (Cimi), l’organizzazione creata nel 1972 per appoggiare la lotta dei popoli indigeni del Brasile. A fine luglio il Cimi ha ottenuto lo status di consulente per la tematica indigena nel Consiglio economico e sociale (Ecosoc) delle Nazioni Unite.

Questo momento storico

Mons. Paloschi, il Brasile sta vivendo un periodo storico molto particolare.

«Sicuramente. È un momento che nasce anche da una lotta contro le conquiste sociali ottenute negli ultimi anni. Il nuovo governo (vedere tabella di pagina 53, ndr) è composto da corrotti, come dimostra la situazione di vari ministri».

Nel corso dell’ultimo anno, lei è passato dalla diocesi di Boa Vista a quella di Porto Velho. È diventato anche presidente del Consiglio indigenista missionario (Cimi). Quale dei due compiti ritiene che sarà più difficile?

«Sono due sfide nuove che esigono molto impegno. Tuttavia, non c’è dubbio che la questione indigena è oggi una tematica cruciale in Brasile».

Parliamo allora del Cimi, l’organismo della Conferenza episcopale brasiliana.

«È stato creato negli anni Settanta per accompagnare il cammino dei popoli indigeni. Dopo otto anni con alla guida mons. Erwin Kräutler1, da un anno io ne ho assunto la presidenza. Oggi l’organismo sta vivendo un momento molto impegnativo a causa della difficile condizione degli indigeni. In Mato Grosso do Sul è stata addirittura creata una commissione (Comissão parlamentar de inquérito, Cpi) per investigare sul suo comportamento (vicenda raccontata nel riquadro di pagina 54, ndr)».

Il Cimi ha da poco reso pubblico, come fa ogni anno, il rapporto sulle violenze perpetrate ai danni dei popoli indigeni in Brasile. Che quadro ne è uscito?

«Che anche nel corso del 2015 i popoli indigeni hanno subito un gran numero di violenze. Il nostro rapporto annuale – Violência contra os povos indígenas no Brasil – è un lavoro riconosciuto a livello internazionale. Con esso noi denunciamo la violenza delle imprese minerarie, di quelle dell’agroindustria e del legno, ma anche del governo con le sue repressioni poliziesche».

A fine dicembre un bambino di etnia Kaingang è stato ucciso alla stazione dei bus davanti agli occhi della mamma. Come ha reagito il paese?

«L’assassinio di Vitor2, un bambino di 2 anni, dimostra che la società è discriminatoria, spesso alimentata dai grandi media del Brasile. La sua morte ha provocato, evidentemente, una certa commozione, ma non c’è un atteggiamento di accettazione della società brasiliana verso gli indigeni e la loro cultura. È violenta».

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I popoli indigeni e la politica «Bala, Boi, Bíblia»

Provi a farci un elenco dei principali problemi dei popoli indigeni del Brasile.

«Il primo grande problema è l’indifferenza della società brasiliana. Un’indifferenza storica, che parte dai colonizzatori che vedevano nei popoli indigeni una cultura arretrata. Come non fossero persone con una dignità. Il secondo problema è l’aggressione ai diritti che, a costi altissimi, furono introdotti nella Costituzione del 1988. Oggi c’è un tentativo di de-costruzione di questi diritti attraverso tante proposte di modifiche costituzionali (Proposta de emenda constitucional, Pec). C’è poi l’invasione delle terre demarcate per mano di vari soggetti: le compagnie minerarie, le imprese del legno, le compagnie per le grandi opere del governo. Possiamo qui ricordare le centrali di Belo Monte, Balbina, Jirau3 e molte altre. C’è infine il grande problema della salute indigena, che versa in un caos generalizzato: le sue prospettive sono molto difficili».

Prima di essere esautorata, la presidenta Dilma non aveva fatto molto per la questione indigena. Basti pensare che, come ministra dell’agricoltura, aveva Kátia Abreu, nota ruralista e anti-indigena.

«Per i popoli indigeni il governo Temer costituirà una prova ben più difficile rispetto al governo Dilma. L’obiettivo di questo governo è eliminare i diritti dei popoli indigeni. È di aprire l’accesso alle loro terre. È tagliare tutte le politiche di promozione indigena: dall’educazione differenziata alle università. Noi non ci facciamo illusioni sul governo Temer. Come non ce ne facciamo sul Congresso nazionale, sempre più ostile verso la causa indigena e verso quella afro. È un Congresso estremamente conservatore e interessato soltanto al capitale internazionale».

Dom Roque, lei dunque conferma che il Congresso brasiliano è dominato da partiti avversi ai popoli indigeni?

«Confermo. Nel Congresso nazionale noi abbiamo tre schieramenti (bancadas) anti-indigeni: la bancada della Bibbia (Bíblia), quella della pallottola (bala) e quella della vacca (boi)4. Anche il potere giudiziario ha un atteggiamento completamente contrario. Insomma tutti i poteri dello stato mostrano una grande insofferenza nei confronti dei popoli indigeni».

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L’illusione dello sviluppo

Dom Roque, una delle obiezioni che si fanno alle politiche indigeniste può essere riassunta in una frase: troppa terra per pochi indigeni.

«È una obiezione infondata. In primis, perché tutta la terra del Brasile era loro. Essi l’abitavano da tanto tempo. Secondo, gli indigeni hanno un usufrutto della terra e non la proprietà. Terzo, è generalmente riconosciuto, anche dallo stesso governo brasiliano, che le terre indigene sono meglio conservate delle altre. Non mostrano la distruzione della natura come le altre. I fiumi in terra indigena, quelli non inquinati dai garimpos (miniere), sono di acqua cristallina. Da ultimo, non è che la terra appartenga agli indigeni, sono gli indigeni che appartengono alla terra. Appartenere alla terra invece che essee proprietario è ciò che definisce un indigeno. Questa è una differenza che, a prima vista, ai nostri occhi pare incomprensibile».

Un’altra obiezione riguarda la necessità dello sviluppo economico, soprattutto ora che il paese è passato dal miracolo economico alla crisi.

«Il paese deve trovare un equilibrio. Tutti questi progetti servono? Noi dobbiamo chiederci che sviluppo vogliamo. Uno sviluppo dove pochi hanno molto e molti non hanno niente? Oppure uno sviluppo equilibrato in cui ci sia una relazione corretta con l’ambiente e la creazione? Questa Casa comune – come la chiama il papa – è amministrata molto male. I popoli indigeni sono quelli che possono insegnarci come curarla e mantenerla. Secondo: con questo ritmo di sviluppo non ci potranno essere risorse per tutti. È necessario un percorso di austerità, una vita più sobria invece dell’attuale che prevede il consumo per il consumo».

È un fatto che in?Amazzonia si stia facendo di tutto. In modo legale e illegale.

«L’Amazzonia è stata sempre vista come il luogo dell’abbondanza. Per il Portogallo prima, per il Brasile poi, ma non per i popoli indigeni. Le sue risorse sono state messe al servizio del capitale, nazionale e internazionale. I progetti vengono calati dall’alto e non rispettano i modi di vivere di chi l’Amazzonia la abita da sempre. In altre parole, sono fatti per servire i grandi interessi e non certo i popoli amazzonici».

Come Cimi siete spesso accusati di fare politica. Come sono le vostre relazioni con il potere?

«La nostra è una relazione estremamente discreta. Il nostro lavoro non ha bisogno di presidenti. Noi seguiamo il Vangelo».

La missione istituzionale della Funai, organo ufficiale dello stato brasiliano, sarebbe quella di proteggere e promuovere i diritti dei popoli indigeni del paese. È un compito che essa assolve in modo adeguato?

«Storicamente il Brasile non ha mai svolto un lavoro di promozione indigena. La Funai è stata fondata dai militari e guidata per molto tempo secondo la filosofia della sicurezza nazionale5. Oggi è un organismo totalmente disorganizzato e limitato dalle stesse leggi brasiliane».

La Casa comune: distruttori e difensori

Dom Roque, cosa pensa dell’atteggiamento di papa Francesco rispetto ai popoli indigeni? E degli errori commessi in passato dalla Chiesa cattolica nei loro riguardi?

«Già nella Evangelii Gaudium il papa aveva parlato dei popoli indigeni. Nella Laudato si’ il papa è andato oltre scrivendo quasi un inno di riconoscenza verso la ricchezza dei popoli indigeni. Quanto al passato, in vari discorsi tenuti in Bolivia e in Messico Francesco ha riconosciuto i peccati commessi dalla Chiesa cattolica rispetto a loro. Noi aspettiamo la sua visita in Brasile nel 2017. Stiamo cercando di inserire una tappa nel Pará e in particolare nella regione del rio Tapajós, dove la costruzione delle dighe – ne sono previste ben 43 – sta mettendo a repentaglio l’esistenza di molti popoli, compresi alcuni incontattati6».

Da sempre i popoli indigeni vengono additati come popolazioni retrograde. Voi sostenete che le loro modalità di vita possono insegnare molto a noi occidentali.

«Da 500 anni i popoli indigeni hanno messo in discussione la rapina e la violenza contro la Madre Terra, imposta dall’Occidente con il suo modello economico e di sviluppo fortemente distruttivo. I popoli indigeni ci possono insegnare una relazione armoniosa con l’ambiente e la natura. Ci possono insegnare a vivere senza essere schiavi del denaro e dell’accumulazione».

Dom Roque, come presidente del Cimi come vede il futuro?

«La decisione è nelle nostre mani: o accogliere le grida dei popoli indigeni o distruggere la nostra Casa comune nel nome del profitto e del benessere di pochi».

Paolo Moiola

Note

1 – Il suo pensiero in: Ewin Kräutler, Ho udito il grido dell’Amazzonia, Prefazione di Leonardo Boff, Emi, Bologna 2015.
2 – Su questo fatto di cronaca e sugli assassini di indigeni in America Latina, si veda: Paolo Moiola, Una vita a buon mercato, MC, giugno 2016.
3 – Sulle dighe di Jirau e Santo Antonio rimandiamo a: Paolo Moiola, Le dighe della felicità, MC, ottobre 2012.
4 – Lo schieramento (bancada) della Bibbia è guidato dal pastore neopentecostale Marco Feliciano, quello della vacca dal medico e ruralista Ronaldo Caiado e quello della pallottola dal militare Jair Bolsonaro.
5 – La Funai è nata nel 1967, sostituendo il Serviço de proteção ao índio (Spi), che era stato creato da Candido Rondon, un militare di origini indigene.
6 – Sulle opere in terre indigene si veda: Cimi, Empreendimentos que impactam terras indígenas, Brasilia 2014. E sulle violenze: Cimi, Relatório. Violência contra os povos indígenas no Brasil. Datos de 2015, Brasilia 2016.

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Archivio MC e Video

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Mato Grosso del Sud

Dove un indio non vale una vacca…

… o un campo di soia o di canna da zucchero o di eucalipto. È lo stato brasiliano dove si contano più violenze ai danni delle popolazioni indigene per mano dei proprietari terrieri (fazendeiros). Nel 2015 sono stati ammazzati 36 indigeni e 45 si sono tolti la vita.

Il Mato Grosso del Sud è uno stato brasiliano del centro-ovest. È esteso come la Germania, ma ospita soltanto 2,5 milioni di abitanti. I numeri che lo caratterizzano sono i seguenti: 21,7 milioni di bovini (9 vacche per abitante), 1,1 milione di ettari di terra coltivati a soia (per 5 milioni di tonnellate prodotte annualmente), 550 mila ettari di terra coltivati a canna da zucchero (soprattutto per il mercato dell’etanolo), 380 mila ettari coltivati ad eucalipto (per il mercato della cellulosa)1. Vi risiedono anche circa 77 mila indigeni, tra i quali i Kaingang e almeno 43 mila Guarani-Kaiowá, abitanti originari2. Un tempo erano i «padroni» di queste terre, poi – a partire dalla fine del XIX secolo – iniziarono a essee espulsi dai bianchi. Oggi vivono – letteralmente – in accampamenti ai margini delle strade (come la Br-290 e la Br-386) o in qualche angusto spicchio delle 63 terre indigene (Ti) ufficialmente esistenti nello stato secondo la Funai3. La gravità di questa condizione è riassunta in un dato impressionante: nel solo 2015, tra gli indigeni del Mato Grosso del Sud, sono stati registrati 45 suicidi4, con un tasso d’incidenza molto più elevato che nel resto della popolazione brasiliana.

In questi anni di aumento della domanda di prodotti, nel Mato Grosso del Sud la frontiera agricola ha continuato ad espandersi e a concentrarsi nelle mani dell’oligarchia fondiaria, sempre a discapito delle popolazioni indigene.

Quando si ribellano, magari riprendendosi (retomada, è il termine utilizzato dagli indigeni; invasão, è il termine utilizzato dai non-indigeni) parte delle terre (Tekoha, che in lingua guarani significa «il luogo del modo di essere guarani») che appartenevano ai loro avi, vengono vessati dalle autorità locali e soprattutto fatti oggetto di violenza da parte dei sicari (pistoleiros) dei locali produttori agricoli (fazendeiros), i quali mai pagano per le loro azioni delittuose. Da anni il Mato Grosso do Sul è lo stato brasiliano che registra il più alto numero di violenze e di omicidi ai danni delle popolazioni indigene. Nel 2015 sono stati 36 gli indigeni assassinati su un totale di 137 nell’intero Brasile5.

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Una scia di omicidi (impuniti)

Per capire quanto il problema sia radicato, è utile ricordare i casi più eclatanti degli ultimi anni, iniziando dall’11 gennaio del 2003. Quel giorno viene ucciso Marcos Veron, un cacique guarani-kaiowá di 72 anni. Il suo gruppo di famiglie indigene si era installato su un piccolo appezzamento della fazenda Brasília do Sul, un latifondo di 9.972 ettari sorto in terra indigena, nel municipio di Juti. Nello sgombero violento attuato dalle forze di sicurezza dei fazendeiros l’anziano leader indigeno perde la vita.

Il 18 novembre 2011 viene ucciso Nizio Gomes, un altro cacique guarani-kaiowá. Un gruppo di indigeni aveva ripreso un piccolo pezzo della fazenda Nova Aurora, svilluppatasi su un’area indigena. A sgombrare l’accampamento arrivano gli uomini della Gaspem Segurança, un’impresa di sicurezza privata nota per i suoi metodi violenti. Nell’azione Nizio Gomes rimane ucciso.

Alla fine di ottobre del 2009 scompaiono due professori indigeni guarani-kaiowá, Genivaldo Vera e Rolindo Vera, dopo essere stati attaccati dagli agenti di sicurezza della fazenda São Luiz, nel municipio di Paranhos. Il corpo di Genivaldo, che aveva 21 anni ed era professore di informatica, viene trovato dieci giorni dopo la sua sparizione.

Ancora più triste è l’omicidio di Denilson Barbosa, un ragazzo kaiowá di soli 15 anni. Il giovane viene ammazzato con un colpo di fucile alla testa il 17 febbraio 2013 dal fazendeiro Orlandino Caeiro Gonçalves. Denilson era stato colto a pescare in un laghetto della fazenda, sorta su un territorio indigeno.

Il 30 maggio 2013 muore Oziel Gabriel, indio del popolo Terena, il cui accampamento era stato montato sulla terra occupata dalla fazenda Buriti, sorta su un’area dichiarata indigena.

L’8 dicembre 2014, un gruppo armato attacca indigeni  sistemati su una piccola area della fazenda Burana, sviluppatasi su un’area indigena. Una ragazza guarani-kaiowá di 17 anni, Julia Venezuela, scompare, dopo essere stata colpita e caricata su un fuoristrada dagli assalitori.

Il 29 agosto 2015 Semião Vilhalva, giovane kaiowá di 24 anni, viene assassinato nel municipio di Antônio João da un gruppo di fazendeiros accorsi per sgombrare le fazendas Barra e Fronteira da un gruppo di indigeni. A conferma di una storica impunità, poche settimane dopo l’omicidio di Vilhalva, nel settembre del 2015 l’Assemblea legislativa del Mato Grosso del Sud, sottomessa agli interessi dell’oligarchia rurale, elegge una Commissione parlamentare d’inchiesta (Comissão parlamentar de inquérito, Cpi) per indagare se il Consiglio indigenista missionario (Cimi) inciti e finanzi l’occupazione di proprietà private da parte delle popolazioni indigene.

L’ultimo assassinato in ordine di tempo è Clodiodi Aquileu Rodrigues de Souza, agente di salute indigena di 26 anni. Lo scorso 14 giugno un gruppo di una settantina di fazendeiros, accompagnati da uomini armati in uniforme e cappuccio, a bordo di decine dei consueti (e costosissimi) fuoristrada, attaccano un piccolo accampamento indigeno sistemato su un terreno occupato dalla fazenda Yvu, sorta su una terra indigena già ufficialmente riconosciuta e delimitata. Clodiodi rimane ucciso, molti altri feriti.

Il prezzo di una vita

Quelli sommariamente descritti sono soltanto alcuni episodi della cruenta guerra in corso nel Mato Grosso do Sul per il possesso della terra. Una guerra tra i proprietari di oggi e i proprietari di ieri, quei popoli indigeni ai quali non si riesce o non si vuole restituire dignità e giustizia6.

Per tutto questo e molto altro non è un’esagerazione giornalistica affermare che il Mato Grosso del Sud è uno stato dove la vita di un indio non vale quella di una vacca. O – a scelta – di un campo di soia, di canna da zucchero o di eucalipti.

Paolo Moiola

Note

(1) Dati Conab, www.conab.org.br.
(2) Ibge, Censo demografico 2010.
(3) L’elenco e la descrizione delle terre indigene è visibile sul sito della «Fundação nacional do índio» (Funai), www.funai.gov.br.
(4) Dato della «Secreteria especial de saúde indígena» (Sesai), organo del ministero della salute. In Brasile, nella fascia d’età tra i 15 e i 29 anni, il tasso d’incidenza è di 6,9 casi ogni 100 mila abitanti.
(5) Conselho indigenista missionário (Cimi), Violência contra os povos indígenas no Brasil – Ano 2015.
(6) Sulla situazione nel Mato Grosso do Sul: Reporter Brasil, Em terras alheias. A?produção de soja e cana em áreas Guarani no Mato Grosso do Sul, 2013; Cimi, As violências contra os povos indígenas em Mato Grosso do Sul. E as resistências do Bem Viver por uma Terra Sem Males, 2011. Entrambe le pubblicazioni sono reperibili sul web in formato Pdf.




Nel Brasile olimpico inedita vittoria per gli indigeni


Vale quanto una medaglia d’oro. Anzi di più, perché è una vittoria clamorosa e inaspettata degli “ultimi”, (o meglio ritenuti tali): gli indigeni dell’Amazzonia brasiliana. Sostenuti da Greenpeace, che ha raccolto in poche settimane più di un milione di firme a loro sostegno in venti paesi, gli indios Munduruku sono riusciti a bloccare una mega-diga sul fiume Sao Luis de Tapajòs, che avrebbe distrutto la foresta in cui abitano da millenni e il loro modo di vivere. A sorpresa, infatti, l’Ibama (Istituto brasiliano delle risorse rinnovabili e ambientali) ha accolto le proteste di questo popolo (non più di 12000 anime) e degli ambientalisti, rigettando il devastante mega-progetto (8000 megawatt, la sesta diga più grande del mondo che avrebbe “annegato” ben 376 kmq di selva tropicale).

Si tratta in realtà di una mezza vittoria, perché il governo brasiliano non ha ancora proceduto alla demarcazione ufficiale dei territori ancestrali dei Munduruku: destino che questi ultimi condividono con quasi tutte le 240 etnie sopravvissute in Brasile ed America Latina a un genocidio lungo cinque secoli. Alla faccia di Costituzioni “progressiste”, che garantiscono sulla carta i diritti dei popoli indigeni ma che in realtà li lasciano preda della brutalità di multinazionali e poteri forti, ansiosi di impossessarsi delle loro terre, ricche di risorse (petrolio, pietre preziose, acqua, metalli rari).

Ma in gioco non è soltanto la difesa della foresta e della Pacha Mama (la Madre Terra, ritenuta sacra nella cosmo-visione indigena). Il “rinascimento indigeno” degli ultimi decenni punta anche alla strenua tutela dell’identità storica e culturale dei popoli scampati non solo ai devastanti effetti della conquista, ma a quelli ancor più desolanti dell’assimilazione forzata alla “way of life” dominante.

Non a caso, la “Giornata Internazionale dei Popoli Autoctoni”, celebrata dall’Onu il 9 agosto, nel pieno dei Giochi di Rio,ha messo al centro “la questione dell’accesso all’educazione culturalmente e linguisticamente adattata e non come mezzo di assimilazione”. Nonostante i buoni propositi (e una Dichiarazione dei Diritti dei Popoli Indigeni,approvata dalle Nazioni Unite il 13 settembre 2007), le richieste di poter educare i piccoli indigeni nella loro lingua ancestrale raramente vengono accettate e la tanto conclamata autodeterminazione rimane un miraggio. Tanto che, oltre alle esortazioni di rito dell’Onu ai governi, anche Papa Francesco ha sentito il bisogno di sostenere la disperata lotta degli indios, con un tweet diffuso proprio il 9 agosto :
“Chiediamo che vengano rispettati i popoli indigeni minacciati nella loro identità e nella loro esistenza”.

Proprio in concomitanza con i Giochi Olimpici, con l’intento di “sfruttare” l’attenzione mondiale sul Brasile, Survival Inteational, una delle ong più attive sul fronte della difesa degli indigeni in tutto il mondo, ha lanciato una grande campagna, “fermiamo il genocidio in Brasile”, centrata sul caso esemplare dell’etnia Kawahiva,nel cuore dell’Amazzonia brasiliana, le cui terre sono state prese di mira da grossi commercianti di legname e allevatori, supportati da potenti politici corrotti. Nell’aprile scorso il ministro della giustizia aveva ceduto alle pressioni dei Kawahiva e dei loro supporters,firmando un decreto per la protezione e la demarcazione dei territori concupiti, ma la norma non è stata resa esecutiva, secondo un copione ormai stantio che si ripete in tanti paesi latino-americani (e non solo).

Morale della favola: i Kawahiva, che prima dell’incontro/scontro con la cosiddetta civiltà occidentale non avevano praticamente contatti con i bianchi,vivono da anni in fuga, o in accampamenti di fortuna lungo le strade, piagati da malnutrizione, malattie e violenze dei sicari al soldo dei loro persecutori, mentre le loro foreste vengono via via abbattute e/o trasformate in pascoli, piantagioni di canna da zucchero e soya transgenica.

“In Brasile- spiegano a Survival Inteational- ci sono ancora più etnie “incontattate”, isolate nella selva, che in qualunque altro paese. Sono questi i popoli più vulnerabili del pianeta, che rischiano la catastrofe se le loro terre non saranno protette”.

In attesa che il governo brasiliano, (distratto oggi dagli ori di Rio e domani da problemi considerati ben più gravi, come l’impeachment della Presidente Dilma Rousseff e la sempre più severa crisi socio-economica) si decida a non fare orecchio da mercante, gli indigeni continuano a contare sulle proprie forze e sul sostegno di coalizioni inteazionali di ambientalisti e difensori dei diritti umani. Riuscendo, non di rado, a trasformare anche sconfitte e tragedie in possenti motivazioni per non gettare la spugna.

Un caso simbolico: l’onda di rivolta innescata dall’assassinio della leader ambientalista Berta Càceres, uccisa da due sicari il 3 marzo scorso nella sua casa di La Esperanza, in Honduras, nel territorio della comunità Lenca, uno dei principali gruppi indigeni del paese, eredi della cultura maya.

Berta, in lotta contro il progetto di una centrale sul rio Gualcarque (ma anche intenta a costruire le alternative, perchè come cornordinatrice del Ccopinh, il consiglio dei popoli indigeni honduregni, stava organizzando workshop sulle energie rinnovabili) era molto nota in tutto il mondo perché nel 2015 aveva ricevuto il premio Godlman, l’Oscar ambientale. La sua morte, dunque, ha suscitato indignazione e solidarietà in tutto il pianeta, dando il via ad una mobilitazione a molti livelli, dal parlamento europeo alle reti sociali, nonché a una vera e propria “missione internazionale”, denominata “Justicia per Berta Càcares Flores” che ha ripreso la battaglia contro il progetto, al punto che la Fmo, la banca finanziatrice olandese, ha ritirato i fondi, seguita a ruota da altri investitori.

Ma non basta: la figlia Berta (stesso nome della madre) sta girando il mondo con una delegazione del Copinh, trovando ascolto presso istituzioni e governi. Convinti che la lotta sia soprattutto sul piano della critica all’insostenibile modello di sviluppo attuale, Berta e i suoi sostenitori hanno puntato sulla “parola”: “Loro hanno i proiettili, noi la parola. Il proiettile finisce con la detonazione, la parola torna a vivere ogni volta che la pronunci. Berta Càceres si è moltiplicata”.

La tragedia di Berta diventa così combustibile per il “rinascimento indigeno” in corso,pur tra mille difficoltà.
“Ora capiamo che tutto quello che facciamo, dalle iniziative per la salute comunitaria, alle piccole energie rinnovabili per le nostre case, all’educazione secondo i valori Lenca, è una forma di resilienza alla cultura imposta da uno stato estrattivista e capitalista, oligarchico e patriarcale “conclude la figlia. “Mia madre no muriò, se multiplicò”.




Honduras Berta si è moltiplicata


Sono stati 185 gli attivisti per la giustizia ambientale uccisi nel 2015 nel mondo. Berta Cáceres, hondureña, sarà contata tra le vittime del 2016. Il suo paese è tra i più pericolosi per chi vuole difendere i territori e, con essi, la vita, la storia, la cultura delle comunità che li abitano. A rappresentare la minaccia è spesso l’industria estrattiva, mineraria ed energetica. Industria che, con cinismo, non manca di autodescriversi come sostenibile, green, attenta ai bisogni delle popolazioni locali.

Il rapporto di Global Witness uscito a giugno e riferito al 2015, intitolato in modo significativo «Su un terreno pericoloso » (On dangerous ground) registra un aumento del 59% rispetto all’anno prima degli omicidi ai danni di attivisti ambientali (185 in 16 paesi del mondo)1. L’accurato lavoro di ricerca con cui l’organizzazione non governativa denuncia l’elevato livello di violenza che si produce nei luoghi di estrazione di materie prime e di fonti energetiche in tutto il mondo, è dedicato quest’anno all’attivista Berta Cáceres2, uccisa nella notte tra il 2 e il 3 marzo 2016 in uno dei paesi che risultano essere tra i piú pericolosi negli ultimi anni per chi lotta per la giustizia ambientale: l’Honduras.

I Lenca sotto assedio

Berta Cáceres, cornordinatrice del Consejo de Organizaciones Populares e Indígenas de Honduras – Copinh -, viene brutalmente assassinata nella sua casa in La Esperanza, nella valle del rio Blanco-Gualcarque, da almeno due sicari. Ospite a casa sua quel giorno, sopravvissuto all’attacco ma ferito alle mani e a un orecchio, c’era Gustavo Soto, presidente di Otros Mundos Chiapas Amici della Terra Messico, che partecipava a un workshop di formazione con il Copinh sul tema delle energie rinnovabili comunitarie. La comunità La Esperanza, dove Berta si era trasferita da poco, si trova nella regione delle comunità lenca, uno dei principali gruppi indigeni del paese, appartenente alla cultura maya. Quelle abitate dai Lenca sono terre fertili e ricche d’acqua. Per questo vengono considerate la nuova frontiera dell’economia estrattiva. Il Copinh denuncia da molti anni le modalità con cui vengono rilasciate le concessioni minerarie, quelle per lo sfruttamento del legname e per la costruzione di centrali idroelettriche con dighe sui principali fiumi del territorio.

Insicurezza, deportazioni, criminalizzazione della protesta

Non solo il Copinh si occupa delle terre lenca: anche la Commissione Interamericana dei Diritti Umani (Cidu) nel suo ultimo rapporto sull’Honduras lancia un allarme per la grave insicurezza, l’uso eccessivo della forza, le deportazioni forzate, la criminalizzazione della protesta. Tutto ciò trova la strada spianata soprattutto a partire dal 2009, durante i governi creatisi dopo i golpe di Micheletti e poi di Porfilio Lobo Sosa. Il 24 agosto 2009 si approva la Ley General de Agua (la legge generale sull’acqua), che apre a nuove concessioni idriche, e il decreto 233 che deroga qualsiasi impedimento a concessioni idroelettriche in aree protette, in violazione della Dichiarazione delle Nazioni Unite sui Diritti dei Popoli indigeni, che l’Honduras ha firmato nel 2007. Organizzazioni della società civile hanno informato la Cidu di almeno 837 potenziali progetti minerari, che coinvolgerebbero il 35% del territorio nazionale, 76 progetti idroelettrici che già vantano uno studio di fattibilità e/o un contratto per operare già approvato, in un totale di 14 dei 18 dipartimenti del paese.

Progetto Agua Zarca

Tra il 2010 e il 2013 viene approvato uno dei progetti più controversi, conosciuto come Agua Zarca. Contro di esso il Copinh e Berta Cáceres non risparmiano critiche e denunce: la centrale è una infrastruttura di per sé piccola, con una potenza stimata di 21,3 Mw, ma che comporta un profondo impatto ambientale e culturale nel territorio. L’esistenza delle comunità lenca è infatti strettamente legata ai boschi e ai fiumi, fonte di vita e luogo in cui vivono gli spiriti delle niñas indigenas. La zona è considerata inoltre eredità del Cacique Lempira, eroe nazionale che ha lottato per la libertà di quei territori dall’invasione coloniale spagnola. L’arrivo senza preavviso dell’industria estrattiva con conseguenti zone disboscate, macchinari nel letto dei fiumi, strade bloccate, presenza di militari e forze di sicurezza armate, ha purtroppo diviso la popolazione. Alcuni Lenca hanno infatti creduto alla promessa di «sviluppo» fatta dall’impresa, una strategia corporativa piuttosto comune per rompere il fronte critico delle comunità locali, soprattutto se organizzate.

«Consultazioni zero»

«Sviluppo locale», «protezione dell’ambiente attraverso l’energia verde, rinnovabile», sono le parole d’ordine, gli slogan usati per presentare il progetto ai finanziatori e alla comunità internazionale. Nel 2012, la Banca Centroamericana di Integrazione Economica (Cabei) concede all’impresa hondureña Desarrollos Energéticos (Desa) un prestito di 24,4 milioni di dollari. Desa a sua volta stipula un contratto con il gigante cinese dell’idroelettrico Sinohydro, che viene presto accusato dalla popolazione lenca di non rispettare il diritto alla consultazione previa e informata della popolazione locale, così come sancito dall’Ilo (Oganizzazione internazionale del lavoro) nella Convenzione 169, firmata dall’Honduras nel 1995. Anche la tedesca Voith Hydro Holding GmbH & Co. KG è coinvolta nella foitura delle turbine, e accusata delle stesse violazioni. Di fronte alla protesta e alle denunce, Sinohydro si ritira dal progetto, così come la Corporazione Finanziaria Internazionale (Ifc) della Banca Mondiale.

I paradossi locali dell’economia estrattiva

Agua Zarca indica chiaramente che i conflitti non sorgono solo contro progetti di grandi dimensioni, ma da situazioni in cui diversi fattori d’ingiustizia si combinano insieme. In terra lenca, infatti, sono ben 17 le nuove dighe in previsione o già in costruzione, ma l’elettricità prodotta da questi impianti è principalmente destinata alle industrie e al settore minerario. Questo territorio non ha mai beneficiato di servizi statali, di salute, di educazione, se non in misura insufficiente. Tanto che l’Istituto Nazionale di Statistica registra, per esempio, un 30% di analfabetismo nel municipio di Intibuncá, 16 punti sopra la media nazionale. Ma il paradosso più grande sembra però essere il fatto che, appunto, alle comunità non è mai arrivato il collegamento all’energia elettrica. Un’analisi comparata delle realtà dove opera l’industria estrattiva rivela che questo è un fenomeno ricorrente che si verifica in maniera sistematica soprattutto in zone rurali dove la popolazione viene emarginata e i cui diritti di partecipazione e di espressione sono violati.

«Svegliati, umanità, vegliati!»

La morte di Berta Cáceres ha destato indignazione e rabbia in tutto il mondo. Espressioni di solidarietà sono arrivate da tutti i continenti perché il suo lavoro era conosciuto: il suo sguardo e le sue parole avevano suscitato forti emozioni, ad esempio, durante la consegna proprio a lei del premio ambientale Goldman nel 2015. Premio che Berta Cáceres aveva dedicato al popolo lenca e alla sua forza e dignità. In quell’occasione aveva invitato la comunità internazionale ad agire: «Svegliati, umanità, svegliati! Non c’è più tempo!». Parole che sono risuonate mille e mille volte nei social media dopo il suo assassinio, come un monito e un grido di dolore per le tante persone che subiscono repressione e violenza.

Una scia di sangue troppo lunga

Solo pochi giorni dopo la morte di Berta, viene ucciso nella sua dimora in Rio Lindo Nelson Garcia, per essersi opposto a deportazioni e sfollamenti forzati della sua comunità. Nel 2013, il giovane Tomas Garcia era stato ucciso durante una repressione della polizia. Entrambi i Garcia erano membri del Copinh assieme a Berta. Nel vicino Messico, Noé Vasquez della piattaforma anti dighe Mapder era stato vittima di un’imboscata mentre raccoglieva fiori e pietre per la cerimonia di apertura dell’incontro annuale del movimento nel 2013. Nello stesso anno due ragazzi erano stati assassinati da un sicario presso la diga Santa Rita in Guatemala, e un anno prima Andrés Francisco Miguel era morto durante le proteste per la diga Barillas Santa Cruz per mano delle guardie di sicurezza. Questi sono solo alcuni dei molti casi3 che dimostrano la grande violenza che accompagna l’industria estrattiva e i suoi progetti energetici e infrastrutturali, la connivenza fra imprese e autorità pubbliche e forze di «sicurezza» in Centroamerica.

L’eredità di Berta

Berta Cáceres però ha lasciato un’eredità speciale: «Il suo assassinio ha lasciato un segno profondo nei movimenti per la giustizia ambientale. Qualcosa è cambiato dalla sua morte», ci dice un attivista in Cile. C’è stata infatti una grande mobilitazione a molti livelli, dalle reti sociali al Parlamento europeo, che ha chiesto con forza al governo hondureño di intervenire per identificare i colpevoli materiali, per indagare sul ruolo delle imprese di Agua Zarca, e per rilasciare immediatamente Gustavo Soto, unico testimone diretto di quella tragica notte, che per settimane è stato trattenuto in Honduras nonostante avesse già riferito alle autorità tutto ciò che sapeva. Tra il 17 e il 21 marzo la Missione Internazionale Justícia per Berta Cáceres Flores ha partecipato a una visita nel paese, assieme a membri del Copinh e altre organizzazioni dell’Honduras. Anche dai paesi europei molte reti si sono attivate e hanno fatto pressione anche sui finanziatori del progetto, tra cui BankTrack, Both Ends, Inteational Rivers e la grande rete della campagna Stop Corporate Impunity. Fmo, la banca finanziatrice olandese, già coinvolta in altri progetti come Barro Blanco nello stesso Honduras e Santa Rita in Guatemala, e Finnfund, hanno deciso di sospendere il loro appoggio alla centrale pochi giorni dopo l’assassinio. La Cabei, che al principio aveva espresso fiducia sul fatto che per «il caso di Mrs. Cáceres ci sarà la dovuta accuratezza nelle indagini da parte delle autorità», il 4 aprile finalmente ha deciso di sospendere il finanziamento a Agua Zarca.

Resistenza all’imposizione

Nel mese di maggio è venuta in Europa una delegazione del Copinh, tra cui una delle figlie di Berta, che porta il suo stesso nome. Due lunghe settimane di incontri con dirigenti di banche, agenzie per lo «sviluppo», e imprese per raccontare, testimoniare ma anche per interrogare chi decide la destinazione di fondi e chi investe in nome di quello sviluppo e quell’energia che non si dimostrano né sostenibili né puliti. «Noi Lenca viviamo il nostro territorio con altre relazioni socio-ambientali », dice Bertita, che per la sua sicurezza ha dovuto vivere molti anni fuori dal paese e lontana dalla madre, durante un incontro a Barcellona. «Ora capiamo che tutto quello che facciamo, dalle iniziative per la salute comunitaria, alle piccole energie rinnovabili per le nostre case, all’educazione secondo i valori lenca, è una forma di resistenza alla cultura imposta da uno stato estrattivista e capitalista, oligarchico e patriarcale». E, concludendo, saluta con quanto gridato più volte dalla sua gente: «Mia madre no murío, se multiplicó ».

Daniela Del Bene
Co-editrice dell’Ejatlas


Note:

1- «Global Witness ha documentato in totale 185 omicidi in 16 paesi nel 2015, un aumento del 59% rispetto al 2014, e il numero totale più alto da quando abbiamo iniziato la raccolta di dati nel 2002. Difensori del territorio e dell’ambiente vengono uccisi a un ritmo impressionante di più di 3 a settimana. La maggior parte dei casi registrati sono avvenuti in paesi dell’America Latina e del Sud-Est asiatico, con il più alto pedaggio registrato ancora in Brasile (50) e nelle Filippine (33). I popoli indigeni difensori delle loro terre ancestrali sono stati i più colpiti, rappresentano infatti quasi il 40% delle vittime. Industrie minerarie e estrattive sono state collegate ad almeno 42 delitti. Ma anche industrie agroalimentari (20 omicidi), idroelettriche (15) e del legname (15). Abbiamo trovato un coinvolgimento sospetto di gruppi paramilitari in 16 casi, delle forze armate in 13, della polizia in 11, e di guardie di sicurezza private in altri 11». (da On dangerous ground, p. 5).

2- «Intoo alla mezzanotte del 2 marzo 2016, uomini armati hanno sfondato la porta della casa in cui Berta Cáceres si trovava a La Esperanza, Honduras, hanno sparato e l’hanno uccisa. Berta era un’attivista ambientale e per i diritti della terra indigena di alto profilo. L’anno scorso aveva ricevuto il premio ambientale Goldman, un prestigioso riconoscimento per l’attivismo ambientale di base in tutto il mondo. Nel suo discorso alla premiazione Berta aveva parlato delle minacce di morte e dei tentativi di rapimento subiti a causa della sua lotta contro la diga di Agua Zarca. Global Witness ha evidenziato il suo lavoro coraggioso in How many more? (quanti altri?), una ricerca in cui l’Honduras veniva descritto come il paese più pericoloso al mondo per i difensori della terra e dell’ambiente. Questo rapporto (On dangerous ground, ndr.) è dedicato a Berta Cáceres e ai molti attivisti coraggiosi che, come lei, resistono al potere, nonostante i pericoli per la loro vita». (da On dangerous ground, p. 2).

3- Circa l’assassinio sistematico degli indigeni in America Latina si veda MC 6/2016, p. 10-12.




Ecuador. Una storia troppo sporca


«Gli abitanti si atteggiano a vittime per ottenere risarcimenti». «Gli ambientalisti esagerano sempre e ostacolano il progresso». Anche in Ecuador è normale sentire giudizi di questo tenore. Siamo andati a vedere e toccare con mano cosa ha lasciato nell’Amazzonia ecuadoriana la multinazionale petrolifera Chevron-Texaco. Il disastro – ambientale, umano, culturale – è pesantissimo e certificato dai tribunali. Eppure, a distanza di 6 anni dalla condanna, la compagnia statunitense nega qualsiasi risarcimento. A dispetto di quest’arroganza e impunità, le vittime, riunite in un’associazione, non si arrendono.

Nueva Loja (Lago Agrio) – Ci mostra le carte. Soltanto in queste stanze sono archiviate – in bell’ordine – centinaia di buste gialle contenenti documenti processuali di ogni tipo. Mentre prende dagli scaffali una busta qualsiasi, ci spiega: «Conserviamo più di 250.000 fogli». La apre: «Anno 2003, Corte Superior de Justicia de Nueva Loja, contra Chevron Corporation», si legge sul frontespizio della prima pagina.

Siamo con Donald Moncayo nella sede di Udapt, Unión de afectados y afectadas por las operaciones petroleras de Texaco, l’organizzazione nata a Nueva Loja nel 2001 per riunire tutte le vittime – sia indigeni che coloni – della compagnia petrolifera statunitense.

Come accaduto a Coca, anche qui ci viene proposto di andare a vedere e toccare con mano i danni prodotti dall’attività petrolifera1. Con la nostra guida lasciamo dunque la sede di Udapt per andare al pozzo denominato Lago 8 e perforato nel 1968, poco fuori della città.

Prove contundenti

Per ridurre al minimo i costi, la Texaco aveva scelto di costruire le vasche di contenimento per l’acqua di produzione (altamente contaminata) nel terreno e a cielo aperto.

«E soprattutto – spiega Donald – esse erano poste molto vicine a fiumi o a esteros (zone paludose). In questo modo, tutti i reflui delle estrazioni andavano in queste piscine e da qui, attraverso tubi, venivano dispersi nei corsi d’acqua e nella palude con conseguenze devastanti per l’ecosistema. Come ciò non bastasse, con l’espansione urbana, oggi ci sono case costruite a pochi metri da queste vasche».

La Texaco si è sempre difesa affermando di aver completato la bonifica delle piscine – ne sono state individuate 880 – nel 19982.

«Cosa hanno fatto? Semplicemente hanno tappato le vasche con circa 50-90 centimetri di terra pulita. E così dicono di avere bonificato. Un’operazione in cui hanno speso 40 milioni di dollari. L’ironico della vicenda è che, per difendersi dal giudizio, la compagnia sta spendendo 2.000 milioni di dollari. Se a quei tempi questa cifra fosse stata investita in un adeguato ripristino ambientale, adesso non ci sarebbero simili problemi».

Indossiamo degli stivali per andare a vedere una delle piscine incriminate. Una di quelle che Texaco dice di aver sistemato e ripulito. Donald prende una bottiglia d’acqua, un machete e un aese per fare buche, una specie di trivella manuale. Passiamo accanto a un tubo dell’oleodotto. «Qui passa il petrolio del pozzo Lago 29. Un petrolio leggero, un buon petrolio».

Arriviamo in uno spazio coperto da sterpaglia. «Questa era una piscina – ci indica Donald -. Il problema sta sotto la copertura di terra. Sta nell’acqua sotterranea che è stata contaminata. Purtroppo le persone quell’acqua la utilizzano».

Donald comincia a liberare un pezzo di terreno con il machete e poi, indossati un paio di guanti, inizia a bucarlo con la trivella a mano.

Lo scavo dura qualche minuto. La terra asportata dall’attrezzo comincia a diventare via via più nera. «Annusate», ci dice Donald a un certo punto. L’odore inizia ad essere pungente. «È l’odore tipico dei cosiddetti composti aromatici, altamente tossici per l’uomo e l’ambiente».

Viene estratto un sacchetto di plastica. «Nel pozzo erano gettati sacchi di sale. Neppure quelli hanno tolto in una decontaminazione che loro hanno definito perfetta».

«Facciamo una prova», dice Donald. Prende la bottiglia di acqua e ne taglia la parte superiore con il machete. «Mettiamo nell’acqua pulita un po’ della terra che abbiamo raccolto. Poi, con un pezzetto di legno pulito, mescoliamo il tutto. Come potete notare, la terra si deposita mentre il petrolio, più leggero, va verso l’alto». L’evidenza è clamorosa: siamo davanti a una bottiglia di petrolio, trovato a meno di 50 centimetri dalla superficie. Una prova evidente del danno ambientale procurato dalla Texaco.

Donald immerge la propria mano inguantata nel liquido. La risolleva e la apre davanti ai nostri occhi e al nostro naso. Sì, è proprio petrolio. «E poi dicono di aver risanato» chiosa Donald.

Ci propone di sentire quanto bruci la mano sporca di petrolio dopo pochi secondi al sole. «Mettetevi un guanto». Obbediamo e sì, la mano si riscalda subito.

Sono state 105 le relazioni degli esperti di ogni campo – chimici, biologi, naturalisti – che hanno dimostrato il danno che i signori di Texaco hanno prodotto. Un danno che continua, anche se in apparenza non si nota. «Qui non abbiamo acqua potabile, né acqua trattata. Se manca la pioggia, la gente deve per forza ricorrere all’acqua sotterranea. Non c’è altra possibilità». Donald parla di razzismo: «È un razzismo completo di tutte le sue lettere: r-a-c-i-s-m-o – scandisce -. È una lotta tra chi ha denaro e chi no. Tra chi preferisce spendere milioni di dollari in processi piuttosto che in azioni di bonifica ambientale».

Più di tutto può la necessità di lavorare. «La gente sa. Molti però preferiscono non parlare perché prestano servizio nelle imprese petrolifere. Che pagano bene: un addetto può guadagnare 800-900 dollari al mese, una cifra impossibile da raggiungere se lavori nella finca. Ti pagano per lavorare. E per tacere. Se inizi a parlare, fanno presto a licenziarti».

È arrivato il cancro

Forse la piscina del pozzo Lago 8 è semplicemente un caso isolato. Una piscina che non è stata ripulita bene dalla Texaco. Una situazione particolare, ingigantita dagli esponenti di Udapt per giustificare i propri reclami.

Risaliamo in auto per andare in un’altra zona, distante chilometri da qui. «Andiamo a trovare una famiglia che è stata vittima della Texaco», ci spiega Donald. Entriamo in foresta fino a raggiungere la casa su palafitte della famiglia Cabrera. Troviamo Ilterio Cabrera seduto all’ombra della palafitta proprio mentre è intento a sfogliare un recente libro fotografico sulle vittime della Texaco.

Alla sua famiglia l’autore ha dedicato alcune pagine perché essa è stata duramente colpita dalle operazioni della multinazionale, che nella sua finca aveva costruito una piscina. Per una «strana coincidenza» nella famiglia ci sono stati 3 morti per cancro: il fratello minore nel 1999, la mamma nel 2004 e il papà nel 2006. «Anche i nostri vicini hanno avuto morti per tumore» ci spiega l’uomo con un sorriso amaro.

Ilterio Cabrera vive qui con la moglie Marlene e 3 dei 5 figli. «Quando non trovo lavoro, coltivo la terra: cacao e mais soprattutto». Un’esistenza sul filo perché la contaminazione continua ancora oggi.

Una guerra di resistenza

Andiamo al pozzo chiamato Charapa 1. A ricordarlo, oltre al cartello con il nome, c’è un misuratore di pressione e qualche tubo arrugginito.

«Fu perforato da Texaco nel 1971. Per esso costruirono tre piscine. Una là e altre due da questa parte. Una di esse sta a 40 metri dalla casa della famiglia Cabrera». Ci muoviamo verso una di esse. È differente da quella del pozzo Lago 29, perché qui il petrolio è immediatamente visibile sotto le foglie sparse sul terreno. «Qui versavano – spiega Donald – il cosiddetto petrolio di prova. Quando si riempiva il buco, il petrolio defluiva fuori. I contadini chiamavano l’impresa che mandava qualcuno ad aspirarlo. Poi esso veniva riversato sulle strade per – si giustifica la compagnia – evitare la polvere. Peccato che qui le piogge siano frequenti e che esse spargessero il petrolio per ogni dove. Ecco perché non occorre vivere nei pressi di una piscina per ammalarsi di cancro o di altre patologie. Oltre a questa opzione, ce n’era poi una seconda: bruciare il petrolio della piscina. Bruciava per giorni e la colonna di fumo generata si vedeva da ovunque».

Donald scende nella buca con il badile. Il terreno è morbido. Non occorre scavare: già con la prima badilata si estrae un materiale vischioso dal colore e odore inconfondibili. È petrolio.

I responsabili di tutto questo hanno perso il giudizio, ma non hanno mai pagato. «In Ecuador la Texaco non possiede più nulla e pertanto siamo andati a reclamare in altri paesi dove essa opera: in Argentina, in Brasile e in Canada abbiamo aperto dei procedimenti per sequestrare i beni della compagnia. Purtroppo, facciamo fatica perché non abbiamo denaro. Loro pensano che allungando i tempi dei processi alla fine noi desisteremo per mancanza di risorse. Ma questo non succederà».

La passione con cui la nostra guida ci ha condotto in questo itinerario tra i disastri della Texaco è contagiosa. Impossibile rimanere indifferenti.

«Questa – conclude Donald Moncayo – è come una scuola, un’università. Noi abbiamo il dovere di mostrare al mondo cosa fanno le imprese multinazionali fuori dei loro paesi. Perché ciò che è accaduto qui non si ripeta in altri luoghi».

Paolo Moiola
(fine quarta puntata – continua)


Note

1 – Nella precedente puntata (MC 7/2016, pp. 51-57) è stato raccontato il «toxitour» a Coca, la seconda città petrolifera del paese, dopo Nueva Loja. I toxitour non sono gite turistiche. Chi li organizza lo fa per motivi informativi e didattici. Non esiste un prezzo. Chi vuole, lascia un’offerta.

2 – Il 30 settembre del 1998 la Texaco si accordò con il governo di Jamil Mahuad certificando di aver riparato i danni prodotti in Amazzonia e liberandosi di ogni futura responsabilità. Riparazioni poi giudicate parziali o fittizie.

 




Ecuador. La maledizione del petrolio


Siamo andati a visitare le due città dell’Amazzonia ecuadoriana – Francisco de Orellana (Coca) e Nueva Loja (Lago Agrio) – cresciute sull’onda dello sfruttamento petrolifero. Oggi, con il crollo del prezzo del greggio, le luci della ribalta si sono affievolite. Rimangono invece i problemi ambientali, sociali e culturali, che la difficile congiuntura economica ha reso più evidenti. Abbiamo parlato con alcuni esponenti delle associazioni che, tra mille difficoltà, si battono contro l’arroganza delle compagnie petrolifere e la connivenza del governo. In difesa dell’Amazzonia, dei popoli indigeni e delle famiglie campesine.

Francisco de Orellana. Fuori della stazione degli autobus è in attesa una fila di taxi gialli. Francisco de Orellana – nota come El Coca (o semplicemente Coca) – è una città dell’Amazzonia ecuadoriana cresciuta attorno a tre fiumi: il Napo, il Coca e il Payamino. Capoluogo della provincia di Orellana, essa è considerata la seconda città petrolifera dell’Ecuador dopo Nueva Loja.

All’autista che ci conduce in hotel chiediamo come vadano gli affari. «Tanti taxisti, poco lavoro», sintetizza lui. «Ci sono sempre i turisti», ribattiamo. «Quelli non si fermano qui neppure un’ora. Arrivano in aereo da Quito e subito s’imbarcano su una lancia che li porterà in qualche lodge della foresta».

Quella del taxista non è la solita lamentela. Il crollo dei prezzi del greggio ha dato un duro colpo all’economia locale. Ce lo conferma anche Carlos Zabala, proprietario dell’Hotel Río Napo: «Andate a vedere la zona industriale che sta tra l’aeroporto e Sacha».

È la zona dove si trovano le imprese che offrono beni e servizi alle compagnie petrolifere, il cui lavoro di trivellamento e d’estrazione è molto complesso. Ci sono i capannoni d’industrie meccaniche, edili, chimiche, di trasporti e logistica. Tra esse c’è anche la statunitense Halliburton, divenuta mondialmente famosa durante la guerra in Iraq1. C’è la cinese Hilong, certamente meno nota ma probabilmente più importante dato che la Cina è oggi il primo partner petrolifero e soprattutto il primo creditore del paese.

Tutto pare però andare al rallentatore, quando non è addirittura fermo. Notiamo anche alberghi e ristoranti chiusi o in vendita. Fuori dai cancelli qualcuno accetta di dire due parole, confermando che l’attività è crollata assieme al crollo del prezzo del greggio.

Le autorità parlano di 30 mila persone (su una popolazione totale di 150 mila) che, nel corso dell’ultimo anno, hanno lasciato la provincia di Orellana per mancanza di lavoro. La governatrice Mónica Guevara ha dovuto varare misure di sostegno per i commercianti.

Viene da chiedersi: valeva la pena fondare l’economia di Coca (e di Orellana) sullo sfruttamento petrolifero?

Se i campesinos diventano attivisti

Andiamo a cercare una risposta nella sede della Asociación de Líderes Comunitarios Red Ángel Shingre. L’associazione è dedicata a Ángel Shingre, un contadino e attivista ambientale assassinato con tre colpi d’arma da fuoco a Coca il 4 novembre del 2003.

«I suoi assassini non sono mai stati identificati», ci spiega Diocles Antonio Zambrano, fondatore e responsabile dell’associazione. Come lo era Ángel anche Diocles è un campesino. Con cinque figli e 58 anni ben portati: «Quando negli anni Settanta arrivai qui dalla regione della costa, il verde era impressionante, i fiumi pieni di pesce, la foresta ricchissima di fauna. Tutta questa esuberanza della natura è stata uccisa prima dalla industria della palma africana2 e poi dal petrolio». L’Amazzonia non è stata la sola vittima.

«Prima del petrolio questo territorio era considerato disabitato. Invece era abitato da gente autoctona – Quichua, Shuar, Huaorani – che era parte di questa meraviglia. Avevano tanto territorio perché erano popolazioni da sempre nomadi, vivendo di caccia, pesca, raccolta di prodotti della foresta e qualche piccola coltivazione nella chacra (piccolo terreno rurale, ndr) per l’autosostentamento. Tutto in forma sostenibile. A poco a poco, la situazione degli indigeni è cambiata. Una parte di loro è andata a lavorare per le imprese petrolifere, sempre in cerca di manodopera a basso costo. Nel frattempo, sono iniziate le morti per cancro o per malattie rare, nonostante le compagnie e lo stesso stato facessero pubblicità sull’assenza di rischio in quelle attività».

Il gruppo di attivisti della Rete Ángel Shingre cerca di informare la popolazione che il petrolio è una miscela impressionante di composti chimici e di metalli pesanti, molti dei quali soggetti a bioaccumulo3. E tuttavia l’arroganza delle compagnie arrivava a livelli inauditi. «Veniva detto – racconta Diocles – che il petrolio era medicina, che era concime, che conteneva vitamine, proteine, finanche latte. E c’erano molti che ci cascavano tanto da seminare yucca, platanos, frijoles dove c’erano stati sversamenti di petrolio». Poi il castello di bugie è crollato sotto le evidenze degli studi scientifici.

«È stato dimostrato che la popolazione che vive vicino ai luoghi petroliferi ha il 200-230% di probabilità in più rispetto alla norma di contrarre il cancro (in particolare, al fegato, all’utero, alla prostata) e di avere aborti spontanei. Senza dire dei danni alle attività economiche dei contadini con morte di galline, cavalli, maiali. E poi – pare incredibile considerando dove siamo – nessuno dispone di acqua potabile perché gli idrocarburi hanno inquinato ogni fonte: fiumi, lagune, terreni».

Enormi cartelloni pubblicitari, posti dal governo ai lati delle strade, magnificano il petrolio. Chiediamo a Diocles se qualcosa di positivo è stato raggiunto e soprattutto se natura e petrolio possano coesistere. «Grazie al petrolio, c’è stato un certo “sviluppo” (però scrivetelo tra virgolette): costruzione di strade, ponti, strutture varie. Tuttavia, gli effetti negativi sono dieci volte più di quelli positivi. Per questo io dico: no, definitivamente no, non ci può essere una convivenza tra ambiente e petrolio. Sono incompatibili».

Lungo la via Auca

Le parole non bastano. Diocles ci offre un giro sui luoghi di estrazione, lungo la via Auca, qualche chilometro fuori della città. Lui li chiama «toxitour», e presto capiremo il perché. Il giorno seguente ci viene a prendere in hotel con un vecchissimo fuoristrada guidato dal figlio.

La strada è brutta e anche pericolosa. Ci sono curve e ponti strettissimi e senza alcuna protezione. Lungo tutto il percorso stradale, senza soluzione di continuità, tubazioni di varie dimensioni seguono l’andamento del terreno.

Ci fermiamo in una casa a lato della strada. «Signora Leonila, qui vicino c’è stato uno sversamento, vero?». «Sì, dalla tubazione qui davanti, ma il petrolio è arrivato fino alla nostra finca», risponde lei e ci fa accompagnare dal figlio. Scendiamo a piedi lungo una strada sterrata. C’è una povera casa di legno su palafitte. I panni stesi sotto la tettornia. Un uomo, una donna, un paio di bambini, che ci accolgono con curiosità. Il colono prende un badile e si dirige verso un rivolo d’acqua che sta a pochi passi dall’abitazione, seminascosto dalla vegetazione. Poche badilate e subito viene allo scoperto terra nera come il bitume. Puzzolente come il bitume. «Vi hanno risarcito?», domandiamo al figlio di Leonila. «No, nulla», risponde sconsolato.

Riprendiamo il cammino lungo la via Auca, la via del petrolio. Ci fermiamo per qualche foto (discreta) davanti a un campo di Petroamazonas, la compagnia dello stato ecuadoriano. Ci sono due alti mecheros4, che sputano fuoco e fumo sopra gli alberi. E, in mezzo, un grande contenitore di metallo con la scritta agua de formación5. A lato del campo sale una strada, su cui vanno e vengono camion pesanti. Un cartellone dice che Petroamazonas sta costruendo una centrale. Risaliamo in auto per proseguire, ma la vecchia jeep non ne vuole proprio sapere di ripartire. Ci passano accanto i grossi e lussuosi fuoristrada delle compagnie petrolifere. Le persone a bordo ci guardano con facce che paiono di commiserazione. Passano anche fuoristrada delle forze dell’ordine, presenti in forza a difesa delle installazioni petrolifere. «Mettete via le macchine fotografiche», consiglia Diocles.

Dopo un paio d’ore arriva il meccanico e finalmente possiamo tornare verso Coca. Ripercorriamo a ritroso la strada del mattino, attraversando El Dorado e Dayuma, villaggi anonimi, cresciuti dal nulla e adibiti a dormitori per i lavoratori petroliferi. Sono fatti di case approssimative, ma insegne ammiccanti e luci sgargianti evidenziano la presenza di bar e di bordelli, come sempre capita in zone dove si concentrano quasi esclusivamente uomini.

Diocles non la manda a dire: «Adesso che è arrivata la crisi, tutti dicono che bisogna puntare sul turismo e sull’agricoltura. Anche coloro che fino a ieri si sono riempiti le tasche con il denaro del petrolio. Per questa regione il petrolio è stata una vera maledizione. La maledizione della ricchezza».

Difficile, per noi, aggiungere qualcosa. Salutiamo con un abbraccio d’ammirazione Diocles, piccolo campesino e attivista ambientale che, anche a costo di apparire un po’ retorici, ci piace considerare un eroe solitario dei nostri giorni.

Ferite e colpi mortali

In Coca abbiamo toccato con mano i danni – ambientali e umani – prodotti dall’estrazione petrolifera. Abbiamo anche visto le conseguenze di un’economia di mercato incentrata sui prezzi del petrolio. Domani, percorrendo il Rio Napo, andremo verso il Parque Yasuní e poi ci sposteremo nella provincia di Sucumbíos, dove c’è l’altra capitale petrolifera: Nueva Loja-Lago Agrio. Forse la città simbolo della maledizione del petrolio. Quella dove la multinazionale statunitense Texaco-Chevron ha compiuto disastri inimmaginabili per i quali è stata condannata. Ma per i quali nulla ha pagato.

Paolo Moiola
(fine terza puntata – continua)

Note

1 – La Hulliburton è stata l’azienda di Dick Cheney, vicepresidente Usa durante l’amministrazione di George W. Bush e la Guerra del Golfo (2003), durante la quale si dice che la multinazionale sia stata favorita.

2 – La palma africana (Elaeis guineensis) si è diffusa in tutto il mondo in quanto il suo olio è molto richiesto, soprattutto dalle industrie alimentari e cosmetiche. La sua coltivazione su larga scala ha effetti nefasti sull’ambiente e sul clima.

3 – Il «bioaccumulo» è il processo attraverso cui sostanze tossiche persistenti si accumulano all’interno di un organismo, in concentrazioni superiori a quelle riscontrate nell’ambiente circostante. Questo accumulo può avvenire attraverso qualsiasi via: respirazione, ingestione o semplice contatto, in relazione alle caratteristiche delle sostanze.

4 – Vengono chiamati mecheros i camini attraverso i quali si brucia il gas che esce quando si estrae petrolio. Si tratta di un gas che contiene vari elementi contaminanti: metano, butano, etano, propano, acido solfidrico.

5 – In un giacimento petrolifero, il petrolio si trova in sospensione su uno strato di acqua  definita «acqua di formazione». Durante le attività di trivellamento ed estrazione si ha come effetto collaterale una grande produzione di acqua contaminata detta «acqua di produzione». Oltre all’olio, nell’acqua di produzione sono presenti inquinanti quali metalli pesanti, solidi sospesi e disciolti e elementi radioattivi.


Ecuador: l’economia del petrolio e le critiche

Petrolio e ambiente sono incompatibili

In Ecuador, l’economia del petrolio riveste un ruolo preponderante. Tuttavia, i costi che essa – inevitabilmente – comporta superano i benefici. Nomi e dati per orientarsi nella questione.

  • Zone petrolifere – Regione della costa (penisola di Santa Elena). A partire dal 1967, la regione dell’Amazzonia ecuadoriana – in particolare, le province di Orellana e Sucumbíos (Nord Est del paese) – è diventata la principale zona di produzione. Sono in corso nuove esplorazioni in altre province.
  • Città petrolifere – Francisco de Orellana-Coca (Orellana) e Nueva Loja-Lago Agrio (Sucumbíos), quest’ultima è la città più popolata dell’Amazzonia ecuadoriana.
  • Compagnie petrolifere statali – Le compagnie petrolifere di proprietà della stato ecuadoriano sono la Petroecuador e la Petroamazonas EP. Nell’aprile 2016 quest’ultima ha annunciato – tra la sorpresa e i dubbi di molti – il record storico di produzione: 366.754 barili al giorno (nonostante il prezzo internazionale del greggio sia sceso a quotazioni molto basse). Della raffinazione, immagazzinamento, trasporto e commercializzazione si occupa invece Petroecuador.
  • Compagnie petrolifere straniere – Stanno assumendo sempre più importanza le compagnie petrolifere della Cina: PetroChina, Andes Petroleum, Petroriental, Sinopec, Cnpc. Tra le altre si segnalano: Repsol, Agip, Petrosud, Enap, Pegaso, Petrobell, Pacipetrol, Tecpetrol, Consorcio Interpec, Consorcio DGC, Consorcio Marañón. Hanno lasciato il paese la Petrobras (Brasile), la Perenco (anglofrancese), nonché le statunitensi Oxy (Occidental) e Texaco-Chevron. Tra le aziende di servizi per le compagnie petrolifere primeggiano la Halliburton (Stati Uniti), la Hilong (Cina), la Weatherford (Stati Uniti) e la Mkp Petroleum (Stati Uniti).
  • Sistema contrattuale – Con la riforma della Legge sugli idrocarburi, approvata nel 2010, tra stato ecuadoriano e compagnie petrolifere si è passati dal contratto di partecipazione al contratto di prestazione di servizi. In questo secondo caso, lo stato garantisce alle singole compagnie petrolifere un prezzo fisso per barile estratto. Se il prezzo internazionale del greggio è alto, lo stato guadagna. Se il prezzo è basso o molto basso (come in questo momento), allora lo stato ecuadoriano può anche rimetterci.
  • Economia e petrolio – Negli ultimi 10 anni il petrolio ecuadoriano ha generato: tra il 43 e il 66 per cento del totale delle esportazioni; tra il 43 e il 59 per cento del bilancio statale.
  • Costi economia petrolifera – Difficile quantificare i costi ambientali, umani e sociali provocati dall’economia del petrolio. Universalmente conosciuto – per la sua entità e per le vicende processuali – il disastro provocato dalla Texaco-Chevron nell’Amazzonia ecuadoriana (dove operò dal 1964 al 1990).
  • Principali gruppi oppositori – Contro l’economia petrolifera ecuadoriana sono attive alcune organizzazioni di cittadini, soprattutto nella regione amazzonica:

1) «Union de Afectados y Afectadas por las Operaciones Petroleras de?Texaco» (Udapt), Nueva Loja (Sucumbíos); responsabili: Donald Moncayo, avv. Pablo Fajardo Mendoza, Luiz Yanza;

2) «Frente de Defensa de la Amazonía» (Fda), Nueva Loja (Sucumbíos); responsabili: Carlos Guamán, Carmen Aguilar;

3) «Asociación de Líderes Comunitarios Red Ángel Shingre», che opera a Coca (Orellana); responsabile: Diocles Zambrano;

4) «Fundación Regional de Asesoría en Derechos Humanos» (Inredh), che si occupa di diritti umani in senso ampio;

5) «Yasunidos», organizzazione nata principalmente per salvare dalle perforazioni petrolifere il Parco nazionale Yasuní, paradiso amazzonico della biodiversità.

(a cura di Paolo Moiola)


Incontro con monsignor Jesús Esteban Sádaba Pérez

Nell’Amazzonia assediata di Alejandro Labaka

Cappuccino di origine basca, mons. Esteban è responsabile del vicariato apostolico di Aguarico, provincia amazzonica di Orellana, dal lontano 1990. È il successore di mons. Alejandro Labaka, ucciso in un agguato nel 1987. Lo abbiamo incontrato nel capoluogo della provincia.

Francisco de Orellana. Ogni tanto, tra gli alberi e i fiori dello splendido giardino del Vicariato apostolico di Aguarico, s’intravvedono i tiranti del moderno ponte sul fiume Napo, inaugurato nell’aprile del 2012. Per la sua costruzione non si è badato certo al risparmio, come d’altra parte sul suo nome. È infatti conosciuto come Puente Majestuoso Río Napo.

Siamo qui per incontrare mons. Jesús Esteban Sádaba Pérez, dell’ordine dei Cappuccini, vicario apostolico di Aguarico dal 1990. Sorridente e pacato, parla uno spagnolo influenzato dall’accento basco (è di Pamplona).

Iniziamo la conversazione con uno sbaglio mettendo un «san» davanti al nome di Francisco de Orellana. «Beh, tanto santo non fu», risponde il vescovo senza riuscire a trattenere un sorriso. In effetti, Francisco de Orellana è il nome del conquistatore ed esploratore spagnolo, che navigò il Napo e il Rio delle Amazzoni, fino a raggiungee le foci. Era il 1542.

 

Mons. Esteban, lei arrivò qui, a Francisco de Orellana, nel 1990 in circostanze particolari: per sostituire mons. Alejandro Labaka, suo connazionale, che era rimasto ucciso in una storia di sangue.

«Direi piuttosto una storia di martirio. Mons. Labaka fu ucciso – insieme a suor Inés Arango – da lance indigene il 21 luglio del 1987. Le lance appartenevano a un gruppo di Tagaeri che i due missionari volevano proteggere dall’imminente arrivo degli uomini di una compagnia petrolifera (la Braspetro, ndr). Alejandro Labaka, cappuccino, era in Ecuador dal 1954. Quando, nel 1965, arrivò in questa regione decise subito di avvicinarsi agli indigeni e in particolare al gruppo più numeroso, quello degli Huaorani, conosciuti per l’indole guerriera (e un tempo noti con il termine dispregiativo di Aucas)».

Può ricordarci i nomi dei gruppi di indigeni che vivono in questa regione?

«In questa parte dell’Amazzonia ecuadoriana vivono tre nazionalità indigene: i citati Huaorani, i Quichuas dell’Oriente e gli Shuar. I più vulnerabili sono quelli che arrivano in città, perché perdono la loro cultura e dunque pagano un prezzo molto alto. Rimangono molte comunità che vivono nella foresta, vicino ai fiumi».

Esistono anche gruppi di indigeni non contattati o, come a volte si preferisce dire, in isolamento volontario?

«Sì, ci sono (almeno) due gruppi non contattati: i Tagaeri e i Taromenane».

Con l’arrivo delle attività petrolifere com’è stato modificato il paesaggio umano?

«Quando agli inizi degli anni Settanta arrivò l’industria petrolifera, qui c’erano il 90% di indigeni e il 10% di bianchi o meticci. In questo momento le percentuali sono invertite perché sono venuti migranti da tutte le parti del paese».

I grandi cartelloni pubblicitari ai margini delle strade dicono: «Il petrolio unisce le comunità amazzoniche!»; «Il petrolio migliora la tua comunità». Che ne pensa, mons. Esteban?

«Lo sfruttamento del petrolio ha portato – direttamente e indirettamente – distruzione della foresta e inquinamento dei fiumi che infatti oggi danno poca pesca. Per non parlare delle tensioni razziali e culturali. In questa situazione mantenere un equilibrio ambientale e umano è difficile, anche se non impossibile, come suggerisce papa Francesco».

In questo momento l’economia basata sul petrolio sembra però in forte crisi. In città tutti gli alberghi sono vuoti. Fuori città abbiamo visto decine di imprese – piccole e grandi (come la Halliburton e la Hilong) – che foiscono materiali e servizi alle compagnie petrolifere, ma pare che tutto si sia fermato.

«È così. Attualmente ci sono grandi difficoltà causate dalla caduta dei prezzi del petrolio. Si parla di 15.000 posti di lavoro perduti. Una parte di queste persone sono tornate ai luoghi da cui provenivano. In ogni caso si è generato un problema sociale molto grave».

Il Parque Yasuní è a pochi chilometri da qui. Monsignore, cosa comporta (comporterà) l’apertura di campi petroliferi al suo interno?

«Certamente lo sfruttamento del petrolio del Parque Yasuní porterà a una diminuzione della sua ricchissima biodiversità. Anche mettendo in campo le migliori condizioni tecnologiche e organizzative, difficile combinare obiettivi economici e difesa della natura, i cui diritti sono peraltro sanciti anche dalla Costituzione ecuadoriana. Occorrerebbe capire quale sia il modello appropriato non solo per la difesa della natura, ma di quella “casa comune” di cui parla il papa Francisco nella sua Laudato si’».

Mons. Esteban, ci dica due parole anche sul presidente Rafael Correa.

«È arrivato al potere per cambiare le cose. Poi, in questi anni, sono sopraggiunte anche delle difficoltà. Soprattutto, secondo me, quella di non saper dialogare. Inoltre, trovo che quando presenta le sue proposte lo fa sempre con un tono piuttosto aggressivo. Non penso sia una buona cosa per un governante che deve trasmettere speranza. Con lui ci sono molte cose che sono migliorate (le strutture, per esempio), ma altre situazioni che sono peggiorate. Io credo che abbiamo più cose ma che, in generale, abbiamo meno libertà».

Intende libertà d’espressione?

«Libertà in generale. D’altra parte, questo è l’anno della misericordia. Tutti ne abbiamo bisogno».

Paolo Moiola