È l’Amazzonia

Testi e foto di Paolo Moiola |


Unica, ricca, fragile: l’Amazzonia sotto assedio

AMAZZONIA
I numeri, le ricchezze, le minacce

Da conquistatori a protettori
A colloquio con padre Angelo Casadei

«Essere custodi è la nostra responsabilità»
Mons. Joaquín?Humberto PInzón Güiza

Questo dossier

Vicariato di Puerto Leguízamo-Solano


Unica, ricca, fragile: l’Amazzonia sotto assedio

La «minga»?del?vicariato?di Puerto?Leguízamo-Solano

L’Amazzonia è una regione unica. Per millenni abitata solamente da popoli indigeni, oggi ospita anche altre popolazioni. Gli uni e gli altri debbono affrontare molti problemi, perché la foresta si è trasformata in un luogo ambito a causa delle sue ricchezze. Il giovane Vicariato di Puerto Leguízamo-Solano ha invitato decine di persone dei tre paesi confinanti – Perù, Ecuador, Colombia – sui quali si estende il suo territorio, per discutere su come difendere l’Amazzonia dall’assalto degli sfruttatori. Ha chiamato quest’evento «Minga amazónica fronteriza».

Verso Puerto Leguízamo, Colombia. Nel piccolissimo aeroporto di Puerto Asís non è facile avere informazioni. Non ci sono né monitor né annunci. L’aereo della Satena, la compagnia colombiana gestita dai militari, che ci ha portato qui da Bogotà, è ora fermo sulla pista. Finalmente un addetto ci spiega che a Puerto Leguízamo, meta del viaggio, sta piovendo a dirotto e pertanto la partenza è rimandata finché le condizioni meternorologiche non miglioreranno. Di norma nelle zone equatoriali le piogge sono molto intense ma si esauriscono in poco tempo. In ogni caso non c’è alcuna protesta dei viaggiatori visto che nessuno desidera imbarcarsi su un volo rischioso. All’improvviso viene aperta la porta che conduce sulla pista dove è posteggiato l’aereo (l’unico aereo). Saliamo la scaletta fiduciosi di riprendere il viaggio. Mi sistemo accanto al finestrino con la macchina fotografica nella speranza di poter immortalare qualche immagine dall’alto. Il volo si svolge tranquillo, a parte qualche prevedibile scossone. Nuvole nere impediscono di vedere bene la terra sottostante. Tuttavia, non mancano squarci nel cielo che consentono di ammirare i luoghi sorvolati. È una visione che affascina ma che al tempo stesso fa riflettere e intristire. Sotto è Amazzonia e il verde domina ancora incontrastato, ma gli spazi disboscati o ridotti a pascolo sono ampi. L’elemento più appariscente sono i fiumi, tanti, lunghi e sinuosi. Le loro acque non appaiono blu o verdi, ma marroni come la terra che trasportano.

Il volo dura circa un’ora. Nonostante la pioggia, l’atterraggio è relativamente facile. L’aeroporto di Puerto Leguízamo è costituito da una pista malconcia in mezzo alla campagna e una casetta bassa e anonima verso la quale s’incamminano i passeggeri di Satena. La pista è delimitata da una rete metallica oltre la quale s’intravvedono alcuni mototaxi, veicoli a tre ruote che costituiscono il mezzo di trasporto di gran lunga più diffuso. E, subito dietro, un grande cartellone sbiadito da sole e acqua che dà il benvenuto a Puerto Leguízamo, cittadina allungata lungo le rive del Putumayo, con il Perù di fronte e l’Ecuador poco sopra.

Sul volo ho incontrato padre Francisco Pinilla, colombiano e missionario della Consolata che lavora da queste parti da sei anni e che sta andando proprio dove vado io. Ne approfitto subito per chiedere una descrizione del luogo.

«Siamo – spiega – più o meno al centro del 6% dell’Amazzonia che la Colombia possiede. Contando tutto il municipio, qui vivono all’incirca 40mila abitanti». Di cosa vivono? «Un tempo si producevano riso, frutta, platano, yuca, però ultimamente la gente preferisce produrre altre cose (il padre si riferisce alla coca, ndr) che danno più reddito. Quindi, i prodotti locali sono andati sparendo». Per arrivare fino a qui ci sono due modalità. «Sì – conferma il missionario -, come siamo venuti, in aereo, con la compagnia della Forza aerea colombiana, e attraverso il fiume da Florencia o da Puerto Asís in 8-10 ore di viaggio».

Il viaggio per fiume, molto più lungo ma molto meno costoso di quello aereo, fino a qualche mese fa non era accessibile a tutti per la presenza delle Farc, che potevano fermare o sequestrare le persone giudicate non gradite. Dopo la firma degli accordi di pace (novembre 2016), la situazione è divenuta assai più tranquilla.

Sotto una leggera pioggia saliamo su un mototaxi. Per conversare occorre parlare a voce alta perché il rumore del veicolo è assordante ed anche la strada – stretta e dissestata – non agevola il dialogo tra i due passeggeri. Il paese è cresciuto lungo quest’unica arteria. Nostro destino è la sede del giovane Vicariato apostolico di Puerto Leguízamo-Solano che ha organizzato un incontro internazionale sull’Amazzonia: la «Minga amazónica fronteriza». Minga è un termine kichwa che indica un lavoro collettivo e gratuito di carattere temporaneo.

Iscrizione dei partecipanti

L’Amazzonia, da cortile a piazza centrale

L’albero simbolo dell’Amazzonia

All’incontro sono iscritte 147 persone: 32 provenienti dal Perù, 11 dall’Ecuador e 103 dalla Colombia (più una dall’Italia: chi scrive), tutte ospitate nelle strutture del Vicariato. In ognuno dei tre giorni (6-8 novembre 2017) è prevista l’esposizione di un esperto che parlerà di Amazzonia alla luce del motto della minga: Somos territorio, somos pobladores, somos cuidadores. La minga prevede però la partecipazione attiva di tutti. Per questo gli iscritti sono stati divisi in 11 gruppi o tavoli di lavoro: dai contadini ai cacique e governatori, dai laici missionari ai vescovi. Ogni gruppo dibatterà sugli interventi ascoltati in sala partendo dalle risposte ad alcune domande. Le considerazioni verranno quindi esposte da un portavoce di ciascun gruppo davanti all’assemblea riunita in seduta comune.

Nell’aula magna del Centro pastorale del Vicariato, sullo sfondo di un suggestivo albero di cartapesta (opera del padre Carlos Alberto Zuluaga), vengono cantati gli inni nazionali di Ecuador, Perù e Colombia. È mons. Joaquin Pinzón, il padrone di casa, a dare il benvenuto agli ospiti e aprire il convegno. Ma sono due indigeni shuar ecuadoriani, Bosco Guarusha e il figlio Daniel Guarusha, a offrire un senso mistico all’inaugurazione della minga con una cerimonia di purificazione (la cosiddetta «limpia») molto coinvolgente e partecipata.

Il primo intervento è di Maurizio López, segretario esecutivo della Rete ecclesiale panamazzonica (Repam). «Per molti anni – spiega il relatore – l’Amazzonia è stata considerata come il “cortile sul retro”. Si parlava di “terra senza uomini per uomini senza terra”, di “territorio di indios da addomesticare”, di “inferno verde”. Oggi l’Amazzonia si è trasformata nella “piazza centrale”. E non si capisce cosa sia meglio visto che oggi ci sono tanti occhi e tanti pareri su questa realtà. Se prima era un luogo da addomesticare e civilizzare, adesso la si vede come dispensa per lo sviluppo del mondo. Il che conduce a un “estrattivismo” che si comporta come se qui non ci fosse nessuno. Come se questi territori non avessero una loro popolazione, identità, cultura ed anche una loro sacralità».

Per di più – spiega ancora – oggi l’Amazzonia viene distrutta non per ripartire in maniera equa le sue ricchezze, ma perché esiste una corsa all’accumulazione senza fine. «Come dice papa Francesco – conclude Maurizio López -, siamo davanti a una crisi che è ad un tempo sociale e ambientale».

In sala da pranzo

Dal «grande vuoto» ai selvaggi da umanizzare

L’antropologo peruviano Javier Gutiérrez Neira inizia il suo intervento citando dati archeologici che certificano la presenza umana in Amazzonia almeno da 12mila anni avanti Cristo. Smentita scientifica al mito del «gran vuoto amazzonico», successivamente sostituito da quello delle popolazioni selvagge da umanizzare. Azione che ebbe il suo apice con il genocidio avvenuto durante l’epoca del caucho (1840-1915), quando più di 30mila indigeni – principalmente Huitoto, Ocaina e Resigaro – vennero ridotti in schiavitù o sterminati. Rispetto al passato, oggi sono cambiate le condizioni generali (alle popolazioni autoctone si sono aggiunti gli abitanti meticci), ma non lo stato di conflitto.

I governi – spiega l’antropologo – hanno lottizzato l’Amazzonia dandola in concessione per molti anni a società minerarie e petrolifere, «senza considerare gli impatti sui territori indigeni e sulla stessa Amazzonia, la quale durante oltre 50 anni d’estrazione petrolifera ha conosciuto soltanto inquinamento e conflitti sociali». Nulla di più vero: in Perù, Colombia ed Ecuador, ad esempio, i conflitti ambientali in atto sono centinaia (Observatorio latinoamericano de conflictos ambientales, Olca).

Secondo l’antropologo peruviano, l’Amazzonia va pensata «da dentro» e non «da fuori». Dovrebbero cioè essere i popoli amazzonici ad avere la responsabilità di formulare una politica per l’Amazzonia e portarla all’attenzione degli stati nazionali.

Mons. Héctor Fabio Henao

La cancellazione del limite e la creazione delle necessità

Mons. Héctor Fabio Henao, direttore nazionale della Pastorale sociale della Caritas colombiana (e dal 17 dicembre anche presidente del Comitato del Consiglio nazionale per la pace, la riconciliazione e la convivenza) inizia il suo discorso dal concetto di limite. «La teoria è che la gente abbia necessità che non si saziano mai e per questo occorra produrre al massimo. È il produttivismo, cioè produrre illimitatamente per creare consumismo. Un consumismo che, a sua volta, ci porta verso uno sviluppo patologico, che chiameremo sviluppismo».

«Veramente abbiamo necessità illimitate? È sicuro che le necessità dell’essere umano non abbiano limiti? In verità, sono i sogni, i desideri a essere illimitati, mentre le necessità sono limitate». Ma come si inserisce in tutto questo l’Amazzonia? Il capitalismo, che mons. Henao definisce «uno stato dell’anima», vuole controllare completamente l’essere umano e la natura. Per questo ha messo gli occhi sull’Amazzonia. Concretamente: il capitalismo selvaggio spinge per l’estrazione delle materie prime (estrattivismo) del bioma amazzonico per alimentare una produzione senza limiti.

Mons. Henao vede il cambio corretto nelle proposte fatte da papa Francesco nella sua Laudato si’. Qui si parla di ecologia integrale e di rivoluzione della tenerezza. «Dobbiamo – conclude Henao – bandire la frase “Tutto è lecito”, visto che essa non include il futuro, non pensa cioè ad assicurare una vita dignitosa a chi verrà dopo di noi».

Gruppo di lavoro

«Cosa abbiamo capito, cosa vogliamo fare»

Dopo tre giorni di relazioni, dibattiti e incontri conviviali, l’8 novembre giunge il momento di tirare le somme. Tutti i gruppi partecipano alla stesura di un Manifesto rivolto agli abitanti dell’Amazzonia e a tutti coloro che hanno a cuore la sua causa. La dichiarazione prende atto dei grandi problemi che coinvolgono il bioma amazzonico: dallo sfruttamento petrolifero a quello minerario e boschivo, dalle monocolture all’allevamento, dal narcotraffico all’insufficiente presenza dello stato.

Quindi, richiama le autorità nazionali, internazionali e locali a comportamenti adeguati alle particolari necessità dell’Amazzonia: adottare piani di sviluppo che siano realmente amazzonici; garantire la consultazione preventiva dei popoli indigeni per qualsiasi progetto; educare le comunità locali a un trattamento adeguato dei rifiuti; incentivare le autorità accademiche allo studio scientifico della realtà amazzonica, nonché alla formazione e divulgazione delle conoscenze maturate; spingere gli agenti pastorali ad avere una parola più profetica e decisa in difesa dell’Amazzonia.

Infine, il Manifesto afferma la volontà degli estensori di partecipare attivamente alla realizzazione del Sinodo amazzonico del 2019*, accompagnare le comunità amazzoniche nella ideazione ed esecuzione di progetti sostenibili e di contrastare con determinazione tutto ciò che attenta alla vita in Amazzonia.

Un Manifesto – per propria intrinseca natura – contiene indicazioni generali e a volte generiche, soprattutto su una materia complessa com’è la realtà dell’Amazzonia. Tuttavia, esso è importante come base di partenza concettuale, per produrre una fotografia del problema e ipotizzare soluzioni, modalità d’azione, comportamenti.

Vista sul Rio Putumayo

La minga è terminata. Il giorno seguente seguo padre Fernando Florez, uno degli organizzatori più impegnati, mentre accompagna al porto di Puerto Leguízamo il gruppo di partecipanti – paiono tutti allegri – che torneranno in Ecuador e in Perù. I primi salgono su una lancia a motore per passeggeri che lascia subito la banchina e inizia a solcare le acque calme del Rio Putumayo in direzione Nord. I secondi si accontenteranno di un vecchio barcone di legno senza finestrini e con tavolacci al posto delle sedute. Il motore tuttavia pare a posto. Dato che il viaggio verso San Antonio del Estrecho durerà due giorni e non ci sono posti di rifornimento lungo il tragitto verso Sud, occorre fare il pieno di carburante. Il distributore sta sulla strada, qualche metro più in alto rispetto alla riva. Il comandante collega allora il suo barcone con la pompa di benzina attraverso un lungo tubo di gomma. Ci vuole oltre un’ora per completare il rifornimento. Alla fine il barcone prende il largo docilmente con la logora bandiera peruviana che sventola nell’aria, tra i cenni di saluto di chi è rimasto a prua e il rumore ripetitivo dei peke peke – le piccole barche a motore – che gli passano a fianco. L’Amazzonia è (anche) questo.

Paolo Moiola


AMAZZONIA

I numeri, le ricchezze, le minacce

DEFINIZIONE

Si chiama Amazzonia la regione sudamericana che ospita la maggiore foresta tropicale umida del pianeta e la più grande riserva di acqua dolce del mondo.

DATI?GEOGRAFICI

  • SUPERFICIE: 7.989.004 km2 divisi su 9 paesi;
  • PAESI: Brasile (64%), Perù (9,7%), Bolivia (7%), Colombia (6,6%), Venezuela (5,9%), Guyana (2,1%)*, Suriname (1,9%)*, Ecuador (1,6%), Guyana francese (0,8%)*; (*): paesi con territorio amazzonico posto fuori del bacino idrografico del Rio delle Amazzoni.
  • FIUMI: Río delle Amazzoni (6.992 Km, il più lungo del mondo), con migliaia di affluenti tra cui il Río Negro (2.000 km), il Río Madeira (3.240 km), il Río Putumayo (1.813 km), il Río Napo (1.130 km), il Río Marañón (1.600 km). (Fonte: Gutierrez-Acosta-Salazar, Instituto Sinchi, Colombia 2004)

DATI?DEMOGRAFICI

  • POPOLAZIONE: 38 milioni di cui 25 in Brasile e 3,7 in Perú;
  • CITTÀ PRINCIPALI: Manaus (Brasile), Belém (Brasile), Iquitos (Perú), Santarém (Brasile);
  • POPOLI?INDIGENI: circa 420 popoli indigeni (60 in isolamento) per un totale approssimativo di 1,5 milioni di persone; sono 433mila (per 240 popoli) nell’Amazzonia brasiliana e 333mila (per 52 popoli) nell’Amazzonia peruviana.

RICCHEZZE

Foreste, acqua, fauna, flora, biodiversità, risorse del sottosuolo, popoli indigeni.

MINACCE?ANTROPICHE

Attività petrolifere, attività minerarie (oro, in primis), allevamento bovino estensivo, monocolture (soia, in primis), industria del legname, coltivazioni di coca, sfruttamento delle acque dei fiumi (centrali idroelettriche), biopirateria.

(Paolo Moiola, 2018)


Da conquistatori a protettori

A colloquio con padre Angelo Casadei

Per l’Amazzonia colombiana sono mutate molte cose. I missionari, presenti dalla metà del XVI secolo, già da tempo avevano cambiato le proprie modalità di lavoro. Scegliendo di schierarsi (con convinzione) a fianco dei popoli indigeni e in difesa di un ambiente unico.

Puerto Leguízamo. «Forse anche noi missionari arrivammo con uno spirito di conquista e per accompagnare la colonizzazione di questo territorio. Oggi c’è quasi una visione opposta. Prima si parlava di conquista dell’Amazzonia, oggi si parla di protezione e conservazione. Oggi l’Amazzonia non è più soltanto la sua ricchezza ecologica, ma anche quella dei popoli che in essa vivono. C’è stato – conclude padre Angelo – un cambio di visione rispetto a quando arrivammo».

I primi missionari arrivarono da queste parti a metà del XVI?secolo, i missionari della Consolata nel 1952, padre Angelo Casadei da Gambettola nel 2005. «Però in Colombia ero già stato durante gli studi, dal 1989 al 1990», precisa.

Padre Angelo Casadei

Dalla guerra agli accordi di pace

Padre Angelo non si separa mai dalla sua Canon. Fotografa e filma tutto. E quando lo fa non passa inosservato dall’alto dei suoi 186 centimetri d’altezza. Avendo operato in Caquetà (a Remolino e San Vicente del Caguán) e in Putumayo (prima a La Tagua, oggi a Solano), il missionario è un testimone privilegiato di questa parte dell’Amazzonia che per anni è stata un feudo quasi inaccessibile delle «Forze armate rivoluzionarie di Colombia», le Farc.

«Era una guerra civile. All’interno di uno stesso paesino potevi trovare persone che appartenevano all’esercito e altre alla guerriglia.

Per questo dico che l’accordo di pace è stato un bene per i colombiani. Anche se permangono gruppi dissidenti, per esempio a Solano. Oggi il vero problema nasce dall’assenza dello stato. L’unica presenza sono queste grandi basi militari (il riferimento è alla base che sta accanto alla sede del Vicariato, ndr). Prima dell’accordo tra il governo e le Farc, i soldati uscivano in gruppo e rientravano in gruppo per ridurre i rischi. C’erano però vasti territori dove i militari non entravano mai e dove l’ordine pubblico era gestito dalla stessa guerriglia. Oggi, con la consegna alle autorità della gran parte dei guerriglieri, molti di questi territori sono rimasti scoperti. Se lo stato non darà segnali di presenza, il rischio è che gli spazi vuoti possano essere occupati da bande criminali o dalla delinquenza comune e le persone inizino a farsi giustizia da sé. Com’è già accaduto».

La coca e le (difficili) alternative

Il problema è reale. Le bande criminali – una delle più conosciute è La Constru – si dedicano all’attività mineraria illegale e soprattutto al narcotraffico, che è in costante aumento. Il Putumayo è il secondo dipartimento colombiano per coltivazione di coca: si stimano 25.162 ettari coltivati, il 17% del totale (146.000 ettari nel 2016, stando ai dati Simci-Unodc). Più coca significa più danni ambientali (disboscamento e sversamento di sostanze chimiche nell’ambiente) e più danni sociali.

Un chilo di coca – quella più grezza prodotta sul posto di raccolta delle foglie (pasta básica de cocaína) – vale oggi quasi 3 milioni di pesos (circa 870 euro).

La media di produzione per ogni ettaro coltivato è di chilogrammi 1,45 di pasta base (dati Simci-Unodc). I raccolti sono tre all’anno. I piccoli contadini che la coltivano non diventano ricchi, vivono o semplicemente sopravvivono (cosa ancora più vera per i raspachines, i braccianti giornalieri che raccolgono le foglie).

«È difficile trovare un’alternativa alla coca, soprattutto in territori isolati come questi. Un chilo di coca, che sono milioni di pesos, lo metti in uno zainetto e lo trasporti facilmente dove vuoi. Se coltivi mais o yuca o altri prodotti, la commercializzazione risulta molto più difficile. I missionari hanno proposto vari prodotti in alternativa alla coca – soprattutto cacao e caucciù -, anche se non esiste un prodotto sostitutivo perfetto. Il nostro è però anche un lavoro di coscientizzazione, per far capire alla gente cosa comporta produrre cocaina».

Se si esclude la coca, le alternative economiche praticabili ed ecosostenibili non sono molte. L’allevamento – che qui è sempre di tipo estensivo – ha effetti devastanti perché implica disboscamento. Tanto disboscamento: la media attuale è di una vacca per ogni ettaro. Quanto alle altre colture sono, almeno per il momento, troppo poco redditizie. «La foresta offre però varie ricchezze – precisa padre Angelo -. Penso alle piante medicinali. Penso alla noce amazzonica, che ha mercato e che viene coltivata da alcune comunità indigene. Penso al caucciù (caucho natural), che un tempo era una ricchezza. Penso al cacao. Penso al turismo, che qui non esiste anche se abbiamo due grandi parchi naturali, La Paya e Chiribiquete. Ovviamente dovrebbe essere un turismo con limiti ben precisi».

Militari al porto lungo il fiume

Oro e petrolio, una maledizione

Altro fattore di distruzione è stato l’espansione dell’attività mineraria illegale, in particolare quella legata alla ricerca dell’oro alluvionale. I danni prodotti dalla ricerca del prezioso metallo riguardano soprattutto la contaminazione delle acque con il mercurio. «Anche le Farc – spiega padre Angelo – usavano l’attività mineraria illegale per avere delle entrate. In particolare, chiedevano una percentuale sull’oro estratto. Oggi però la situazione pare fuori controllo».

La fine della guerra civile ha dato nuovo impulso anche all’esplorazione petrolifera nell’Amazzonia colombiana. Ecopetrol (Colombia), GranTierra (Canada), Monterrico (Perù), Amerisur (Gran Bretagna) sono alcune delle compagnie che hanno aperto campi petroliferi in Caquetà e Putumayo.

«Per le compagnie petrolifere la scomparsa delle Farc è un vantaggio perché entrano nelle zone di ricerca con più facilità. La guerriglia era contraria alla loro attività perché essa porta strade e comunicazione, rompendo l’isolamento». Contrarie sono anche la maggior parte delle comunità indigene che si trovano direttamente coinvolte nei progetti petroliferi.

«Lungo il fiume Putumayo e lungo il Caquetà ci sono molte comunità indigene di vari gruppi etnici, che da sempre vivono in questi territori. Mantengono la loro lingua e tradizioni, anche se sono comunità che sono venute a contatto con l’uomo e la cultura occidentali. E spesso sono state violentate, come all’epoca del caucciù quando moltissimi indigeni furono schiavizzati».

«Noi ci siamo assunti il compito di accompagnarli in una riflessione sul trauma subito. Per molto tempo siamo stati gli unici ad avvicinarli e aiutarli nelle loro lotte. Per questo i popoli indigeni ci guardano con rispetto».

Paolo Moiola

Mons. Jaoquín Pinzón


«Essere custodi è la nostra responsabilità»

Mons. Joaquín?Humberto PInzón Güiza

Al centro dell’Amazzonia colombiana si trova il Vicariato di Puerto Leguízamo-Solano, cinque anni a febbraio. Il vescovo Joaquín Pinzón e i suoi collaboratori hanno scelto di percorrere la strada della sostenibilità ambientale per difendere un territorio unico ma ambito e molto fragile. Un impegno complicato: gli sfruttatori dell’Amazzonia sono tanti (minatori illegali, compagnie petrolifere, coltivatori di coca, commercianti di legname, ecc.) e non paiono intenzionati ad arretrare. Approfittando anche dell’assenza dello stato.

Puerto Leguízamo. Le sei e trenta del mattino sono un buon orario per un’intervista all’aperto. Non ci sono ancora i chiassosi alunni della scuola attigua e la temperatura è ideale.

Mons. Joaquín Humberto Pinzón Güiza è giovane all’anagrafe e giovanile nell’aspetto. Colombiano del dipartimento di Santander, missionario della Consolata, egli ha visto nascere, crescere e cambiare il Vicariato apostolico di Puerto Leguízamo-Solano che regge fin dalla sua fondazione, avvenuta nel febbraio del 2013. Da allora sono trascorsi 5 anni e tutt’attorno le cose sono cambiate: in primis, ci sono stati gli accordi di pace con le Farc e qui, a Puerto Leguízamo, molto più che nelle città (che infatti raccolgono la maggioranza dei contrari), i cambiamenti sono fatti quotidiani, concreti e visibili.

Monsignor Pinzón, il suo vicariato comprende municipi di tre diversi dipartimenti: Putumayo, Caquetá e Amazonas. Come descriverebbe questo territorio?

«Siamo ubicati nel cuore dell’Amazzonia colombiana. Ma allo stesso tempo siamo ai confini dell’Amazzonia peruviana e di quella ecuadoriana. In altre parole, noi non solo ci troviamo in un contesto amazzonico ma anche di frontiera. Per molti il Rio Putumayo ci divide, ma per noi non è così. Come dice padre Gaetano Mazzoleni, missionario della Consolata che ha lungamente vissuto qui, il fiume ci unisce. Il fiume ci dà la possibilità di muoverci, di trovare i prodotti per alimentarci. È la nostra “autopista fluvial”…».

Interessante la terminologia che lei usa: autostrada fluviale, autostrada d’acqua…

«In questo contesto amazzonico dove non esistono strade, il rio è la nostra autostrada. Il fiume è la possibilità per spostarci e metterci in comunicazione con altre popolazioni e altri contesti. È il nostro spazio di vita che ci mette in comunione con gli abitanti di questa Amazzonia sudcolombiana, nordperuviana e nordecuadoriana».

Popoli indigeni e non solo

Per molto tempo – per motivi politici, economici e culturali – si è sostenuto che l’Amazzonia fosse spopolata anche se era abitata dai popoli indigeni. Ancora oggi, nell’immaginario collettivo, l’Amazzonia è soltanto foresta e fiumi. Invece ci sono anche i suoi abitanti.

«Quando parliamo di pobladores (abitanti) dell’Amazzonia dobbiamo parlare di popoli, culture e famiglie da integrare. Siamo tutti pobladores di questo territorio, ma con caratteristiche molto particolari e precise. In questo Vicariato, ad esempio, ci sono molti popoli ancestrali, come i Murui (della famiglia Huitoto), gli Inga, i Koreguaje, i Siona, i Kichwa».

I popoli indigeni sono gli abitanti originari, oggi però non ci sono più soltanto loro.

«Sì, nel corso della storia, per diversi motivi e circostanze, qui sono arrivate altre persone: per cercare migliori condizioni di vita o per sfuggire alla violenza presente in altri territori. Oggi li chiamiamo campesinos, un tempo erano detti colonos. Definizione questa rifiutata dagli interessati: “Non siamo coloni. Non siamo venuti a colonizzare. Siamo abitanti di questo territorio”. Nello stesso tempo, sono cresciute le dimensioni delle città e le loro popolazioni. Insomma, l’Amazzonia odierna ospita differenti esperienze umane».

Gli accordi di pace e il vuoto di potere

Fino a pochi mesi fa Puerto Leguízamo e tutta questa regione erano sotto il controllo delle Farc. Gli accordi di pace hanno cambiato la situazione?

«Sì, l’hanno cambiata. La maggioranza degli appartenenti al movimento se ne sono andati nei luoghi di concentrazione fissati dal governo. In due territori del Vicariato rimangono piccoli gruppi dissidenti. In particolare, un gruppo venuto dall’Oriente – conosciuto come la dissidenza del Frente Primero – e altri gruppetti locali fuoriusciti dal Frente 48. Però, possiamo affermare che la situazione è cambiata perché i guerriglieri non esercitano più quel controllo sociale che avevano in gran parte di questo territorio. Quello che manca ora è una risposta del governo centrale. Le persone si domandano: oggi chi esercita l’autorità in questi luoghi? Chi comanderà d’ora in avanti? C’è incertezza. C’è paura che possano arrivare altri gruppi fuorilegge e che essi possano assumere il controllo che prima esercitavano le Farc.

Insomma, nella gente da una parte c’è contentezza per il cambiamento, dall’altra c’è sconcerto per la mancanza di risposte da parte del governo rispetto al vuoto di potere che si è creato».

Sempre più coca

Gli accordi di pace non pare abbiano cambiato l’economia della coca, che continua a essere prodotta in quantità.

«È vero: la produzione di coca prosegue. In ciò è cambiato poco. Anzi, secondo alcuni, la produzione è aumentata. Occorre riflettere sul fatto che le persone continuino a coltivare e la produzione a crescere. Il problema oggi è la commercializzazione. Anteriormente le Farc facevano da intermediarie, oggi manca questo passaggio. Pertanto, è aumentata la produzione ma è diminuita la commercializzazione. Le persone continuano a considerare la produzione di coca un’attività vitale, ma sono preoccupate per l’aspetto commerciale. Per tutto questo sulla questione della coca occorrerebbe fare una riflessione ad hoc».

È molto difficile vivere facendo i contadini. Al contrario, con pochi ettari di terra – si parla di tre – coltivati a coca si può vivere. A volte anche bene.

«Con tre ettari di coca si può vivere se le famiglie hanno esigenze limitate. È anche vero che il movimento di denaro generato dal narcotraffico ha incrementato le esigenze. Il problema vero è che non esiste una politica di sostituzione, un’alternativa che consenta alle famiglie di lasciare la coltivazione della coca per dedicarsi ad altre attività che consentano non soltanto di vivere ma di vivere degnamente».

Il porto sul fiume

Oro e petrolio sono incompatibili con l’ambiente

Altro problema che pare allargarsi è legato all’attività mineraria, in particolare quella illegale connessa alla ricerca dell’oro.

«L’attività mineraria illegale è un problema piuttosto serio, perché essendo illegale non esiste alcun controllo. Costoro arrivano e si stabiliscono in luoghi dove si possano nascondere da sguardi indiscreti. Questo genera una situazione molto difficile perché essi praticano l’attività senza preoccuparsi di usare metodi che riducano gli effetti sull’ambiente. A queste persone interessa soltanto estrarre il minerale, in questo caso l’oro, senza alcuna precauzione che consenta di mitigare l’impatto ambientale».

Già da alcuni anni si parla di tonnellate di mercurio riversate nei fiumi colombiani (Estudio Nacional del Agua 2014). Il problema riguarda anche il río Putumayo?

«Sì, nel río Putumayo si utilizza il mercurio. Questo ha generato e continua a generare problematiche. Contaminando il fiume, contaminano il pesce e quindi coloro che lo consumano. A poco a poco, le persone si caricano di questo metallo che l’organismo non è in grado di trattare».

Nel vicino Ecuador e nel Nord del Perù le imprese petrolifere stanno distruggendo l’Amazzonia e inquinando i fiumi. Com’è la situazione qui in Colombia?

«Rispetto alle compagnie petrolifere, al Nord del Putumayo – nella zona di Puerto Asís, in particolare – stanno avvenendo delle esplorazioni per capire se c’è la possibilità di estrarre petrolio. In questo momento sono in corso dialoghi con le comunità interessate, anche se alcuni di questi sono viziati da interessi economici. Le persone non sono state sufficientemente preparate e così accade che, con un po’ di denaro, a volte vengono comprate. Le persone non hanno la possibilità di raggiungere la consapevolezza dell’impatto che le attività petrolifere possono produrre».

I perché di una minga amazzonica

Il suo Vicariato ha organizzato – novembre 2017 – una «minga amazónica fronteriza». Perché avete usato il termine «minga»?

«Minga è parola kichwa che significa offrire qualcosa in cambio di qualcos’altro. Nella pratica, si traduce in un’esperienza di lavoro comunitario che porta beneficio a tutti e nel quale tutti apportano ciò che hanno. In altre parole, tutti mettiamo i nostri sforzi in una causa comune per ottenere un beneficio comune. Per questo noi abbiamo voluto dare al nostro incontro di riflessione la categoria della minga. Creare uno spazio di riflessione comune».

Lo slogan continuamente richiamato durante la minga è stato «Amazonia, contexto de vida que une orillas», un contesto di vita che unisce le sponde. Ci spieghi meglio in cosa consiste questa unione.

«Qui a Puerto Leguízamo si è unito un buon gruppo di persone della Colombia, del Perù e dell’Ecuador. Abbiamo avuto come ospiti i vescovi di San Miguel del Amazonas (Perù), di San Vicente e di Florencia. Abbiamo avute persone che si muovono da diverse prospettive rispetto a quella ecclesiale: persone delle amministrazioni (come il sindaco di Puerto Leguízamo), di organismi ecuadoriani, di organizzazioni ambientaliste.

Tutte istituzioni e persone a cui interessa la cura di questo contesto di vita. Tutti riuniti per una causa comune: come essere abitanti responsabili che cercano uno sviluppo sostenibile, cioè che non danneggi ma al contrario protegga il contesto amazzonico in cui ci ritroviamo a vivere.

Dalla minga siamo usciti tutti contenti e desiderosi di trasformarci in difensori di questo territorio e di questo spazio di vita. Le istituzioni pubbliche, quelle ambientali e quelle ecclesiali. Tutti desiderosi di trasformarci in piccoli cuidanderos».

Quindi, in epoca di sfruttamento dell’Amazzonia, voi volete esserne curatori, difensori, protettori: una bella responsabilità.

«Il motto completo della minga era: “Somos territorio, somos pobladores, somos cuidanderos”. L’ultima parola non è in un castigliano perfetto: in realtà, dovrebbe essere cuidadores. Ma abbiamo usato questa perché è un termine che usano le persone di qui quando affidano il loro campo a qualcuno perché lo curi bene. Dunque, non explotadores, ma al contrario cuidanderos».

il gruppo di lavoro dei vescovi a Puerto Leguízamo; da sinistra in senso orario: il padrone di casa, mons. Jaoquín Pinzón, mons. José Travieso (San José del Amazonas, Perú), mons. Francisco Múnera (San Vicente del Caguán, Caquetá), mons. Omar Giraldo (Florencia, Caquetá).

Dalla «Laudato si’» al Sinodo amazzonico

Per il novembre del 2019 è stato convocato un sinodo per l’Amazzonia. Si può dire che la vostra minga lo abbia anticipato?

«Potremmo dirlo ma sarebbe una risposta un po’ superba. Abbiamo sognato e progettato quest’esperienza di minga nel febbraio 2017. Potremmo dire che abbiamo anticipato il sinodo. Ma la vera risposta è che papa Francesco ci ha sfidati con il contributo della Laudato si’.

L’enciclica è stato un regalo per l’umanità. Sappiamo che essa è una proposta del papa non soltanto per la chiesa ma per l’umanità tutta.

Vivendo in questo territorio noi ci siamo sentiti molto in sintonia. Non soltanto con la Laudato si’, ma con la sensibilità ecologica di questo papa».

Monsignor Pinzón, la porta qui accanto è quella di una scuola elementare. Quanto è importante l’istruzione nella difesa dell’Amazzonia?

«Abbiamo bisogno di un sistema educativo che ci aiuti. Finora ci hanno abituato non soltanto al consumo, ma al consumo senza limiti. Necessitiamo di un’educazione nuova, basata su un’altra mentalità, che ci renda persone responsabili nell’uso delle risorse. Il mondo ci chiede di essere responsabili con il pianeta, con la nostra casa comune, con la natura che Dio ci ha regalato».

Paolo Moiola

Vescovi partecipnati alla minga


Questo dossier:

• Approfondimenti

Il manifesto della Minga di Puerto Leguízamo è leggibile a questo link (clicca su questa linea).
Sul canale YouTube sono invece reperibili vari documentari di padre Angelo Casadei.

[youtube https://www.youtube.com/watch?v=UUG7cIYkOIY?feature=oembed&w=500&h=281]

• Prossimamente

Il nostro reportage lungo il río Putumayo proseguirà in terra peruviana fino alle comunità di Soplín Vargas e Nueva Angusilla.

• Dedica

Questo dossier è dedicato a padre Antonio Bonanomi, scomparso domenica 7 gennaio. Per molti anni padre Antonio – una vita in Colombia, soprattutto tra gli indigeni del Cauca – è stato assiduo informatore dell’autore sulle cose colombiane, nonché guida durante il primo viaggio in quel paese. Mancherà a tanti. (Pa.Mo.)


Vicariato di Puerto Leguízamo-Solano

·      FONDAZIONE

Il 21 febbraio 2013. Da allora è retto da mons. Joaquín Humberto Pinzón Güiza.

·      GEOGRAFIA

Si estende in tre dipartimenti colombiani: Caquetá, Putumayo e Amazonas. È caratterizzato dalla presenza di due grandi fiumi: il río Caquetá e il río Putumayo, più i loro affluenti. In esso si trovano il Parco nazionale naturale La Paya, il Parco nazionale naturale Chiribiquete e la Zona di riserva forestale dell’Amazzonia. I centri urbani principali sono Puerto Leguízamo (Putumayo), Solano (Caquetá) e Puerto Alegría (Amazonas).

·      POPOLI?INDIGENI

Kichwa (Quechua), Koreguaje, Siona, Huitoto (ramo Murui), Inga, Nasa, Andoque.

·      ALTRE?POPOLAZIONI

Meticci (campesinos) e comunità di afrodiscendenti.

·      DATI

  • SUPERFICIE: 64.912 km2;
  • POPOLAZIONE: 46mila abitanti;
  • RELIGIONE: 36mila cattolici.

Rio Putumayo




Gli indigeni (e l’industria del carbone) della Guajira colombiana


Testi e foto di Eloisa d’Orsi


In questo dossier vi raccontiamo una storia di incubi (il carbone e le sue conseguenze) e di magie (l’inventiva che alimenta l’arte di sopravvivere delle persone).

Incubi e?magie

CARBONE di?COLOMBIA

  • Le risorse minerarie colombiane sono di circa 17 miliardi di tonnellate. Suddivise tra il dipartimento del Cesar, la Guajira, Boyacá e Antioquia.
  • La Colombia è il principale paese produttore di carbone in America Latina. A livello globale è il decimo per la produzione, il quinto per l’esportazione.
  • Per l’economia colombiana, il carbone si è consolidato come secondo prodotto di esportazione dopo il petrolio grezzo.Il terzo è il caffè.
  • La produzione nazionale è cresciuta in modo significativo nel corso degli ultimi venti anni, alimentata soprattutto dalla realizzazione di grandi progetti destinati all’esportazione da parte di investitori stranieri come Drummond, Exxon, Bhp Billiton, Glencore International, Amcoal e Rio Tinto.
  • Le principali destinazioni del carbone colombiano sono l’Europa e gli Stati Uniti.

L’incubo:
L’impossibile convivenza tra miniere e popolazioni indigene

La scelta tra il carbone e la vita

Come in tutta l’America Latina le attività estrattive producono effetti devastanti sulle popolazioni indigene e sull’ambiente. E oltretutto sono fonte di profitti soltanto per una ristretta oligarchia nazionale e internazionale. Il caso del carbone nella Guajira colombiana.

La Guajira, uno dei trentadue dipartimenti colombiani, è un deserto di sabbia, vento e cactus, all’estremo Nord Est del paese. Con le sue 3mila ore di sole all’anno e i suoi venti costanti del Nord, gli Alisei, è più nota per le sue spiagge selvagge e per le tartarughe marine che per il suo potenziale minerario ed energetico. Eppure il valore delle sue esportazioni di combustibili fossili indica un ambito economico degno di grande interesse. Ben più grande di quello dei turisti nei confronti delle borse colorate tessute a mano dalle belle donne indigene della regione. Donne native come è nativo il 98% degli abitanti della zona, di cui 270mila appartengono all’etnia wayuu, uno dei gruppi della famiglia indo-americana, il maggiore di tutto il paese.

 

Vivere da Wayuu 

I Wayuu, presenti nella Guajira da più di 10mila anni e plasmati dai suoi elementi naturali, il vento, la luna, il tempo, la calma, tanto da farli confluire nei loro racconti cosmogonici, sono da sempre un popolo resistente che, nonostante gli svariati tentativi violenti di colonizzazione, ha mantenuto le proprie tradizioni e la propria lingua, il Wayuunaiki. Sparsi in piccoli villaggi dislocati su un territorio di 15mila km2 di superficie sabbiosa con una vegetazione rada, hanno fin qui vissuto di pastorizia e pesca che garantivano loro una precaria sussistenza.

Grazie a tecniche tramandate dalla loro cultura ancestrale, come lo scavo di «jagüeyes» (pozzi per accumulare le piogge), la canalizzazione dell’acqua dei fiumi per irrigare i terreni, la costruzione di case «antisismiche» con tetti di corteccia di cactus e pareti di fango e bambù, i Wayuu conquistarono palmo a palmo questa zona semidesertica, dimostrando la possibilità di sopravvivere a contatto con una natura difficile, con risorse scarse, tramite la gestione responsabile delle stesse.

El Cerrejón: la miniera, la città, il treno

L’industria mineraria colombiana cominciò a crescere a partire dagli anni ’70, quando iniziò lo sfruttamento delle riserve di gas e di carbone del sottosuolo, tra le più grandi dell’America Latina.

Nel 1976 il governo, sotto la presidenza di Alfonso Lopez Michelsen, firmò un accordo storico con la società transnazionale Intercor (oggi ExxonMobil) per sviluppare una delle più importanti operazioni minerarie di tutto il paese, quella della montagna El Cerrejón, nel Sud del dipartimento de La Guajira.

Nel 2002, il governo cedette le proprie quote alle multinazionali Bhp Billiton, Anglo American e Xstrata Glencore che – una volta costituitesi nel consorzio «Carbones del Cerrejón Limited» (www.cerrejon.com) – estesero la loro concessione di altri 25 anni. Un territorio di 69mila ettari i cui abitanti furono lasciati, di fatto, nelle mani di un colosso energetico transnazionale. Fino al 2034.

Dopo 40 anni di attività, la miniera del Cerrejón, controllata 24 ore al giorno da più di 800 guardie armate, è diventata una zona off limits. Un piccolo principato con i suoi 12mila dipendenti – tra lavoratori interni ed esterni (contractors) – che faticano senza tregua giorno e notte nei 42 hangar di mantenimento della miniera, caricatori dislocati in un’area di circa 8.400 metri quadrati. Un quartier generale di polvere nera e macchine pesanti di dimensioni abnormi con pneumatici di 4 metri di altezza e 100mila dollari di valore di mercato, che sembrano uscite da un film di fantascienza. Trattori, raschiatori, bulldozer, Caterpillar cingolati, autobotti per i liquidi, gru semoventi, scavatori, traforatrici, camion e autocarri a cassoni ribaltabili con capacità di 320 tonnellate. Ingombranti dinosauri di metallo che, con folli pulegge, pompe, rulli, pale, in questi anni di attività, hanno scavato montagne, inghiottito fiumi e sommerso interi villaggi di polvere. Tutto ciò per raggiungere la cifra di 33.700 tonnellate di carbone termico estratto ogni anno. Combustibile fossile che viene lavato quotidianamente con 17mila litri di acqua dolce e poi trasportato su una ferrovia per 150 chilometri fino a Puerto Bolivar. Qui viene stivato in navi con capacità fino a 180mila tonnellate che salpano verso Europa, America e Asia.

La costruzione della ferrovia, tagliando il territorio, ha sconvolto i rapporti tra i diversi clan della zona, mettendo in difficoltà la loro forma di organizzazione sociale e l’uso delle risorse agricole e animali locali.

È vero che grandi cartelli segnalano a caratteri cubitali il passaggio dei convogli ferroviari, ma, come dicono scherzando gli indigeni più anziani, «le capre non sanno leggere», e finiscono travolte dai vagoni, mentre le particelle nere di carbone si disperdono nell’aria, oscurando il paesaggio.

Polveri micidiali

«È solo polvere, annerisce, ma è innocua», ripetono come un mantra i responsabili del programma di miniera del Cerrejón durante una delle tante visite organizzate ad hoc per i giornalisti. Polvere nera e leggera come quella seminata dai camion che trasportano il carbone agli hangar, e che i venti Alisei del Nord disperdono nell’ambiente in una pioggia costante di particelle sospese. Particulate Matter, si chiamano, o Pm10, e sono responsabili di malattie respiratorie, problemi cardiovascolari e tumori polmonari: la silice cristallina, infatti, è un agente cancerogeno.

I responsabili di «Carbones del Cerrejón», interrogati a riguardo, minimizzano affermando di essere entro i limiti consentiti dalla legge colombiana e di avere un efficiente sistema di monitoraggio della qualità dell’aria, nonostante si oppongano a far realizzare test da società indipendenti e non al loro servizio. L’azienda cerca di mitigare la situazione usando grandi quantità di acqua, ma la misura risulta essere insufficiente. Per i lavoratori della miniera che fanno turni di 12 ore, come per le comunità circostanti, quella «polvere nera e innocua» è diventata la causa di gravi malattie. Una di esse è quella diagnosticata al piccolo Moisés Daniel Guette, figlio di Luz Angela Uriana Epiayu.

La casa di Luz Angela e dei suoi cinque figli

Luz Angela è una donna di 28 anni che, insieme ai suoi cinque figli e al suo compagno, due cani smilzi e poche capre, vive nella piccola comunità wayuu di Provincial, in una bella casa di mattoni di fango, a soli 1.500 metri dal «Tajo la Puente»: un buco nero di polvere largo due chilometri e profondo più di 100 metri, una delle zone di estrazione de El Cerrejon. Moisés, il suo piccolo di sei anni, ha gli occhi color mandorla e una storia di problemi respiratori. «Si stanca subito quando corre e ha bisogno di fermarsi perché non riesce a respirare», dice la madre che, con il solo sostegno del Colectivo de Abogados José Alvear Restrepo, sta conducendo una battaglia importante che nel 2015 ha portato il giudice di Barrancas a dare seguito a una denuncia contro il consorzio energetico. David, il figlio più grande, appena 11 anni, mostra le crepe profonde nelle pareti della sua capanna di argilla provocate dalle continue esplosioni che gli fanno fischiare le orecchie tre volte al giorno. «È il nostro terremoto 13,45, l’ora della prima esplosione della giornata», racconta con il suo lessico da adulto e gli occhi grandi da bambino: «Trema tutto, corriamo fuori per paura che ci cada il soffitto sulla testa e, una volta finito, torniamo a vedere quanti mattoni sono venuti giù». Gli anni passano e la casa non sopporterà ancora a lungo.

Si chiama «water grabbing», furto d’acqua

Luz Ángela non è l’unica a combattere il progetto del «Tajo la Puente»: ha dalla sua gran parte della comunità locale, insorta dopo aver scoperto che i lavori di apertura della nuova zona di estrazione avrebbero implicato la deviazione del corso d’acqua Arroyo Bruno. Secondo la compagnia, la deviazione dovrebbe proteggere l’alveo del torrente. Secondo i nativi, invece, mira solo a incrementare la produzione con lo sfruttamento dei 40 milioni di tonnellate di carbone che riposano appena sotto il letto del fiume. Il Bruno è uno dei 45 bellissimi torrenti che affluiscono nel fiume Ranchería. La compagnia aveva già cercato di deviarlo qualche anno fa provocando vive proteste.

Questo ennesimo progetto di deviazione di un corso d’acqua, come denuncia Jackeline Romero Epiayu, del collettivo Fuerza Wayuu, avrebbe gravi conseguenze perché, danneggiandone l’alveo e diminuendone il flusso, farebbe aumentare la siccità. Ad agosto la Corte costituzionale ha deciso di rinviare l’inizio del progetto in attesa che le cause in corso si risolvano. Ma il rinvio è una delle tante misure provvisorie che non mettono fine ai conflitti in un territorio semiarido in cui il consorzio minerario ha già prosciugato 17 fonti d’acqua e continua impunito a godere del 70% delle riserve idriche, aggravando le conseguenze del cambio climatico.

«Cerrejón Llc» utilizza 25 litri di acqua al secondo prelevandola dal fiume Ranchería, mentre gli abitanti della regione hanno diritto solo a 0,7 litri al giorno a persona.

Se i governi continueranno a investire in energie fossili, dirigeranno il mondo verso un futuro in cui la rivalità per risorse fondamentali come l’acqua diventerà sempre più disperata. Oscure profezie – come quelle lanciate da Greenpeace nel suo rapporto The Great Water Grab – che nella Guajira sono già divenute realtà, fornendo un esempio delle conseguenze negative della privatizzazione dei beni comuni. L’acqua, l’aria, la terra, sono proprio i beni per i quali i leader locali lottano, anche se minacciati dalle multinazionali. Secondo Global Witness, almeno 200 ambientalisti lo scorso anno sono stati uccisi in 24 paesi: il 60% in America Latina, nell’inerzia dei governi, spesso complici.

Sono la violenza, la corruzione e la politica a corto raggio i mali contro i quali i Wayuu quest’anno si sono ribellati occupando pacificamente i binari della ferrovia. La loro richiesta è che venga rispettata la loro autonomia politica e territoriale e che il governo intervenga per risolvere la crisi della malnutrizione della Guajira, problematica urgente che potrebbe annientare il loro popolo.

Tra malnutrizione e abbandoni

Fame, sete, siccità: parole che sembrano inappropriate nel 2017 in una regione che produce il 44,4 per cento delle esportazioni di carbone del paese. Eppure la malnutrizione peggiora, specie nell’Alta Guajira, dove la crisi offre scene surreali ai pochi visitatori della zona che – mentre percorrono in 4×4 le strade sterrate del territorio wayuu – vengono fermati a check point improvvisati con un filo di spago da bambini malnutriti e disidratati che chiedono da mangiare ottenendo qualche caramella.

Nel frattempo nella Media e Bassa Guajira, a causa della contaminazione delle acque, i nativi sono costretti ad abbandonare i villaggi, accettando – in cambio di misere compensazioni – di reinsediarsi in luoghi senza anima né fonti d’acqua, nei quali la cultura ancestrale viene annullata costringendo gli indios a trascorrere le giornate sotto il solleone aspettando invano la pioggia.

Aspettando la pioggia che non arriva

In wayuunaiki, pioggia si dice «juya», parola che può significare anche «anno», inteso come il tempo che intercorre tra una pioggia e l’altra. Ma come vengono calcolati gli anni se non piove più? Il significato originario della parola «wayuu» è «figli della pioggia», ma negli ultimi cinque anni le precipitazioni – anche a causa del fenomeno de El Niño – sono diminuite drasticamente. E quando piove, non sono precipitazioni normali, ma veri e propri cicloni che sferzano violentemente quelle lande desolate colpite da una siccità prolungata. Non riuscendo a penetrare in profondità, l’acqua inonda le coltivazioni dissestando il territorio.

I costi della svendita del territorio

Nei villaggi della Alta, dove il vento caldo soffia senza sosta tra i rami secchi e il sole incendia l’aria, donne avvolte in tessuti dai colori vivaci raccontano, con la calma di chi calcola il tempo in altro modo, le loro storie di desolante quotidianità. Storie d’impianti di potabilizzazione rotti, di mulini a vento in avaria, di cisterne che non arrivano mai, di sete, fame, disoccupazione, povertà, di mancanza di pozzi, corruzione, inquinamento delle acque, malattie respiratorie e della pelle. Nenie che nascono dalle conseguenze di un’operazione di gigantesca privatizzazione avallata da un governo miope che, in nome dello «sviluppo», ha avuto l’idea poco originale di sacrificare il territorio e i suoi abitanti, comportando enormi profitti per le corporation e scarsissimi benefici per il paese.

Infatti solo il 10% dei profitti viene utilizzato in Colombia, e l’1% in Guajira. Il «Cerrejón Llc», in 40 anni di saccheggio – o «concessione», a seconda del punto di vista -, oltre al genocidio culturale dei popoli in questione, ha causato effetti ambientali devastanti.

La strada da imboccare

Anticamente l’uomo era in grado di sopravvivere con quel poco che aveva. Le poche popolazioni indigene che sono ancora radicate sulle proprie terre sono lì, pronte a mostrarci come l’unico modo di adattarsi ai cambiamenti ambientali passi da una profonda comprensione del territorio. Motivo per cui l’Università delle Nazioni Unite nel 2016 ha deciso di convocare alcune popolazioni indigene per discutere di un loro possibile contributo alla indipendenza energetica, soprattutto attraverso le energie rinnovabili, provando finalmente a invertire il paradigma occidentale di successo, progresso e sviluppo.

Eloisa d’Orsi


La magia 1:

Le indigene wayuu e l’energia solare

Storie di donne che portano la luce

Colombia, India e un tocco d’Italia. A Nazareth – villaggio indigeno dell’Alta Guajira – un gruppo di donne di etnia wayuu è partita alla volta del «Barefoot College», in India, per imparare a produrre energia verde. Un progetto meritorio e di successo sostenuto da un’importante azienda italiana. Questa è la storia di una di loro.

La storia di Magalys Polanco, la nonna wayuu che a Nazareth dal buio creò la luce, come ogni storia che si rispetti in Colombia, ha qualcosa di quel «realismo magico» che rende la sua terra così fascinosa e imprevedibile. Tutto ebbe inizio nel 2013, quando Magalys Polanco, 65 anni e 3 figli, venne a sapere di quel tipo allampanato che si aggirava come un rabdomante per la provincia di Uríbia, in cerca di donne analfabete di una certa età che avessero il coraggio di lasciare per un certo tempo la Guajira per andare fino in India. «Ma perché mai gente di città si aggirerebbe per una regione sperduta come l’Alta Guajira in cerca di attempate madri di famiglia semianalfabete?», si chiedevano scettiche le comari indigene in coda per ricaricare il proprio cellulare all’ospedale di Nazareth, l’unico punto con energia elettrica del villaggio.

Magalys, al di là della sua terza media, è una donna curiosa e intelligente, e volle andare di persona a parlare con quell’uomo venuto da un altro mondo con promesse realmente luminose.

L’affidabilità è donna

«Perché cercate delle donne per andare fin laggiù?», gli chiese quando lo trovò. E l’uomo, di nome Rodrigo Paris, «messaggero» del Barefoot College, le raccontò che la fondazione di cui era emissario aveva scelto di coinvolgere nei suoi progetti di sviluppo sostenibile delle donne perché più ancorate al territorio di quanto non lo fossero gli uomini. Questi, infatti, di solito, una volta ottenuto il brevetto di ingegneri solari, abbandonavano il villaggio per andare in città a cercare di sfruttare economicamente la loro nuova professione. E concluse: «Si educas a un niño tendrás un hombre, si educas a una niña tendrás una aldea» (Se educhi un bambino avrai un uomo, se educhi una bambina avrai una comunità). Magalys lo ascoltò con attenzione e, pur non avvezza a concetti come quello dell’empowerment femminile, comprese che la posta in gioco non era solo imparare un mestiere, ma regalare a tutta la sua comunità energia elettrica. Si sentì chiamata in causa, ne discusse con la sua famiglia e decise di partire per recarsi al corso intensivo per ingegneri solari organizzato dal Barefoot College in Rajasthan, India.

Bunker Roy e il «collegio dei piedi scalzi»

Il Barefoot College, «collegio dei piedi scalzi», (www.barefootcollege.org) è una fondazione non profit con base a Tilonia, un villaggio del Rajastan. È un centro di lavoro sociale e di ricerca di cui esistono pochi esempi al mondo. Fu creato nel 1972 da Bunker Roy, un attivista della intellighenzia indiana. Dopo aver studiato nelle migliori università, seguendo i principi del Mahatma Gandhi secondo il quale lo spirito dell’India vive nei villaggi, invece di sfruttare i suoi studi per godersi una vita da benestante, decise di andare a vivere per un certo tempo in campagna, dove si scontrò con la violenta realtà dell’India rurale. Dopo aver toccato con mano le devastanti conseguenze della carestia del Bihar del 1960, Roy decise di regalare il suo sapere ai poveri e agli emarginati, i cosiddetti «intoccabili», che per lui erano persone degne di rispetto che andavano aiutate a mettere a frutto le proprie conoscenze. Convinto delle potenzialità della formazione come strumento di riscatto, diede il là a uno degli esperimenti sociali più interessanti dell’India contemporanea e, lavorando sulla formazione di poveri e analfabeti, riuscì a nobilitare mestieri antichi come quello delle levatrici o degli scavatori manuali di pozzi, e a responsabilizzare migliaia di persone che nessuno avrebbe mai impiegato, rivisitando dalle basi il concetto stesso di «professionalità» che – secondo Roy – è una combinazione di competenza, passione, e sicurezza per il proprio lavoro. Convinzione quella di Roy che negli anni gli fece ottenere svariati riconoscimenti come quello per l’«Imprenditorialità sociale Schwab» nel 2002, il «Premio Ashden» per l’energia sostenibile nel 2003, e nel 2005 il «Premio Skoll per l’Imprenditoria sociale», trasformandolo in una delle figure di spicco nella comunità indiana del mondo della cooperazione. La rivista Time lo ha nominato nel 2010 tra le 100 personalità più influenti del mondo.

Il Barefoot College ha formato più di 50mila bambini attraverso le scuole serali in villaggi remoti di sedici stati indiani per creare «professionisti a piedi nudi», insegnando loro a sfruttare le proprie risorse in maniera autonoma. Grazie al coinvolgimento di partner internazionali, è poi riuscito ad ampliare i suoi programmi verso regioni sperdute dell’America Latina, dell’Africa e del Medio Oriente. Il suo nuovo obiettivo ora è quello di formare più donne possibile per portare energia elettrica nei loro villaggi, rendendoli sostenibili e rafforzandone il tessuto sociale per incentivare i suoi abitanti a non fuggire verso le città.

A raccontarci tutto questo, con gli occhi pieni di rispetto e ammirazione, è proprio Rodrigo Paris, ambasciatore per l’America Latina del Barefoot College che, dopo aver trovato Magalys, è riuscito a convincere a partire alla volta di Tilonia altre donne coraggiose: Anastasia, Maria Luisa e Maria Milagros. Tutte loro, anche grazie alla partner-ship con l’italiana Enel Green Power (www.enelgreenpower.com), hanno portato elettricità a migliaia di persone di varie comunità sperdute.

Raccontare alla luce di casa Magalys

Ho scelto di andare a visitare la comunità di Magalys, all’estremo settentrionale della penisola, nella provincia di Nazareth, la più difficile da raggiungere. Per arrivarci servono diversi giorni di viaggio in cui non è mai chiaro quando si arriverà. Per la strada s’incontrano solo cactus, alberi morti e vecchi mulini arrugginiti che evocano una lontana presenza umana. Quando sono giunta con Rodrigo Paris, dopo vari incidenti di percorso come insabbiature e conseguenti salvataggi da parte di indios locali, la strada tortuosa che si arrampicava per la serra della Makuira era avvolta nell’oscurità più assoluta. Una volta giunti in cima, è apparsa fioca una luce che, oscillando, si è avvicinata sempre più fino a svelarci Magalys nel suo bel vestito bianco e nero. Dopo averci accolti sorridente nel suo rancho, la donna si è messa subito a preparare arepas con queso nella sua cucina illuminata da varie lampade a led alimentate dai pannelli solari.

«Vedi, anche solo questo momento che stiamo vivendo ora sarebbe stato impensabile qualche anno fa: passare la serata insieme chiacchierando, cucinando o tessendo. Ora i ragazzi possono studiare la sera, noi donne possiamo tessere e si può passare del tempo insieme senza doverci mettere a letto alle sette di sera per poi svegliarci alle tre del mattino. Ora sì che abbiamo capito perché in città la gente fa le ore piccole», scherzava con la sorella.

Magalys, come le altre indigene wayuu partite con lei per la grande avventura, parlava solo wayuunaiki e un poco di spagnolo. «Chi avrebbe mai potuto credere a una cosa simile? Proprio io in India. Africa», racconta, felicemente ignara delle sue lacune geografiche, commossa nella sua amaca tessuta a mano e oscillante al vento del Nord, tipico della regione. «Il viaggio è stato difficile all’inizio. Nessuna di noi capiva nulla di cosa dicessero. Pensavamo fosse hindi, poi abbiamo scoperto che era inglese». «Ripetevamo – continua la donna – cento volte le stesse parole: il nome dei componenti, delle valvole, trasmettitori, bottoni, lampade… era estenuante; pensavamo di non farcela. Le mie compagne volevano tornare a casa. Non eravamo neanche in grado di chiedere di non darci quel cibo così piccante, pensavamo davvero di aver fatto un lungo viaggio inutile. Ma a un certo punto ho capito quello strano abbinamento tra numeri e colori – ha sussultato Magalys emozionata dal ricordo -. Mi sono alzata dal mio banco e ho detto: “Teacher! Posso venire alla lavagna?”. E da allora ho cominciato ad aiutare le altre che avevano più difficoltà. E la lingua, anche con le signore che arrivavano da Zanzibar e dal Myanmar, ha smesso di essere un problema. Comunicando a gesti, siamo riuscite a fare amicizia scoprendo di avere molte cose in comune, e alla fine ci siamo anche divertite».

E così grazie a un’intuizione sagace, a vari incontri casuali, un pizzico di fortuna, molto coraggio e un metodo di apprendimento basico fatto di empatia, ascolto, gesti, ripetizioni e associazione di numeri e colori, dopo sei mesi di corso in India, le novelle ingegnere solari sono tornate in Colombia.

Le ingegnere (e i pannelli) al servizio delle comunità

Maria Luisa ha partecipato all’installazione di 35 pannelli solari a Bocas de Aracataca, nel dipartimento di Magdalena. E Magalys, già da un paio d’anni, monta valvole, gestisce e ripara i pannelli quando subiscono dei danni e ha anche imparato a ricaricare i telefoni, di modo che i membri della sua comunità non sono più costretti a fare chilometri a piedi sotto il sole per andare fino a Nazareth per la ricarica. E grazie alle conoscenze acquisite, e ai pannelli donati da Enel per il programma «Enabling Electricity», presentato al Forum del Settore privato nell’ambito dell’iniziativa «Global Compact» delle Nazioni Unite (www.unglobalcompact.org), non solo lei, ma buona parte della comunità, sta portando avanti un progetto più ampio di elettrificazione rurale in quindici comunità tramite il fotovoltaico, che mira a facilitare l’accesso all’elettricità in aree isolate come Nazareth, Wimpeshi o Uribia, rendendole comunità autosufficienti e sostenibili.

Grazie all’appoggio della Corinam International Corporation (corinam.org), le ingegnere solari infatti hanno dato vita all’«Associazione solare pedagogica» per implementare la formazione della comunità attraverso riunioni e workshop di contabilità di base, gestione del progetto, responsabilità, gestione dei conflitti. Le famiglie utilizzatrici del programma assicurano la sostenibilità del servizio e la remunerazione delle «mamme solari», tramite un contributo mensile il cui importo è stabilito collettivamente, e comunque inferiore a quello che le famiglie avrebbero speso per l’illuminazione tradizionale.

Si chiama cooperazione

Il Barefoot College gestisce il progetto, il governo indiano copre i costi del viaggio e la logistica, il settore privato mette i pannelli solari, le donne chiamate in causa mettono il loro impegno, il loro coraggio di essere catapultate in un altro mondo, e i loro mariti e gli uomini dei villaggi mettono lo sforzo che comporta accettare un ruolo nuovo della donna all’interno della loro comunità. Una circostanza, questa, che in certe società come quella wayuu (fondata sul matriarcato) ha già delle basi culturali, ma in moltissimi altri casi, specialmente in paesi del Sud, è molto facile che possa creare conflitti interni. Quello innescato dal Barefoot College è un meccanismo virtuoso di cooperazione internazionale sulle questioni relative all’energia solare che dal 2008, quando il governo dell’India ha deciso di includerlo nei suoi programmi di cooperazione internazionale, è riuscito ad addestrare 1.100 donne provenienti da 64 paesi. In Colombia, grazie a 350 impianti solari installati nella regione, è arrivato a coinvolgere 15 comunità, 1.050 famiglie e circa 3.500 beneficiari. Grazie anche all’iniziativa di Enel Green Power, dal 2012 a oggi, ha garantito l’accesso all’elettricità in 41 comunità di nove paesi dell’America Latina portando benefici a 19mila persone scommettendo non solo a favore della sostenibilità ma anche della parità di genere, favorendo l’empowerment femminile.

La sfida raccolta da queste donne indigene colombiane, grazie a questo esperimento di sapere collettivo, sta tessendo legami nella comunità e distribuendo a raggiera le conoscenze acquisite, migliorando la vita quotidiana dei beneficiari, e continuando a creare opportunità permettendo a queste donne, madri, nonne indigene di reinventare il proprio futuro e di rendendolo davvero «luminoso».

Eloisa D’Orsi


La?magia?2:

i Wayuu e la trasformazione dell’acqua

Salata, dolce, scarsa (ma sempre preziosa)

Secondo dati ufficiali sono 5mila i bambini indigeni morti negli ultimi sei anni per denutrizione e mancanza d’acqua potabile nella Guajira. Vi raccontiamo la storia di Juan Carlos Borrero Plaza, ingegnere che, per aiutare le popolazioni della regione, ha inventato un sistema per desalinizzare l’acqua.

La penisola della Guajira è una terra semiarida e, per gli indigeni che la abitano, l’acqua è sempre stata un elemento chiave. Amata, rispettata, invocata, difesa, temuta, scarseggiante e maledetta, ma pur sempre wuin (acqua). I Wayuu vivono da secoli questa contraddizione: attorniati da ogni lato dall’acqua salata dell’Oceano, hanno sempre visto scarseggiare quella dolce. Ma se prima – da nomadi e abili rabdomanti quali sono sempre stati – spostandosi alla sua ricerca, padroneggiavano quelle lande desolate, ora che si ritrovano confinati in un territorio sempre più frammentato e compromesso dall’industria mineraria, stanno letteralmente morendo di sete. Per letteralmente intendo che, secondo i dati dell’Unicef, i bambini morti negli ultimi sei anni a causa della malnutrizione sono stati 5mila, anche se secondo le autorità tradizionali la cifra potrebbe arrivare a 14mila.

Quando arrivò Juan Carlos

Vedere un bambino morire di disidratazione davanti ai propri occhi è uno spettacolo difficile da accettare, specialmente in questo secolo, e a maggior ragione per una persona come Juan Carlos Borrero Plaza, un ingegnere specializzato in approvvigionamento idrico e in energie rinnovabili. Un giorno, di ritorno da una visita al Parco Eolico di Jepirachi della Empresas Públicas de Medellín (Epm), nel bel mezzo del deserto si trovò di fronte a una donna che supplicava aiuto per suo figlio. Parlava in wayuunaiki e Juan Carlos non capiva. La guida che accompagnava lui e consorte gli spiegò che, nella Guajira, i bambini muoiono di sete. Portarono la donna e il figlio in ospedale, ma il bimbo morì: Juan Carlos rimase scioccato. Non si capacitava che esistesse un problema simile proprio nel suo paese. Promise allora a sua moglie Helga che avrebbe smesso di dedicarsi a qualsiasi altra invenzione fino a che non avesse trovato una soluzione per tutti coloro che non possono soddisfare un bisogno primario come quello dell’acqua.

L’invenzione dell’«aero-desalinizzatore»

Con 20 anni di esperienza nell’installazione di impianti di trattamento delle acque alle spalle, l’ing. Borrero sostiene che i sogni nascano nel cuore, crescano nella mente ma si realizzino con le mani. Così mantenne la sua promessa tornando nella provincia di Manaure per eradicare il problema della siccità e ridare l’acqua ai «figli della pioggia», il popolo wayuu.

Quando i capi tradizionali dei villaggi sentirono parlare quel signore con un accento caleño che sosteneva di poter estrarre acqua dolce dal sottosuolo grazie alla forza motrice del vento, pensarono che si trattasse di un incantesimo. O forse della solita fregatura di abili venditori di promesse come ne avevano già incontrati.

Succede spesso che, in una regione con grandi risorse ma minime possibilità di riscatto, le poche persone preparate, approfittino delle ricchezze a disposizione facendo aumentare esponenzialmente l’ingiustizia sociale. Ma Juan Carlos è un omone con la faccia sincera e gli indigeni di quel villaggio di 30 abitanti erano così disperati che decisero di dargli il loro assenso. Fu così che, durante i nove anni successivi, egli poté utilizzare segretamente il villaggio di Ulekumaná, in provincia di Manaure, come laboratorio a cielo aperto per mettere a punto la sua invenzione e finalmente brevettare il suo «aero-desalinizzatore». Un apparato basato sulla forza dell’energia eolica (che fornisce la pressione necessaria per aspirare acqua da pozzi) e sulla osmosi inversa che purifica l’acqua facendola passare attraverso filtri e membrane legate che ne sopprimono gli agenti patogeni. Una tecnica questa che Barrero ha messo a punto anche grazie a due viaggi di studio in Egitto e in Messico per approfondire le conoscenze della tecnologia idrica degli antichi egizi e delle civiltà precolombiane, i quali già in quei tempi remoti utilizzavano gli ioni per purificare l’acqua.

Purificare con la forza dei venti

Nella Guajira acqua ce n’è in quantità, ma quella dolce è solo circa l’1%. Purificare la linfa vitale significa dover affrontare costi ingenti e pertanto non sostenibili.

Per rendere il progetto sostenibile, gli studiosi coinvolti da Barrero si sono concentrati sul tema dell’energia che avrebbero dovuto usare per realizzare il processo di purificazione. In una regione come la Guajira, sferzata dagli Alisei del Nord, una forza della natura perenne e pulita, l’idea di utilizzare il vento è sembrata ovvia. Per sfruttarlo senza costi aggiuntivi sono stati utilizzati quei 3mila vecchi mulini a vento installati, negli anni ’50, dal governo di Rojas Pinilla. Da anni in disuso, essi languivano spettrali nel deserto. Ora invece, grazie al progetto di Juan Caros «Guajira sin sed» (Guajira senza sete), hanno finalmente ricominciato a battere le ali, riuscendo incredibilmente a vincere la sfida di rendere dolce l’acqua salata, senza l’ausilio della chimica e costi insostenibili.

Il progetto di Barrero, presentato con l’appoggio dell’Università Santiago de Cali nel 2013, oggi conta 40 aerodesalinizzatori nella zona. Essi forniscono acqua potabile a molte rancheríe (fattorie) isolate disperse per tutta la Guajira. Ogni aerodesalinizzatore – che può durare tra i 20 e i 30 anni – consente di produrre 4mila litri di acqua potabile al giorno, e aiuta a dissetare 20mila persone. Un successo che è stato certificato a livello mondiale da Unicef e dalla impresa svizzera «Sgs», leader mondiale nella verifica e certificazione. Ora che il progetto è avviato, Barrero vorrebbe riuscire a superare tutti gli impedimenti e arrivare a installare almeno 400 di questi sistemi nella Guajira.

Le potenzialità dell’idrogeno

Uomo di scienza, ma anche inventore, alchimista e soprattutto sognatore, Juan Carlos vede cose che altri non hanno la lungimiranza di vedere. Già ai tempi dell’università inventava modi per purificare l’acqua facendola bollire con raggi ultravioletti, o si faceva ispirare dal sistema digestivo delle galline per decomporre sostanze senza prodotti chimici. Non c’è da stupirsi che abbia inventato una nuova tecnica per l’idrogenasi tropicale (metodologia che spezza la molecola dell’idrogeno, ndr), che gli è fin valsa un invito alla Casa Bianca. Il gas idrogeno, che può essere ottenuto dall’acqua, ha enormi potenzialità per generare e conservare energia da usare per produrre elettricità ad un prezzo ragionevole. I nuovi catalizzatori a idrogeno potrebbero diventare un passaggio chiave nel processo di sostituzione dei combustibili fossili con fonti di energia rinnovabili.

Juan Carlos Barrero Plaza d’altra parte è convinto del fatto che le tecnologie si debbano adattare alle persone e non certo il contrario. Lui fa parte di quella ristretta cerchia di persone che in Colombia sta lottando per capitalizzare il proprio patrimonio naturale, solare ed eolico per utilizzarlo in favore delle popolazioni svantaggiate che vivono in un territorio da secoli penalizzato dalla carenza d’acqua dolce e dall’abbondanza di acqua salmastra, e che nel prossimo futuro potrebbe vedere aumentare le difficoltà in concomitanza con l’aggravarsi del cambio climatico.

Bambini da istruire

Quando non sta ideando marchingegni, Juan Carlos inventa storie per bambini, storie che gli hanno già fatto guadagnare un premio dalla «Società dei poeti» della Colombia e che lui sta cercando di pubblicare con uno sponsor per poterli regalare ai poveri, perché possano leggere e imparare come tutti gli altri.

È convinto sia fondamentale e necessario insegnare ai bambini che le nostre risorse non sono infinite e che – se non accresceranno le loro conoscenze – continueranno a subire le prepotenze di chi sa approfittare meglio delle circostanze.

«I sogni sono nati nel cuore, crescono nella mente e sono fatti con le mani. Così continuerò a lavorare, se Dio lo permette», ama ripetere Juan Carlos Borrero Plaza. Uomo di scienza, inventore, alchimista e soprattutto sognatore.

Eloisa d’Orsi


Questo dossier:

 Eloisa d’Orsi

Eloisa d’Orsi è una fotogiornalista freelance, laureata in antropologia visiva presso l’Università di Torino. Ha collaborato con varie testate quali Internazionale, L’Europeo, GEO, New York Magazine, The Guardian, El Pais, Die Zeit. Ha lavorato molto sull’America Latina, con un’attenzione particolare alla Colombia. Negli ultimi anni ha coperto il conflitto in Crimea e nella Striscia di Gaza (nel 2014), la situazione igienico-sanitaria in India e nella Repubblica democratica del Congo (nel 2016) grazie a un grant dell’European Journalism Centre. Più recentemente, grazie a una fellowship dell’Iwmf (International Women’s Media Foundation), ha realizzato questo lavoro.

Ringraziamenti

Un ringraziamento a Luz Angela Uriana e alla sua famiglia, al leader di Chancleta Wilman Palmezano Arregocés, Jackeline e Jasmine Romero Epiayù di Fuerza Mujeres Wayuu, Censat Agua Viva, Emma Banks, Avi Chomsky, Annabel Micus del Colectivo de abogados, Louise Winstanley di ABColombia, Cinep, Richard Solly, Peter Drury e Stephan Suhner di Ask (Arbeitsgruppe Schweiz-Kolumbien) e Oliver Balch e Juanita Isla di Iwmf.

I principali siti web citati:

 www.cerrejon.com; www.barefootcollege.org; www.enelgreenpower.com; www.corinam.org; www.unglobalcompact.org.

Altri link e YouTube:

Per il testo 1: stress idrico, censat.org/; diritti umani, www.colectivodeabogados.org/;
Fuerza Mujeres Wayuu; jieyuuwayuu.blogspot.it/;
speciale carbone Colombia // El Espectador; static.elespectador.com/especiales/1402-caribe/index.html.com.
Per il testo 2: Barefoot College, Bring the sun home, Anastasia Garcia, Magalys Polanco cercare su YouTube.
Per il testo 3: revistas.usc.edu.co/index.php/Ingenium/article/viewFile/312/277 e su YouTube (aerodesalinizzatore).

Foto delle copertine

In prima: Magalays Polanco illumina la sua casa.
In ultima: un gruppo di Wayuu occupano per protesta i binari della ferrovia che collega la miniera de El Cerrejón a Puerto Bolivar.

A cura di Paolo Moiola, giornalista redazione MC.




I Maya, il mistero di una civiltà perduta


Visitare lo stato messicano dello Yucatán è come tuffarsi in un mare misterioso. Il mistero, naturalmente, è quello della civiltà Maya che si sviluppò lì e nelle regioni contigue dell’America centrale (in Chiapas, Guatemala, Belize, Honduras, El Salvador) raggiungendo la sua età classica tra il 250 e il 900 dell’era cristiana. Ciò che sorprende sono le loro impressionanti realizzazioni, ma anche l’improvvisa scomparsa della loro civiltà.

Edgardo Coello, la guida che mi accompagna con grande preparazione e passione nel mio breve tour nelle terre dei Maya, afferma che le massime realizzazioni di questo popolo furono la scrittura, la matematica, il calendario e l’architettura monumentale, che lo pongono al livello delle massime civiltà della storia, come gli Egizi e i Romani. E ha ragione. Quando ci si trova di fronte alle loro piramidi, ai palazzi amministrativi, agli sferisteri o campi di pelota (il gioco rituale con una palla più importante della religione maya), alle stele e alle sculture, non si può non provare lo stesso senso di meraviglia che si prova di fronte alla grandiosa maestà delle piramidi egizie o dei massimi monumenti delle grandi civiltà di ogni continente.
E ciò che più sorprende è che tali costruzioni furono realizzate in un continente isolato dal resto del mondo dove non si conoscevano ancora la lavorazione dei metalli e l’uso della ruota. Costruzioni così grandiose indicano una forte organizzazione sociale, guidata da una gerarchia militare/sacerdotale, ma sostenuta dalla fatica di migliaia di lavoratori. Segnalano anche la maturazione di competenze architettoniche e tecniche molto evolute, tali da consentire a quegli edifici di essere assolutamente stabili ancora oggi a distanza di più di mille anni.

Le ipotesi fantasiose

L’avvento di una civiltà così straordinaria in condizioni così improbabili suscita la fantasia di molti appassionati. Alcuni arrivano a sostenere che i Maya fossero extraterrestri giunti sulla Terra per lasciare con la loro impronta un messaggio di armonia e rispetto della natura, e poi partiti improvvisamente, forse per la previsione di un periodo nefasto. Altri riprendono il mito platonico di Atlantide, isola o continente dove viveva un popolo estremamente evoluto. Il diluvio universale sommerse Atlantide e il suo civilissimo popolo si disperse in diverse aree, tra le quali non ci furono più rapporti fino all’era moderna. Questo spiegherebbe la somiglianza sorprendente tra le piramidi maya e quelle egizie, somiglianza altrimenti incomprensibile, a parere di questi interpreti, se i due popoli non derivassero da una lontana origine comune.

Piramide a gradoni di Sakkara o Saqqara in Egitto

Le piramidi

In effetti le affinità tra le piramidi maya e quelle egizie sono numerose, dalla forma (la somiglianza in questo caso è maggiore con le primissime piramidi, come quella a gradoni del faraone Zoser a Sakkara, e con gli ziggurat della Mesopotamia), alla loro funzione sepolcrale, alla presenza di simbologie astronomiche, astrologiche ed esoteriche, all’uso della pietra. In entrambi i casi si tratta di opere che stupiscono per la grande competenza costruttiva e la complessità realizzativa messe in atto da popoli che non disponevano dei potenti mezzi tecnici moderni. Nelle città maya erano molto importanti, oltre alle piramidi, altri edifici ornati con sculture e stele che, nati probabilmente come centri cerimoniali, avevano conservato un’importante funzione religiosa anche quando erano ormai abitazioni e sedi del potere politico e militare. L’evoluzione delle città comportò anche cambiamenti culturali e simbolici: le iscrizioni sui monumenti, per esempio, che in origine erano prevalentemente mitologiche o astrologiche, nel tempo si trasformarono in narrazioni di storie riguardanti le dinastie regnanti. Una grande differenza tra Centroamerica ed Egitto sta, comunque, nella cronologia: le piramidi maya furono costruite millenni dopo quelle egizie. Viste le molte somiglianze, ci si è domandato se ci sia una relazione tra le due civiltà, ma questo per ora è un quesito senza risposta.

Ziggurat di Ur

La storia

La ricostruzione degli storici è naturalmente molto diversa dalle interpretazioni fantasiose che abbiamo visto, anche se è in continua evoluzione, data la scarsità di informazioni a loro disposizione. Molti monumenti maya sono tuttora nascosti dalle foreste e il lavoro che gli archeologi devono ancora fare è enorme. La scrittura non è stata integralmente decifrata. Per non parlare degli innumerevoli documenti che sono andati distrutti a causa di secoli di guerre intestine tra le città maya e i popoli del Messico centro-settentrionale e poi per mano della colonizzazione spagnola. Nei primi decenni del XVI secolo, Diego de Landa, vescovo e inquisitore dello Yucatán, ebbe un ruolo ambiguo e contraddittorio. Da un lato distrusse codici importantissimi e proibì usanze tradizionali per sradicare quella che lui definiva l’eresia, dall’altro cercò di comprendere la cultura maya e di decifrarne la scrittura. Nacque così quello studio della civiltà maya che è tuttora in corso.

Quello che si sa è che i Maya si stanziarono in America centrale nel secondo millennio prima di Cristo e maturarono la propria cultura in un lungo periodo, detto formativo o preclassico, in cui, grazie anche al contatto con altre culture come quelle mesoamericane degli olmechi e degli zapotechi, svilupparono i principali elementi della loro civiltà. Questa raggiunse l’apogeo nel cosiddetto periodo classico, tra il 250 e il 900 d.C., quando l’organizzazione sociale si diede la forma politica di città stato rette da monarchie assolute ereditarie, spesso in guerra tra loro, ma a volte alleate. Si affermarono soprattutto le città di Tikal, in Guatemala, e di Calakmul, nel Petén, che si posero a capo di alleanze (tra loro ostili) alle quali aderirono le altre città come Palenque, Copán e Yaxchilán. Furono i secoli delle massime realizzazioni della civiltà maya.

Stele davanti a un tempio di Calakmul

La matematica, il calendario, l’astronomia

Matematica, astronomia e calcolo del tempo erano strettamente intrecciati.

Matematica

I Maya elaborarono un efficace sistema di calcolo su base vigesimale (cioè su base 20), funzionale quanto il nostro sistema decimale e forse più adatto a fare operazioni su numeri elevati. Mentre le cifre dei nostri numeri, infatti, rappresentano, da destra a sinistra, le unità, le decine, le centinaia, le migliaia, ecc., i glifi dei numeri maya erano, dal basso verso l’alto, le unità (rappresentate graficamente con dei punti, mentre le cinquine erano raffigurate con delle barrette), le ventine, i multipli di 360, di 7.200, di 144.000 e così via.

In un sistema vigesimale ci si sarebbe aspettati una serie 20-400-8.000-160.000. Il fatto che la terza cifra indichi invece i multipli di 360 deriva dal legame tra la matematica e il calendario. Venti era il numero dei giorni del mese maya e l’anno era considerato composto di 18 mesi per un totale di 360 giorni: quindi il mese si fondava sulla matematica in sé (20 giorni, secondo il sistema vigesimale) e la matematica sul calendario (la terza cifra si fonda sui 360 giorni dell’anno). I Maya – e forse ancor prima di loro gli Olmechi e gli Zapotechi – furono i primi a utilizzare lo zero, già prima dell’era cristiana, mentre gli Indiani lo scoprirono nel V secolo d.C. e gli Arabi lo ereditarono dagli Indù nell’VIII.

Astronomia

I Maya applicarono il proprio efficiente sistema di calcolo all’astronomia, dove raggiunsero risultati notevoli che stupiscono per la semplicità dei mezzi utilizzati, i quali si riducevano all’osservazione a occhio nudo e al calcolo matematico. Oltre alla precisione quasi assoluta nella determinazione dell’anno solare in 365,242 giorni, essi erano in grado di prevedere con altrettanta precisione le eclissi solari, di calcolare le rivoluzioni di Venere (pianeta al quale prestarono grande attenzione) e i cicli della luna e avevano profonda conoscenza delle stelle. Gli osservatori astronomici erano tra gli edifici più importanti delle principali città, come Palenque e Chichén Itzá.

El Caracol, osservatorio astronomico di Chichén Itzá

Calendario

Il calendario maya era molto complesso e si collegava con la matematica, con la religione e con l’astronomia. È chiaramente di origine matematica la divisione, che abbiamo già visto, del mese in 20 giorni e astronomica quella dell’anno in 18 mesi per raggiungere i 360 giorni. Ma i Maya sapevano benissimo che l’anno solare è composto di 365 giorni e una frazione, per cui ai 18 mesi aggiungevano 5 giorni, che consideravano infausti. Accanto a questo calendario civile, essi ne seguivano uno rituale, che prevedeva un anno di 260 giorni, cioè di 13 mesi di 20 giorni. E dato che il primo giorno dei due calendari coincideva una volta ogni 52 anni (cioè 18.980 giorni, laddove 18.980 è il minimo comune multiplo di 260 e 365), questo periodo era considerato un ciclo storico di estrema importanza.

I Maya avevano una concezione ciclica del tempo, ispirata dalle loro conoscenze astronomiche. Come i giorni sono cicli di dì e notte e gli anni solari cicli di stagioni, così, a livello più grande, la vita universale si divide in cicli cosmici. Essi temevano che alla fine di un ciclo potesse avvenire la fine di un mondo, sempre seguita però dalla nascita di uno nuovo. Secondo i Maya la quinta era cosmica doveva finire per il 21 dicembre 2012, giorno nel quale sarebbe iniziata la sesta era (cfr. MC 1-2/2013 p.51).

Poiché ogni era cosmica era stimata in circa 25.000 anni, è evidente che i Maya avevano un’idea dell’antichità del mondo molto più estesa rispetto al pensiero europeo dello stesso periodo storico.

Era considerato importante anche il periodo di 20 anni, detto katun. Sia la vita del singolo uomo, sia le vicende politiche erano scandite in katun, che si credevano governati dalle divinità che decidevano la fortuna favorevole o sfavorevole di ogni giornata e di ogni periodo. Il computo degli anni della storia si teneva a partire da un anno zero che coincideva con il 3.114 a.C., per motivi che sono ancora ignoti.

Un chacmool di Chichén Itzà

La religione

La religione dei Maya era un politeismo estremamente complesso, con una divinità suprema, Itzamná, circondata da un pantheon di numerosissimi dei associati ai punti cardinali, ai colori, ai numeri, ai periodi del tempo (ogni giorno ha un dio benefico o malvagio che lo governa), ai corpi celesti (Sole, Luna, Venere), agli elementi naturali (pioggia, mais, alberi, animali come il giaguaro e il colibrì). Erano particolarmente importanti il culto del dio del mais, su cui si fondavano l’agricoltura e l’80% dell’alimentazione, e della pioggia (Chac), poiché la siccità era la principale causa di carestia. Compito dell’importantissima casta sacerdotale era interpretare, servendosi anche della matematica e dell’astronomia, la complicatissima ragnatela di influenze positive e negative delle varie divinità per stabilire i giorni fausti o nefasti per ogni azione umana, dalla guerra al matrimonio, alla semina, all’incoronazione di un re.

sacro cenote di Chichén Itzà

I sacerdoti organizzavano e conducevano le cerimonie, precedute da lunghi periodi di purificazione mediante digiuno e astinenza sessuale. L’aspetto più importante dei riti religiosi, che prevedevano anche danze, banchetti e feste pubbliche, erano le offerte e i sacrifici agli dei, per ottenerne la benevolenza. Venivano offerti oggetti di valore e sacrificati animali e, per nutrire e saziare soprattutto gli dei della guerra, esseri umani. In cima alle piramidi destinate ai sacrifici umani era collocata una scultura di pietra, il chacmool, sul quale alle vittime veniva estratto il cuore ancora pulsante e offerto agli dei. I sacrifici umani erano un’antichissima tradizione mesoamericana, ma aumentarono quando i Maya furono conquistati e dominati dalle popolazioni del Nord, i Toltechi, che introdussero il culto del serpente piumato, Quetzalcoatl, che in lingua maya fu chiamato Kukulkan.

Oggetti e vittime sacrificali erano gettati anche nei sacri cenote, pozzi sacri, in genere all’interno di grotte, per ottenere il favore di Chac, il dio delle piogge, fondamentale per evitare le sofferenze della siccità. I Maya operavano anche gli autosacrifici, cioè donavano il proprio sangue agli dei, gli uomini pungendosi i genitali, le donne la lingua.

La scrittura

Non sarebbe stato possibile raggiungere risultati così profondi in matematica e astronomia se i Maya non avessero disposto di un sistema efficiente di segni per registrare, comunicare, trasmettere e sviluppare osservazioni, calcoli, teorie e interpretazioni. Essi furono la civiltà americana che elaborò il linguaggio scritto più complesso. Oltre ai segni per indicare i numeri, produssero un complicato sistema di grafemi per esprimere la loro lingua, tuttora compreso solo in parte dagli studiosi.

Nelle epigrafi sulle stele, gli architravi, le pareti e i gradini dei monumenti raccontarono prevalentemente le gesta, la vita e la storia dei regnanti delle città stato, sempre accuratamente datate, mentre nei codici (scritti in genere su fogli ricavati da pelle di cervo o da cortecce dell’albero del fico) trasmisero soprattutto le proprie dottrine religiose, astronomiche e scientifiche. Per tanto tempo gli studiosi hanno discusso se si trattasse di una scrittura fonetica (i cui caratteri, cioè, rappresentassero i suoni della lingua) o ideografica (se rappresentassero, invece, direttamente gli oggetti e i concetti). Le ricerche della seconda metà del XX secolo hanno dimostrato che si trattava di un sistema misto, in cui alcuni caratteri sono fonetici sillabici, altri ideografici.

La scomparsa

Un altro grande mistero è quello della scomparsa della civiltà Maya. Come sono stupefacenti le loro realizzazioni con i pochi mezzi tecnici di cui potevano disporre, così è sorprendente la rapidità con cui la loro civiltà scomparve. Edgardo, la mia ottima guida, sottolinea che a scomparire non fu la popolazione, che esiste ancora oggi e conta milioni di individui, ma la civiltà che si era manifestata nelle città stato e nei loro maestosi monumenti. Alla fine dell’età classica, dopo il 900, gran parte delle città furono abbandonate, al punto che la foresta le inghiottì. Ancora oggi molti monumenti e, chissà, interi centri sono sepolti o nascosti e ci vorranno tempo e finanziamenti per recuperarli. Nel cosiddetto periodo postclassico la civiltà maya sopravvisse nelle regioni settentrionali, dove, però, subirono l’invasione e il dominio dei popoli del Messico centrosettentrionale, come i Toltechi di Tula. Ci fu una fusione che produsse quella che viene chiamata la civiltà maya-tolteca, in cui ai caratteri tradizionali della cultura maya si aggiunsero una mentalità più fortemente militaristica e l’introduzione di nuovi culti.

Inizialmente ebbe un periodo di splendore ed egemonia locale la città di Chichén Itzá, dove furono costruiti monumenti di tale interesse (come la piramide detta El Castillo) da far entrare il sito nel novero delle sette meraviglie del mondo. Alla sua crisi, intorno al 1220, emerse l’ultima importante città maya, Mayapán, che esercitò il proprio dominio regionale fino al 1440. Quando nella regione arrivarono gli spagnoli (lo Yucatán fu conquistato da Francisco de Montejo nel 1541), la grande civiltà maya era pressoché scomparsa. Gli spagnoli s’impegnarono in un’opera di sradicamento di quel che era rimasto della cultura e della religione locali, distruggendo monumenti, documenti e usanze e imponendo i propri modelli culturali e la religione cattolica. Il re di Spagna affidò ai conquistatori, con l’istituzione dell’encomienda (affidamento), lo sfruttamento del territorio e degli abitanti, con l’impegno a convertire la popolazione indigena al cattolicesimo. Le antiche città maya furono sostituite da città di modello europeo, come Mérida, nuova capitale dello Yucatán.

Quali furono le cause del declino di una civiltà tanto forte? Alcuni studiosi ipotizzano cause come l’eccessivo incremento demografico, lo sfruttamento esasperato del suolo, la deforestazione, la siccità, epidemie, disastri naturali come terremoti e uragani. Altri – ed Edgardo è d’accordo con loro – ritengono più decisive le guerre tra le diverse città stato, forse rivolte interne della popolazione contadina contro la casta dominante guerriera/sacerdotale (è l’ipotesi di Eric Thompson) e, in una società già indebolita, le invasioni dei Toltechi e successivamente degli spagnoli, che diedero il colpo finale a un mondo già in crisi per ragioni interne.

I Maya oggi

Quando chiedo a Edgardo, che è orgoglioso della percentuale di sangue maya ricevuto dalla madre, che cos’è rimasto dell’antica civiltà nei milioni di Maya che ancora oggi vivono nel Messico meridionale e in altri paesi dell’America centrale, mi risponde: la lingua, il cibo (fondato sulla netta prevalenza del mais), molte tradizioni, lo sciamanesimo e abitudini, come dormire sulle amache, assolutamente adatte al clima tropicale. I Maya sono ancora un popolo fondamentalmente contadino, anche se oggi nello Yucatán si sta affermando il turismo.

Mercato “Maya” oggi

Eric Thompson, archeologo che visse diversi decenni a contatto con i Maya odierni, riassunse il loro carattere in tre parole chiave: religiosità, moderazione, obbedienza. L’antica religione maya sacralizzava ogni aspetto della natura e della vita individuale e sociale degli esseri umani. Oggi i Maya hanno assorbito la religione cristiana, ma l’hanno fusa, soprattutto nelle campagne, con le antiche credenze. Spesso i santi cristiani sono associati ad antiche divinità e le cerimonie religiose conservano aspetti dei vecchi culti. I Maya sono un popolo che ama il lavoro ed è portato a dominare le proprie passioni. Il digiuno e l’astinenza sono sempre state per loro le vie della purificazione. Solo l’alcol, da sempre presente nella loro cultura e nei rituali religiosi come mezzo per raggiungere esperienze estatiche e allucinatorie, può talvolta alterare animi altrimenti moderati e misurati. I Maya hanno tuttora un forte senso della tradizione e il culto della propria famiglia.

Anche al turista che li ha frequentati per pochi giorni appaiono come un popolo sereno, pacifico, accogliente, sorridente e molto laborioso. Come scrisse Thompson, il loro motto potrebbe essere: «Vivi e lascia vivere».

Sergio Parmentola

Sergio Parmentola insieme alla sua guida, Edgardo Coello

 

 




Ecuador: Meglio i turisti che il petrolio


Sani Isla è il nome di una comunità indigena quichua di un migliaio di persone che vive sulle rive del fiume Napo, davanti al parco nazionale Yasuní. In questi anni la comunità ha dovuto affrontare le mire espansionistiche delle società petrolifere, prima della statunitense Occidental Petroleum (Oxy), poi della ecuadoriana Petroamazonas. La prima se n’è andata, la seconda ha iniziato a operare anche all’interno del vicino Yasuní, scrigno mondiale della biodiversità e casa di alcune etnie isolate. Nel frattempo, dopo varie esitazioni, la comunità di Sani Isla ha scelto la strada del turismo ecosostenibile, dell’artigianato e della silvicoltura. Allontanando le sirene delle imprese petrolifere. Almeno per il momento.

Francisco de Orellana. Il Rio Napo è uno dei maggiori affluenti del Rio delle Amazzoni. È un fiume importante perché attraversa la foresta amazzonica ecuadoriana, costeggiando tra l’altro il Parco Nazionale Yasuní, uno scrigno inestimabile di biodiversità (nonché casa di alcune etnie indigene isolate)1. La nostra lancia a motore, partita dal piccolo molo di Francisco de Orellana (anche conosciuta come Coca), schizza veloce sul pelo dell’acqua. Ogni tanto decelera o vira con agilità per evitare tronchi di alberi che affiorano dall’acqua.

Il fiume, largo e abbastanza profondo, è percorso soprattutto da canoe e da piccole imbarcazioni a motore. Ma ogni tanto s’incrociano anche chiatte che trasportano camion legati all’industria petrolifera. È proprio il petrolio che sta mettendo a repentaglio i fragili equilibri dell’Amazzonia ecuadoriana. Lo si capisce anche da una banale osservazione dell’ambiente circostante. Non molto dopo la partenza dal porticciolo di Coca, sulla riva sinistra del Napo notiamo alcune torri petrolifere sormontate dalla tipica fiamma che brucia il gas in eccesso2. Senza dire degli sbancamenti di cui sono fatti oggetto alcuni tratti della sponda sinistra del fiume.

Avvistamenti di questo tipo per fortuna non si ripetono nelle due ore successive di navigazione: sulle due rive del Napo è pura vegetazione. A un certo punto, mentre sulla riva opposta è già territorio del Parco Yasuní, la lancia inizia a rallentare e si avvicina alla sponda sinistra dove c’è un ormeggio e una passerella. «Bienvenidos a Sani Isla», recita il cartello.

Le donne di Sani Isla

Ci accolgono quattro giovani donne, indigene dell’etnia quichua3 che abita questo spicchio d’Amazzonia ecuadoriana. Indossano semplici ma eleganti camicette colorate e gonne a falde. Una tabella di legno conficcata nel terreno spiega che a Sani Isla, con il supporto di due organizzazioni, la statunitense Rainforest Partnership e la ecuadoriana Conservación y Desarrollo, si porta avanti un progetto lavorativo per le donne della comunità.

Una signora con i capelli neri raccolti in una treccia ci spiega che qui lavorano 34 donne divise in 5 gruppi che si alternano settimanalmente. Dal 2010 le donne producono oggetti d’artigianato – collane, braccialetti, orecchini, borse di stoffa -, fatti con semi e fibre vegetali, raccolte nella foresta o appositamente coltivate. I prodotti vengono poi venduti ai turisti che arrivano dai vicini lodge (Sacha, Sani, Napo Wildlife Center) della foresta e che visitano Sani Isla.

Quello dei lodge è un turismo con un impatto ambientale contenuto sia per i numeri esigui di turisti che muove (è costoso) sia per le sue modalità ecosostenibili. In ogni caso, nessuna attività umana produce un impatto comparabile con la devastazione insita in qualsiasi attività petrolifera (esplorazione, perforazione, estrazione, trasporto, ecc.). La comunità di Sani Isla lo sa benissimo perché in passato, sul rapporto con le imprese petrolifere, si è divisa al proprio interno.

Nel 1998 i leader della comunità firmarono un accordo con l’impresa statunitense Occidental Petroleum (Oxy), per consentire l’esplorazione petrolifera sul loro territorio che si estende per 20.567 ettari legali (e altri 42.000 reclamati)4. Come compensazione ottennero la costruzione di una struttura ecoturistica, il Sani Lodge. Questo opera dall’anno 2000 ed è interamente gestito dalla comunità, che ne ricava un reddito importante. Per fortuna, la Occidental non trovò il petrolio e se ne andò. Venne però sostituita dalla ecuadoriana Petroamazonas (del gruppo Petroecuador), che già operava in zona e con la quale venne sottoscritto un nuovo accordo. Ma tra molti abitanti di Sani Isla, divenuti nel frattempo più consapevoli dei pericoli dell’attività petrolifera, iniziò a crescere il malcontento. Fu così che, nel dicembre del 2012, l’assemblea comunitaria rigettò quell’accordo, aprendo un contenzioso legale e politico tuttora in corso.

Una donna del gruppo, Mariska, ci accompagna per illustrarci il luogo e le piante che crescono qui attorno. È molto giovane e un po’ timida, ma risponde con gentilezza alle domande, anche a quelle che preferirebbe evitare. «Un tempo – spiega – la comunità lavorava con le compagnie petrolifere, adesso soltanto con il turismo, che è meglio perché non inquina».

A Sani Isla non ci sono abitazioni dato che le singole famiglie vivono lungo il Rio Napo. Qui ci sono soltanto le strutture comunitarie, alcune costruite in maniera tradizionale (con legno e tetti di frasche), altre in muratura. In mezzo un campetto da calcio, una serra, un’antenna radio. Ai lati alcuni piccoli appezzamenti coltivati con prodotti della foresta, soprattutto cacao.

Le strutture più grandi sono due semplici costruzioni in muratura dalla forma rettangolare, un solo piano, grandi finestre e tetto piatto. In una ci sono una lavagna e banchi scolastici su cui poggiano alcuni libri. L’altra, distante pochi metri, ospita un’ampia sala con sedie di plastica dove si tengono le assemblee. Sul bancone, un libro: Pachacamacpac Quillcashca Shimi, recita la copertina. Lo apriamo per capire di che tratti. È una Bibbia bilingue (spagnolo e quechua), segno che la sala è utilizzata anche per le funzioni religiose.

Nessuna compensazione vale l’inquinamento

Sulla porta di una casetta notiamo una giovane donna con un neonato in braccio. Ci avviciniamo e vediamo che la porta è quella dell’ambulatorio medico.

All’interno ci sono due persone giovani – una donna e un uomo – seduti attorno a un tavolo sul quale ci sono un misuratore di pressione, alcune boccette di disinfettante, un barattolo con batuffoli di cotone, alcuni quaderni. I due si presentano come Elizabeth Orbe e Charles Belzu, medici.

«Io sono medico comunitario – spiega Elizabeth -. Lavoro per Petroamazonas. Prestiamo servizio a tutte le comunità che stanno nella sua zona d’influenza. È un lavoro svolto in accordo con il ministero della Salute».

«Io lavoro per il ministero di Salute pubblica e sono specialista in medicina familiare – racconta Charles, boliviano e laureato a Cuba -. Veniamo di norma la domenica perché in questo giorno ci sono le riunioni della comunità. Facciamo anche delle visite alle case quando ci sono anziani o donne in gravidanza che non possono muoversi o che non hanno la possibilità economica per muoversi».

«Le patologie più comuni – spiega Elisabeth – sono problemi della pelle, respiratori e gastrointestinali. Di solito la loro causa sono le scarse condizioni igieniche».

Senza voler mettere in imbarazzo i due giovani medici chiediamo delle patologie conseguenti a inquinamento. «Per quanto ci riguarda – risponde Charles – non abbiamo riscontrato problemi dovuti a inquinamento. Il governo permette l’estrazione petrolifera, ma pretende attenzione per l’ambiente».

All’esterno, su un muro dal vivace colore arancione, una piccola targa recita: «Quest’opera fu costruita da Occidental Petroleum (Oxy) in accordo con la comunità nell’anno 2002».

«Quella adesso non c’è più. Ora c’è Petroecuador», ci dice un giovane dagli occhi arrossati seduto su una panca posta davanti all’entrata.

Parla lentamente, quasi scandendo le parole, forse perché lo spagnolo non è la sua lingua madre. «Mi chiamo Cirilo e sono un agente di salute della comunità di Sani Isla», spiega.

L’agente di salute è una sorta d’infermiere generico. «Le persone che vengono da me – racconta – hanno spesso problemi di pelle a causa di mosquitos e zancudos. E poi c’è la questione dell’acqua: qui non c’è acqua potabile. Dobbiamo purificarla o comprarla a Coca. Quanto ai medici vengono soltanto la domenica».

Chiediamo a Cirilo di questo rapporto ambiguo con le compagnie petrolifere. Lui non ha dubbi ribadendo più volte e senza tentennare: «Vengono qui e inquinano. Noi dobbiamo essere molto duri nei loro riguardi».

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Le acque del Rio Napo

In una capanna senza pareti alcune donne stanno preparando il cibo su una grande griglia scaldata da un fuoco di legna. Sopra cuociono platano (banana da cottura, ndr), tuberi di yucca e alcune varietà di semi.

In un angolo, accanto alle amache in cui sono adagiati due neonati, un’altra donna indigena, accovacciata a terra, sta pulendo pesce del Rio Napo. Il fiume però non è più pescoso come un tempo. Difficile dire se a causa del super sfruttamento o per l’inquinamento delle sue acque causato da sversamenti di petrolio (derrame de crudo). L’ultima emergenza resa pubblica risale al giugno del 2013 quando le acque inquinate del Napo arrivarono fino alla provincia di Maynas, foresta amazzonica del Perù.

Paolo Moiola

 Note

(1) Il Rio Napo nasce alle falde del vulcano Cotopaxi. Confluisce nel Rio delle Amazzoni dopo circa 1.130 chilometri, gli ultimi 667 in territorio peruviano.
(2) La pratica è nota come «gas flaring».
(3) La scrittura: Quichua o Kichwa per l’etnia, Quechua per la lingua.
(4) Fonte: Rainforest Partnership, The Sani Warmi Project, 2013.


Amazzonia

Tra sfruttamento e preservazione

Più l’ambiente è delicato, più la presenza umana produce un impatto rilevante. Come fare per impedire lo sfruttamento delle risorse dell’Amazzonia? Come fare se l’interesse particolare di un paese (Ecuador, Brasile, Perù e altri paesi amazzonici) è in conflitto con quello generale della comunità internazionale? E che dire dei diritti dei popoli indigeni che l’Amazzonia la abitano?

Nel 2007 Rafael Correa, all’epoca presidente dell’Ecuador, lanciò una proposta rivoluzionaria nota come «Iniciativa Yasuní-Itt». Le ingenti riserve petrolifere del Parco Yasuní sarebbero rimaste nel sottosuolo se la comunità internazionale avesse contribuito a dare all’Ecuador almeno la metà delle entrate che il paese avrebbe ricavato sfruttando quei giacimenti. In questo modo si sarebbe salvaguardata una delle maggiori riserve mondiali di biodiversità, evitando nel contempo di immettere nell’atmosfera altre quantità di anidride carbonica.

I fondi raccolti furono però molto esigui rispetto a quanto previsto dal governo ecuadoriano. Pertanto, nell’agosto del 2013, Correa, ancora presidente, annunciò la fine del progetto e l’inizio dello sfruttamento del petrolio dello Yasuní, pur limitato – spiegò – all’1 per cento della superficie del parco nazionale.

L’idea – sicuramente rivoluzionaria – non ebbe successo un po’ per demerito del governo ecuadoriano, molto per lo scarsissimo contributo della comunità internazionale. Oggi lo sfruttamento del petrolio del Yasuní è iniziato e le prospettive non sono rosee, perché i danni – pur occultati – già iniziano a vedersi.

Il disastro brasiliano – In Brasile, paese che possiede la maggior parte dell’Amazzonia (circa il 64% dell’estensione totale), la situazione è ancora più drammatica, come certificano gli studi dell’istituto Imazon (Instituto do Homem e Meio Ambiente da Amazônia) e i dati satellitari dell’Inpe (Instituto Nacional de Pesquisas Espaciais). Il disboscamento (desmatamento) annuale è diminuito dal 2004 (quando raggiunse la cifra record di 27.800 Kmq, con un aumento del 100% rispetto al 1997) al 2012 (4.700 Kmq), ma successivamente ha ripreso ad aumentare in maniera preoccupante. Stando ai dati ufficiali, nel 2016 il disboscamento è stato di circa 8.000 chilometri quadrati (un’area vasta come la regione Friuli Venezia Giulia). Le ricerche attestano che la causa principale del disboscamento è l’allevamento bovino, seguito dalle piantagioni di soia.

Particolare versus generale – I paesi amazzonici dichiarano che la loro sovranità è un diritto intangibile anche quando si parla di Amazzonia. In base a questa considerazione affermano di avere il diritto di decidere cosa fare dell’ambiente amazzonico e delle sue ricchezze. Dimenticando però che quello stesso diritto dovrebbe essere riconosciuto ai popoli indigeni, abitanti originari di quei territori.

Conoscere per difendere – La preservazione dell’Amazzonia è un obbligo indiscutibile, a maggior ragione in tempi di drammatico cambiamento climatico. Trovare e mettere in essere una difesa efficace senza privare i paesi amazzonici di opportunità di crescita è un problema aperto e di non facile soluzione. Il mercato internazionale delle emissioni (per esempio, quello del programma Redd, Reducing Emissions from Deforestation and Forest Degradation) è ancora embrionale e presenta aspetti ambigui. L’ecoturismo, pur non esente da impatti ambientali, può essere un’attività economica accettabile se adeguatamente regolamentata. Anzi, può diventare uno strumento utile per far conoscere la bellezza del mondo amazzonico. E quindi per aiutare a difenderlo dalle innumerevoli minacce esterne, in primis dallo sfruttamento indiscriminato delle sue ricchezze.

Paolo Moiola

 

Archivio MC

Tra gli articoli più recenti sull’Ecuador segnaliamo:

  • I dieci anni di Rafael Correa, maggio 2016;
  • L’alunno e il professore, giugno 2016;
  • La maledizione del petrolio, luglio 2016;
  • Una storia troppo sporca, agosto-settembre 2016.

Tutti gli articoli sono firmati da Paolo Moiola.

Siti web

  • yasunidos.org -è la Ong ecuadoriana che difende il Parco Yasuní.
  • rainforestpartnership.org – è la Ong statunitense che si occupa di salvaguardia delle foreste pluviali e che sostiene anche il progetto Sani Isla.

Videoreportage

Un videoreportage sul Río Napo e su Sani Isla è visibile su YouTube sul canale di Paolo Moiola: www.youtube.com/user/pamovideo




Parchi e Diritti Umani:

Conservazionismo vs Popoli Indigeni


La Conservazione della Natura versus i Diritti dei popoli

«Occhi e orecchie» della foresta
Quando i parchi «sfrattano» i popoli

Origini e fondamenti della teoria della «conservazione»
Se i parchi violano la legge

Leggi nazionali versus trattati internazionali

Contro il bracconaggio (ma per i diritti umani)

Due casi: i Pigmei Baka del Camerun e i Boscimani del Botswana

I parchi hanno bisogno di loro
I popoli indigeni sono i migliori «conservazionisti»

Natura: né vergine né selvaggia

La Campagna di Survival International

* Per tutti gli studi e le ricerche citati qui di seguito, rimandiamo al corposo apparato di note presente nel rapporto di Survival International, Parks need peoples. I parchi hanno bisogno dei popoli, da cui questo dossier è stato tratto. Il documento in .pdf può essere facilmente scaricato.


«Occhi e orecchie» della foresta

Quasi tutte le aree protette del mondo, siano esse parchi nazionali o riserve faunistiche, sono o sono state le terre natali di popoli indigeni che oggi vengono sfrattati illegalmente nel nome della «conservazione». Con questo termine si intende un’ideologia che auspica il mantenimento della qualità di un determinato ambiente e delle risorse naturali, degli ecosistemi e della biodiversità a esso relazionati, tramite la creazione di aree protette e parchi naturali. Gli sfratti possono distruggere sia la vita dei popoli indigeni sia l’ambiente che essi hanno plasmato e salvaguardato per generazioni.

Spesso le terre indigene sono erroneamente considerate «selvagge» o «vergini» anche se i popoli indigeni le hanno vissute e gestite per millenni. Nel tentativo di proteggere queste aree di cosiddetta wilderness, governi, società, associazioni e altre componenti dell’«industria della conservazione» (nel senso che in molti paesi la conservazione è diventata un settore economico significativo) si adoperano per farne «zone inviolate», libere dalla presenza umana.

Per i popoli indigeni, lo sfratto può risultare catastrofico. Una volta cacciati dalle loro terre, perdono l’autosufficienza. E se prima prosperavano, dopo spesso si ritrovano a vivere di elemosina o degli aiuti elargiti dal governo nelle aree di reinsediamento.

Una volta privato di questi suoi tradizionali guardiani indigeni, anche l’ambiente può finire per soffrire perché bracconaggio, sfruttamento eccessivo delle risorse e grandi incendi aumentano di pari passo con il turismo e le imprese.

L’80% della biodiversità terrestre si trova nei territori dei popoli indigeni, e la stragrande maggioranza dei 200 luoghi a più alta biodiversità sono terre indigene. Non è un caso.

Avendo sviluppato stili di vita sostenibili, adattati alle terre che abitano e amano, i popoli tribali (o nativi) hanno contribuito direttamente all’altissima diversità di specie che li circonda, a volte nel corso di millenni.

Come disse Martin Saning’o Kariongi, un anziano Masai della Tanzania, al World Conservation Congress del 2004, «le nostre tecniche di coltivazione impollinano numerose specie di semi e mantengono canali di comunicazione tra gli ecosistemi. Noi eravamo i conservazionisti originari».

In Amazzonia, ad esempio, studi scientifici* basati su immagini satellitari dimostrano che i territori indigeni, che coprono un quinto dell’Amazzonia brasiliana, sono di vitale importanza per fermare disboscamento e incendi, e costituiscono la barriera più importante alla deforestazione. Effetti simili si registrano nell’Amazzonia boliviana, dove la deforestazione è sei volte minore nelle foreste comunitarie, e in Guatemala (venti volte minore). Il futuro successo della conservazione dipende quindi dai popoli indigeni.

Survival International

Quando i parchi «sfrattano» i popoli

Origini e fondamenti della teoria della «conservazione»

Le aree protette sono pensate per conservare flora e fauna, ma spesso dimenticano gli uomini. Popoli, abituati da sempre a vivere in simbiosi con l’ecosistema, sono obbligati a lasciare le loro terre. Diventano così dei rifugiati, costretti a vivere di donazioni. E dietro a tutto questo ci sono una ideologia e una storia precisa.

Le aree protette, siano esse nella forma di parchi nazionali, aree di conservazione, riserve naturali o altro, sono create per tutelare flora e fauna, non gli uomini. Nel mondo esistono oggi oltre 120.000 aree protette, pari al 13% della terra emersa.

Le aree protette si differenziano per il grado di restrizioni a cui sono soggette ma, spesso, chi dipende dalle risorse dei parchi si vede ridurre drasticamente ogni attività. I popoli indigeni devono cambiare stile di vita e/o trasferirsi altrove, il legame con i territori e i mezzi di sostentamento viene reciso, e le possibilità di scelta che vengono lasciate loro sono spesso nulle, o quasi.

Oltre il 70% dei parchi tropicali sono abitati*. Una fetta ancor più grande dipende dalle comunità che li circondano. Eppure, quando questi popoli vengono cacciati dai loro territori, convertiti in parchi, è perché improvvisamente vengono considerati «nemici della conservazione», per usare le parole dell’anziano Masai Kariongi.

Il lato oscuro della conservazione

L’idea di preservare le aree di «wilderness» attraverso l’espulsione dei suoi abitanti nacque in Nord America nel XIX secolo. Si fondava su una lettura arrogante del diritto alla terra che mancava completamente di riconoscere il ruolo giocato dai popoli indigeni nel plasmare e alimentare la stessa. La convinzione era che a sapere cosa fare per il bene dell’ambiente fossero gli scienziati conservazionisti e che essi avessero il diritto di liberarlo dalla presenza di qualsiasi essere umano.

A promuovere questo modello esclusivista dei parchi nazionali fu il presidente Theodore Roosevelt. Si adattava perfettamente alla sua visione: «La più giusta fra tutte le guerre è quella contro i selvaggi, sebbene si presti anche a essere la più terribile e disumana. Il rude e feroce colono che scaccia il selvaggio dalla terra rende l’umanità civilizzata debitrice nei suoi confronti. È d’importanza incalcolabile che America, Australia e Siberia passino dalle mani dei loro proprietari aborigeni rossi, neri e gialli, per diventare patrimonio delle razze dominanti a livello mondiale».

Il primo parco nazionale della storia fu Yellowstone, negli Stati Uniti. Quando fu creato, nel 1872, ai nativi, che vi vivevano da secoli, fu inizialmente permesso di restare, ma cinque anni dopo furono costretti ad andarsene. Ne scaturirono battaglie tra le autorità governative e le tribù degli Shoshone, dei Blackfoot e dei Crow. In una sola battaglia si dice morirono 300 persone*.

Dettagli storici come questo vengono spesso omessi o imbellettati per preservare il fascino del parco. Tuttavia tale modello di conservazione fondato sugli sfratti forzati è diventato consuetudine in tutto il mondo, con impatti devastanti non solo per i popoli indigeni ma anche per la natura.

Chi c’è dietro gli sfratti

Riportiamo una citazione del 2003 di Mike Fay, influente ecologista della Ong Wildlife Conservation Society (Wcs), pubblicata dal giornalista Mark Dowie: «Teddy Roosevelt aveva ragione. Nel 1907, quando gli Stati Uniti si trovavano a un livello di sviluppo paragonabile a quello del bacino del fiume Congo oggi, il presidente Roosevelt istituì 230 milioni di acri di aree protette facendone un pilastro della sua [politica interna]… In pratica, il mio lavoro nel bacino del Congo è stato quello di cercare di riprodurre il modello statunitense in Africa».

Il presidente Roosevelt aveva torto. Ciò nonostante, oggi, la sua teoria continua a influenzare molte importanti organizzazioni conservazioniste, con impatti devastanti. Sfrattare intere popolazioni dalle zone protette comporta costi ingenti, sia in termini di denaro sia di reputazione. Quindi perché i governi lo fanno? Le principali ragioni sono le seguenti.

  • Paternalismo e razzismo: alcuni governi hanno sfrattato i popoli nativi dai parchi nel tentativo, paternalista e razzista, di costringerli ad assimilarsi al resto della società. La rimozione dei Boscimani dalla Central Kalahari Game Reserve del Botswana, ad esempio, è stata in parte dovuta a questo atteggiamento e all’accusa infondata rivolta ai Boscimani che cacciassero troppi animali.
  • Turismo: gli sfratti vengono giustificati anche nell’interesse del turismo – altamente lucrativo – e nella convinzione che i turisti vogliano vedere solo flora e fauna selvatica, non persone.
  • Controllo: molti governi aspirano al controllo supremo sia dei territori sia della popolazione; separando gli indigeni diventa più facile raggiungere l’obiettivo.

Le organizzazioni internazionali per la conservazione alimentano gli sfratti incoraggiando i governi a intensificare le operazioni di polizia e protezione. A volte i governi trasferiscono questi poteri alle organizzazioni stesse, che in tal modo acquisiscono il diritto di arrestare e sfrattare. Storicamente, la maggioranza di queste organizzazioni conservazioniste è stata gestita da biologi la cui preoccupazione per habitat e singole specie prevale sulla capacità di apprezzare il modo in cui interi ecosistemi sono stati alimentati e custoditi dai popoli indigeni, che dovrebbero quindi essere i partner principali nella loro conservazione.

Un esempio. Nel 1995, l’Ong World wildlife fund (Wwf) India presentò una mozione al governo indiano per rinforzare la legge Wildlife protection Act, allo scopo di proibire tutte le attività umane nei parchi. La Corte suprema acconsentì e ordinò alle autorità statali di rimuovere tutti i residenti dai parchi entro un anno. Una richiesta totalmente irrealistica. Non fu fatto alcun accenno ai diritti e ai bisogni dei circa quattro milioni di persone che abitavano la vasta rete di aree protette dell’India, per la maggior parte Adivasi (indigeni). Oggi queste comunità convivono con la minaccia costante di sfratto, sottoposti senza sosta a persecuzioni, minacce e pressioni affinché abbandonino i parchi.

Un problema mondiale

«L’istituzione di aree protette nei territori indigeni, fatta senza il nostro consenso né il nostro coinvolgimento, ha provocato la spoliazione e il reinsediamento dei nostri popoli, la violazione dei nostri diritti, lo sfratto delle nostre comunità, la perdita dei nostri luoghi sacri e il lento ma continuo sgretolarsi delle nostre culture, nonché l’impoverimento…», dalla «Dichiarazione dei delegati indigeni» al Congresso mondiale dei parchi del 2003. È estremamente difficile quantificare l’entità degli sfratti dai parchi perché in molte aree non esistono dati, mentre in altre non sono attendibili. Alcuni esempi danno un’idea dell’ordine di grandezza del problema.

  • Africa: uno studio* sui parchi centroafricani stima che le persone sfrattate siano più di 50.000, molte delle quali sono popoli tribali. Altri studi parlano di milioni*.
  • India: nel 2009 vengono stimate* in 100.000 le persone sfrattate dai parchi, oltre a numerosi milioni privati in toto o in parte dei loro mezzi di sostentamento e sopravvivenza. Nei parchi nazionali dell’India, che negli ultimi anni si sono espansi considerevolmente, vivono tra i tre e i quattro milioni di persone, su cui pende costantemente la minaccia di sfratto.
  • Thailandia (situazione simile nel resto del Sud Est asiatico): le persone minacciate di sfratto nel nome della protezione di foreste e bacini idrografici sono mezzo milione*.

Anche se è impossibile dare numeri precisi, le persone sfrattate dalle loro case nel nome della conservazione, o che vivono sotto la minaccia incombente di sfratto, sono molti milioni nel mondo. La maggior parte sono indigeni.

Alla base ci sono presupposti non scientifici secondo cui i popoli tribali non sarebbero in grado di gestire le loro terre in modo sostenibile, perché cacciano, pascolano e utilizzano le risorse dei territori in modo eccessivo. Ma c’è anche la volontà, sostanzialmente razzista, dei governi di integrare, «modernizzare» e soprattutto controllare i popoli tribali dei loro paesi.

Vengono quindi varate politiche nazionali che implicano lo sfratto degli indigeni e forzano i popoli dipendenti dalle foreste a imparare modi diversi di vivere. Gli orticoltori a passare all’agricoltura intensiva, i nomadi a sedentarizzarsi e popoli che hanno sempre agito collettivamente ad accettare titoli personali di proprietà su piccoli appezzamenti di terra o «pacchetti di risarcimento». Tutto ciò equivale a trasformare popoli indipendenti e autosufficienti in «beneficiari» dipendenti che, si presume, si inseriranno nella società dominante.

Anziché celebrare e valorizzare il fatto che i popoli indigeni sono «gli occhi e le orecchie» della foresta, la loro diversità viene usata per giustificare sfratti e molestie. Quando gli habitat vengono degradati o alcune specie si estinguono, il dito viene spesso puntato contro i popoli indigeni invece che contro i veri colpevoli, politicamente più impegnativi: bracconieri, contrabbandieri di legname, minatori illegali, imprenditori turistici – tutti dotati di potenti alleati – o grandi infrastrutture come silvicolture, miniere e dighe.

Sfratti eccellenti

Tra i molti esempi possibili, significativo è quello della riserva delle tigri di Kanha, Madhya Pradesh, India.

  • Nel nome della conservazione della tigre, migliaia di Baiga e Gond sono stati sfrattati illegalmente e con la forza dalla riserva indiana di Kanha* (luogo in cui è ambientato il famoso «Libro della giungla» di Kipling). Le famiglie sono state perseguitate per anni affinché lasciassero la riserva. Nel 2014 centinaia di persone sono state sfrattate. Hanno ricevuto denaro, ma né terra né aiuto per ristabilire le loro vite all’esterno. Intere comunità sono state distrutte.
  • Altro caso è quello dei Boscimani della Central Kalahari Game Reserve, Botswana*. Nel 2002 ai Boscimani fu detto che sarebbero stati rimossi dalla riserva ai fini della «conservazione», ma prima ancora che gli sfratti avessero luogo furono attuati test di prospezione mineraria, e dopo il loro sfratto fu inaugurata una miniera di diamanti.
  • I Masai di Loliondo, Tanzania settentrionale erano stati minacciati di sfratto con il pretesto della necessità di creare un corridoio di collegamento tra i due parchi nazionali Serengeti e Maasai Mara. Poi, però, la terra fu data in locazione a una compagnia di safari di caccia.

Rifugiati a casa loro

Che si tratti di miniere, dighe o progetti di conservazione, sfrattare gli indigeni dalle loro terre ha sempre gli stessi devastanti effetti: da un giorno all’altro popoli prima autosufficienti si trasformano in rifugiati. Strappati dalle loro terre e dalle risorse che le sostentavano, si ritrovano all’improvviso a dover dipendere da sussidi ed elemosina. Le comunità sprofondano nella povertà: cattive condizioni di salute, malnutrizione, alcolismo e malattie mentali. Relegati ai margini della società dominante, spesso la loro presenza è mal tollerata dai nuovi vicini, con cui emergono conflitti e tensioni sociali.

I popoli indigeni non sono gli unici a essere sfrattati dalle aree protette, ma sono quelli che ne soffrono immensamente di più. La ragione è che per sopravvivere dipendono completamente dalla terra in cui vivono e dalle sue risorse, e non hanno fonti di reddito. Per loro, la terra è tutto e non può essere rimpiazzata anche in virtù del profondo legame storico e spirituale che li unisce a essa.

Nelle parole dell’antropologo Jerome Lewis: «Ai contadini che, da quando (fu ufficializzato il Mgahinga National Park, in Uganda) negli anni ’30, avevano distrutto parte della foresta per costruire le loro fattorie, furono riconosciuti i diritti territoriali e ricevettero gran parte dei risarcimenti disponibili. I Batwa, invece, che avevano posseduto quella foresta per generazioni senza danneggiarne flora e fauna, avrebbero potuto ottenere qualche indennizzo solo se avessero agito come quegli agricoltori, distruggendo appezzamenti di foresta per trasformarli in campi. Un classico caso di mancato riconoscimento dei diritti alla terra dei popoli cacciatori-raccoglitori».

Le famiglie tribali raramente ricevono compensi adeguati – se mai ne ricevono – per tre principali ragioni:

  1. In quanto società non statali, spesso i popoli indigeni non compaiono nei censimenti ufficiali. Quando esistono dati demografici, nel migliore dei casi sono inattendibili. I governi spesso ignorano i diritti consuetudinari e informali dei popoli indigeni che fanno quindi molta fatica a difendersi ricorrendo ad azioni legali.
  2. Nei confronti della caccia, della raccolta e della pastorizia nomade, spesso praticate dai popoli tribali, vige una diffusa forma di razzismo, che li dipinge come arretrati rispetto ai contadini stanziali. Dei coltivatori si dice che abbiano migliorato la terra e per questo viene riconosciuto loro un risarcimento se la perdono a causa di sfratti o trasferimenti. Al contrario, alle tribù che non hanno costruito strutture permanenti né coltivato cereali e ortaggi, non viene riconosciuta alcuna proprietà fisica da risarcire. Ironicamente, è proprio il fatto che non siano state «migliorate» a rendere le loro terre tanto appetibili agli occhi dei conservazionisti.
  3. Non esiste risarcimento che possa compensare il legame che unisce i popoli indigeni alle loro terre. «Prima ci impoveriscono togliendoci la nostra terra, la caccia e il nostro stile di vita. Poi ci dicono che non contiamo niente perché siamo poveri», Jumanda Gakelebone, Boscimane, Botswana.

Survival International

Se i parchi violano la legge

Leggi nazionali versus trattati internazionali

Le leggi che istituiscono i parchi sono spesso in grave violazione di trattati e convenzioni internazionali sui diritti dei popoli nativi. Questi spesso non hanno i titoli formali delle loro terre. Sono così facilmente espulsi e perdono ogni possibilità di sussistenza. Gli schemi alternativi proposti finiscono per creare un circolo di dipendenza.

Alcune leggi nazionali fanno riferimento alla creazione di aree protette «inviolabili». Tuttavia, la legge internazionale vieta esplicitamente a governi e altre organizzazioni di violare i diritti dei popoli, per qualsiasi motivo, anche la conservazione.

La maggior parte delle aree protette si trova in terre su cui i popoli indigeni hanno diritti consuetudinari o informali anziché titoli cartacei di proprietà registrati ufficialmente. Nonostante ciò, il loro rapporto con quelle terre è antico risalendo indietro nel tempo a un numero incalcolabile di generazioni e i legami economici, culturali e spirituali che hanno con esse sono molto profondi. Affinché i popoli indigeni possano sopravvivere è di cruciale importanza che i loro diritti territoriali siano rispettati, perché tutti i loro diritti umani derivano da questo. Se i loro diritti alla terra vengono violati, i popoli indigeni non possono godere nemmeno dei diritti umani fondamentali.

Convenzioni violate

Tra i diritti più spesso violati con la creazione dei parchi se ne conta una serie riconosciuta ai popoli indigeni dalla «Convenzione internazionale sui diritti civili e politici», in particolare:

  • all’autodeterminazione (articolo 1.1);
  • a non essere privati dei mezzi di sussistenza (articolo 1.2);
  • a non essere sottoposti a interferenze arbitrarie o illegittime nella propria casa (articolo 17.1);
  • alla libertà di religione (articolo 18.1);
  • a vivere la propria cultura in comune con gli altri membri del proprio gruppo (articolo 27).

In quanto popoli indigeni, essi hanno poi un’altra serie di diritti, individuali e collettivi, sanciti dal diritto internazionale: la «Convenzione 169» dell’Organizzazione internazionale del lavoro e la «Dichiarazione dei diritti dei popoli indigeni» delle Nazioni Unite. Tra questi ci sono il diritto alla proprietà collettiva della terra e il diritto a dare o negare il consenso a progetti che hanno un impatto sulle loro terre.

Recinzioni, multe e intimidazioni

Una volta tracciati i confini di un parco, le comunità si vedono improvvisamente negare l’accesso ai luoghi di culto e sepoltura, alle piante medicinali necessarie e, in generale, ai mezzi di prima necessità, come cibo e combustibile per cuocere o prodotti della foresta da scambiare con altri gruppi.

Nel giro di qualche ora, perdono tutte le risorse che sostenevano la tribù da tempo immemorabile. Se cacciano, sono accusati di bracconaggio; se vengono sorpresi a raccogliere prodotti della foresta, rischiano multe o addirittura il carcere. La comunità si ritrova assoggettata ai capricci di guardaparco incuranti delle politiche ufficiali che magari le garantiscono il diritto a un «uso sostenibile» delle risorse.

In alcuni casi, vengono messe in atto iniziative speciali per cercare di compensare queste perdite attraverso «schemi alternativi di sussistenza» o «attività generanti reddito»*. Benché talvolta venga lasciata una possibilità di scelta, l’opzione di mantenere e potenziare ulteriormente la strategia tradizionale di sussistenza non viene praticamente mai presa in considerazione. Al contrario, questi progetti, molto spesso, non si curano di quali siano le vere necessità della tribù e impongono cambiamenti e integrazione. Spesso non offrono soluzioni a lungo termine in grado di compensare davvero la dipendenza sostenibile che la tribù aveva prima con la sua terra; al contrario, spingono le comunità verso un nuovo e insostenibile circolo di dipendenza dai meccanismi esterni.

Survival International

Contro il bracconaggio
(ma per i diritti umani)

Due casi: i Pigmei Baka del Camerun e i Boscimani del Botswana

I Pigmei Baka in Camerun

Nella guerra contro il bracconaggio, i Pigmei1 Baka del Camerun si trovano spesso nel mezzo di fuochi incrociati. E come loro i Pigmei Bayaka e decine di altri popoli della foresta, vengono trattati come bracconieri perché cacciano per nutrire le loro famiglie, come hanno fatto per generazioni, o semplicemente perché osano entrare nelle aree protette create nelle loro terre ancestrali. Subiscono arresti, pestaggi, torture e morte per mano dei guardaparco. Questi sono finanziati ed equipaggiati allo scopo di proteggere i parchi da organizzazioni come il World Wildlife Fund (Wwf) e la Wildlife Conservation Society (Wcs) che sono a conoscenza degli abusi da più di un decennio ma non li hanno fermati2.

Survival International ha ricevuto l’appello di molti indigeni da Camerun, Repubblica Centrafricana e Repubblica democratica del Congo che hanno denunciato gli abusi subiti. Un uomo Baka, ad esempio, ha raccontato a un ricercatore di Survival che i guardaparco lo hanno picchiato e poi hanno ribaltato il letto dove stava dormendo il figlio neonato, gettandolo violentemente a terra. Il bambino è morto poco dopo; i suoi genitori non avevano nemmeno avuto il tempo di dargli un nome.

Ma la violenza fisica è solo una parte degli abusi che i Pigmei e i loro vicini subiscono nel nome della conservazione. I guardaparco bruciano regolarmente gli accampamenti di caccia e raccolta, annientando in questo modo la forza vitale dei Baka, rubano la frutta e la verdura raccolte, il pesce pescato, le loro stoviglie e i loro attrezzi. I Baka vengono così sfrattati illegalmente dalle loro terre ancestrali in cui non possono più vivere come prima, e molti denunciano che la loro salute sta peggiorando visibilmente a causa della malnutrizione, delle nuove malattie e della perdita di accesso alle medicine della foresta.

Nel febbraio 2016 Survival ha presentato un’istanza formale al Punto di contatto nazionale svizzero dell’Ocse (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico) in merito alle attività del Wwf in Camerun. Secondo Survival, il Wwf ha collaborato alla creazione di aree protette, anche se il governo aveva mancato di ottenere il consenso libero, previo e informato delle comunità sui progetti di conservazione avviati nelle loro terre ancestrali. A dicembre, con una decisione senza precedenti, il Punto di contatto ha ritenuto l’istanza meritevole di approfondimento. È la prima volta che un’organizzazione no profit come il Wwf viene esaminata in questo modo.

I cacciatori Boscimani del Botswana

«Mi siedo e mi guardo attorno. Dovunque ci siano i Boscimani, c’è selvaggina. Perché? Perché noi sappiamo come prenderci cura degli animali. Sappiamo come cacciare, non ogni giorno ma secondo le stagioni», Dauqoo Xukuri, Boscimane, Botswana. Storicamente, i Boscimani dell’Africa meridionale erano cacciatori-raccoglitori. Oggi, la maggior parte delle comunità sono state costrette ad abbandonare questo stile di vita, ma la Central Kalahari Game Reserve del Botswana (Ckgr) è ancora la casa dove gli ultimi Boscimani possono vivere in gran parte di caccia. Nel 2006, dopo una lunga battaglia legale contro il governo, l’Alta corte ha confermato il loro diritto a vivere e cacciare nella riserva.

Nonostante la sentenza, tuttavia, da allora i funzionari non hanno rilasciato ai membri della tribù nemmeno una licenza. La caccia di sussistenza praticata dai Boscimani è stata equiparata al bracconaggio commerciale. A decine sono stati arrestati semplicemente per aver cercato di sfamare le loro famiglie.

Survival riceve molte segnalazioni di Boscimani torturati fino dagli anni ‘90. Nel 2012, due Boscimani sopravvissero alle torture inflitte loro dalle guardie del parco perché avevano ucciso un’antilope.

Survival chiede al governo del Botswana di fermare i violenti abusi commessi contro i Boscimani e riconoscere il loro diritto di cacciare nella terra ancestrale.

Survival International

Note

1- «Pigmei» è un termine collettivo usato per indicare diversi popoli cacciatori-raccoglitori del bacino del Congo e di altre regioni dell’Africa centrale. Il termine è considerato dispregiativo e quindi evitato da alcuni indigeni, ma viene utilizzato da altri come il nome più facile per riferirsi a se stessi.

2- Prove e testimonianze sono contenute nell’Istanza formale che Survival ha presentato al Punto di contatto nazionale (Pcn) svizzero dell’Ocse.

I parchi hanno bisogno di loro

I popoli indigeni sono i migliori «conservazionisti»

È verificato che i popoli indigeni sono i migliori gestori dell’ecosistema in cui vivono da generazioni. Le loro pratiche ancestrali mantengono la biodiversità, controllano gli incendi e fermano la deforestazione. Ma nei parchi quasi sempre quello che fanno è proibito. Per questo sono arrestati. E le condizioni della biosfera dell’area peggiorano.

I popoli indigeni dipendono dall’ecosistema in cui vivono sia a livello pratico che spirituale e sono quindi fortemente motivati ed efficaci nel proteggerlo. Il tema dell’utilizzo delle risorse naturali è centrale nella gestione indigena della terra: nei secoli, i popoli tribali hanno sviluppato complessi sistemi sociali per amministrare la raccolta dell’ampia varietà di specie da cui dipendono in modo da assicurarsi abbondanza e sostenibilità nel tempo. Al contrario, una visione più ristretta della protezione della natura giudica questa modalità di utilizzo della terra e delle sue risorse inconciliabile con la conservazione.

Coloro che dipendono dalle loro terre per sopravvivere sono certamente più motivati a proteggere l’ambiente in cui vivono rispetto a guardie forestali malpagate, trasferite lontano dalle famiglie, spesso incapaci o riluttanti a perseguire i veri criminali e quindi inclini a concentrare le loro energie su obiettivi più facili: le popolazioni locali.

«Noi, i popoli indigeni, siamo stati parte integrante della biosfera dell’Amazzonia per millenni. Abbiamo usato e protetto le sue risorse con grande attenzione e rispetto, perché è la nostra casa e perché sappiamo che la nostra sopravvivenza e quella delle generazioni future dipendono da questo. La nostra profonda conoscenza dell’ecologia della nostra casa, il nostro modo di convivere con le peculiarità della biosfera, la riverenza e il rispetto che abbiamo per la foresta tropicale e i suoi abitanti, piante o animali che siano, sono la chiave per garantire il futuro del bacino amazzonico, non solo per il nostro popolo, ma per l’intera umanità», Coica, Confederazione delle Organizzazioni Indigene del Bacino dell’Amazzonia, 1989.

Contrariamente a ciò che si potrebbe pensare, sfrattare i popoli indigeni dalle loro case trasformate in aree protette, raramente contribuisce alla conservazione della natura. Anzi, è spesso controproducente perché circonda il territorio di persone risentite, che spesso continuano a dipendere dalle risorse del parco. Inoltre, nega un’evidenza sempre più palese: quando coloro che se ne sono sempre occupati in maniera sostenibile sono costretti ad andarsene, gli ecosistemi soffrono. Alcune recenti ricerche* stanno sconvolgendo la logica conservazionista. In seguito allo sfratto delle comunità indigene, gli incendi incontrollabili, il bracconaggio e le specie invasive spesso aumentano. Uno studio condotto all’interno del Chitwan National Park del Nepal* ha addirittura mostrato una minore densità di tigri nel cuore dell’area liberata dalla presenza umana. Sembra che il modo in cui le comunità gestivano le aree circostanti creasse un habitat migliore per le tigri stesse.

Ragazza Penan, Malaysia.

Incrementano la biodiversità

La coltivazione a rotazione, chiamata anche debbio, si riferisce a una tecnica di coltivazione a cicli, che prevede prima la pulizia del terreno da coltivare (di solito utilizzando il fuoco) e poi il suo abbandono per alcuni anni, per permettergli di rigenerarsi. In tutto il mondo, governi e gruppi ambientalisti hanno cercato a lungo di eliminare la coltivazione a rotazione, spesso definendola in termini peggiorativi «taglia e brucia».

Oggi gli scienziati hanno compreso che questa tecnica può «dare spazio a sorprendenti livelli di biodiversità»*. Le comunità che la utilizzano, come i Kayapò del Brasile, riescono a tenere sotto controllo le varie specie di piante che compongono la foresta. Ciò influisce positivamente sulla biodiversità e crea habitat di grande importanza. Contribuisce inoltre a incrementare la biodiversità disegnando un mosaico di habitat differenti.

Ricerche condotte sulle attività di sostentamento dei cacciatori-raccoglitori nel bacino del fiume Congo* dimostrano che le loro tecniche portano a un significativo miglioramento dell’ambiente come habitat di fauna selvatica, inclusi gli elefanti.

Eppure, nonostante i benefici ecologici del debbio siano sempre più riconosciuti, in molti altri casi questa pratica è bandita o le comunità che dipendono da essa vengono sfrattate. L’impatto sulle comunità indigene coinvolte è serio, anche dal punto di vista della salute.

Nelle riserve delle tigri dell’India, i villaggi che si trovano all’interno creano pascoli per animali che spesso si rivelano prede importanti per le tigri. Quando vengono rimossi, il Dipartimento Forestale deve trovare altri modi per mantenere floridi questi pascoli, pena una diminuzione della biodiversità.

Controllano gli incendi

«I danni che abbiamo oggi (a causa degli incendi devastanti), potrebbero essere limitati permettendo agli Aborigeni di fare quello che hanno perfezionato nel corso di migliaia di anni». Professor Bill Gammage, Australian National University.

Sia in Australia che in Nord America, i primi colonizzatori notarono l’aspetto insolito del territorio, più simile a un parco che a delle foreste: alberi distribuiti su pianure sterminate ma nessuna traccia di sottobosco. Un intrinseco pregiudizio impedì loro di capire che quei paesaggi erano il risultato di una cura del territorio molto sofisticata ed estesa. Bill Gammage, esperto di tecniche aborigene di gestione del territorio, ha dimostrato che quelle popolazioni avevano sviluppato un sistema di utilizzo del fuoco che permetteva loro di ricavare dalla terra tutto ciò di cui avevano bisogno.

In Australia ci si sta sempre più rendendo conto che i sistemi aborigeni limitavano il rischio di grandi e devastanti incendi. Negli ultimi novant’anni gli incendi boschivi sono costati al governo australiano quasi sette miliardi di dollari Usa. Allo stesso modo, in Amazzonia, l’incidenza di incendi è molto più bassa nei territori abitati dagli indigeni.

Ma, così come è accaduto per la coltivazione a rotazione, anche gli incendi controllati sono stati dichiarati illegali, e vengono persino criminalizzati.

Fermano la deforestazione

Le immagini satellitari* forniscono una prova evidente del ruolo che i territori indigeni giocano nel prevenire la deforestazione. Quando i popoli tribali vivono nelle loro terre con diritti pieni e riconosciuti, e la certezza che quelle terre rimarranno sempre nelle loro mani, usano le foreste in modo di gran lunga più sostenibile dei nuovi venuti: allevatori, taglialegna e contadini che abbattono gruppi di alberi in un colpo solo.

Un’analisi su vasta scala* condotta sia sulle aree protette sia nelle foreste gestite dalle comunità indigene ha dimostrato che queste ultime resistono meglio alla deforestazione rispetto alle prime. E non sorprende se si pensa che le comunità hanno molti buoni motivi per proteggere e gestire efficacemente le foreste da cui dipendono per sopravvivere, mentre molte aree protette esistono solo sulla carta e vengono gestite miseramente da staff spesso sottopagato, immotivato e a volte corrotto.

«Abbiamo protetto le foreste per migliaia di anni, ora ci cacciano come animali. Ma ogni giorno, alberi immensi vengono tagliati di nascosto e venduti di contrabbando. I funzionari della foresta hanno deciso di mandarci via, così che queste attività possano continuare indisturbate», portavoce degli Adivasi Iruliga, Bangalore, India.

Fermano lo sfruttamento eccessivo

Prove storiche inconfutabili* dimostrano che ai popoli indigeni bastava cacciare un numero limitato di animali da branco per controllarne la popolazione e prevenire lo sfruttamento eccessivo dei pascoli. Studi condotti a Yellowstone*, ad esempio, mostrano che i loro metodi erano molto efficaci nel controllare la popolazione dei cervi e dei bisonti. Dopo lo sfratto delle tribù dal parco, invece, i guardaparco hanno dovuto sparare a 13.000 cervi nel tentativo di controllarne il numero. L’eliminazione selettiva dei bisonti a Yellowstone continua ancora oggi.

Controllano il bracconaggio

I popoli indigeni conoscono la loro terra intimamente. Nel corso di generazioni hanno accumulato una conoscenza ineguagliabile della flora e della fauna autoctone e delle relazioni che le uniscono, e questo sapere li ha resi i più efficienti ed efficaci manager delle loro terre.

Sistemi complessi di controllo della caccia e della raccolta aiutano a mantenere l’ordine sociale della tribù, e allo stesso tempo proteggono le risorse da cui la comunità stessa dipende. In molte etnie è vietato uccidere animali giovani, gravidi o considerati totem; mentre eccedere nello sfruttamento delle specie, e caccia e pesca sono consentiti solo in alcuni periodi. Il risultato di questi tabù e pratiche è l’efficace razionamento delle risorse nel territorio, che arricchisce la biodiversità e dà a piante e animali il tempo e lo spazio necessari a prosperare.

Bambino boscimano nel Botswana, 2004.

Caccia di sussistenza e sostenibilità

I Boscimani del Kalahari vengono picchiati, torturati e arrestati se cacciano per sfamare le loro famiglie. Sebbene il governo li etichetti come bracconieri, non esistono prove che la loro caccia di sussistenza sia insostenibile. Al contrario, è perfettamente compatibile con la conservazione: i Boscimani sono motivati a proteggere la fauna selvatica dalla quale dipendono più di chiunque altro. Ma quando le iniziative di conservazione strappano ai popoli tribali il controllo di terre e risorse, la loro capacità di auto-sostentarsi viene compromessa. E quando questo accade, essi rischiano di diventare complici dei bracconieri piuttosto che dei conservazionisti verso i quali hanno imparato a nutrire risentimento.

In quanto «occhi e orecchie» della foresta, i popoli indigeni si trovano nella posizione migliore per prevenire, individuare e denunciare le attività di bracconaggio. Ma una volta rimossi dalle loro terre, perdono la possibilità e, forse, anche la motivazione a farlo. Per controllare il bracconaggio devono quindi essere investiti fondi ingenti in armi e guardie. Spesso queste misure sono inefficaci e portano a una crescente corsa agli armamenti tra bracconieri e guardiani. E perdono tutti, natura inclusa.

Un rapporto sullo sfratto dei Masai dalle terre di Ngorongoro (Tanzania) dello United Nations Environment Program (2009)* si chiude con questa constatazione: «L’allontanamento di questi guardiani naturali – e a basso costo – dalle loro terre, ha portato a un incremento dell’attività di bracconaggio e alla susseguente quasi totale estinzione dei rinoceronti».

Survival International

Natura: né vergine né selvaggia

La Campagna di Survival International

Per i popoli indigeni la terra non è un’entità da sfruttare bensì un universo da sostenere e mantenere in equilibrio a cui l’uomo appartiene al pari di qualsiasi altro essere vivente. Difenderla è semplicemente il loro modo di vivere, e non un dovere, perché dal suo stato di salute dipende la loro stessa sopravvivenza e quella delle future generazioni.

Alla base del concetto di «conservazione» c’è invece una concezione dualistica del rapporto uomo-natura che considera la natura come un dominio autonomo distinto dalla sfera delle azioni umane. Un luogo incontaminato in cui l’uomo si pone solo come una mera forza distruttiva finché non interviene a esercitare la sua giurisdizione per assicurarne la preservazione.

Ma secondo i popoli indigeni la natura non è «vergine» né «selvaggia», se non nell’immaginario occidentale. E a conferma della loro visione, oggi esistono prove scientifiche che dimostrano che la fisionomia della maggior parte delle regioni ecologicamente più importanti del pianeta, così come le conosciamo oggi, sono il prodotto culturale di una manipolazione molto antica della flora e della fauna, operata da società umane a loro volta condizionate e plasmate da secoli di convivenza con esse.

L’approccio non potrebbe essere più distante. Da un lato un rapporto dell’uomo con la natura fondato su valori di uguaglianza, reciprocità ed equilibrio: la visione ecocentrica dei popoli indigeni, capaci di sfruttare le risorse dei loro ambienti senza mai alterarne i principi di funzionamento e i cicli di riproduzione. Dall’altra un movimento conservazionista radicale e razzista che a partire dagli Usa del XIX secolo si è espanso soprattutto in Africa e Asia sfrattando illegalmente milioni di indigeni dalle loro floride terre ancestrali per farne santuari inviolabili, liberi da qualsiasi presenza umana, con conseguenze drammatiche.

È tempo di fermare brutali violazioni dei diritti umani che danneggiano anche l’ambiente. Survival International è il movimento mondiale per i diritti dei popoli indigeni e ha lanciato una campagna per promuovere un nuovo modello di conservazione che rispetti i diritti dei popoli indigeni e riconosca il loro ruolo di migliori custodi del mondo naturale.

Survival lotta per una svolta radicale nelle politiche della conservazione: per lo smascheramento del suo “lato oscuro” e l’esplorazione di soluzioni innovative fondate sul rispetto dei diritti indigeni, in particolar modo il diritto alla proprietà collettiva della terra e a proteggere e alimentare le terre natali. E chiede rispetto per le loro conoscenze e i loro sistemi di gestione delle risorse naturali. I popoli indigeni meritano di essere riconosciuti come i migliori custodi delle loro terre e, di conseguenza, della natura da cui tutti dipendiamo.

Survival International

Per maggiori informazioni sulla campagna visita la pagina: www.survival.it/conservazione

Nota

* Per tutti gli studi e le ricerche citati, rimandiamo al corposo apparato di note presente nel rapporto di Survival International, Parks need peoples. I parchi hanno bisogno dei popoli, da cui questo dossier è stato tratto. Il documento in .pdf può essere facilmente scaricato.

Fonti

  • M. Chapin, A Challenge to Conservationists, WorldWatch, novembre-dicembre 2004.
  • M. Colchester, Conservation Policy and Indigenous Peoples, Cultural Survival Quarterly 28, no. 1 (2004).
  • M. Dowie, Conservation Refugees: The Hundred-Year Conflict Between Global Conservation and Native Peoples, Mit Press (2009).
  • R. Duffy, Are we hearing a “call to arms” from wildlife conservationists?, Just Conservation (2014).
  • M. Gauthier e R. Pravettoni, Come si costruisce un parco naturale, Il Post (2016).
  • Iucn, Sacred Natural Sites: Conservation of Biological and Cultural Diversity, Earthscan (2010).
  • J. Vidal, The tribes paying the brutal price of conservation, The Guardian (2016).
  • Altre fonti sul sito www.survival.it/conservazione.

Questo dossier è stato firmato da:

  • Survival International È il movimento mondiale per i diritti dei popoli indigeni. Dal 1969 li aiuta a difendere le loro vite, a proteggere le loro terre e a determinare autonomamente il loro futuro. Le società industrializzate sottopongono i popoli indigeni a violenza genocida, a schiavitù e razzismo per poterli derubare di terre, risorse e forza lavoro nel nome del «progresso» e della «civilizzazione». La missione di Survival è prevenire il loro sterminio, e ottenere un mondo in cui questi popoli siano rispettati come società contemporanee e i loro diritti umani tutelati. A finanziare il lavoro di Survival, che è rigorosamente apartitica e aconfessionale, sono quasi esclusivamente le donazioni dei singoli, insieme ai proventi di piccole iniziative di raccolta fondi. Tra le campagne più urgenti del momento c’è quella per un nuovo modello di conservazione della natura, tema di questo dossier.
  • A cura di: Marco Bello, giornalista redazione MC.
  • foto: Le immagini di questo dossier sono state fornite da Survival International, www.survival.it.




Brasile: Dove un indio

non vale una vacca /2


Nel Brasile degli scandali e dei politici corrotti, l’oligarchia dei proprietari terrieri ha assunto il potere e sta smantellando l’apparato giuridico che aveva riconosciuto i diritti dei popoli indigeni, a iniziare dal diritto alla terra. La vicenda che vede coinvolti i Guarani Kaiowá del Mato Grosso del Sud è soltanto uno dei tanti esempi possibili. Ne abbiamo parlato con il cacique Ládio Veron (Ava Taperendi), il cui padre venne assassinato nel 2003 dai sicari dei latifondisti.

Tra il 1915 e il 1928 nello stato brasiliano del Mato Grosso del Sud furono create 8 riserve indigene per un totale di 17.975 ettari. La maggiore (e più problematica) tra queste riserve è quella di Dourados, sorta nel 1917. Dourados è vasta circa 3.600 ettari, oggi occupati da una popolazione di due etnie (Guarani e Terena) per un totale di oltre 15.000 abitanti (1).

I numeri sono importanti, ma detti così non sono sufficienti per riuscire a comprendere la situazione. È utile allora fare una piccola e facile ricerca sul web. Cerchiamo, per esempio, le fazendas (aziende agricole) in vendita nel Mato Grosso del Sud, esteso quanto la Germania ma con nemmeno tre milioni di abitanti. Ebbene, su YouTube (2) ne possiamo trovare varie. Prendiamone tre a caso. Le loro estensioni sono di 22.410 ettari, di 28.000 ettari e di 41.000 ettari. Si possono vedere le grandi case dei proprietari (costruite nei pressi dei pochi alberi rimasti), i recinti con le vacche e i cavalli, gli immensi pascoli o le estensioni con le monoculture, le strade sterrate in terra rossa, i corsi d’acqua o i laghetti. La terza fazenda viene ceduta con tutta la mandria di 22.000 bovini.

Istruttivo è leggere i commenti di chi ha visto i video di queste fazendas in vendita. Uno dei visitatori virtuali chiede: «È con indigeni o senza? I senzaterra sono tutti una piaga» («é com índios o sem índios os sem terra todos são uma praga»).

Esproprio bianco

Lungi dal voler tentare un’analisi critica del diritto di proprietà, vogliamo mettere in evidenza alcuni fatti concreti. «A partire dal 1920, e più intensamente a partire dal 1960, ebbe inizio una colonizzazione sistematica ed effettiva dei territori guarani, innescando un processo di espropriazione metodica delle loro terre da parte dei coloni bianchi» (pib.socioambiental.org). Insomma, i proprietari originari delle terre erano gli indigeni e lo erano da secoli. Con la creazione delle riserve indigene da parte del «Servizio di protezione dell’indigeno» (Spi) nel Mato Grosso del Sud si diffuse il convincimento che «le fazendas occupate attualmente dai coloni e rivendicate dagli indigeni non siano mai appartenute ad essi, poiché l’idea dominante è che le terre degli indigeni siano le riserve» (XXII Simpósio nacional de história, 2003).

In un Brasile travolto dagli scandali, il Mato Grosso del Sud è un esempio lampante del progetto di criminalizzazione dei popoli indigeni e dei loro alleati messo in moto negli ultimi anni da latifondisti, potere politico dominante e molti media.

Oggi nel Mato Grosso del Sud, oltre alle riserve, ci sono 96 terre indigene (fonte Cimi, agosto 2016), quasi tutte teoriche. Nella realtà gli indigeni vivono confinati nei ghetti delle riserve o in fazzoletti di terra, se non addirittura ai margini delle strade. Stanchi di attendere di vedere attuati i propri diritti, molti gruppi hanno preso l’iniziativa da soli con la cosiddetta «retomada», il recupero, la riconquista delle loro terre.

Di fronte alla resistenza e alle iniziative indigene sono aumentati la violenza e l’odio nei loro confronti. Sono decine gli attacchi compiuti da squadre paramilitari al soldo dei latifondisti (con la complicità delle autorità). Secondo i dati del Consiglio indigenista missionario (Cimi), nel Mato Grosso del Sud sono stati 36 gli indigeni assassinati nel 2015 e 426 nel periodo tra il 2003 e il 2015. E dove non è arrivata la violenza diretta sono arrivati i suicidi: 45 nel solo 2015 e ben 752 tra il 2000 e il 2015.

L’offensiva anti-indigena del governo Temer

Il Consiglio indigenista missionario ha sperimentato sulla propria pelle cosa significhi lottare per i diritti indigeni e contro il sistema che li nega. L’Assemblea legislativa del Mato Grosso del Sud ha istituito una Commissione parlamentare d’inchiesta (Comissão Parlamentar de Inquérito, Cpi) per mettere sotto accusa il Cimi, inclusi i suoi primi rappresentanti, il presidente dom Roque Paloschi e il segretario esecutivo Cleber César Buzatto.

Nelle 222 pagine della relazione finale (Relatório final da Cpi do Cimi), presentata nel maggio 2016, le parole sono forti: «Causa indignazione, perplessità e repulsione il fatto che un’entità legata alla Chiesa cattolica abbia causato tanti danni» (pag. 194); ci sono indizi fortissimi sulla «partecipazione del Cimi nell’incitamento alla violenza e nell’invasione di proprietà private» da parte degli indigeni (pag. 205).

Latifondisti e politici non si sono fermati qui, ma hanno replicato la strategia alla Camera dei deputati federale creando una Commissione d’inchiesta sulla Funai (Fundação Nacional do Índio) e sull’Incra (Instituto Nacional de Colonização e Reforma Agrária). Con essa si chiede l’incriminazione di decine di leader indigeni, antropologi e procuratori della Repubblica (questi ultimi successivamente esclusi) che difendono la demarcazione delle terre indigene.

L’offensiva anti-indigena del governo (golpista e corrotto) di Michel Temer pare inarrestabile. Lo scorso 9 maggio a capo della Funai è stato nominato, come ai tempi della dittatura, un generale dell’esercito, Franklimberg Ribeiro de Freitas. La Federazione dei popoli indigeni del Brasile (Articulação dos Povos Indígenas do Brasil, Apib) ha giustamente parlato di un’inaccettabile militarizzazione dell’organo in vista dell’espansione delle frontiere agricole e dei progetti imprenditoriali sulle terre indigene. Queste ultime rischiano di essere ridimensionate o spazzate via se dovesse essere approvata la Proposta di emendamento costituzionale n. 215 (Proposta de Emenda à Constituição, Pec 215). Essa prevede di trasferire al Congresso nazionale la prerogativa di demarcare le terre indigene, trasformando un diritto originario in un mero oggetto di negoziazione.

Ládio Veron e la «retomada de Takuara»

Ládio Veron non vuole sorridere davanti alla fotocamera. «Non c’è niente da ridere» dice serio. Lo comprendiamo.

Cinquant’anni, cinque figli ed otto nipoti, maestro di scuola, Ládio Veron (Ava Taperendi, in lingua indigena) è cacique della comunità Guaranì Kaiowá di Takuara. La terra indigena Takuara, nel municipio di Juti, ha una superficie di 9.700 ettari. Essa coincide con alcune aziende agricole, in particolare con la fazenda Brasilia do Sul, dedita soprattutto alla monocoltura della soia (foriera di pesanti conseguenze sull’ambiente).

Tra l’11 e il 13 gennaio del 2003 il fazendeiro Jacinto Honório da Silva e suoi dipendenti assalirono l’accampamento indigeno. Alla fine arrivò anche un gruppo di sicari (pistoleiros) che attaccarono la comunità. Nella lotta che ne seguì rimase coinvolto il cacique Marcos Veron di 72 anni, che morì in ospedale per le ferite subite. Marcos era il padre di Ládio, che nella lotta per il diritto alla terra ha perso anche fratelli e parenti. «Perché dobbiamo morire per una terra che è nostra?», chiede.

Se i primi anni erano occupazioni (retomadas) di una terra reclamata, oggi Takuara ha superato il lungo e complesso processo di riconoscimento giuridico ed è a tutti gli effetti una terra di proprietà indigena. Eppure non è stata ancora restituita. Anzi, i giudici del Mato Grosso del Sud emettono continuamente ordini di sgombero. «La Funai – spiega Ládio – non ha la forza per procedere con la demarcazione delle nostre terre. Chiediamo un cambio. Chiediamo di avere in essa alcuni nostri rappresentanti. Abbiamo indigeni preparati per questo».

«A Takuara siamo circa 70 famiglie che occupano non più di 90 ettari di territorio», assicura Ládio. «Eppure dobbiamo sopportare che centinaia di camion carichi di soia passino per la nostra aldeia».

Una lotta, quella dei popoli indigeni, disperata e disperante che genera rabbia e impotenza. Ci affidiamo alle parole di un editoriale di Porantim, rivista del Cimi: «La terra è un bene comune, ereditato da tutti gli esseri che su di essa abitano. Il suo valore è incalcolabile e, proprio per questo, essa non dovrebbe essere ridotta a una merce ed essere commercializzata come un qualsiasi altro prodotto» (3).

Proprietà privata: sempre legale e legittima?

Il sentimento prevalente verso i popoli indigeni è ricordato dal missionario Egon Heck: «Rivelatrice è l’affermazione dell’ex governatore [del Mato Grosso del Sud] André Puccinelli (2007-2014): “È un crimine dare un palmo di terra produttiva agli indigeni”».

Sul sito della potente Federazione dei produttori agricoli e degli allevatori dello stato (Federação da Agricultura e Pecuária do Estado de Mato Grosso do Sul, Famasul), sospettata di armare milizie paramilitari, di indigeni non si parla se non per ricordare uno sgombero di terre da loro occupate (4).

È opinione dominante che l’agrobusiness (agronegócio) e lo sviluppo non possano fermarsi davanti alle rivendicazioni territoriali dei popoli indigeni e, men che meno, davanti alla cosmovisione indigena, considerata un insieme di concetti astratti se non inverosimili. Non importa se i diritti sono sanciti dalla Costituzione del 1988 e se l’agrobusiness arricchisce un’esigua minoranza e distrugge un bene comune quale l’ambiente naturale.

Nella presentazione dell’annuale rapporto «Violenza contro i popoli indigeni in Brasile» (Violência contra os povos indígenas no Brasil) (5), dom Roque Paloschi, presidente del Cimi, ha scritto: «Denunciamo il potere giudiziario che, nei suoi giudizi, dà la priorità alla difesa della proprietà – non sempre legale, non sempre legittima – a discapito dei diritti originari dei popoli indigeni».

Paolo Moiola

Note al testo

(1) I dati sulle terre indigene sono visibili su questo sito: https://terrasindigenas.org.br.
(2) La ricerca può essere fatta con questa richiesta: «fazendas para comprar no estado de Mato Grosso do Sul».
(3) Editoriale di Porantim, gennaio-febbraio 2013, pag. 2.
(4) Testuale: «a reintegração de posse de quatro fazendas ocupadas por índios guarani-kaiowá». Il sito della Federazione: famasul.com.br.
(5) Conselho Indigenista Missionário – Cimi, Violência contra os povos indígenas no Brasil – Datos de 2015, pag. 11; il rapporto è scaricabile dal sito www.cimi.org.br.

 

 


01- Breve scheda storica

La terra indigena sono le riserve

È questo l’obiettivo dei governi brasiliani. 

  • 1610 – In una vasta regione comprendente Paraguay e porzioni di Bolivia, Brasile, Argentina e Uruguay, i gesuiti fondano le prime «riduzioni» (reducciones de indios) dove vengono accolte le locali popolazioni indigene.
  • 1759 – 1767 – I gesuiti vengono espulsi prima dalle colonie portoghesi e poi da quelle spagnole; nel 1773 il loro ordine sarà soppresso da papa Clemente XIV; i Guaranì delle riduzioni vengono uccisi o ridotti in schiavitù.
  • 1915 – 1928 – Il «Servizio di protezione degli indigeni» (Serviço de Proteção aos Índios, Spi) costituisce in Mato Grosso (nel 1977 divenuto Mato Grosso del Sud) 8 riserve indigene.
  • 1920 – 1960 – A partire dal 1920 e ancora con più intensità dal 1960 inizia una sistematica colonizzazione dei territori guaranì da parte di coloni bianchi che si installano sulle loro terre distruggendo la foresta per far posto all’allevamento e all’agricoltura estensiva.
  • 1946 – 1988 – Nel suo documento conclusivo (del 2014), la «Commissione nazionale della verità» conferma le gravi violazioni dei diritti dei popoli indigeni perpetrate nel periodo esaminato.
  • 1967 – Durante la dittatura militare, lo Spi viene sostituito dalla «Fondazione nazionale dell’indio» (Fundação Nacional do Índio, Funai) che non cambierà le modalità d’azione.
  • 1988 – Il Brasile adotta una nuova Costituzione nella quale vengono riconosciuti i diritti dei popoli indigeni.
  • 2016, maggio – Viene resa pubblica la relazione finale della «Commissione parlamentare d’inchiesta» (Cpi) del Mato Grosso del Sud sull’operato del Consiglio indigenista missionario (Cimi). È un durissimo attacco all’operato del Cimi. La magistratura archivierà la relazione della Cpi nell’aprile del 2017.
  • 2017, 9 maggio – Il governo nomina alla presidenza della Funai un generale dell’esercito Franklimberg Ribeiro de Freitas.
  • 2017, 17 maggio – A Brasilia viene approvata la relazione finale della Commissione parlamentare d’inchiesta (Cpi) sulla Funai e Incra. Il relatore è il deputato Nilson Leitão, presidente del Fronte parlamentare degli imprenditori agricoli e degli allevatori (Frente parlamentar da agropecuária).
  • 2017, 24 maggio – Impopolare, accusato di corruzione e abbandonato anche da Rede Globo, il presidente Temer rischia di essere esautorato.

(Pa.Mo.)

 


02 – Breve scheda etnografica

Le popolazioni dei Guaranì

Sono distribuite in cinque stati dell’America Meridionale. 

  • Famiglia linguistica: tupi-guarani;
  • Dove sono: in Argentina (provincia di Misiones), in Bolivia (Chaco boliviano), in Uruguay, in Paraguay e in Brasile (Mato Grosso del Sud);
  • Quanti sono: in totale circa 90.000 (ma le cifre sono spesso incerte e variabili a seconda delle fonti);
  • Sottogruppi principali: Kaiowá (45.000, localizzati soprattutto nel Mato Grosso del Sud), Mbya (30.000, la maggior parte nel Paraguay) e Ñandeva (13.000);
  • Organizzazione: i Guaranì Kaiowá sono organizzati in comunità macrofamiliari (2-5 famiglie estese), riunite in un luogo denominato «tekoha», inteso come unico luogo – di terra, foresta, acqua, piante, animali – dove si può realizzare la propria condizione («teko») di Guaranì.
  • Film sui Guarani: «Mission», film del 1986, ambientato nel 1750, nella foresta sopra le Cascate dell’Iguazú al confine tra Argentina, Brasile e Paraguay dove i missionari gesuiti avevano aperto alcune missioni (note come «riduzioni») tra gli indios guaranì; «La terra degli uomini rossi», film del 2008, ambientato in Mato Grosso del Sud e riguardante la lotta tra i Guaranì Kaiowá e i fazendeiros (latifondisti).

(Pa.Mo.)


03 – Breve scheda del Mato Grosso del Sud

Latifondisti al potere

In questo stato brasiliano comandano i latifondisti. A?Brasilia anche.

  • Superficie del Mato Grosso del Sud (MS): 357 mila chilometri quadrati (superficie Portogallo: 93 mila kmq);
  • Popolazione: 2,6 milioni (fonte Ibge);
  • Economia: allevamento bovino e agricoltura (soia, canna da zucchero, cotone, eucalipto);
  • Bovini in MS: 21 milioni e settecentomila (9 vacche per abitante); sono 215,2 milioni in Brasile (fonte Ibge, settembre 2016);
  • Popolazioni indigene in MS: 77 mila, di cui 43 mila Guaranì (fonte Ibge, 2010), seguiti dai Terena e – con poche centinaia di individui – dai Kadiwéu, dai Guató e dagli Ofaié ;
  • Riserve indigene in MS: 8 (istituite dallo scomparso Spi);
  • Terre indigene in MS: 96 (fonte Cimi, agosto 2016);
  • Indigeni assassinati in MS: 36 nel 2015 (fonte Cimi); 426 tra il 2003 e il 2015;
  • Indigeni suicidatisi in MS: 752 tra il 2000 e il 2015 (fonte Cimi);
  • Proprietari terrieri in MS: contro il Cimi (Consiglio indigenista missionario) con una Commissione parlamentare d’inchiesta (settembre 2015 – maggio 2016); accuse poi archiviate;
  • Proprietari terrieri a Brasilia: la «bancada ruralista», in alleanza con la «bancada evangelica», è schierata a favore dell’emendamento costituzionale – noto come «Pec 215» – che trasferirebbe dall’organo esecutivo a quello legislativo l’ultima parola sulle questioni relative alle terre indigene.

(Pa.Mo.)

 

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RD Congo. Pigmei, scuola, foresta: un momento difficile


Dagli anni Novanta i missionari della Consolata sono presenti fra i Pigmei Bambuti di Bayenga, nella Repubblica Democratica del Congo. Dal 2007 l’équipe missionaria può contare su padre Andrés García Fernández, missionario della Consolata di origine spagnola. Nell’inverno scorso è stato in Camerun a osservare il lavoro che i Fratelli delle scuole cristiane portano avanti nel paese con i Pigmei Baka nel campo dell’istruzione.

Mezzo milione di persone distribuite fra Repubblica Democratica del Congo, Repubblica Centrafricana, Camerun, Rwanda, Burundi e Uganda: queste le dimensioni della comunità pigmea secondo le stime riportate da Survival International, organizzazione che si occupa della difesa dei diritti dei popoli indigeni in tutto il mondo. Si tratta di un popolo che vive a stretto contatto con la foresta, spesso al suo interno, vivendo di caccia e raccolta. Il rapporto con le vicine popolazioni bantu, maggioritarie, è difficile: un po’ per lo scontro antico fra chi, come i Pigmei, la foresta la vive come casa, rifugio e riserva di cibo e chi, invece, la taglia per ottenerne terreni da coltivare, come è il caso dei Bantu, agricoltori. E un po’ per i pregiudizi che quasi sempre accompagnano i conflitti per le risorse: i Bantu vedono nei Pigmei degli esseri inferiori, dei selvaggi da sfruttare o isolare, mentre per i Pigmei i loro vicini sono i padroni violenti che rubano loro la foresta e li costringono con la forza a fare da servi per sopravvivere.

Oggi, la speranza di vita di un Pigmeo è fra i 40 e i 45 anni contro una media dei Bantu di 59. La mortalità infantile nei bambini fino a cinque anni, che fra i Bantu è al 20%, raddoppia fra i Pigmei.

Cambiare questa situazione è un lavoro lungo, delicato e costantemente a rischio. Ma in Camerun il metodo applicato dai Fratelli delle scuole cristiane (detti anche Lasalliani dal nome del loro fondatore, Jean-Baptiste de La Salle) sta lentamente provando a creare le condizioni perché i Pigmei escano dal misto di vergogna e rassegnazione in cui anni di discriminazioni li hanno confinati. Abbaimo fatto alcune domande a padre Andrés che con padre Flavio Pante è nella missione di Bayenga e lavora con i Pigmei da 10 anni e recentemente è stato in Camerun.

Andrés, perché questo viaggio-studio in Camerun?

«Per studiare il metodo O.R.A., che i Fratelli applicano nell’istruzione prescolare dei Pigmei Baka. Anche qui in Congo lo conoscevamo, ma in Camerun lo usano da più tempo e in maniera più organizzata. Guidato da fratel Gilbert Ouilabegue, ho visitato le tredici scuole fondate da fratel Antornine Huysmans nella zona di Lomié, regione dell’Est. Le chiamano Centri di Educazione di Base per evitare che siano classificate come scuole ufficiali e, per questo, tenute a rispettare programmi, calendari e metodi ufficiali che sarebbero del tutto inadeguati per i Pigmei».

Che cosa significa O.R.A.?

«È l’acronimo di Osservare-Riflettere-Agire. Il metodo si applica negli anni precedenti la scuola primaria con bambini fra i cinque e gli otto anni. Fratel Antornine, ideatore di O.R.A., pensava che fosse inutile tentare di chiudere in un’aula scolastica dei bambini abituati a vivere liberi nella foresta, senza muri né orari, e formati fino ad allora alla «scuola della vita», dove i maestri erano i loro genitori e fratelli maggiori e le materie l’uso dell’arco o le tecniche per pescare.

Così, un po’ alla volta e con l’aiuto anche di alcuni Bantu della zona, Antornine cominciò a ideare una pedagogia dinamica, che si adattasse ai ritmi, alla lingua e alla cultura dei Baka invece che mirare alla completa omologazione di questi ai Bantu. Il metodo si basa su questi tre principi: osservare, riflettere, agire, perché sono il più vicino possibile al modo in cui i bambini pigmei sono abituati ad imparare, cioè per osservazione ed emulazione degli adulti».

Come funziona in concreto?

«Innanzitutto, bisogna considerare che la funzione di questa pre-scuola è anche quella di liberare i bambini dalla paura della classe, del maestro, della lavagna e del parlare in pubblico. Si cerca sempre di coinvolgerli con canti, racconti, giochi di ruolo. Come punto di partenza si usa un disegno, che poi resta lì come per invogliare ad ascoltare la storia che segue. Ogni lezione, infatti, si apre con una piccola storia che introduce la parola, il numero, il concetto che si vuole insegnare».

E quanto ai contenuti?

«Nel primo anno, i bambini cominciano parlando nella lingua baka. Il punto di partenza, dicevo, sono i disegni che rappresentano scene quotidiane del campement (accampamento) pigmeo. Da qui si passa a nozioni di base come grande/piccolo, uguale/diverso, lungo/corto, poi ai primi segni grafici, alle cinque vocali e ai numeri da uno a sei, sempre partendo dalla lingua baka per poi tradurre in francese. Verso la metà del primo anno i bambini imparano qualche consonante, incominciano a formare delle sillabe, a fare qualche operazione aritmetica. Al termine del secondo anno, sono in grado di fare addizioni, sottrazioni e moltiplicazioni con i numeri da zero a venti e di parlare francese con una fluidità che mi stupisce ancora oggi, se penso che non sono ancora alla scuola primaria».

Che cosa ti sembra che funzioni particolarmente bene nel metodo O.R.A.?

«Te lo dico con un esempio. Ricordo la dinamica di una classe con un’insegnante, Souzanne, che era davvero splendida: non ha mai sgridato nessuno, non è stata quasi mai alla lavagna. Quello era il posto dei bambini che, uno alla volta, ci andavano spontaneamente per partecipare, scrivere, cantare, mostrare un oggetto, un frutto. Lei è davvero una formidabile narratrice di storie che fa «sognare» chi la ascolta. Gli allievi vengono sempre incoraggiati, non sono giudicati o valutati per il risultato ma per lo sforzo. Ho visto in quei bambini la voglia di venire a scuola, di scoprire, d’imparare, di essere… protagonisti».

A questo punto i bambini sono pronti per la scuola elementare ufficiale?

«Sì, e nei primi anni si distinguono rispetto ai loro pari per il livello di scrittura e lettura. Poi, però, in Camerun come da noi, cominciano i problemi. I pregiudizi, che i bambini bantu «assorbono» dai loro genitori, cominciano a farsi strada e i Pigmei – che spesso non hanno l’uniforme, le scarpe o il sapone per lavarsi prima di andare a scuola – diventano l’oggetto di beffe e dispetti. Questa stigmatizzazione a poco a poco umilia e scoraggia i Pigmei, che finiscono per lasciare la scuola. Qui a Bayenga, su cento che iniziano la scuola primaria solo cinque o sei arrivano a concluderla (alle volte neanche uno)».

Per chi ce la fa, la vita cambia in meglio?

«Non direi. A scuola, i ragazzi pigmei hanno preso coscienza dell’immagine che i Bantu hanno di loro, hanno visto le differenze e capito perché gli altri hanno certi atteggiamenti al loro riguardo: per questo vivono il ritornare al campement come una sorta di arretramento. D’altra parte, inserirsi nel villaggio assieme ai Bantu è come piantare un albero senza radici, fra persone che non li accettano come propri pari e che tendono a imporre loro delle relazioni verticali, gerarchiche. Per molti si apre la strada di quella che noi chiamiamo la destrutturazione, dove alcol e cannabis diventano i mezzi con cui tenere a bada, nell’immediato, la frustrazione e la depressione e portano presto all’abbrutimento».

Arriviamo così a parlare del rapporto fra Pigmei e Bantu che piano piano, anche grazie a strumenti come il metodo O.R.A., state cercando di rendere meno conflittuale.

«Sì, ma non sarà un processo breve né semplice. La relazione fra i due gruppi nel territorio della nostra parrocchia qui a Bayenga è assai complessa: alcuni Pigmei erano già qui quando i Bantu arrivarono nella grande foresta che copriva la zona; altri sono arrivati con i loro padroni bantu da diverse zone del Congo per cercare lavoro nelle piantagioni belghe e greche, ai tempi della colonizzazione. In generale, si può dire che ci sono famiglie bantu che sono proprietarie di gruppi di Pigmei, e succede che un proprietario si riferisca ai Bambuti come ai «miei Pigmei, i Pigmei che mi ha lasciato mio padre quando è morto». Questi Pigmei sono in qualche modo parte della famiglia, ma come servi, non come membri alla pari degli altri (per maggiori dettagli sul rapporto fra Bantu e Pigmei vedi articolo Echi dalla foresta, di M. Bello, MC ottobre 2012).Invece ora, già per il fatto di sentirsi accompagnati e voluti bene da noi così come sono, incoraggia alcuni Pigmei a relazionarsi con dei Bantu su basi più paritarie. Ci sono anche dei Bantu che già s’avvicinano ai Pigmei con altro approccio, con una nuova maniera di relazionarsi che non è più quella del padrone con lo schiavo».

Di recente è apparso in Italia un articolo che parla del conflitto fra Pigmei e Bantu nella regione del Tanganika, nel Congo orientale. Lì, dall’estate 2016 ci sono stati quasi 500 morti, 2.500 feriti e 70 mila sfollati prevalentemente Bantu. I Pigmei si sono armati e combattono, bruciano villaggi, uccidono chi non scappa.

«Non conosco la situazione di quella regione, ma mi pare che quel che avviene qui a Bayenga sia piuttosto il contrario: i Pigmei, pacifici abitanti della foresta, hanno accolto senza condizioni i Bantu al loro arrivo. Poi si sono create relazioni di sfruttamento (soprattutto nei lavori dei campi) ma anche di «simbiosi»: i Pigmei sentono il bisogno di ritornare dai padroni bantu per vendere la selvaggina, il miele, i frutti presi nella foresta. Ci sono conflitti, sì, ad esempio quando i Bantu non pagano i Pigmei e questi rubano nel campo del padrone, o gli sottraggono una gallina. Ma lo fanno per sopravvivere, non per lucrare, e senza usare la violenza. Di solito queste scaramucce vengono regolate in «famiglia» o dal giudice di pace locale. Purtroppo, però, non posso escludere che la situazione si evolva nella direzione che l’articolo descrive per il Tanganika».

Che cosa potrebbe portare al conflitto?

«Nella nostra missione ci sono circa tremila Pigmei e quattordicimila Bantu. Le attività economiche che la maggioranza bantu svolge – agricoltura, taglio e commercio del legno, sfruttamento minerario – fanno precipitare in fretta la foresta e i suoi biomi verso una situazione non sostenibile dal punto di vista ambientale e sociale, e non solo per i Pigmei. Ci sono molti interessi in gioco e molto poca formazione per affrontarli: è grande l’ignoranza che si rallegra del profitto veloce delle miniere e dell’esportazione del legno. Nella quasi totale assenza dello stato, la foresta diviene piazza aperta per quanti hanno un po’ di forza fisica o economica per sfruttarla».

Okapi nella Okapi Wildlife Reserve (© Kim S. Gjerstad)

La vecchia storia del Congo supermercato a cielo aperto alla mercé di chiunque abbia abbastanza armi o soldi.In un rapporto del 2015 dal significativo titolo Exploiter (dans) le désordre, la Caritas e la Commissione giustizia e pace della diocesi di Wamba spiegano la situazione della Riserva Forestale degli okapi (Rfo), a una manciata di chilometri da Bayenga. Secondo il rapporto, nel parco ci sarebbero una settantina di cantieri artigianali – uno di questi sarebbe in grado di produrre oro per 300 mila dollari settimanali – dove lavorano decine di migliaia di minatori informali. Sempre secondo il documento, a questi cantieri si aggiungono poi quelli semi industriali e industriali nei dintorni della Rfo:  a competere per la corsa all’oro ci sono proprio tutti, dai minatori artigianali alle grandi compagnie minerarie come la Kilo Goldmines, passando per le Fardc (l’esercito congolese) e le milizie ribelli.

«Esattamente. Fra la Rfo e la foresta intorno a Bayenga non c’è praticamente soluzione di continuità e i Pigmei Bambuti da sempre hanno cacciato in quest’area. Non l’okapi, però, visto che si concentrano su prede più piccole. Eppure, ora è proibito a tutti l’accesso alla riserva, i cui limiti sono stati fissati senza interpellare né i Pigmei né i Bantu. L’ente responsabile della vigilanza al parco dice che l’interdizione riguarda qualche specie soltanto, ma visto che non ha mezzi e personale sufficienti per fare i controlli, il risultato è il divieto assoluto di caccia e, addirittura, di passaggio nella riserva. Questa interdizione è rafforzata dalle attività dei ribelli e dei cacciatori di frodo, che invece nella Rfo ci sono e non gradiscono la presenza di possibili testimoni delle loro attività. Sì, come vedi c’è molto di più in ballo che non la convivenza fra due gruppi umani che faticano ad accettare l’uno lo stile di vita dell’altro».

Quello che racconti ricorda molto le difficoltà che i nostri missionari hanno affrontato e affrontano in Amazzonia.

«Ci sono molte somiglianze, sì, ma anche molte differenze. Qui non c’è mai stata una demarcazione delle terre indigene né un riconoscimento giuridico dei diritti dei Pigmei. Quello che noi cerchiamo di fare è accompagnare tanto i Bambuti quanto i Bantu in un cammino di reciproca conoscenza e comprensione che, se da un lato probabilmente dovrà passare per un adattamento dei Pigmei al contesto circostante, cerca però anche di evitare l’omologazione e valorizzare e difendere le caratteristiche dei Bambuti e della foresta che esso abita. Foresta che, vale la pena di ricordarlo, è un patrimonio per tutto il pianeta».

Chiara Giovetti




Cari Missionari

Fratel Carlo Zacquini, Alla vigilia degli ottant’anni

Pasqua è vicina e mi faccio vivo per dare alcune notizie e per fare i tradizionali auguri pasquali. Ho deciso di fare un brevissimo riassunto della mia vita, approfittando anche delle riflessioni che la quaresima ci ha proposto.

A vent’anni (1957) ho fatto la prima professione religiosa alla Certosa di Pesio. Con 27 anni sono partito per Roraima (1964). Due giorni prima dei 28 ho conosciuto il primo gruppo di Yanomami. Ai primi di gennaio del 1968 ho cominciato la mia vita tra di loro. Se in questi ultimi decenni non sono migliorato granché, certamente non è dovuto agli Yanomami.

In questi ultimi tempi, sono assillato dalla necessità di far conoscere a molti la loro causa, e di aiutare almeno qualcuno di essi a prepararsi per difenderla con qualche competenza. Oggetto di questa mia attività sono giovani e vecchi, studenti e non, indigeni e non indigeni che si affacciano alla soglia della storia moderna con le qualità e i difetti del tempo attuale. I giovani missionari pure fanno parte di questa preoccupazione.

La sfida che rappresenta il futuro di questi popoli (indigeni) pare sempre più ardua e complicata, ma almeno, al contrario di quanto si pensava qualche decennio fa, è possibile, e pare condivisa da sempre più persone.

Nel mio piccolo, grazie anche a molti di voi e in vostro nome, porto avanti il Centro di Documentazione Indigena dei Missionari della Consolata in Amazzonia. Col vostro aiuto ho potuto assumere dei collaboratori, tra i quali anche un indigeno (makuxi); abbiamo raccolto e registrato 2490 libri; alcune altre centinaia sono in attesa; circa 2000 riviste sono registrate; decine di migliaia di ritagli di giornali sono in relativo ordine e li stiamo scansionando; migliaia di documenti sono stati classificati e in parte registrati; centinaia di video cassette e cassette sono in parte digitalizzate e altre in attesa di esserlo; documentari, reportage, testimonianze, canti, rituali, racconti, ricerche storiche e di antropologia; alcune migliaia di fotografie, negativi, diapositive, sono state digitalizzate.

Sono sicuro che, nella fretta, sto dimenticando altre cose, ma quello che è più importante è che mi fate sentire orgoglioso di avere degli amici come voi, capaci di donarsi e di donare continuamente, a costo del proprio conforto, per aiutare persone e popolazioni che sono lontane da voi, dimostrando una enorme fiducia in persone come me che con maggiore o minore competenza e efficacia tentano di cambiare in meglio un pezzetto di questo nostro mondo. Mi sento tanto debole e incapace di risolvere i grandi e gravi problemi che mi si pongono davanti quotidianamente, ma la vostra vicinanza, il vostro affetto e la vostra collaborazione effettiva, continuano a darmi coraggio e a far sì che pur nella mia debolezza possa continuare a lottare e a sperare di essere di aiuto, almeno a qualcuno dei tanti che ne necessitano. Vi invito anche, questa volta, ad unirvi a me per ringraziare il Cielo che mi ha portato ormai alle soglie degli ottant’anni (che compirò il 3 maggio). Inoltre, a ottobre ricorderò anche i sessant’anni di professione religiosa. Sembra sia stato ieri, eppure sono ormai un bel mazzetto di anni come missionario della Consolata. Il 21 marzo scorso, Luis Ventura, il nostro carissimo amico, ha anche difeso la sua tesi di dottorato in antropologia, all’università di Madrid. Spero possa presto tornare a lavorare con noi.

Sono sicuro di non aver scritto tutto in modo chiaro e corretto, ma purtroppo non ho più tempo per rivedere e correggere. Mi riprometto in breve, di farlo dove necessario e completare le informazioni che so che vi stanno a cuore. Io sto bene, e spero che lo siate tutti voi! Buona Pasqua. Vi abbraccio con tanto affetto.

Carlo Zacquini
04/04/2017


Da Neisu

Cari amici ed amiche,
Approfitto del tempo di quaresima per ringraziarvi di tutto ciò che fate per la Missione.

Qui a Neisu questo mese di marzo potrei dire che è stato il mese dei Pigmei. Due settimane fa tre di loro sono arrivati all’ospedale per farsi curare dalla malaria. Provenivano da un territorio «vicino», a una cinquantina di chilometri da qui, passando per le scorciatornie della foresta.

La dottoressa Serafina, facendo gli esami clinici, si è accorta che tutti e tre avevano delle ernie da operare ed allora sono state programmati interventi speciali per i loro casi, al di fuori ed in più di quelli già in lista il martedì e giovedì. Si è così operato anche il mercoledì. I nostri tre uomini sono giunti, come d’abitudine, solo con la maglietta che avevano indosso e senza nulla da mangiare (qui sono le famiglie degli ammalati che provvedono al loro cibo cucinato sotto una grande tettornia dove ciascuno può accendere il suo fuoco). I Pigmei sono seminomadi e vivono di pesca, caccia e frutti di stagione, sovente raccolti nei campi privati creando problemi ben immaginabili con i proprietari dei campi in questione… Noi li abbiamo assistiti nel centro nutrizionale, ma siccome non hanno le stesse abitudini culinarie dei Bantu (la maggioranza della popolazione) e sono abituati a cucinarsi essi stessi i propri pasti, hanno creato parecchi problemi. Per fortuna la moglie del capo villaggio li ha accolti preparando lei stessa i pasti per loro.

Le operazioni chirurgiche sono ben riuscite. Per l’occasione li abbiamo dotati di vestiti ospedalieri (che abbiamo ricevuto in dono dal Canada) e ho poi aggiunto per ognuno un paio di calzoni e dei sandali, un perizoma e un lenzuolo. Visto che loro avevano ricevuto i vestiti in regalo, la signora che li aveva assistiti, vedendo che non aveva ricevuto nulla, ha chiesto un abito locale anche per sé. Gliel’ho dato, ma per stuzzicarlo un poco, ho fatto notare al capo villaggio che lui stesso avrebbe dovuto fornire il vestito alla sua signora. La risposta? Che il mio regalo sarebbe servito benissimo per il giorno del funerale della sua signora.

I Pigmei, una volta guariti, sono rientrati nella loro foresta a piedi, dopo aver ricevuto qualche provvista per la strada di ritorno. Come si dice: «Un regalo ne attira un altro». Per completare il tutto la settimana scorsa, una mamma pigmea ha partorito con taglio cesareo il simpatico bimbo che potete vedere nella foto. Come potete constatare ci prendiamo proprio cura dei «più piccoli». Tutto ciò anche grazie a voi.

Richard Larose imc
27/03/2017, Ospedale di Neisu, Rd Congo


A Cecilia

Caro Padre Gigi,
in questi giorni ho scritto alcuni pensieri in vista del compleanno di mia nipote Cecilia, figlia di mio fratello, che compirà 22 anni il 20 aprile prossimo. Naturalmente mia mamma, abbonata a Missioni Consolata dagli anni Cinquanta fino al 2007, sarebbe molto felice di leggerli dalla «vita nuova» in cui si trova. Cari saluti

Di te dirò che le parole di mamma Franca, dopo la tua nascita, «Cecilia è un miracolo della vita»,
sono rimaste indelebili e saranno indimenticabili!
Di te dirò che la felicità di papà Delfino nel tenerti fra le sue forti braccia, piccolina, sempre terrò fra ciò che ho di più caro nel profondo.
Di te dirò che il grido di gioia per l’arrivo della nonna Cleofe, in occasione dei tuoi quattro anni, sempre terrò tra i ricordi.
Di te dirò che il tuo sguardo accorto e sagace ininterrottamente ricorderà il tuo nonno Vittorio, uomo molto buono e puro di cuore.
Di te dirò che allo straordinario mondo dell’arte ti sei avvicinata e che nel corso della vita esso ti stupirà con le sue meraviglie.
Di te dirò che la varietà dei colori e delle loro sfumature ti ha di continuo accompagnata, dall’astuccio, alla cassettiera e al make up policromo.
A te dirò in occasione del tuo compleanno, opportunità irripetibile per rinnovare i sogni e ridefinire i progetti, auguri magnifici e mirabili!

Zia Milva C.
20/04/2017


Auguri Donna

Ogni Donna è un delicato fiore che senza ossigeno muore.
Il suo profumo è pregiato se non è dall’esterno alterato.
Le basta una dolce carezza per avere coraggio e certezza e con un sincero bacio scorda dubbio e oltraggio.
È sicura, forte e trasparente quanto una pura sorgente.
Con le sue ali da libellula rende la realtà più bella.
S’inchina al destino quando non è meschino.
È figlia di Madre Natura forgiata nella stessa natura.
È Madre d’un creato all’origine designato.
È la speranza senza fine dell’Amore che non ha confine!

Piera Angela Feliciani
08/03/2017, Martinengo (Bg)


Capitolali dalle comunità d’Europa con la Direzione generale.

Verso il Capitolo Generale

Carissimi/e
con grande gioia veniamo a voi per comunicarvi che quest’anno il nostro Istituto Missioni Consolata celebrerà il suo tredicesimo Capitolo Generale, a Roma dal 22 maggio al 20 giugno 2017. Il capitolo verterà su due temi essenziali: la rivitalizzazione e la ristrutturazione.

Rivitalizzazione intesa come stimolo per ogni missionario alla fedeltà al carisma, amore e qualificazione della missione ad gentes, tensione alla santità dei singoli missionari e donazione nel servizio all’annuncio ai non cristiani, all’attenzione agli ultimi, all’apertura ai nuovi areopaghi.

Ristrutturazione intesa come parziale modifica della nostra organizzazione non più totalmente centralizzata, ma distribuita a livello continentale.

Approfitto dell’occasione per chiedervi di tenerci presenti nella vostra preghiera, affinché il capitolo generale sia un momento dello Spirito, in cui tutti i membri siano disposti ad accogliere il nuovo che Lui vorrà suggerire alla Chiesa e all’Istituto. La Vergine Consolata e il nostro beato fondatore, Giuseppe Allamano, ci siano di guida e ci spronino alla fedeltà alla missione evangelizzatrice della Chiesa nel mondo di oggi. Grati e sicuri della vostra preziosa preghiera, vi salutiamo nel Signore.

Padre Stefano Camerlengo,
superiore generale dei missionari della Consolata
Roma, 19 marzo 2017

Assemblea precapitolare latinoamericana in Bogotà, Colombia.




Popolazioni perseguitate /2: Rohingya


Indice:

Una tessera senza mosaico

I Rohingya, minoranza islamica del?Myanmar

La diaspora degli invisibili

I musulmani del Myanmar

I Rohingya e le radici coloniali del conflitto

Anno 1974: l’inizio della discriminazione

Anno 1982: la legge di cittadinanza

Anno 2010: le aperture democratiche

Buddhisti contro musulmani

Le leggi antislamiche del governo

Una delusione di nome Aung San?Suu Kyi

Movimenti islamici e chiamata al «jihad»

Il Rakhine e il peso della povertà

La diaspora dei Rohingya: in Bangladesh, Thailandia, Malesia e Indonesia

I barconi dei trafficanti d’uomini

Aung San Suu Kyi: dopo le parole, è l’ora dei fatti


Una tessera senza mosaico

Il Myanmar – o Birmania (Burma), secondo la vecchia denominazione coloniale – è sempre stato un paese di forte attrazione turistica. Anche quando – dal 1962 al 2011 – era governato da una dura giunta militare. I visitatori trovavano un paese affascinante abitato da gente gentilissima e sorridente. Ma era una visione parziale perché i loro movimenti erano limitati a zone geografiche circoscritte, per lo più abitate dai Bamar, il gruppo etnico predominante e di religione buddhista. Rimanevano esclusi ampi territori, abitati da altre etnie, che in Myanmar sono centinaia. Non è un modo di dire che il paese sia un mosaico etnico. Un mosaico turbolento: sono ben 18 i gruppi armati che operano sul territorio, tutti con la propria bandiera, il proprio esercito, i propri leader, i propri obiettivi. Insomma, dietro quei sorrisi si celava un paese diviso e in guerra.

Altra immagine che è necessario sfatare è quella dei monaci buddhisti visti come personificazione dell’atarassia. Come sinonimo di tranquillità, pace interiore ed esteriore, vita monasatica. Invece anche loro sono uomini con passioni e pulsioni. Le immagini dei monaci che manifestano in piazza contro la minoranza musulmana dei Rohingya e la comunità internazionale ne sono un’evidente testimonianza. Gli striscioni da loro mostrati parlano chiaramente: «No, Rohingya», «I profughi non sono del Myanmar», «Nazioni Unite, basta inventare storie sui Rohingya», «Non distruggete la storia e l’immagine del Myanmar», «Basta incolpare il Myanmar», «Gli amici dei Rohingya sono nostri nemici». Va ricordato che, nella nuova Costituzione del maggio 2008, il Myanmar riconosce al buddhismo una posizione speciale in quanto – si precisa – essa è la fede professata dalla grande maggioranza dei cittadini (art. 361). Nell’articolo successivo si dice però che lo stato riconosce altresì il cristianesimo, l’islam, l’induismo e l’animismo.

Da un paio d’anni si cerca di mettere ordine al mosaico etnico del Myanmar. Il 15 ottobre del 2015 il governo, al tempo ancora guidato dall’ex generale Thein Sein, ha firmato un accordo per il cessate il fuoco con 8 gruppi armati, tra cui quello dei Karen (Knu), l’organizzazione combattente più vecchia del paese. Dal 31 agosto al 3 settembre 2016, il nuovo governo di Aung San Suu Kyi ha organizzato, nella capitale Nay Pyi Taw, una grande conferenza di pace, convocando i rappresentanti di tutti i gruppi ribelli. Si è presentata anche la forte organizzazione per l’indipendenza dei Kachin (Kio). Nulla di decisivo secondo il Myanmar Times, ma il segnale c’è stato. Tanto che, a fine febbraio 2017, è iniziato un secondo incontro («Second Panglong Peace Summit»).

In questo quadro in divenire i Rohingya non trovano spazio. Sono più di un milione di persone, residenti per la quasi totalità nello stato di Rakhine. La particolarità è che non sono riconosciuti dallo stato birmano: sono considerati immigrati illegali bengalesi, anche se la maggior parte è in Myanmar da generazioni. Nel 2012, nel Rakhine, sono iniziati gli attacchi violenti e distruttivi della popolazione locale ai villaggi abitati dai Rohingya, senza che le forze di polizia intervenissero. Oggi migliaia di essi vivono in campi d’internamento privi dei requisiti minimi di vivibilità. Altre migliaia tentano di lasciare il Myanmar – via mare o via terra, usando mezzi di fortuna, quasi sempre gestiti dai trafficanti di uomini – per raggiungere soprattutto i paesi confinanti: Bangladesh, Malesia, Indonesia. Nonostante si tratti di paesi musulmani, anche qui i Rohingya sono respinti (come fa il Bangladesh da fine 2013) o comunque accettati con difficoltà. Siamo davanti alla tragedia di un popolo senza patria. Una tessera che nessuno vuole nel proprio mosaico.

Paolo Moiola


 


I Rohingya, minoranza islamica del?Myanmar

La diaspora degli invisibili

I Rohingya – oltre un milione di persone – sono una minoranza islamica che vive in Myanmar, nello stato di Rakhine. Esclusi dai censimenti perché non riconosciuti dallo stato, a causa delle discriminazioni e delle violenze patite, i Rohingya hanno cominciato a fuggire, via mare e via terra. Nella fuga molti hanno perso la vita, molti altri sopravvivono in campi profughi totalmente inadeguati per un’esistenza dignitosa. La persecuzione contro di essi ha radici storiche e non è iniziata di recente. Ultimamente però la situazione è precipitata, coinvolgendo più paesi, due a maggioranza buddhista e tre a maggioranza islamica: il Mynamar, la Thailandia, il Bangladesh, la Malesia e l’Indonesia. In questa vicenda le responsabilità di Aung San Suu Kyi, già icona del Myanmar, oggi ministro e consigliere di stato, non vanno taciute.

La luce del sole penetra attraverso le sottili fessure del tempio di Le-myet-hna, a Mrauk-U (stato di Rakhine, già Arakan), illuminando il volto sereno di una delle statue del Buddha. Percorro solitario lo stretto e claustrofobico corridoio lungo il quale i pellegrini buddhisti circumambulano recitando le preghiere. L’ultima volta che avevo visitato Mrauk-U, cinque anni fa, i templi erano affollati di turisti, per lo più birmani. Le cantilene dei fedeli si mescolavano ai commenti dei visitatori e i bagliori dei flash delle macchine fotografiche combattevano contro i raggi del disco solare appiattendo i suggestivi giochi di penombra.

La storia di Mrauk-U è un paradosso religioso: il buddhista Min Saw Mon, fondatore della dinastia, visse per 23 anni presso la corte islamica di Jalahuddin Muhammad Shah prima di riprendersi, con l’aiuto del sultano, il trono usurpatogli nel 1406 dal re di Ava, Minye Kyawswa, correligionario di Min Saw Mon.

Una storia di intreccio religioso che nel 2012 sarebbe diventato anche oggetto di contenzioso storiografico. Allora mi accompagnava nella visita Ma Thiri, studentessa di Museologia all’Università nazionale di arte e cultura di Yangon, la quale amava sottolineare che «i musulmani pretendono di riscrivere la storia chiamando Min Saw Mon col nome islamico di Suleiman Shah». Un’affermazione che prefigurava un conflitto culturale e religioso tra le comunità buddhiste e musulmane già in atto dall’era coloniale, ma che sarebbe scoppiato in tutta la sua violenza solo pochi mesi dopo la mia visita.

I musulmani del Myanmar

Nello stato del Rakhine, al confine con il Bangladesh, dal XIX secolo, vive – accanto a buddhisti di etnia rakhine – la maggioranza dei due milioni di islamici del Myanmar, il 4,3% della popolazione totale.

I musulmani dello stato Rakhine sono a loro volta divisi in due gruppi: i Kaman, discendenti di popolazioni che seguirono il principe Mughal Shah Shuja rifugiatosi nel 1660 a Mrauk-U, e i Rohingya il cui gruppo, a differenza dei Kaman, non è riconosciuto etnicamente dalla Costituzione birmana.

Ufficialmente i Rohingya non esistono e il censimento, effettuato nel 2014, ha registrato solo i 2.100.000 Rakhine nello stato omonimo, relegando altri 1.090.000 abitanti, identificati come «non conteggiati»1, in una postilla. Lo stesso documento precisa che «nel Rakhine una popolazione stimata in 1.090.000 abitanti non è stata conteggiata perché a loro non è stato permesso di autornidentificarsi usando un nome non riconosciuto dal governo»2.

I media generalmente fanno coincidere l’inizio degli scontri con una data precisa, il 28 maggio 2012, delineando erroneamente uno spartiacque cronologico con un periodo di convivenza pacifica che, nella realtà, non c’è mai stata.

Quel giorno l’uccisione da parte di tre musulmani di Thida Htwe, una donna ventisettenne di etnia rakhine, aveva dato avvio a quello che oggi viene comunemente chiamato il genocidio dei Rohingya.

Da quel fatidico giorno «zero» i media internazionali hanno iniziato ad occuparsi di un argomento di cui erano a digiuno, ma non certamente nuovo per il Myanmar.

I Rohingya e le radici coloniali del conflitto

Per comprendere cosa stia accadendo nel Rakhine, occorre risalire alle radici del conflitto che, come la maggior parte delle guerre etniche che affliggono il Myanmar, ha i suoi semi nella colonizzazione britannica.

I numerosi contatti tra l’area birmana e indiana avvenuti nel corso dei secoli, vennero intensificati dall’annessione della Birmania all’India conclusasi nel 1885 a seguito della Terza Guerra anglo-birmana. Tra il 1886 e il 1899, seguendo un copione già in atto nell’Indocina francese, dove funzionari vietnamiti venivano trasferiti negli uffici pubblici della Cambogia, anche nella colonia britannica migliaia di indiani chettyar, in particolare bengalesi, furono distaccati nelle regioni birmane in parte per compensare la mancanza di contadini che coltivassero le risaie, in parte per aiutare i colonizzatori nella gestione dell’amministrazione politica ed economica. In entrambe le regioni, queste decisioni avrebbero provocato negli anni a venire conseguenze catastrofiche.

Molti di loro divennero prestatori di denaro a contadini che, pressati dalle tasse e dal governo coloniale, cercavano nuovi terreni da coltivare, attrezzi e concimi chimici per velocizzare le operazioni di aratura, disboscamento, semina e raccolta del riso. L’apertura del Canale di Suez, infatti, aveva accelerato i commerci e diminuito drasticamente i prezzi dei trasporti provocando un’impennata della richiesta di prodotti esotici in Europa e obbligando i paesi colonialisti ad aumentarne la produzione e l’importazione. La quantità di denaro prestata dai chettyar era accompagnata da interessi esorbitanti che, spesso, i contadini non riuscivano a pagare. In questo modo si creava un meccanismo a spirale alla fine del quale le famiglie si trovavano costrette a cedere gran parte della loro terra, se non tutta, agli usurai. I campi, che tradizionalmente appartenevano ai villaggi e venivano coltivati dalle famiglie in base al loro bisogno e alla loro possibilità, si trasformarono in merce di scambio e venne introdotto, per la prima volta, il concetto di proprietà privata terriera.

L’avanzata giapponese nel Sud Est asiatico, avvenuta tra il 1942 e il 1944, radicalizzò le tensioni già esistenti: i Rakhine, buddhisti come i Bamar (il gruppo etnico più noto con il nome di Birmani e che ancora oggi rappresenta il 68% della popolazione del paese) di Aung San (padre di Aung San Suu Kyi, ndr), si schierarono a fianco delle armate imperiali nipponiche, mentre i musulmani, che sotto il dominio britannico avevano goduto di privilegi economici e territoriali, contraccambiarono il favore collaborando con gli alleati. Gli scontri furono intensi e spietati. Lo stesso Aung San, ministro della Guerra del governo fantoccio birmano instaurato da Tokyo, diede fulgido esempio di insensibilità quando, durante una battaglia contro i Karen – con l’intento di mostrare la sua idea di unità nazionale – uccise a sangue freddo un prigioniero di quella etnia e, sapendo che questi era musulmano, ordinò che il suo corpo venisse mostrato al villaggio su un carro destinato al trasporto di maiali (per questo atto i britannici, dopo la guerra, accusarono di omicidio Aung San tentando di processarlo).

Terrorizzati e sapendo di essere odiati dai Bamar, almeno quattrocentomila indiani abbandonarono il paese via terra per rifugiarsi in India mentre dietro di loro i britannici cercavano di fare terra bruciata, distruggendo ponti, navi e battelli, pozzi petroliferi, equipaggiamenti.

Nel Rakhine, allora chiamato Arakan (cambierà nome nel 1973), i musulmani si rifugiarono nel Nord della regione, nelle municipalità di Taung Po Lat Wae, Maungdaw e Buthidaung dove ancora oggi costituiscono la maggioranza della popolazione.

La fine della guerra e l’indipendenza della Birmania nel 1948 portò una nuova ondata di violenza, specialmente con il varo della nuova Costituzione che identificava 135 «razze indigene della Birmania»3, escludendo, tra queste, i musulmani del Nord dell’Arakan, i Rohingya, ma accettando un’altra comunità musulmana insediatasi nello stato, i Kaman. Fu in questo periodo che cominciò a diffondersi il senso di identità Rohingya, un termine sino ad allora pressoché sconosciuto che identificava quelle popolazioni di religione islamica provenienti dal Bengala Orientale (oggi Bangladesh), con cui il Rakhine condivide 275 chilometri di confine.

Prima degli anni Cinquanta il termine era comparso sporadicamente. Occorre risalire al 1799 per trovare, in un libro di un chirurgo scozzese, Francis Buchanan-Hamilton, il primo accenno a questa cultura: «Ora parlerò di tre dialetti parlati nell’Impero birmano, ma che derivano chiaramente dalla lingua della nazione hindù. Il primo è quello parlato dai maomettani che da lungo risiedono nell’Arakan e che chiamano se stessi Rooinga, o nativi dell’Arakan, chiamati dai veri indigeni dell’Arakan, Kulaw Yakain o stranieri Arakan»4.

Dopo di allora i documenti ufficiali non fanno quasi cenno ai Rohingya fino al 10 marzo 1950, quando un gruppo di musulmani dell’Arakan presentò un documento all’allora primo ministro U Nu, definendosi Anziani Rohingya.

Esiste, dunque, un’etnia Rohingya? Jacques Leider, il maggiore studioso di storia dell’Arakan e membro dell’Efeo (la Scuola francese dell’Estremo Oriente) mi dice che «Rohingya è un vecchio termine reclamato come identità politica che non implica alcun elemento distintivo etnico».

Anno 1974: l’inizio della discriminazione

Gruppo etnico o no, fino agli anni Settanta i Rohingya furono accettati e integrati nella società senza grossi problemi: la radio birmana trasmetteva tre volte la settimana un programma dedicato alla lingua rohingya, e il termine appariva addirittura nei testi scolastici. A Rangoon c’era anche un’associazione studentesca, la «Rangoon University Rohingya Students Association». È altresì vero che fino al 1961 un gruppo di Rohingya aveva lottato affinché le regioni settentrionali dell’Arakan, raggruppate nell’Amministrazione della Frontiera Mayu, aderissero al Pakistan Orientale e che un musulmano, Hla Tun Pru, chiedeva la formazione di uno stato indipendente, l’«Arakanistan»; ma tutti questi movimenti autonomisti erano marginali e lo stesso Pakistan (e in seguito il Bangladesh) non mostrava alcun interesse ad appoggiare i gruppi secessionisti. Le prime avvisaglie di intolleranza verso i Rohingya sorsero nel 1974, quando l’allora presidente birmano, il generale Ne Win, varò l’«Emergency Immigration Act», negando ufficialmente la cittadinanza birmana al gruppo musulmano. Al termine Rohingya, il governo sostituì quello di bengalesi, ad indicare che questa popolazione apparteneva ad un altro stato, il Bangladesh, il quale, a sua volta, non la riconosceva come propria entità. Tre anni più tardi l’operazione «Naga Min» (Re Dragone), il cui scopo era quello di espellere gli immigrati illegali dal paese, costrinse tra i 200 e i 250 mila musulmani del Rakhine (su un totale che allora si aggirava attorno ai 700.000) a guadare il fiume Naf e trovare rifugio nel Bangladesh. Le condizioni di vita nei campi in Bangladesh erano talmente dure che, prima che Arabia Saudita, India e Unhcr riuscissero ad organizzare un programma di rientro (due anni più tardi), 12.000 profughi erano morti d’inedia.

Anno 1982: la legge di cittadinanza

Il varo della legge di cittadinanza del 1982 («Myanmar Citizenship Law»), in vigore ancora oggi, segnò un altro punto di svolta nella vicenda dei Rohingya. La nuova legge, sostituendo la «Union Citizenship Act» del 1948, restringeva ulteriormente i termini di cittadinanza dividendo la popolazione del paese in tre gruppi: cittadini a tutti gli effetti, cittadini associati e cittadini naturalizzati.

Nel primo gruppo rientrano coloro che appartengono alle otto principali nazioni etniche (Kachin, Kayah, Karen, Chin, Birmani o Bamar, Mon, Rakhine e Shan) e chiunque abbia avuto avi che risiedevano in Birmania prima del 1823 (anno dello scoppio della Prima guerra anglo-birmana)5. Al secondo gruppo appartengono coloro che hanno ottenuto la cittadinanza birmana nel 1948 sotto la «Union Citizenship Act»6. Infine, i cittadini naturalizzati sono coloro che possono provare di risiedere in Myanmar da prima del 4 gennaio 1948, data dell’indipendenza nazionale, ma che non avevano inoltrato richiesta di diventare cittadini associati sotto la «Union Citizenship Act»7.

I Rohingya non appartengono ad alcuna di queste categorie e sono, quindi, considerati stranieri a tutti gli effetti.

«Come è possibile provare di risiedere in Myanmar dal 1823?», chiede sarcasticamente Shukur Khan, un quarantenne di Buthidaung, il quale continua: «Prima del 1951 non c’era alcun obbligo di registrare la residenza e comunque molti documenti sono andati perduti, bruciati o eliminati, spesso intenzionalmente, visto che gli archivi sono gestiti da Rakhine e Bamar».

Lo sfogo di Shukur e il risentimento contro i Rakhine, con cui i Rohingya dividono in modo turbolento la coabitazione nello stato, mostrano chiaramente la frattura e la sfiducia reciproca tra le due comunità.

«È vero che abbiamo la carta di scrutinio di cittadinanza che ci permette di votare, ma dato che per il governo noi non esitiamo, non abbiamo alcun diritto, a differenza dei Rakhine e dei Kaman», lamenta Nur Kawim, madre di sei figli, di cui tre emigrati in Arabia Saudita, dove esiste la più numerosa comunità Rohingya fuori dal Myanmar dopo quella del Bangladesh.

La legge di cittadinanza del 1982 sconvolse la società musulmana birmana: la giunta militare, prima indifferente alla presenza della comunità rohingya, cominciò a guardare con attenzione le aree di confine e nel 1991 il «ministero del Progresso delle Aree di confine, delle Etnie nazionali e dello Sviluppo» (conosciuto come NaTaLa) avviò un intenso programma di trasferimento di buddhisti nelle zone abitate prevalentemente dagli islamici offrendo amnistie a prigionieri e nuove sistemazioni abitative con terreni annessi ai senzatetto di Yangon e Mandalay. Nello stesso periodo vennero fondati i famigerati NaSaKa, le «guardie di frontiera» gestite dalle comunità rakhine in modo pressoché autonomo rispetto al potere centrale e che comprendevano 1.200 membri fra polizia, servizi segreti e funzionari di dogana.

L’illegalità dello status cui erano relegati i Rohingya li ingabbiava: da una parte le loro terre venivano confiscate, dall’altra il NaSaKa, abolito nel 2013 da Thein Sein, obbligava chiunque avesse più di 10 anni a lavorare gratuitamente almeno due giorni al mese per i servizi dello stato.

In pochi mesi dal varo del programma di colonizzazione interna 250.000 musulmani fuggirono di nuovo nel Bangladesh, mentre nel capoluogo Sittwe e in altre città del Rakhine, iniziarono a registrarsi i primi scontri tra le comunità buddhiste e islamiche.

Il rientro di 200.000 rifugiati in Myanmar, effettuato a seguito di un accordo tra governo birmano e Unhcr, fu aspramente criticato da numerose organizzazioni non governative. Secondo un sondaggio di Médecins Sans Frontières (Msf), il 63% dei 60.000 Rohingya che, in un primo tempo, accettò di rientrare fu rimpatriato contro la propria volontà8. Entro il 1996 i campi profughi del Bangladesh vennero praticamente svuotati a forza e 200.000 esuli furono costretti a varcare di nuovo il confine e stanziarsi nel Rakhine.

(Zakir Hossain Chowdhury / Anadolu Agency)

Anno 2010: le aperture democratiche

Le aperture democratiche avviate nel 2010 dal governo Thein Sein stravolsero, nel bene e nel male, l’intero sistema sociale del Myanmar. L’unica forza interetnica in grado di garantire l’unità della nazione, il Tatmadaw (l’esercito), cominciò a perdere potere inducendo i gruppi etnici ad accelerare le pressioni centrifughe autonomiste. I governatori dei singoli stati, che fino al 2010 erano stati anche capi militari e che garantivano la stabilità regionale (usando anche il pugno di ferro per reprimere sul nascere ogni conflitto), diventarono funzionari civili e si trasformarono essi stessi in difensori di una delle fazioni coinvolte nella lotta. La libertà di stampa, di parola, di viaggiare all’interno del paese e la possibilità per i giornalisti stranieri di entrare nella nazione portarono alla ribalta internazionale il problema dei Rohingya. Questa volta, però, i Rakhine buddhisti, che fino ad allora avevano combattuto l’amministrazione centrale, trovarono nel governo e nelle stesse forze di polizia un formidabile alleato per le loro rivendicazioni ai danni dei musulmani.

Da parte sua Nay Pyi Taw cercò con successo di ammortizzare il risentimento delle minoranze etniche cercando aiuto tra i buddhisti ed utilizzando la religione come deterrente. Il buddhismo divenne, quindi, uno dei principali veicoli di unione nazionale da contrapporre alle religioni considerate estranee alla tradizione birmana.

In una sessione di addestramento teorico militare, venne presentata una relazione in cui si affermava che «i musulmani bengalesi si infiltrano tra la popolazione per propagandare la loro religione. La popolazione aumenta grazie all’immigrazione illegale»9.

Buddhisti contro musulmani

L’inversione demografica è, ancora oggi, uno dei temi di più facile appiglio per chiunque voglia gettare benzina sul fuoco: «I bengalesi fanno più figli di noi buddhisti, inoltre il Bangladesh ha tre volte la popolazione del Myanmar, ma su un territorio che è più di quattro volte più piccolo del nostro. Logico che il governo del Bangladesh sostenga l’emigrazione clandestina nel Rakhine. Nel giro di pochi anni i Rakhine diventeranno la minoranza e saranno comandati dai musulmani», afferma Kyaw Naing Tun, studente della facoltà di fisica della Technological University di Sittwe.

Persino la «Sangha» (comunità, ndr) buddhista, in particolare i monaci più giovani, è scesa in campo contro gli islamici. Organizzazioni come il «MaBaTha» («Associazione per la protezione della razza e della religione») e il «Movimento 969» hanno lanciato proclami xenofobi definendo i Rohingya «serpenti» o «cani pazzi» ed invitando i Rakhine a non assumere musulmani, non comprare alcun bene nei loro negozi e ai conducenti a non far salire Rohingya sui loro mezzi. In uno dei proclami lanciati dal MaBaTha si legge che «se compri qualcosa in un negozio di musulmani, i tuoi soldi non si fermeranno lì, ma verranno utilizzati per distruggere la tua razza e la tua religione. Quei soldi verranno usati per avere una donna birmana buddhista che molto preso sarà costretta a convertirsi all’islam […]. Una volta che i musulmani diventeranno numerosi, ci sommergeranno e prenderanno il nostro paese per trasformarlo in una satanica nazione islamica»10.

Nge Le Lun, una Rakhine buddhista che appoggia l’idea di un dialogo tra le comunità, mi mostra una email che ha ricevuto dall’Associazione dei monaci di Mrauk U: «I bengalesi sono crudeli per natura; i Rakhine devono capire che loro vogliono distruggere la terra dei Rakhine; i bengalesi mangiano riso coltivato dai Rakhine e al tempo stesso stanno pianificando lo sterminio dei Rakhine e usano i loro soldi per comprare armi al fine di uccidere la gente rakhine»11.

Il risentimento antimusulmano si ripercuote anche contro le organizzazioni umanitarie e non governative che operano sul territorio, viste come alleate dei Rohingya.

«Quello dei bengalesi è un problema interno al Myanmar. Le Nazioni Unite e le organizzazioni occidentali appoggiano i bengalesi che sono immigrati illegali. In ogni altro paese l’illegalità è combattuta, qui, invece, ci voglio imporre persone che, oltre che essere qui illegalmente, portano anche violenza», lamenta Thet Win, un giovane rakhine che incontro in un ristorantino di Maungdaw.

Le leggi antislamiche del governo

Questa insofferenza nei confronti di chi si prodiga a favore di chi necessita di aiuto (sia esso Rohingya che Rakhine) si trasforma in aperta ostilità. Basta un nonnulla, come la rimozione di una bandiera buddhista da un ufficio di rappresentanza internazionale da parte di una cooperante, come avvenuto a marzo 2014, per scatenare il putiferio: una folla rabbiosa di Rakhine ha devastato 33 uffici di Ong e di organizzazioni dell’Onu costringendo 300 cooperanti a lasciare lo stato.

Nel febbraio 2014 il governo ha sospeso le attività di diverse Ong tra cui Msf (nel luglio dello stesso anno l’organizzazione francese è stata invitata a rientrare e dal gennaio 2015 ha ripreso le sue operazioni in Myanmar)12. La «All Rakhine Refugee Committee» ha dichiarato di rifiutare ogni tipo di aiuto da parte delle Ong e dall’Onu13.

In questo clima, per il parlamento birmano è facile approvare, su espressa richiesta di alcuni movimenti buddhisti, una serie di norme volte a contrastare la società islamica nel Myanmar: il «Religious Conversion Bill», l’«Interfaith Marriage Bill», il «Monogamy Bill», il «Population Control Bill», tutte leggi rientranti nel pacchetto della «National Race and Religion Protection».

Il «Programma nazionale di protezione della razza e della religione», approvato nel 2014 e ancora in vigore, ostacola la conversione all’islam e i matrimoni di donne buddhiste con uomini musulmani, obbliga gli uomini musulmani a tagliarsi la barba per le fotografie su passaporti, mentre limita a due il numero di figli per le coppie musulmane, oltre che ad obbligare le donne a lasciare passare un periodo minimo di 36 mesi tra un parto e l’altro14.

Una delusione di nome Aung San?Suu Kyi

( AFP PHOTO / AUNG HTET)

La liberazione di Aung San Suu Kyi, avvenuta nel novembre 2010, aveva portato una ventata di speranza tra i Rohingya.

In una intervista rilasciata nel 2013, la Lady (soprannome di Suu Kyi, ndr) aveva identificato il problema di fondo che divideva le comunità nel Rakhine: «Ciò che è venuto a mancare durante gli anni della dittatura militare, è la capacità del dialogo e del compromesso. Nessuno vuole cedere sulle proprie richieste e questo porta inevitabilmente ad uno stallo dei negoziati»15.

Purtroppo questa capacità di dialogo non sembra sia stata sviluppata dalla stessa Aung San Suu Kyi. Nay San Lwin, militante Rohingya e autore di un blog su quello che sta avvenendo nella sua comunità, mi confida la sua delusione, condivisa da molti e che si avverte in tutte le comunità etniche e religiose: «Aspettavamo che la Lady prendesse una netta posizione di condanna nei confronti delle violenze nel Rakhine. Purtroppo tutte le sue belle parole spese sui diritti umani, sulla democrazia e a favore delle minoranze etniche si sono dissolte appena lei è entrata in politica».

La ritrosia della Lady nel condannare in modo netto le violenze contro le comunità islamiche, non solo nello stato Rakhine e non solo contro i Rohingya, ha attirato numerose critiche verso quella che, un tempo, era vista come paladina dei diritti umani, così la sua elezione a ministro e consigliere di stato, nel marzo del 2016 non ha generato nella società islamica (e non solo) quella euforia e quelle speranze che ci si sarebbe potuti aspettare soltanto sei o sette anni prima.

La lettera – datata 29 dicembre 2016 – dei tredici premi Nobel16 e dieci personalità del mondo della politica, dell’editoria e della cultura a livello internazionale17, è solo l’ultimo dei tanti giudizi negativi sull’operato di Suu Kyi, anche lei premio Nobel per la pace nel 1991: «Nonostante i ripetuti appelli a Daw Aung San Suu Kyi siamo delusi che non abbia preso alcuna iniziativa per assicurare pieni ed eguali diritti di cittadinanza ai Rohingya. Daw Suu Kyi è la leader (del paese, ndr) ed è sua responsabilità primaria guidarlo e guidarlo con coraggio, umanità e compassione».

La lettera termina con un’esortazione che significativamente ripete le stesse richieste avanzate dalla comunità internazionale dal 2012, segno che le politiche dei governi Thein Sein e Aung San Suu Kyi (foto) nei confronti delle minoranze etniche non si distanziano molto le une dalle altre: «Esortiamo le Nazioni Unite a fare tutto il possibile per incoraggiare il governo del Myanmar ad eliminare ogni restrizione in materia di aiuti umanitari, in modo che le persone possano ricevere beni di prima necessità. L’accesso ai giornalisti e agli osservatori delle agenzie per i diritti umani dovrebbe essere consentito e si dovrebbe formare una commissione internazionale e indipendente per stabilire la verità sulla situazione attuale»18. La negligenza di Aung San Suu Kyi non ha scuse avendo accentrato su di sé tutti gli incarichi chiave del governo. Ha la possibilità di dettare legge e la responsabilità di ciò che accade nel paese. Non potendo candidarsi alla presidenza della nazione, ha aggirato la Costituzione retrocedendo il presidente, il suo consigliere più fidato, Htin Kyaw (foto) a pura figura emblematica19. Ha avocato il ruolo di ministro dell’Ufficio del presidente e di ministro degli Esteri che le permette di sedersi nel potentissimo «Consiglio nazionale di difesa e sicurezza», un organismo di undici membri che si occupa di sicurezza interna. Ha, inoltre, creato ad hoc la figura di «Consigliere di stato» che presiede i due più importanti comitati che si occupano della politica nello stato Rakhine: il neonato «Comitato centrale sull’implementazione di pace, stabilità e sviluppo dello stato Rakhine» (formato il 31 maggio 2016) e il «Comitato di unione, pace e dialogo».

Htin Kyaw e Suu Kyi hanno anche sfruttato l’opportunità conferita loro dalla Costituzione di nominare i capi di governo dei sette stati e delle sette regioni non tenendo conto dei risultati elettorali. Così nonostante nel Rakhine l’«Arakan National Party» abbia ottenuto il 52,6% dei voti contro il 14,5% della «Lega nazionale per la democrazia» (il partito della Lady), il capo del governo è U Nyi Pu, membro di quest’ultima.

Movimenti islamici e chiamata al «jihad»

Il nuovo governatore, insediatosi nell’aprile 2016, si è posto come obiettivo la pace e la stabilità politica. Il suo mandato, però, si è inaugurato con nuovi fatti di violenza repressi col sangue, uccisioni di massa e stupri20. Fin qui nulla di nuovo rispetto agli anni passati, se non che gli attacchi di ottobre e novembre 2016 che hanno coinvolto le guardie di frontiera, sono stati rivendicati da un nuovo attore: l’«Harakah al-Yaqin» (Movimento della fede). Lo stesso gruppo ha postato alcuni video in cui si invitano i musulmani birmani a unirsi alla lotta contro gli infedeli21. Poco si sa di questa organizzazione fondata da una ventina di Rohingya residenti in Arabia Saudita e guidati da Hafiz Tohar, nome di battaglia Ata Ullah, e da Ameer Abu Amar, un pakistano nato da una famiglia Rohingya immigrata a Karachi. Il movimento avrebbe iniziato a reclutare affiliati nel 2013, subito dopo gli scontri del 2012 e, nel 2014, con aiuti sauditi, sarebbero iniziati i primi addestramenti sulle colline del Mayu, al confine con il Bangladesh. Secondo i servizi segreti birmani, l’Harakah al-Yaqin potrebbe contare su una rete di centinaia di collaboratori, responsabili di attacchi a militari e di uccisioni di presunti informatori e collaborazionisti. A differenza di altri gruppi, l’Harakah al-Yaqin non contiene un riferimento ai Rohingya nella sua denominazione: un chiaro segno dell’intenzione di internazionalizzare il conflitto inserendolo nel disegno più ampio del jihad. Non è un caso che, già nel 2012, un altro movimento, il «Tehreek-e-Taliban Pakistan» avesse invocato la guerra santa e che, nel giugno 2015, avesse offerto aiuti per addestrare Rohingya al jihad.

Anni di politiche sbagliate e, in particolare, lo scoramento seguito alla grande delusione verso Aung San Suu Kyi hanno contribuito a far emergere questi gruppi armati d’ispirazione internazionale. Significativo, in questo senso, il video postato da MulMujahidin il quale spiega che «durante il governo della giunta militare in Myanmar, noi Rohingya pensavamo che quando sarebbe arrivata Aung San Suu Kyi avremmo potuto vivere liberi […]. Ci siamo sbagliati […]. Ora dobbiamo unirci al jihad. Se non uccidiamo i kafir (miscredenti, infedeli, ndr) non avranno mai timore di noi»22.

Il Rakhine e il peso della povertà

Una guerriglia organizzata e internazionalizzata è una nuova emergenza per il Myanmar. Essa è stata favorita anche dall’allontanamento dell’esercito (Tatmadaw) dalla vita sociale: senza il controllo capillare del territorio da parte del Tatmadaw, gli scontri tra le due comunità si sono moltiplicati e oggi circa 120 mila Rohingya sono rinchiusi in campi profughi in cui mancano i servizi essenziali (cibo, acqua, servizi igienici, medicine)23.

La sete di terra ha indotto il governo di Nay Pyi Taw a creare i campi per i rifugiati interni in aree depresse e su terreni soggetti ad inondazioni, aggravando la già precaria condizione igienica dei profughi.

Un sondaggio commissionato dall’«Integrated Household Living Conditions Assessment» (Ihlca-2) ha rivelato che il 24,6% della popolazione non ha terra di sua proprietà con punte massime che arrivano al 60% nella zona settentrionale dello stato, dove si concentra la maggioranza dei Rohingya24.

«Il problema non è solo religioso o etnico – mi dice l’economista Wai Shwe Yee -. Il governo da anni sta cercando investitori per innalzare il tenore di vita degli abitanti, ma durante gli anni della dittatura l’intero commercio era in mano ai militari e ai Bamar. La democratizzazione, che ha liberalizzato l’economia, ha portato i Rakhine, impiegati nei posti pubblici, ad accorgersi che il piccolo commercio era dominato dai musulmani».

Il Rakhine è lo stato più penalizzato del Myanmar dal punto di vista economico: un rapporto dell’Unicef fissa l’indice di povertà al 43,5%25, secondo solo allo stato Chin, mentre la Banca mondiale, utilizzando nuovi e più ampi criteri di analisi, innalza lo stesso indice al 77%, superando anche quello del Chin26.

Le condizioni sociali sono le peggiori della nazione: il 16,3% dei bambini sotto i cinque anni soffre di malnutrizione, contro una media nazionale del 9,1%27 e il 37,4 dei bambini tra i zero e i 59 mesi sono sottopeso rispetto ad una media nazionale del 22,6%28. Anche il consumo energetico pro capite, indice di benessere e di sviluppo economico e industriale, è il più basso del Myanmar: solo 3 kw/h di elettricità contro i 121 kw/h della media nazionale; questo significa che i Rakhine e le industrie dello stato sono obbligati e far uso di generatori elettrici, il cui costo è proibitivo.

In questa situazione trovare investitori, come spiega Wai Shwe Yee, è un’impresa proibitiva, ma non impossibile. Il 29 gennaio 2015 è stata inaugurato l’oleodotto e il gasdotto che collega il porto di Kyaukpyu, nella parte meridionale del Rakhine, alla cinese Kunming. Un progetto faraonico di 2.400 chilometri i cui 2,5 miliardi dollari sono stati interamente investiti dalla China National Petroleum Company, la quale, per zittire le polemiche e le recriminazioni dei contadini, per la maggioranza rakhine, che protestavano per l’espropriazione dei propri terreni, ha promesso un ritorno di 53 miliardi di dollari in royalties in 30 anni e che il 10% del gas resterà in Myanmar. La protesta popolare, però ha indotto il governo di Nay Pyi Taw a cancellare il progetto ferroviario che avrebbe dovuto costeggiare il gasdotto e congiungere Kyaukpyu a Kunming.

Alla fine del 2015 il governo ha anche approvato il progetto della «Zona ad economia speciale» di Kyaukpyu che porterebbe nella zona investimenti per 100 miliardi di dollari.

Le organizzazioni rakhine locali lamentano che gli investimenti non beneficeranno l’economia locale: «Le compagnie che hanno investito nei progetti nello stato Rakhine, cinesi, indiane, singaporeane, thailandesi, tendono a portare manodopera dei loro paesi o, quando questa non è sufficiente, bamar. Noi Rakhine non traiamo alcun vantaggio da questi investimenti», mi dice Kyal Nyein Han, un abitante del villaggio di Maday.

Senza volerlo Kyal Nyein Han ha toccato un’altra conseguenza del conflitto in atto con i Rohingya. Le compagnie che investono nel Rakhine necessitano di manodopera a basso costo e la disponibilità nello stato non è sufficiente rispetto alla qualità e quantità di domanda. I Rohingya avrebbero potuto rappresentare una soluzione, ma molti di loro sono confinati nei campi profughi in Myanmar o nel Bangladesh, altri sono fuggiti in Malesia, Thailandia o Indonesia, altri ancora sono emigrati nei paesi arabi.

La diaspora dei Rohingya: in Bangladesh, Thailandia, Malesia e Indonesia

La diaspora Rohingya ha come risultato, oltre che privare di preziosa manodopera il paese, di fomentare il malessere delle famiglie musulmane nel Rakhine, molte delle quali sono costrette a dividersi.

Il deterioramento della situazione nel Rakhine e la paura di una destabilizzazione del paese, secondo Aung San Suu Kyi sarebbero da attribuirsi alla facilità con cui i musulmani possono varcare il confine birmano-bengalese. «Io e il mio partito abbiamo sempre sostenuto che il governo avrebbe dovuto controllare e far rispettare il confine tra Birmania e Bangladesh. Per anni nessuno se n’è occupato con il risultato che migliaia di immigrati clandestini oggi sono in territorio birmano. La radice del problema è tutta qui, oltre al fatto che in Birmania c’è la paura che elementi esterni possano destabilizzare il paese»29.

Myanmar e Bangaldesh si sono sempre rimpallati il «disturbo» dei Rohingya: il governo birmano, definendoli bengalesi, afferma che sono cittadini del vicino stato islamico, mentre Dacca li rispedisce al mittente in quanto, da decenni, residenti nel Rakhine.

Nel Bangladesh vi sono solo due campi ufficialmente riconosciuti dal governo e gestiti dall’Unhcr: quelli di Nayapara (o Noapara) e di Kutupalong che ospitano rispettivamente 19.000 e 14.000 Rohingya. Accanto a questi vi sono altri insediamenti considerati illegali: Shamlapur, in cui vi sarebbero 8.000 rifugiati, Leda, con 15.000 persone e altri 30.000 Rohingya si sarebbero stabiliti nel campo di Kutupalong senza essere registrati. Questo significa che l’Unhcr ha una capacità logistica di gestire la situazione dei profughi inferiore a quella reale.

Dato che il Bangladesh non aderisce alla Convenzione del 1951 sullo status dei rifugiati, questi vivono perennemente in una condizione precaria senza che possano sperare in una veloce e definitiva risoluzione della loro situazione.

Dall’ottobre 2016, inoltre, oltre 50.000 Rohingya avrebbero attraversato il fiume Naf cercando riparo dalla nuova ondata di violenze che ha infiammato il Rakhine.

Il governo bengalese ha redatto, nel settembre 2013, uno Strategy paper, un documento, su rifugiati e indocumentati in Bangladesh in cui si ufficializza per la prima volta che i Rohingya sono cittadini del Myanmar e che «vi sono tra le 300.000 e le 500.000 persone di nazionalità del Myanmar che vivono non registrate fuori dai campi e che sono entrati in Bangladesh in modo irregolare»30.

Il Bangladesh, come già ricordava Kyaw Naing Tun, lo studente di fisica di Sittwe, è uno degli stati più popolati al mondo (163 milioni di abitanti si assiepano su un fazzoletto di terra di 148.000 km2 – circa metà del territorio italiano -, in confronto il Myanmar ha 55 milioni di abitanti con 677.000 km2 di superficie disponibile) e, obiettivamente, fa molta fatica a prendersi cura di così tante bocche da sfamare.

Il ministro della Giustizia Syed Anisul Haque nel luglio 2014 ha proibito matrimoni tra bengalesi e Rohingya: molti di questi, infatti, per ufficializzare la loro posizione, sposavano bengalesi prendendo così la cittadinanza del Bangladesh.

Il principale timore del governo di Dacca, guidato dall’Awami League di Sheikh Hasina Wazed, è che i Rohingya possano divenire strumenti di disturbo in mano ai due principali partiti dell’opposizione, il Jatiya Party di Muhammad Ershad e il Jamaat-e-Islami, il più popolare partito islamico bengalese, che hanno nelle provincie delle Chittagong Hill Tracts e di Cox’s Bazar, confinanti con il Myanmar, i loro principali serbatorni elettorali.

La diaspora rohingya non colpisce solo il Bangladesh, ma anche le nazioni che si affacciano sul Golfo del Bengala e il Mar delle Andamane: la Thailandia, la Malesia e l’Indonesia (si veda la mappa qui sopra, ndr).

(AFP PHOTO / JANUAR / AFP PHOTO / JANUAR)

I barconi dei trafficanti d’uomini

L’allentamento delle misure di sicurezza e di controllo da parte delle autorità del Myanmar dopo il 2010, ha accelerato il flusso di migranti via mare.

Solo dal gennaio 2014 circa 94.000 Rohingya sono fuggiti dal Rakhine e dal Bangladesh a bordo di barconi verso le coste malesi, thailandesi e indonesiane31, ma secondo il ministero degli Esteri del Bangladesh vi sarebbe da calcolare almeno un terzo di emigrati cittadini bengalesi in più32.

La mancanza di scrupoli da parte delle organizzazioni di trafficanti d’uomini che, in maniera del tutto illegale, organizzavano le tratte marittime era giunta a livelli parossistici. Ogni aspirante passeggero doveva sborsare l’equivalente di 1.600-2.400 dollari per un viaggio via mare pericoloso e senza alcuna garanzia di successo. Cifra che aumentava fino a 7.000 dollari per un biglietto aereo verso le capitali dei paesi del Sudest asiatico33.

In nome del principio di non interferenza negli affari interni di ogni stato membro, l’Asean e la comunità internazionale hanno ignorato il problema fino al maggio 2015, quando cinquemila rifugiati e immigrati sono stati abbandonati dai trafficanti nel Mar delle Andamane e nel Golfo del Bengala. Prima che si potesse intervenire un migliaio di essi erano affogati o morti di stenti nelle acque dell’Oceano Indiano34.

Da quella tragedia il controllo delle coste birmane e bengalesi si è fatto più capillare e nel 2015 il numero di partenze da questi due paesi è diminuito a 31.000 persone35.

Thailandia, Malesia e Indonesia ospitano in totale circa 150.000 rifugiati rohingya; nella sola Malesia vi sarebbero 159.000 persone registrate provenienti dal Myanmar, di cui 45.000 Rohingya36. Mentre Bangkok cerca di tenere a bada i richiedenti asilo islamici affinché non alimentino le file del secessionismo nel Sud del paese, Kuala Lumpur utilizza i profughi provenienti dal Rakhine per propri fini propagandistici.

Lo scorso 4 dicembre 2016 il primo ministro malese Najib Razak ha denunciato, durante una manifestazione, il «genocidio Rohingya» e ha lanciato un messaggio alla collega birmana Aung San Suu Kyi: «Quando è troppo è troppo».

Secondo Jacques Leider neppure il termine genocidio sarebbe appropriato: «Ciò che sta accadendo nel Rakhine non è un genocidio semplicemente perché non possiamo parlare di una etnia rohingya. Possiamo parlare di xenofobia, ma non di genocidio o di razzismo nei confronti dei Rohingya».

La prudenza di Leider è confortata anche dal fatto che, sino ad oggi, nessun documento delle Nazioni Unite parla di genocidio anche se secondo l’Ufficio dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite è «molto probabile si stiano commettendo crimini contro l’umanità»37.

Genocidio o no, lo sfogo del primo ministro malese Najib Razak non è disinteressato: con le elezioni generali in vista (agosto 2018) e la sua popolarità in calo a picco a causa delle accuse di corruzione, il primo ministro malese ha bisogno di riacquistare voti e credibilità tra l’elettorato musulmano e sviare l’attenzione dai problemi interni che affliggono la Malesia.

Del resto la stessa Malesia non è immune da discriminazioni nei confronti dei Rohingya. Solo coloro che possiedono una carta Unhcr (che li identifica come rifugiati) hanno accesso ai servizi sanitari, alle scuole pubbliche, ai servizi sociali pagando comunque il 50% delle rette e, nonostante il governo di Kuala Lumpur abbia più volte assicurato di voler rilasciare permessi di lavoro temporanei, questi sono consegnati col contagocce. I pochi fortunati che hanno la possibilità di lavorare guadagnano la metà di un loro collega malese38.

Le leggi restrittive malesi verso le Ong internazionali permettono solo a tre di queste di lavorare con i rifugiati: la «Angkatan Belia Islam Malaysia», la «Taiwanese Buddhist Tzu Chi Foundation», che gestisce una clinica gratuita che assiste i Rohingya e la «Myanmar Refugees Activist», che offre corsi di specializzazione professionale ai profughi del Maynmar.

La corruzione dilagante nello stato colpisce anche i profughi: alcuni Rohingya hanno denunciato di essere costretti a pagare somme tra i 5 e i 12 dollari ai poliziotti per evitare il carcere nel caso vengano fermati e trovati senza carta Unhcr.

La stessa Unhcr non è stata esente, in passato, di accuse di corruzione secondo cui funzionari dell’agenzia delle Nazioni Unite avrebbero intascato fino a 400 dollari per rilasciare le carte Unhcr ai rifugiati. Dopo una replica in cui non si negava la possibilità che tali atti fossero accaduti39, l’organizzazione ha cambiato tutte le carte di registrazione e i metodi per ottenerle.

Aung San Suu Kyi: dopo le parole, è l’ora dei fatti

Quella dei Rohingya non è certamente la sola tragedia – culturale, religiosa, etnica, politica, economica – che affligge una minoranza. In Myanmar, specialmente, decine di etnie hanno subito e subiscono ancora oggi, a sette anni dalla fine della dittatura, soprusi da parte delle autorità di un governo colluso con i militari.

Forse è giunta l’ora, per Aung San Suu Kyi e la sua Lega nazionale per la democrazia, di dimostrare che i discorsi di democrazia, giustizia, autonomia lanciati durante gli anni della dittatura militare, non erano solo parole di propaganda.

Gli scontri con i Kachin, i Karen e le altre nazioni etniche, così come le proteste dei contadini di Monywa, sfrattati per far sposto agli investitori di miniere cinesi (per l’estrazione di rame, ndr), dimostrano che il nuovo governo – su cui così tanti avevano risposto le loro speranze – è ancora lungi dal dimostrare che il paese ha imboccato la strada che per tanti anni Aung San Suu Kyi e gli altri ministri avevano richiesto ai militari.

Piergiorgio?Pescali

 




Popolazioni perseguitate: Yazidi


Sommario

Introduzione. Guerre e colpi di spugna.

Yazidi, una minoranza in pericolo. Quando vincono la diffidenza e il pregiudizio.

Racconto di un massacro. Quando a Sinjar arrivarono i miliziani

Incontro con Nadia Murad. Storia di Nadia, da schiava ad ambasciatrice.

Scheda 1. Genocidio.

Scheda 2. Le guide e le caste.

Scheda 3. La diaspora.

Infodossier

 

Abstract

Questo è il primo di due dossier che dedicheremo alle minoranze dimenticate ed oppresse. In esso Simone Zoppellaro parla degli YAZIDI dell’Iraq. Il prossimo, a firma di Piergiorgio Pescali, sarà centrato sui ROHINGYA, la minoranza musulmana perseguitata nel Myanmar buddhista di Aung San Suu Kyi, premio Nobel per la pace. (pa.mo.)

Introduzione

Guerre e colpi di spugna

Secondo il dizionario Treccani, genocidio è un termine coniato, in forma inglese (genocide), dal giurista polacco Raphael Lemkin nel 1944 e pubblicamente usato nel processo di Norimberga (1946). «Grave crimine – continua il Treccani -, di cui possono rendersi colpevoli singoli individui oppure organismi statali, consistente nella metodica distruzione di un gruppo etnico, razziale o religioso, compiuta attraverso lo sterminio degli individui, la dissociazione e dispersione dei gruppi familiari, l’imposizione della sterilizzazione e della prevenzione delle nascite, lo scardinamento di tutte le istituzioni sociali, politiche, religiose, culturali, la distruzione di monumenti storici e di documenti d’archivio, ecc.».

Alla luce di questa definizione, è facile rendersi conto che la storia annovera molti genocidi (anche se alcuni non sono unanimemente riconosciuti come tali): lo sterminio dei popoli amerindi durante la conquista delle Americhe, il genocidio armeno ad opera della Turchia ottomana (1915-16), lo sterminio degli ebrei e dei rom durante l’epoca nazista, quello perpetrato dai Khmer rossi in Cambogia (1977-79), quello dei musulmani di Bosnia nella guerra della ex Jugoslavia (1995), quello dei Tutsi in Rwanda nel 1994.

Senza dimenticare, ai giorni nostri, i molti popoli indigeni – alcuni formati da poche decine di individui – che sono a rischio d’estinzione a causa dei «bianchi».

In Siria (nella parte settentrionale, denominata Rojava) e Iraq i Curdi sono in prima fila nella guerra contro il Daesh (Isis). Ma sono osteggiati – per questioni politiche – da tutti gli stati della regione, a iniziare dalla Turchia del dittatore Erdogan. Gli Yazidi sono una piccola popolazione kurdofona – le stime più alte parlano di 700 mila persone – a sua volta perseguitata e oggi vittima dei miliziani del Daesh. Nella regione natale, nel Nord Ovest dell’Iraq, attorno alla città di Sinjar, migliaia dei loro uomini sono stati uccisi, mentre un numero imprecisato delle loro donne sono state fatte schiave sessuali dagli uomini del Califfo nero. Nel 2016 due di esse, Nadia Murad Basee Taha e Lamiya Aji Bashar, fuggite in Germania, sono state insignite del «Premio Sacharov per la libertà di pensiero», assegnato dal Parlamento europeo (dal 1988). Lamiya (nella foto) porta sul viso e sul corpo i segni delle sofferenze patite. Sappiamo che il traffico di esseri umani e la riduzione in schiavitù è un affare mondiale. Il Daesh è un passo avanti: utilizza il Corano per giustificare questo trattamento. In Dabiq, la sua rivista (dalla grafica ricercata), sono stati pubblicati articoli per spiegare la correttezza del comportamento dei propri miliziani stupratori. Per credere leggere Dabiq n. 4 e n. 9.

Terrorismo, guerre non dichiarate, conflitti cosiddetti a bassa intensità: le definizioni non mancano. Probabilmente la sintesi più efficace è da attribuire a papa Francesco che, nell’agosto del 2014, disse: «Siamo entrati nella Terza guerra mondiale, solo che si combatte a pezzetti, a capitoli».

Ci sono popolazioni che si vorrebbe cancellare con un colpo di spugna. Ma che, in un modo o nell’altro, riescono a resistere e a sopravvivere. Anche, una volta tanto, grazie all’informazione. Quella poca che rimane nell’epoca del post-giornalismo e della post-verità.

Paolo Moiola


Yazidi, una minoranza in pericolo

Quando vincono la diffidenza e il pregiudizio

La storia di ieri e di oggi è piena di minoranze perseguitate. Con una religione e una cultura poco conosciute gli?Yazidi sono spesso fraintesi e diventano un facile bersaglio. Il rischio è che la loro diaspora porti all’assimilazione e quindi alla loro scomparsa. Rendendo il mondo più povero.

Contrariamente a quanto spesso si pensa, l’islam non ha mai cercato di estirpare con la spada le altre religioni. Pur marginalizzando, penalizzando e, in alcuni periodi, anche perseguitando i membri di altre fedi, la dominazione musulmana ha permesso di mantenere in vita per oltre un millennio, nei vasti territori conquistati, una sorprendente pluralità religiosa, impensabile nell’Europa pre-illuminista.

Cristiani, ebrei e zoroastriani – fra gli altri – hanno potuto così godere per secoli, sotto la mezzaluna, di una libertà che solo il colonialismo, l’emergere del nazionalismo e il conflitto arabo-israeliano hanno purtroppo spezzato. Questo discorso vale anche per gli Yazidi, piccola minoranza religiosa nella sua quasi totalità di lingua curda che, abbarbicata alle sue montagne nell’odierno Iraq Nord occidentale, ha potuto tramandare di generazione in generazione – pur fra mille difficoltà e privazioni – la sua cultura e la sua fede. Un contesto per nulla affatto casuale, quello montuoso, se si pensa ad esempio alla sopravvivenza millenaria di insediamenti a maggioranza cristiana come Ma‘lula in Siria, dove ancora oggi si parla una variante dell’aramaico, una moderna derivazione della lingua parlata da Gesù. O ancora al Caucaso, che gli arabi chiamavano jabal al-alsun, la «Montagna delle lingue», per la sua sorprendente varietà linguistica e culturale, ma anche religiosa. E proprio l’isolamento e la protezione fornita da questo contesto geografico arduo e impervio hanno permesso agli Yazidi di mantenere una fede che, seppur influenzata dall’islam per molti aspetti e ad esso in parte riconducibile fin dalle sue origini, si è sviluppata in seguito in modo irrimediabilmente «altro». Una religione – spesso definita in modo dispregiativo come setta – che, se fosse nata nell’Europa medievale anziché nel mondo musulmano, sarebbe stata indubbiamente bollata come «eresia».

Se non che, questa tradizione di tolleranza, sancita anche dal Corano nell’invito alla protezione e al rispetto per ebrei e cristiani, è entrata in crisi al tempo del colonialismo, per essere poi spazzata via, nel modo più violento, nei luoghi caratterizzati di recente in vario modo dall’insorgere del fondamentalismo islamico. Certo, non in tutti i paesi musulmani ciò è vero, come d’altronde non in tutti i governi islamici le cose funzionano allo stesso modo: la Repubblica islamica nata in Iran nel 1979 grazie alla guida carismatica dell’ayatollah Khomeini, per non fare che un esempio, ha mantenuto intatta – con la sola dolorosa eccezione dei bahai – la pluralità religiosa che ha caratterizzato da sempre questo grande paese. Altrove, invece, e soprattutto nei territori segnati dall’influenza del wahabismo propagandato a suon di petroldollari dalle monarchie del Golfo, la storia ha preso purtroppo un’altra piega. E le conseguenze sono ben note, almeno per chi presti attenzione in modo non estemporaneo a quanto succeda lontano da noi.

E così, a un secolo dal Medz Yeghern, il genocidio armeno del 1915, e a oltre settant’anni dalla Shoah, la pagina ignominiosa dei genocidi sembra non trovare fine. Gli Yazidi lottano oggi per la loro sopravvivenza, sterminati, cacciati dai loro villaggi e ridotti in schiavitù nei territori conquistati in Iraq dal Daesh. Ieri come oggi, l’indifferenza del mondo è grande, e sul destino di questo piccolo popolo – composto (forse) da 700 mila persone – si consumano i grandi giochi della geopolitica e dell’economia. Una lotta, quella degli Yazidi, che si svolge in una solitudine disperata e che ha luogo senza che nulla si voglia fare sia da parte di chi muove le leve del potere, che a livello locale e della società civile. Persino i Curdi, con i quali condividono una lingua comune (nella variante settentrionale detta «Kurmanji») e molti aspetti della loro cultura, il più delle volte di fronte alle loro sofferenze si sono limitati a guardare da un’altra parte, quando non a cercare il proprio vantaggio. Una denuncia, questa, sentita più volte ripetere dai rappresentanti yazidi, a partire dalla più famosa di tutte: la candidata al Nobel per la pace Nadia Murad.

Privi di una chiesa o uno stato che li protegga, anche la diaspora – a differenza di quanto avvenuto in passato in altri casi – è troppo frammentata e recente per essere in grado di incidere, o anche solo di fornire qualche conforto ai profughi che oggi si trovano, privi di una cornordinazione, dispersi per il mondo. E così, anche per la maggioranza di coloro che riescono (spesso in circostanze rocambolesche) a fuggire dalla schiavitù e dalla guerra, il destino che li attende sono i campi profughi della Turchia o di altri paesi, dove mancano spesso i beni più basilari. Nessuno stato al mondo (con la sola eccezione della Germania, che ha ospitato e fornito assistenza medica e psicologica a diverse migliaia di Yazidi e, più di recente, del Canada) ha infatti voluto finora assumersi l’onere di accogliere i sopravvissuti, facendosi carico dei loro traumi e delle storie di violenza e orrore che essi, inevitabilmente, portano con sé. Inutile ricordare come, per questi sopravvissuti a un genocidio – che poi in molti casi sono donne, vittime di abusi sessuali e ridotte in schiavitù dagli uomini dell’Isis – non bastino solo un pezzo di pane e un tetto per alleviarne il dolore e ridare loro dignità.

Questa assenza di sostegno da parte della comunità internazionale costituisce un paradosso. Infatti, sebbene sia unanime la condanna del terrorismo islamista e tutte le forze politiche di ogni paese siano oggi parimenti concordi nel riconoscimento della violenza perpetrata dai miliziani dell’Isis contro le minoranze religiose, la campagna portata avanti dagli attivisti per il riconoscimento del genocidio yazida non ha finora raccolto i risultati sperati. Eppure, un raffronto con il passato, con l’Olocausto degli armeni e degli ebrei, innanzitutto, dovrebbe gettare luce sul destino di questa gente. Si è di fronte ancora una volta al sistematico tentativo di annientamento non solo fisico, ma anche culturale e spirituale di un intero popolo, portato avanti da un manipolo di fanatici, ma con la complicità e la collaborazione di una parte delle popolazioni sottoposte al dominio del Califfo al-Baghdadi. La persecuzione e lo sterminio avvenuti dall’agosto 2014 a oggi non sono – come raccontano i rappresentanti stessi della comunità yazida – che l’ultimo e più sanguinoso epilogo di una persecuzione in atto sin dall’Ottocento, che periodicamente riaffiora. «Gli eventi del 2014 rappresentano per loro – ha scritto Vicken Cheterian su Le Monde Diplomatique (gennaio 2017) – il settantatreesimo massacro».

Il monoteismo degli Yazidi

I fondamentalisti di oggi trovano nella fede e cultura yazida la ragione principale per perseguitare e cercare di eliminare quella popolazione. Una diffidenza e un pregiudizio ormai radicati per una fede sentita come estranea, chiusa, sincretistica, e perciò difficilmente classificabile. Eppure, a ben guardare, lo Yazidismo è anch’esso, al pari delle tre religioni abramitiche (ebraismo, cristianesimo e islam), una religione monoteistica, seppure con alcuni tratti originali.

I suoi seguaci fanno risalire le loro origini indietro di migliaia di anni, e lo sviluppo di riti e credenze fu senza dubbio il frutto di un lungo processo di commistioni religiose e di acculturazione. Ma fu solo in epoca islamica, ci dicono gli specialisti, che gli Yazidi acquisirono un’identità precisa e distinta sia in termini etnici che religiosi. In particolare, vi è un personaggio che ricorre come fondamentale nell’etnogenesi di questa minoranza. Ci riferiamo alla carismatica figura del mistico sufi Shaikh Adi ibn Mussafir (morto nel 1162) che predicò nella regione divenendo, dopo la sua dipartita, oggetto di grande venerazione. «È il loro profeta, il loro grande santo, adorato quasi come Dio», scriveva lo storico delle religioni Giuseppe Furlani, «la cui tomba, nel tempio che hanno a Nord Est di Mossul, essi riguardano come loro santuario nazionale».

Di questo loro pellegrinaggio al santuario di Lalish ci ha lasciato un racconto suggestivo, in un articolo pubblicato sul portale Treccani, Gianfilippo Terribili, docente all’Università La Sapienza di Roma. Terribili ha preso parte di persona nel 2015, ovvero a un anno esatto dalla data di inizio del genocidio yazida, alle festività stagionali estive che raccolgono ogni anno pellegrini provenienti dalla regione, ma anche ogni angolo del mondo. Il pellegrinaggio, infatti – come ricorda Terribili – «è tra i principali doveri del fedele yazida ed è un evento che struttura i legami sociali interni ad una comunità spesso emarginata e chiusa alle influenze esterne». Un evento ricco di tradizioni, rituali e suggestioni che rimandano, spesso, a pratiche analoghe tipiche dell’islam e del cristianesimo, altre volte a pratiche ancora più remote. «L’intera valle», prosegue lo studioso, «è un microcosmo sacro che include i santuari costruiti intorno alle tombe dei principali sette personaggi santi venerati dalla tradizione, con luoghi o edifici connessi che costituiscono il circuito attraverso il quale è scandito il pellegrinaggio e i suoi atti rituali».

L’accusa: «Adoratori del diavolo»

La paura e la diffidenza – ma in parte anche il grande fascino – che circondano gli Yazidi ruotano attorno alla leggenda, diffusa in terra di islam come anche fra viaggiatori e fonti orientalistiche occidentali, che li identifica come «adoratori del diavolo». Un pregiudizio del tutto infondato, come ricorda Furlani: «Tanto sono lontani anzi da tale adorazione che non hanno affatto nella loro religione il diavolo: essi negano addirittura l’esistenza del male». Un epiteto, e insieme uno stigma, che traggono origine da una delle caratteristiche fondamentali del monoteismo yazida, che affianca, a un unico Dio creatore, sette entità angeliche, chiamate i Sette Misteri (haft surr), che nel corso della storia si sono periodicamente reincarnate in forma umana. Dio ha affidato loro il governo del mondo, sotto la guida dell’Angelo Pavone (Malak Tawus), emanazione divina posta come intermediario fra il cielo e gli uomini. Suggestivo a questo proposito l’incipit di uno dei due testi sacri degli Yazidi, il Libro nero, redatto in lingua curda, che riportiamo nella traduzione di Giuseppe Furlani:

«In principio Dio creò la perla bianca dal suo prezioso seno e creò un uccello di nome Anfar. Egli pose la perla sopra la sua schiena e dimorò sopra di essa quarantamila anni. Il primo giorno in cui Dio creò fu una domenica. Egli creò in essa un angelo dal nome ‘Azra’il: esso è il Pavone Angelo, il capo di tutti».

Il racconto prosegue con la descrizione di come Dio creò i sette angeli che a loro volta partecipano alla creazione dell’uomo (ascritta all’ultimo di loro, Nura’il) e di tutte le altre creature. Dopo l’opera della creazione, il mondo, come detto, fu affidato da Dio proprio alle sette entità angeliche, che agiscono come protezione e guida.

L’Angelo Pavone – questa l’origine del «mito satanista» sugli Yazidi – corrisponde poi per alcuni aspetti a Iblis, il Satana della religione musulmana, con tratti che sembrano filtrati in particolare dalla rielaborazione della tradizione mistica sufi, di cui resta abbondante traccia anche nella letteratura persiana medievale. Un Satana, quindi, che dopo la sua ribellione si è pentito ed è stato accolto di nuovo da Dio. Ma gli Yazidi negano con forza questa identificazione fra le due figure, al punto – come scrive l’orientalista Christine Allison – di arrivare a proibire la pronuncia stessa della parola Satana (Shaitan), e persino di alcune parole che la richiamano da un punto di vista fonetico.

Il divieto dei matrimoni misti

A contribuire al pregiudizio e alla paura nei confronti degli Yazidi furono anche la naturale chiusura di questo gruppo religioso, che non accetta conversioni da altre fedi e vede in modo negativo – ma è così per molte minoranze in Medio Oriente, soprattutto se esigue da un punto di vista numerico – i matrimoni misti. Pratiche e tabù particolarmente severi riguardano molti aspetti della vita dei fedeli, dal cibo, fino alla proibizione di pronunciare un certo numero di parole. Un’altra peculiarità yazida è il fatto di credere di essere discendenti del seme di Adamo ma – a differenza del resto dell’umanità – non di Eva. Questo a ulteriore testimonianza di come gli Yazidi si autorappresentino come un popolo «altro» rispetto al resto del mondo. A contribuire al mistero che circonda questa religione sono anche i suoi testi esoterici, tramandati oralmente di generazione in generazione, e perciò assai poco noti ieri come oggi al di fuori dei circoli dei correligionari. Come già nell’islam, l’«ortoprassi» ha un ruolo preponderante rispetto all’«ortodossia», il che vuol dire che rituali e pratiche hanno più importanza nella vita del fedele rispetto alle disquisizioni teologiche, viste come secondarie e accessorie. Fondamentale nello yazidismo anche la suddivisione sociale in tre caste (si veda il riquadro alla pagina 46, ndr), nettamente divise, aspetto che si interseca a un’altra importante caratteristica della loro fede: la credenza nella metempsicosi, cioè nella reincarnazione. Le due caste superiori rappresenterebbero infatti niente di meno che la discendenza delle più recenti reincarnazioni delle entità angeliche, i Sette Misteri che, come detto, tornano periodicamente a rivestire forma umana. Come nelle religioni abramitiche, anche nello yazidismo esistono paradiso e inferno, ma altri aspetti della loro cosmogonia rimandano invece alle antiche religioni iraniche, come ad esempio allo zoroastrismo.

Il pericolo

Un patrimonio religioso e culturale, quello da noi qui tratteggiato con un breve schizzo, che rischia di venire annullato da qui a pochi anni, se non avverrà presto un’inversione di tendenza: una presa di coscienza del mondo nei confronti di questa tragedia. Dispersi per il pianeta, gli ultimi figli di questo antico popolo sopravvissuti alle persecuzioni di ieri e di oggi, rischiano l’assimilazione e la scomparsa definitiva dei loro usi, costumi e credenze. Questo il significato più profondo e drammatico della parola genocidio: il tentativo posto in atto sistematicamente di eliminare non solo un intero popolo, ma anche la sua cultura materiale e immateriale, insieme al suo lascito spirituale. L’orrore del sangue, e insieme la maledizione di aver reso il nostro mondo più povero, senza possibilità di appello, destinando a definitiva scomparsa persino la memoria di una minoranza, e non solo la sua esistenza fisica.

Simone Zoppellaro


Racconto di un massacro

Quando a Sinjar arrivarono i miliziani

I miliziani dello Stato islamico considerano gli Yazidi degli «infedeli». Nell’agosto del 2014 arrivati nella loro regione hanno compiuto una strage. E costretto alla schiavitù sessuale migliaia di donne e bambine.

Chi scrive ha incontrato sopravvissuti Yazidi ed è rimasto impressionato dai loro racconti, soprattutto se paragonati ai resoconti di ebrei e armeni. Un’analogia che lascia senza fiato. È come se il tempo, vinto da una maledizione, fosse condannato a ripetersi in tutto e per tutto, con schemi fissi e immutabili, e producendosi solo in minime varianti. Stessa la furia cieca dei carnefici, così come egualmente scientifica, gelida e ben ponderata è l’organizzazione che sta alla base di tutto. Stesso il dolore delle vittime, un dolore tanto forte a tratti da spogliare chi vi viene investito di ogni dignità umana e amore di sé e del prossimo. Stesso l’opportunismo, e in molti casi la complicità, delle popolazioni sottoposte al terrore, pronte a girarsi dall’altra parte, ma anche a cercare di massimizzare il profitto che deriva dalle altrui disgrazie e dalla morte. Stessa anche l’indifferenza del mondo, che finge di non vedere e di non sapere, un po’ per noia o apatia, o per pigrizia mentale, ma anche perché il dolore – quando è così grande e lontano – ci lascia impotenti e confusi. Stessa infine anche l’azione solitaria di alcuni giusti: pochi uomini, forse pochissimi che – andando in controtendenza rispetto a tutti e anche alla storia – rischiano la loro vita, i loro beni e il proprio status, per dimostrarci che neppure il male più feroce è capace di cancellare le ultime tracce di bene e di umanità che affiorano anche qui, dove la Terra sembra aver già toccato l’inferno.

Durante la dominazione ottomana

Come si è arrivati alla riduzione in schiavitù di donne e bambini, alla persecuzione sistematica e ai massacri del 2014 che gli Yazidi rivendicano ostinatamente come un genocidio? Si tratta di una storia che parte da lontano. Anzi, a sentire quanto raccontano i stessi membri di questa comunità, gli Yazidi avrebbero già subito addirittura 72 genocidi nel corso della loro storia. Si tratta forse di un’iperbole, diranno in molti, eppure è un’affermazione significativa almeno per capire due cose. In primis, che la questione yazida non è nata con i miliziani dell’Isis, ma ha radici assai più profonde e, per questa ragione, molto più difficili da estirpare. In secondo luogo che, esattamente come per gli armeni e gli ebrei, la memoria delle persecuzioni subite è ormai divenuta parte fondamentale della identità propria degli Yazidi, del loro modo di autorappresentarsi come gruppo. E in effetti si può ben dire che, fin dall’inizio, l’identità yazida sia stata forgiata anche dal sangue e dalla violenza subita nel corso di un millennio.

Già fra XII e XV secolo, infatti, questa popolazione si trovò a subire continui attacchi da parte di chi non tollerava la sua fede e la sua identità. Le cose andarono peggiorando ulteriormente in epoca ottomana. Nel 1892 – negli stessi anni in cui avvenivano i primi massacri degli armeni che sfociarono a inizio novecento in un vero e proprio progetto di genocidio – ebbe luogo una spedizione guidata dal governatore di Mossul che portò a numerose uccisioni e a conversioni forzate. All’inizio del nuovo secolo, poi, nel 1904, il sacro tempio di Lalish venne trasformato in moschea.

Da Saddam al Daesh

In epoca più recente, durante il regime di Saddam Hussein gli Yazidi si trovano di nuovo a essere, al pari dei curdi, bersaglio di persecuzioni e attacchi. Migliaia di loro in quegli anni lasciarono l’Iraq per cercare scampo e fortuna in Europa. Dopo la caduta di Saddam, nel vuoto di potere creatosi in seguito all’invasione americana e all’incauto smantellamento delle forze di sicurezza ereditate dal precedente regime, gli Yazidi si trovarono in una situazione, se possibile, ancora più difficile. Il 14 agosto del 2007, quattro attacchi suicidi cornordinati fra loro colpirono gli Yazidi a Kahtaniya e Jazeera, nei pressi di Mossul. Sconvolgente il bilancio delle vittime, come riportato dalla Mezzaluna Rossa irachena: almeno 500 morti e 1.500 feriti. Una macabra anticipazione di quanto sarebbe avvenuto, con numeri ancora maggiori, pochi anni dopo, quando, siamo nel 2014, un nuovo e temibile attore arriva a sconvolgere – a suon di vittorie repentine, massacri e propaganda – l’Iraq, la Siria e l’intero Medio Oriente. Ci riferiamo allo Stato islamico guidato da Abu Bakr al-Baghdadi. Il contesto da cui ha origine il genocidio degli Yazidi è delineato con precisione da Patrick Cockburn, giornalista del quotidiano   Independent e testimone diretto fra i più autorevoli di questa guerra:

«Nel corso dell’estate, lo Stato islamico aveva sconfitto con campagne fulminee prima l’esercito iracheno, poi quello siriano, i ribelli siriani e i peshmerga curdo-iracheni, creando un dominio che si estende da Baghdad ad Aleppo, e dal confine siriano con la Turchia al deserto dell’Iraq occidentale. Gruppi etnici e religiosi di cui il mondo non aveva mai sentito parlare prima o di cui si sapeva pochissimo, come gli Yazidi di Sinjar o i cristiani caldei di Mossul, sono caduti vittime della crudeltà e del fanatismo settario dell’Isis».

Ma, anche stando a quanto afferma un’investigazione condotta dalle Nazioni Unite e pubblicata nel giugno 2016, si tratterebbe di più di semplici atti di crudeltà e fanatismo. Nel rapporto pubblicato con il titolo di «Sono venuti per distruggere: i crimini dell’Isis contro gli Yazidi» (They Came to Destroy: Isis Crimes against the Yazidis), l’indagine condotta dall’Onu utilizza ben 97 volte in 40 pagine la parola genocidio. Un riconoscimento inequivocabile e significativo, dato anche che, per la prima volta, un riconoscimento viene fatto prima da un attore non-statale che da parte di un singolo paese. Ed ecco una breve descrizione di quanto avvenuto, per come la leggiamo nel rapporto dell’Onu:

«Nelle prime ore del 3 agosto 2014, i combattenti del gruppo terroristico chiamato Stato Islamico dell’Iraq e al-Sham (Isis), si riversano fuori dalle loro basi in Siria e in Iraq, e si dirigono rapidamente verso il Sinjar. La regione del Sinjar nel nord dell’Iraq è, nel suo punto più prossimo, a meno di 15 chilometri dal confine con la Siria. È la sede della maggioranza degli Yazidi nel mondo, una comunità religiosa distinta le cui credenze e pratiche risalgono a migliaia di anni, e i cui aderenti l’Isis taccia pubblicamente di essere infedeli. Pochi giorni dopo l’attacco, emergono i primi resoconti delle atrocità inimmaginabili commesse dall’Isis contro la comunità yazida: uomini uccisi o costretti a convertirsi; donne e ragazze, alcune giovani fino a nove anni, vendute al mercato e tenute in uno stato di schiavitù sessuale dai combattenti dell’Isis; ragazzi strappati dalle loro famiglie e costretti ad andare in campi di addestramento dell’Isis. È stato da subito evidente che gli orrori commessi sugli Yazidi catturati si verificavano sistematicamente anche in tutti territori controllati dall’Isis in Siria e Iraq».

Un altro testo, utile ad abbozzare il quadro dei crimini commessi, e soprattutto del piano genocidario messo in atto dai fondamentalisti, lo riprendiamo invece da un rapporto pubblicato dall’Ong Yazda e dalla Fondazione Free Yazidi, redatto in collaborazione con le autorità del governo regionale del Kurdistan iracheno:

«Rimuovendo l’intera popolazione yazida dalla loro patria, infliggendo il danno psicologico e fisico della violenza sessuale contro le donne e le ragazze, l’Isis si è assicurato che questi non sarebbero più stati in grado di tornare alle loro comunità. Forzando i giovani maschi a cambiare la loro religione e a diventare combattenti nelle loro stesse fila, l’Isis ha cercato di annientare l’identità religiosa, le tradizioni e l’esistenza stessa degli Yazidi. Durante l’attacco alla piana di Ninive, l’Isis ha anche distrutto 19 santuari religiosi».

Il 3 agosto 2014 i miliziani dell’Isis non incontrarono quasi nessuna resistenza. I peshmerga curdi, come riportano fonti yazide e lo stesso documento delle Nazioni Unite, decisero di ritirarsi lasciando la popolazione, non preventivamente avvertita, in balia della violenza. Nel giro di poche ore, vinta con facilità la resistenza improvvisata da alcuni uomini nei villaggi, gli uomini dello Stato islamico assunsero il pieno controllo della regione. Nella confusione di quelle ore, che videro migliaia di civili darsi alla fuga senza neppure il tempo di raccogliere il minimo indispensabile dalle loro case, un episodio particolarmente drammatico investì coloro che cercarono di trovare scampo sul monte Sinjar.

Leggiamo ancora dal rapporto delle Nazioni Unite:

«Coloro che sono fuggiti in tempo per raggiungere l’altopiano superiore del monte Sinjar vengono assediati dall’Isis. Una crisi umanitaria ha luogo non appena l’Isis intrappola decine di migliaia di uomini, donne e bambini Yazidi, in un luogo dove le temperature superano i 50 gradi e impedendo loro l’accesso all’acqua, al cibo o all’assistenza medica. Il 7 agosto 2014, su richiesta del governo iracheno, il presidente degli Stati Uniti Barack Obama annuncia un’azione militare americana per aiutare gli Yazidi intrappolati sul monte Sinjar. Forze americane, irachene, inglesi, francesi, australiane vengono coinvolte in lanci di acqua e altre forniture agli Yazidi assediati. Il tutto mentre i combattenti dell’Isis sparano contro gli aerei impegnati nel lancio di aiuti, e contro gli elicotteri che tentano di evacuare gli Yazidi più vulnerabili. Centinaia di Yazidi – inclusi neonati e bambini – trovano la morte sul monte Sinjar prima che le forze curde siriane, il Ypg (nome dell’esercito kurdo della regione siriana di Rajava, ndr), siano in grado di aprire un corridoio dalla Siria al Monte Sinjar, consentendo agli assediati sul monte di essere spostati in sicurezza».

Uccisi, schiavizzati, dimenticati

Lontano dal monte Sinjar, il progetto di sterminio viene portato avanti con uno stesso schema, villaggio per villaggio, con rapidità sistematica. Una ripetizione di atti e violenze che non lascia nulla al caso e che rende evidente come quello commesso (e in parte ancora in atto) contro gli Yazidi sia un genocidio e non una serie di massacri verificatisi in modo spontaneo. In ogni luogo della regione, vengono divisi uomini, donne e bambini. I primi – che includono anche gli adolescenti dai dodici anni in su – vengono uccisi seduta stante o costretti a convertirsi all’islam, mentre le seconde, insieme ai loro bambini, vengono vendute come schiave. Non lascia adito ad ambiguità la conclusione del rapporto dell’Onu già citato: «L’Isis ha commesso e continua a macchiarsi del crimine di genocidio, ma anche di diversi crimini contro l’umanità e crimini di guerra, contro gli Yazidi».

Un riconoscimento importante, che però non è finora riuscito a scongiurare o a alleviare il dramma in corso. Private di un passato e di un futuro, molte migliaia di Yazidi sono tuttora ridotte in stato di schiavitù nei territori dello Stato islamico, o accampate nei campi profughi di Siria, Turchia e Grecia. Qui, troppo spesso, i rifugiati si trovano privi dei servizi essenziali, senza che venga fornita loro l’assistenza medica e psicologica che potrebbe contribuire a ridare loro un minimo di dignità e coraggio.

Simone Zoppellaro


Incontro con Nadia Murad

Storia di Nadia, da schiava ad ambasciatrice

Rapita, venduta, violentata dagli stupratori dell’Isis, Nadia Murad, oggi 23enne, è la donna simbolo della lotta degli Yazidi. Divenuta mondialmente conosciuta, riempita di riconoscimenti, lei chiede che questa attenzione si trasformi in aiuti concreti per il suo popolo ferito e disperso.

Stoccarda. È una ragazza semplice, la candidata al Nobel per la pace Nadia Murad, appena 23 anni, ma già donna simbolo della lotta degli Yazidi per la sopravvivenza. Nel condominio dove la incontro ad agosto, subito fuori Stoccarda, insiste per accompagnarmi giù dalle scale fino in strada per salutarmi, come si usa fare in Medio Oriente. Veste in modo semplice, di nero, come semplici sono le passioni di cui parla, dal calcio all’Italia, che ha visitato da poco. Ed umile è anche il palazzo popolare in cui ci incontriamo, un alloggio per rifugiati dove risuonano di continuo le grida festanti dei bimbi yazidi arrivati da poco dall’Iraq. Proprio non sembra di avere di fronte una delle 100 persone più influenti al mondo, secondo la classifica della rivista Time (aprile 2016). Eppure, fra i tanti incontri fatti in questi anni, quello con Nadia Murad è stato di gran lunga quello che più mi ha colpito. Dettagli: il tono della voce, calmo e ieratico, con cui mi racconta in lingua kurda l’epopea di orrore che ha investito la sua famiglia e la sua gente. E poi quegli occhi profondi di chi ha guardato in faccia il male e la morte, di chi all’inferno è già stata salvo riuscire a riemergervi e a tornare fra noi. Miracolosamente.

Quell’estate del 2014

Sulla sua pelle si scorgono piccole cicatrici, bruciature di sigaretta inflitte al tempo della schiavitù cui l’avevano ridotta gli uomini dell’Isis. Anche la postura chiusa del suo corpo racconta in modo inequivocabile delle violenze subite. Eppure, mentre si lascia fotografare, sorride serena, quasi pacificata. Ho davanti a me una ragazza con una calma e una forza fuori dal comune, dolce e insieme inflessibile, con qualcosa di oscuro, ma anche di caldo e materno. «Non ho mai pensato di uccidermi, ma ho sperato che fossero altri a farlo», racconta, rievocando l’orrore della sua lunga prigionia. Sì, perché Nadia Murad in quei giorni dell’agosto 2014 ha visto morire davanti a lei sei suoi fratelli, diciotto familiari, e larga parte degli abitanti del suo villaggio, Kocho, stretto d’assedio dai miliziani dell’Isis.

Nei due anni e mezzo trascorsi da quell’estate del 2014, l’attivista yazida è stata coperta di onori per il suo coraggio e la sua determinazione. Candidata al Nobel per la pace, ambasciatrice di buona volontà delle Nazioni Unite per la dignità dei sopravvissuti alla tratta di esseri umani e ancora vincitrice del Premio Václav Havel per i diritti umani, conferitole dal Consiglio d’Europa, e del Premio Sakharov per i diritti umani, assegnatole dall’Europarlamento, insieme a Lamiya Aji Bashar.

Donne e bambine in balia dei miliziani

Grandi onori e attenzioni da parte dei media di tutto il mondo. Eppure, con una lucidità e una fermezza sorprendente, mi racconta tutta la sua solitudine, l’impotenza e la disperazione di fronte al dramma della sua gente.

«Non ho alcuna speranza», confessa Nadia, a due anni esatti dal genocidio. «La mia comunità è in via di estinzione. Il 90% dei nostri sopravvissuti vivono dispersi in campi profughi. Abbiamo ancora migliaia di bambini tenuti come schiavi dall’Isis, e quanto ai pochi che sono riusciti a fuggire, nessuno se ne occupa. Oggi siamo dispersi in giro per il mondo, e i nostri villaggi – anche quelli liberati – sono distrutti e non possiamo farci ritorno. La nostra sola, piccola speranza è la comunità internazionale. Senza il loro aiuto, per noi non c’è futuro».

Secondo le cifre fornite da Yazda, l’ong yazida, sono 5.000 gli Yazidi che hanno perso la vita per mano dell’Isis, mentre altri 7.000 sono stati rapiti. Un computo ancora incerto, purtroppo, come grandi sono le incertezze circa il possibile ritorno in patria dei sopravvissuti, anche una volta che il Daesh sia stato debellato. Nadia Murad era una ragazza di 19 anni, una studentessa, il giorno in cui la storia ha fatto irruzione nella sua vita, stravolgendola per sempre.

«Dopo che hanno preso noi donne dal villaggio – racconta Nadia -, ci hanno raccolte e messe insieme a centinaia di altre ragazze provenienti da altri villaggi del Sinjar. Abbiamo chiesto loro cosa ci facessero lì e cosa fosse successo loro. Ci hanno risposto che venivano picchiate ogni giorno e che ogni giorno venivano a scegliere alcune di loro per abusarne in diversi modi, inclusi stupri di gruppo. Poi ci prendevano per portarci in stanze dove i militanti dell’Isis venivano, ci guardavano e sceglievano le ragazze che volevano portarsi via. Questo capitava a bambine e donne dai 9 ai 60 anni. E così è capitato a me. Ci prendevano e ci obbligavano a convertirci, portandoci alla Corte islamica di Mossul. Lì venivamo registrate come schiave, senza alcun diritto, a differenza delle loro madri, mogli e figlie. Ci spartivano fra loro e abusavano di noi. Inoltre, dovevamo servirli».

All’origine del suo salvataggio, avvenuto dopo un primo tentativo di fuga fallito – cui era seguita una punizione crudele – è l’opera di una famiglia di giusti che le offre aiuto e protezione, a rischio della loro stessa vita. Questi forniscono infatti alla Nadia documenti falsi, in cui risulterebbe essere una loro parente, moglie di loro figlio. Con un velo e una veste integrale islamica riesce così a fuggire e a rifugiarsi in Kurdistan, al sicuro.

Finiscono così i tre mesi di prigionia e tortura a cui, a differenza di tante altre donne yazide, è riuscita a sottrarsi. Da lì, poi, muoverà in Germania, a Stoccarda, dove riceverà aiuto e assistenza e dove avrà inizio il suo impegno politico per il riconoscimento del genocidio yazida. Certo, aveva altri sogni nella vita, Nadia, prima di quell’agosto: diventare un’insegnante di storia o una truccatrice, racconta.

Tanti premi, nessun impegno concreto

Ne siamo certi, non esiste premio al mondo, per quanto prestigioso, che possa consolarla della perdita della sua vita di un tempo, scomparsa nel giro di pochissimi giorni.

Quella vita semplice di cui racconta, pur segnata da povertà e stenti, resta impressa nella sua memoria come simbolo di una felicità perduta, quasi un idillio. Oggi l’indifferenza del mondo sembra non darle pace. Un muro di gomma, quello che si trova ad affrontare ogni giorno, fatto di grandi eventi e onori, di premi, immagini e marketing, ma di nessun impegno e sostanza politica. La verità – e Nadia lo sa benissimo – è che nessuno li vuole, i sopravvissuti yazidi. Nessuno vuole prendersi l’onere e l’onore di aiutare questa gente. In un’Europa che – pur di tenersi lontani i profughi – è persino disposta a finanziare lautamente regimi liberticidi, dalla Turchia alla Libia. Degli Yazidi non importa nulla a nessuno. O quasi a nessuno.

E non sarà un caso allora, come mi ha raccontato la stessa attivista yazida, che una felice eccezione sia costituita dal Land tedesco del Baden-Württemberg, guidato dal governatore verde Winfried Kretschmann.

Cattolico praticante, proveniente lui stesso da una famiglia di profughi rifugiatisi nel Sud della Germania al tempo della seconda guerra mondiale, Kretschmann ha voluto impegnarsi di persona non solo per accogliere, ma anche per fornire assistenza medica e psicologica alle vittime yazide. Certo si tratta solo di un timido barlume in un mare di tenebra. Eppure, per questo piccolo popolo, anche i 2.500 bambini e donne traumatizzati accolti e curati in questo Land rappresentano una grande conquista, e una speranza per il domani. O, forse, molto di più: il sogno di un domani ancora possibile che si concretizza per gli adoratori dell’Angelo Pavone e per i loro figli, là dove solo morte e orrore sembravano possibili. E qui, in questo piccolo segnale di un’umanità ritrovata, scopro forse il segreto di Nadia Murad, della sua ineluttabile forza.

Simone Zoppellaro


Scheda 1: Genocidio

Chissà che cosa avrebbe pensato Raphael Lemkin, il giurista polacco che inventò e definì la parola «genocidio», se avesse potuto guardare avanti fino al nostro presente. La sua grande intuizione, che legava in modo indissolubile in un solo lemma il dramma degli armeni nel 1915 e quello della Shoah – di cui lui aveva ben colto, prima di ogni altro, le profonde analogie – guardava certo al passato e al presente insieme ma, in modo profetico, anche al nostro oggi. Chissà cosa avrebbe pensato Lemkin, dunque, se avesse potuto vedere il genocidio compiuto dai Khmer rossi in Cambogia, il Rwanda, Srebrenica, e ora anche il dramma in corso di cui sono vittime gli Yazidi. Come dimostra il suo acume nello scoprire e denunciare – oltre ai casi già menzionati dell’Olocausto degli armeni e degli ebrei – anche l’Holodomor degli anni Trenta, «la distruzione della nazione ucraina», come lui l’aveva definita, non abbiamo dubbi che nei nostri anni avrebbe trovato un ennesimo, terribile riscontro alla sua intuizione, che ora è parte della coscienza e del vocabolario di tutti noi, e di ogni lingua del mondo. Il suo termine, inventato perché neppure la parola «atrocità» era più sufficiente per esprimere l’orrore di Auschwitz, e adottato dalla convenzione delle Nazioni Unite nel 1948, arriva così a investire nuovi contesti e aree geografiche assai vaste, e un’epoca diversa e lontana da quella in cui Lemkin stesso si trovò ad operare. «Genocidio – ha scritto lo storico Boris Barth – è quando un gran numero di persone vengono uccise per motivi razziali, etnici o religiosi. Come regola generale, l’esecutore è uno stato che ha l’intenzione dichiarata di annientare alcuni gruppi etnici o religiosi. Così viene anche definito nella Convenzione delle Nazioni Unite».

Si.Zo.

Scheda 2: Le guide e le caste

In cima alla scala sociale e alla divisione per caste che caratterizzano la vita della minoranza yazida troviamo due figure chiave, il Mir e il Baba Sheikh. Il primo, il cui titolo potremmo tradurre come «principe», assomma in sé il potere temporale e quello spirituale. L’attuale Mir degli Yazidi è Tahsin Said (nella foto), posto a guida del Consiglio spirituale degli Yazidi, il Majlesi Rohani. Una figura che, secondo gli Yazidi, discende dalle sette entità angeliche presiedute dall’Angelo Pavone. Con funzioni di guida spirituale, ma in realtà subordinato al Mir anche da questo punto di vista è la figura del Baba Sheikh. A rivestire questo ruolo attualmente è Khurto Hajji Ismail. Questi presiede a tutte le cerimonie più importanti della vita spirituale della comunità, e in particolar modo a quelle che avvengono presso il sacro tempio di Lalish. Entrambe le figure sono parte della più importante delle tre caste yazide, quella degli Sheikh. Sempre elevata, anche se per alcuni aspetti in subordine rispetto alla prima, è la casta dei Pir, gli «anziani». Anche questi, come gli Sheikh, ricevono un’elemosina in forma di una tassa dall’ultimo gruppo: i Morid, i «discepoli», che sono tenuti a scegliere come loro guida una figura per ciascuna delle due caste superiori. Questi rappresentano la larga maggioranza della popolazione e non rivestono alcuna particolare funzione rappresentativa. Le caste degli yazidi – che conoscono al loro interno ulteriori, complesse, sottoclassificazioni – sono perlopiù endogame, e vietano cioè il matrimonio fra gli appartenenti ai diversi gruppi sociali.

Si.Zo.

Scheda 3: La diaspora

Uno dei pericoli maggiori che si trova oggi ad affrontare la comunità yazida è quello della sua dispersione. Un fenomeno non nato in questi ultimi anni, ma che ha conosciuto di recente una spaventosa accelerazione. Questa, unita al numero esiguo dei suoi membri, e all’assenza pressoché totale di centri di potere economico, politico o religioso che possano supportarla, rischia di condannare la minoranza in questione a una rapida scomparsa. Difficile, anche a causa della situazione in divenire e della dispersione, avere un’idea chiara di quanti siano effettivamente gli Yazidi. Si stima che, prima dell’invasione dell’Isis, se ne trovassero in Iraq fino a un massimo di mezzo milione. Altri insediamenti storici di questa minoranza, con numeri assai più ridotti, si trovano in Siria, in Turchia, in Russia e nel Caucaso del Sud, ovvero in Georgia e Armenia. In quest’ultimo paese, dato il notevole numero di profughi e la buona integrazione nella società che li accoglie, è in via di costruzione – caso unico al mondo – un tempio yazida. Il paese europeo che più ha aperto le porte ai membri di questa minoranza perseguitata è stato senza dubbio la Germania, dove si trovano oggi oltre 100.000 Yazidi. Qui, prima e in maggior misura che altrove, è stato possibile avviare programmi di riabilitazione anche psicologica per i sopravvissuti allo sterminio e per le donne yazide che hanno subito violenze. Oltre alla Germania, altri paesi europei che li hanno accolti sono, per esempio, Francia, Gran Bretagna e Olanda. Al di fuori del nostro continente, il Canada sembra aver deciso di recente di seguire l’esempio della Germania nel fornire asilo e assistenza ai profughi yazidi.

Si.Zo.


Infodossier:

Fonti e bibliografia

  • Patrick Cockburn, L’ascesa dello stato islamico. ISIS, il ritorno del jihadismo, edizioni Stampa Alternativa, 2015.
  • Christine Allison, Yazidis, voce dell’Encyclopædia Iranica pubblicata dalla Columbia University e disponibile online, 2004.
  • Gianfilippo Terribili, Via della seta. In pellegrinaggio con gli Yazidi, 2 settembre 2015, Atlante, rivista del portale Treccani.
  • Giuseppe Furlani, Gli adoratori del pavone. I yezidi: i testi sacri di una religione perseguitata, ed. Jouvence, 2016.
  • Simone Zoppellaro, La guerra agli yazidi sul corpo delle donne, 9 agosto 2016, il Manifesto.
  • Claudia Ryan, Hana la Yazida. L’inferno è sulla Terra, Edizioni San Paolo, 2016.

Sitografia

  • www.yazda.org -Il sito dell’omonima organizzazione degli Yazidi.
  • www.nadiamurad.org -Il sito ufficiale di Nadia Murad.

Autori

  • Simone Zoppellaro – Nato a Ferrara, è giornalista freelance. Dopo gli studi ha trascorso otto anni lavorando fra l’Iran, l’Armenia e la Germania. Ha lavorato per oltre due anni come corrispondente per l’«Osservatorio Balcani e Caucaso». I suoi articoli appaiono regolarmente su vari quotidiani e riviste nazionali. Collabora con l’Istituto italiano di cultura a Stoccarda, dove vive. Per MC ha pubblicato i reportage su Nagorno Karabahk (agosto 2016) e Armenia (ottobre 2016).
  • A cura di: Paolo Moiola, giornalista redazione MC.