Noi e Voi, dialogo lettori e missionari

Collettivismo vs individualismo

Spettabile Missioni Consolata,
ho letto con molto interesse l’articolo a firma di Piergiorgio Pescali sul contenimento del Covid-19 in Corea del Nord (MC 5/2020). Lo stesso giornalista firma un riquadro (pag. 54) dove mette a confronto i sistemi di contenimento in Occidente e quelli in Oriente, evidenziando la tesi secondo la quale i processi democratici vigenti in Occidente rallentano la presa di decisione in situazioni di emergenza. Questo aspetto, unito all’individualismo tipico della cultura occidentale, non giova al contenimento del virus. Viceversa, citando testualmente Pescali, «il sistema comunitario orientale […] detta le regole dall’alto secondo un sistema antico e collaudato. E in Asia, nata e costruita su fondamenta culturali assai diverse da quelle occidentali, spesso funziona». Questo, unito alla cultura orientale più orientata al benessere collettivo che all’individuo, gioverebbe nel contenimento del virus.

La posizione di Pescali non mi sorprende: è in corso un dibattito politico e filosofico sulla effettiva efficacia delle democrazie e illustri politologi indicano come modelli di stato efficiente paesi come Singapore (come sostiene ad esempio, il noto politologo Parag Khanna ne «Il secolo asiatico»).

Trovo però molte crepe in questo ragionamento: se è vero che un potere centralizzato decide prima, questo non significa che il potere assoluto od oligarchico sia il migliore sistema per guidare una nazione. Cina, Corea del Nord, Vietnam, Thailandia, Myanmar (per citare solo alcune nazioni confinanti o adiacenti la Cina) sono brutali dittature che imprigionano chi dissente, spostano forzatamente intere popolazioni, controllano la vita di ogni singolo cittadino e non hanno alcuna trasparenza nelle loro comunicazioni. Siamo così sicuri che siano modelli da prendere ad esempio? Nello stesso numero della vostra rivista, avete fatto un servizio sulla persecuzione terribile che il governo cinese attua nei confronti dei seguaci della Chiesa di Dio Onnipotente.

Sottolineo che, nella nostra democrazia, imperfetta e sicuramente da rivedere, abbiamo gli strumenti del decreto legge, legislativo e della presidenza del consiglio dei ministri, che permette di gestire le emergenze.

Concludo chiedendomi, e chiedendovi, se non sia il caso di pensare a un modello cristiano di politica. Cristiano non in senso assolutistico, ma cristiano nel cuore della questione, ovvero agire per il bene di tutti, conservando la libertà di avere la propria opinione, nel rispetto degli altri. Possibile che un concetto così semplice sia solo utopia?

Perdonatemi la prolissità! Cordiali saluti,

Lorenzo Bragagnolo
22/05/2020

 

Non è ovviamente mia competenza specifica entrare nell’argomento del «modello cristiano di politica». Mi permetto qui di ricordare solo che uno dei capisaldi della concezione cristiana della politica si trova espresso nel Concilio Vaticano II, al numero 74 della Costituzione pastorale Gaudium et Spes.

Secondo il Concilio, in vista del bene comune, «gli uomini, le famiglie e i diversi gruppi che formano la comunità civile […] avvertono la necessità di una comunità più ampia, nella quale tutti rechino quotidianamente il contributo delle proprie capacità» (n. 74). «La comunità politica esiste dunque in funzione di quel bene comune, nel quale essa trova significato e piena giustificazione e che costituisce la base originaria del suo diritto all’esistenza» (ivi).

Perché questa comunità politica non si disgreghi nello scontro di opinioni diverse, «è necessaria un’autorità [pubblica] capace di dirigere le energie di tutti i cittadini verso il bene comune, non in forma meccanica o dispotica, ma prima di tutto come forza morale che si appoggia sulla libertà e sul senso di responsabilità» (ivi).

È un testo che merita di essere letto e riletto, anche perché «la politica» oggi è contagiata da molti virus e stanno crescendo sia la disaffezione per essa che l’idea di soluzioni messianiche e autoritario populiste.

 

Il capestro del debito

Gentilissima redazione,
sono un fedele lettore da molto tempo e mi soffermo spesso sulle rubriche di Francesco Gesualdi riguardanti l’economia.

Mi piacerebbe molto avere una sintesi, magari sotto forma di tabella, del debito di tutte le nazioni sotto forma di dare/avere per capire con uno sguardo chi tiene i «cordoni della borsa» dell’economia mondiale e quindi fare pressioni su di loro per azzerare il debito e liberare per sempre il mondo da questa schiavitù che affossa sempre più alcuni, ed arricchisce sempre più altri.

Alla faccia di tutte le dichiarazioni di buona volontà che circolano specialmente in questo periodo di virus, che, sotto sotto, ci ha fatto riflettere e ha messo in discussione tutti i modelli economici e dato spazio alla rivincita della natura sui disastri che giornalmente perpetriamo nei suoi confronti.

È ora di girare pagina, ma veramente e non solo con dei proclami. Cordialmente

Valerio Liberati
22/05/2020

Caro Valerio,
grazie per la tua sollecitazione. Ciò che auspichi sarebbe senz’altro di grande utilità, ma al tempo stesso di non facile realizzazione. Innanzi tutto, per la varietà di fonti che andrebbero consultate e subito dopo per la quantità di voci che andrebbero esaminate. Infatti, la posizione finanziaria verso l’estero di ogni paese è determinata dal saldo commerciale, dai movimenti di capitale, dal debito accumulato dal governo centrale, dal debito delle imprese, dal debito delle banche e altri aspetti ancora. Per una sola persona si tratterebbe di un’impresa titanica, quasi impossibile da realizzare, ma se a lavorarci fosse un gruppo, allora il discorso sarebbe diverso. Quello che potremmo fare è chiedere a MC di lanciare pubblicamente l’idea con l’obiettivo di chiedere a chiunque si senta di voler e poter partecipare, di farsi avanti. Se l’iniziativa riuscisse, si potrebbe formare un gruppo di volontari che iniziano con questa ricerca e magari proseguono con molte altre di cui si sente il bisogno per ripristinare una corretta informazione.

Francesco Gesualdi
02/06/2020

Suggerimenti

Splendido il dossier sul ruolo attuale delle missioni, complimenti. Mi permetto un suggerimento: fare un servizio di analogo respiro sull’articolo di Civiltà Cattolica che partendo da un’analisi dell’impatto del virus, delinea un esplosivo programma politico, praticamente socialista, ma di quelli che i socialisti di oggi non osano neanche parlarne.

Un altro suggerimento, basato sulla lettura dell’ottimo articolo sul numero di marzo sullo sfruttamento delle acque del Mekong: fare un servizio analogo sullo sfruttamento del Nilo, che porterà tra non molto a una inarrestabile crisi in Egitto, con spinta a una enorme migrazione. I Cinesi hanno già fatto dell’Etiopia la loro riserva alimentare, acquistando terreni aridi che verranno irrigati con le dighe che stanno costruendo vicino alle origini del Nilo. E probabilmente la stessa cosa sarà fatta nel Sud Sudan quando e se sarà pacificato: a questo punto il Nilo in Egitto sarà ridotto a un rigagnolo, e una delle più popolose nazioni dell’Africa sarà ridotta alla disperazione. L’Egitto ha 100 milioni di abitanti, di cui almeno cinque di soldati e poliziotti: può succedere di tutto, a partire da una inarrestabile emigrazione.

D’altra parte, da sempre l’acqua è un elemento importante della politica estera: dal Tibet partono i fiumi che irrigano l’India, alcuni passando per il Pakistan, altri per il Kashmir non a caso in perenne tensione. I curdi si battono per un’indipendenza che nessuno gli vuol dare, perché controllano buona parte dell’acqua che va in Turchia e Iraq e tutta quella che va in Siria. E in Siria, nelle alture del Golan che Israele ha conquistato nasce il Giordano, ormai ridotto a un rigagnolo a causa dello sfruttamento intensivo delle acque, tanto che il lago di Tiberiade, luogo evangelico, credo sia di fatto prosciugato e il Mar Morto sta trasformandosi in una miniera a cielo aperto.

Claudio Bellavita
13/05/2020

Grazie dei preziosi suggerimenti di cui faremo tesoro nelle nostre possibilità. Il problema dell’acqua è certamente cruciale per il mondo, anche per alcune dissennate politiche in atto, tipo la distruzione sistematica dell’Amazzonia o la massiva cementificazione dell’ambiente o, ancor peggio, la corsa di imprese private e multinazionali a prenderne il controllo sia da noi in Italia che in molte parti del mondo, facendo questo a spese dei poveri.

Soldi per armare terroristi

Ciao carissimi,
spero di trovarvi tutti bene. Vi scrivo perché sono rimasto molto colpito dalle discussioni scatenatesi in seguito alla liberazione di Silvia Romano. Concordo sullo squallore di certi commenti volgari e irrispettosi che si sono diffusi a valanga. Nondimeno, dalle «nostre» parti (sinistra e Chiesa missionaria) è mancato un commento sull’inopportunità di avere versato dei soldi a una tra le peggiori organizzazioni terroristiche del pianeta.

Fin dalla mia prima esperienza africana, avvenuta negli ormai lontani anni ‘80, ho maturato la consapevolezza di quanto male facciano le armi nel Sud del mondo. Animato da questa convinzione, ho partecipato con entusiasmo a tantissime iniziative, dall’obiezione alle spese militari al viaggio dei 500 a Sarajevo. […]

Ebbene, adesso sento con dispiacere la mancanza di una nostra critica, educata e circostanziata (lontana mille anni luce dagli insulti e dalle minacce), al finanziamento di Al Shabaab.

Negli ultimi anni, a seguito di alcune missioni in Niger, ho percepito con chiarezza il terrore degli abitanti nei confronti di possibili attacchi da parte di gruppi jihadisti. Considerare il terrorismo islamico solo come un nostro problema, equivale a limitarsi alla punticina di un iceberg che invece costituisce un’enorme spada di Damocle nei confronti di molti paesi.

Per questo, pensando alla preoccupazione espressami da tanti africani, non sono riuscito a gioire alla notizia della liberazione dell’incolpevole Silvia, considerato che i soldi versati per lei potrebbero trasformarsi in morte per molti somali e kenyani. Forse che la sua vita vale più delle loro? Dire che tanto le armi arriverebbero ai terroristi anche senza il pagamento del riscatto, equivale al ragionamento di chi sostiene che l’Italia fa bene a vendere armi a certi paesi, tanto se non lo fa lei lo fanno gli altri.

Ho compiuto diverse missioni in paesi a rischio, e mia moglie sa bene che mai e poi mai vorrei che, se fossi rapito, qualcuno versasse dei soldi ai terroristi per me. Certo, al di là di quella che è la mia volontà, lo stato italiano potrebbe sempre decidere di comportarsi come vuole. Ma in tal caso sarebbe giusto che fosse criticato, perlomeno da chi prova orrore nei confronti degli attentati e dei conflitti armati.

Come insegnano anche molti missionari, chi parte deve essere preparato sia psicologicamente sia professionalmente, poiché le buone intenzioni non bastano. Per questo è scandaloso l’invio di Silvia, arruolata su due piedi da una Onlus alla buona per andare a «portare il suo sorriso» in uno dei posti più pericolosi della terra.

Del terzomondismo di facciata di molte Onlus e Ong ho già parlato diffusamente nel mio libro «Ripartire da ieri, la nuova sfida del volontariato internazionale», pubblicato dalla Emi nel 2015, che alcuni di voi hanno letto. Qui mi limito a esporvi la mia delusione per il fatto che certe critiche ho dovuto leggerle (per lo più espresse in forma sguaiata) sulla stampa di destra, dopo averle inutilmente cercate sulla nostra. Penso che, per essere credibili, bisogna avere il coraggio di uscire dal «politicamente corretto», altrimenti si rischia di adagiarsi sul «coppibartalismo» per cui certe cose si criticano solo se sono attuate dalla parte avversa.

Ma le armi ad Al Shabaab non sono meno mortifere di quelle vendute ai despoti di Egitto e Arabia Saudita. Chiedere chiarezza sulle transazioni di armamenti che vedono coinvolto il nostro paese senza poi chiederne altrettanta su come e quanto sia stato pagato per la liberazione di Silvia, equivale a una forte perdita di credibilità, offrendo per di più il destro a chi non aspetta altro per screditare le nostre idee e le nostre proposte.

Scusate l’intrusione, ma siete fra i pochi che non mi fanno sentire un marziano su questa Terra. E poi, tante cose le ho imparate e continuo a impararle da voi. Per questo mi sento autorizzato a chiedere un po’ più di coraggio e coerenza. Un abbraccio!

Alberto Zorloni
02/06/2020

Caro Alberto,
condivido appieno la tua critica e il tuo disagio nei confronti dell’osceno mercato delle armi in cui anche il nostro paese è coinvolto su larga scala. Per quanto riguarda Silvia, ho gioito alla notizia della sua liberazione, dopo avere seguito da vicino tutta la vicenda fin dai primi momenti.

L’ho seguita spinto da molti motivi: dalla compassione (nel senso originario) per il dramma di una ragazza mandata allo sbaraglio (bastava vedere le foto della casa in cui stava), dal fatto che ho «informatori» sul posto e una nostra missione, Adu, non molto distante da Chakama; dal fatto di avere vissuto in Kenya – certamente non il posto più pericolodo della Terra – una ventina d’anni e di sentire quel paese come parte di me, dall’avere già avuto esperienza diretta di altre persone rapite da somali, come le due missionarie del Movimento contemplativo missionario di Cuneo nel novembre 2008 e liberate nel febbraio 2009.

Resto convinto che un rispettoso silenzio e una maggiore discrezione avrebbero giovato a tutti. Anche per avere il tempo di far emergere i fatti, senza costruire castelli su informazioni non confermate (vedi le fantastiche storie sui milioni pagati da questo o quello, con in ballo armamenti, petrolio e grattacieli).

Questo avrebbe evitato di spargere tanto odio e tante falsità, evitando di screditare il mondo del volontariato che in questi tempi di Covid-19 sta dando una splendida prova di sé in
Italia e nel mondo.

Quanto alla battaglia contro l’amoralità del mondo degli armamenti, è una battaglia sacrosanta che si può fare senza usare le Silvie di turno, altrimenti si diventa amorali come quel mondo che non accettiamo.


Speciale Covid e missionari

Padre Remo Villa celebra l’eucarestia con mascherina a Tura mission

Da Tura mission, Tanzania

15/03/2020 Dicono che siamo circondati dal coronavirus: Congo, Ruanda, Kenya e Sudafrica. Ma qui niente, stando alle notizie ufficiali. Sarà vero? Speriamo di sì, però…

Qui a Tura (quasi al centro del paese), e in tutta la zona, la gente conosce il nome della malattia e basta. Un po’ poco non ti pare?

Oggi dopo le messe ho mostrato un video ricevuto due giorni fa, in swahili. Attenzione massima e silenzio di tomba. Manca l’informazione e penso anche la preparazione. Nonostante tutto, ricordiamoci che il sole ogni mattina illumina la nostra vita…

23/03/2020 Ho celebrato la messa all’aperto anche per non essere troppo stretti, come capita nelle nostre chiese, in tempi di coronavirus che sta entrando anche qui in Tanzania. Ma eravamo proprio pochi, moltissimi infatti erano ancora alle prese con l’inondazione. Ho promesso loro che ritornerò presto ad incontrarli e stare con loro con calma e serenità. Oltre al coronavirus anche l’inondazione. La comunità cristiana ha ospitato nella chiesetta sei nuclei familiari, trenta persone circa. Gesto stupendo che mi fa comprendere il buon cuore della mia gente.

Martedì 17 marzo il primo ministro ha parlato ufficialmente alla Tv annunciando le prime decisioni per combattere questa pandemia, tra cui la chiusura delle scuole, divieto di incontri e assembramenti politici e partitici, destinazione al ministero della Salute della somma per la fiaccolata dell’indipendenza, preparazione di alcuni reparti ospedalieri per l’emergenza, ed altro.

I casi di coronavirus sono molto pochi, dicono i dati ufficiali. Che il Signore aiuti la nostra gente già provata in tante altre maniere.

29/03/2020 Qui a Tura la vita va avanti nella normalità. Però le piogge abbondanti e torrenziali sembra non vogliano lasciarci. I risultati sono allagamenti dappertutto con rovina di ponti e ponticelli e tante le case ripiegate su se stesse o addirittura portate via dall’acqua

26/04/2020 Oggi, domenica, secondo le direttive dei vescovi per combattere il Covid, niente canti durante le celebrazioni. Questo ci ha impressionati un po’ tutti: la messa senza canti è come il cibo senza sale, almeno qui da noi. La vivacità e la gioia pasquale ne hanno risentito parecchio.

03/05/2020 Poca gente alla messa, per fortuna la nostra chiesetta aperta ci permette di mantenere le distanze aumentando il numero dei blocchi di cemento su cui sedersi.

24/05/2020 Festa di Pentecoste, due messe, ma senza guanti e pinzette, solo con mascherina a portata di mano e all’aperto. La seconda a 40 km di distanza, circa un’ora. La comunità è Isuli da me visitata in marzo. Solita chiesetta piccola con finestre e porta senza infissi, e quindi arieggiata. Però, dato l’«amico» corona, e due begli alberi, la messa è stata all’aperto con venticello che allontanava il caldo del mezzodì. Più di quaranta adulti ed altrettanti bambini seduti per terra su un grande telone.

padre Remo Villa,
Tura mission, TZ

Padre Giampaolo davanti alal casa Imc a Yokkok

Yokkok, Corea del Sud

La Corea ha affrontato molto bene l’emergenza virus. Un po’ di anni fa, al tempo della Sars, la Corea aveva avuto molti contagi e decessi. Per questo motivo quando è arrivato il Covid-19 era preparata. Test per tutti, specialmente dove c’erano i focolai più importanti.

Ogni giorno sui telefonini arrivano messaggi che ti allertano sulla situazione e ti dicono se nella tua zona ci sono infettati e quali sono le zone, palazzi, ospedali, centri da evitare. Così tutto è sotto controllo.

Anche noi da prima delle Ceneri fino alla fine di aprile non ci siamo mossi dai nostri centri. Non c’erano messe pubbliche, catechesi né incontri di alcun tipo. La comunità di Tong du chon faceva la messa in streaming per i lavoratori stranieri.

Tutto sembrava andare bene, le messe pubbliche erano ricominciate e già si facevano alcuni incontri, quando c’è stata una nuova ondata di contagi, questa volta non del virus «leggero» di prima, ma di quello più pericoloso che è diffuso in Europa. E molti dei nuovi contagi sono proprio nella zona di Yokkok. Perciò è saltata la festa della Consolata che facevamo ogni anno. Molte scuole sono state richiuse e in alcune parrocchie hanno di nuovo sospeso le messe. Insomma quando tutto sembrava tornare alla normalità, siamo tornati all’emergenza. Per fortuna si può andare in giro con una certa libertà, ma tutti cercano di muoversi il meno possibile. Qui a Taejon (un milione e mezzo di abitanti) e nella nostra regione, gli infettati sono stati solo alcune centinaia, per cui l’ambiente è abbastanza tranquillo. Abbiamo potuto visitare alcuni monasteri buddisti in occasione della festa della nascita del Buddha, e abbiamo ripreso qualche incontro di approfondimento sulla fede. Vedendo come vanno le cose però, la stagione pastorale non riprenderà pienamente prima di settembre.

Siamo in una situazione di stallo, come il resto del mondo d’altronde. Credo però che noi in Corea e Taiwan siamo tra i più fortunati, e la luce al fondo del tunnel la vediamo già molto vicina.

padre Lamberto Giampaolo
Yokkok, Corea d.S., 30/05/2020

Duecento pacchi di cibo pronti per la distribuzione

San Antonio Juanacaxtle, Messico

19/04/2020 Giovedì faremo una riunione in uno spazio aperto con gli otto capi quartiere del rancho (paese) per lanciare il Revess (Rete di vicinato e solidarietà samaritana). L’iniziativa vorrebbe rendere più coeso il tessuto sociale e coinvolgere i giovani per piccole commissioni e per proteggere gli anziani.

Intanto il confinamento è stato decretato in tutto il Messico fino al 30 maggio perché credono che il 10 maggio raggiungeremo il picco. Vedremo.

Il governatore del nostro stato (Jalisco) ha inasprito le misure di sicurezza, soprattutto in relazione all’uso della mascherina. Certo, ci sono molte famiglie qui che vivono alla giornata e non possono rimanere a casa perché non hanno risparmi su cui vivere.

21/04/2020 Qui sembra che le misure di distanziamento sociale non riescano a fermare né Covid-19 né gli omicidi.

24/04/2020 Ieri è partito il Revess, in una bella riunione all’aperto, sulle panchine fuori dalla chiesa, mantenendo la distanza di sicurezza. Alla fine, abbiamo parlato anche della festa del patrono del rancho, che è il 13 giugno. Ho detto loro che il confinamento è fino al 30 maggio, ma che potrà essere allungato ulteriormente. Quindi niente festa. Ci sono rimasti male e hanno sottolineato che allora neanche la festa la Consolata (del 20 giugno) potrà essere fatta.

Erano più preoccupati per i festeggiamenti del villaggio che per il Covid-19. Infatti c’è un sacco di scetticismo sul coronavirus. Penso che fino a quando non toccherà qualcuno della loro famiglia, sarà difficile per loro convincersi della gravità della situazione.

06/05/2020 Il Revess ha cominciato a funzionare e sta iniziando i primi interventi con l’aiuto di volontari.

12/05/2020 Stiamo distribuendo cibo a destra e a manca perché le esigenze sono enormi e bisogna anche dedicare del tempo alle persone. Non puoi solo dare la borsa di cibo e andartene. Dobbiamo non solo saper ascoltare, ma anche saper dare per rispettare la dignità di coloro che sono nel bisogno. Sono lieto di poter fornire un minimo di consolazione.

17/05/2020 Secondo l’Istituto per l’economia e la pace, la violenza ha tolto l’equivalente del 21% del Pil al Messico. Il che è una barbarie. Siamo ancora alla media di 100 omicidi al giorno.

Di fronte a questa pandemia della violenza, il Covid-19 sembra un male minore. Siamo anche uno dei paesi che fa meno tamponi, quindi è difficile avere una visione globale della situazione. Penso che dobbiamo essere più attenti che mai al contagio proprio perché c’è l’impressione generale che il peggio sia passato, ma non ne sono tanto sicuro.

21/05/2020 Stanno arrivando un sacco di chiamate da persone che hanno il Covid-19 e stanno vivendo davvero male. Ci sono anche persone che soffrono di solitudine e hanno bisogno di parlare con noi.

Domani avremo altri 200 sacchetti di cibo da distribuire tra le famiglie. Li porteremo in ogni casa noi stessi, il che rende la distribuzione molto più lenta, ma anche molto più umana.

25/05/2020 Il confinamento, previsto fino al 1 giugno, sta creando situazioni complicate. Ieri hanno pesantemente minacciato uno di noi missionari perché si è rifiutato di celebrare una messa di anniversario – con partecipazione massiccia di gente – di un ragazzo morto due anni fa.

30/05/2020 Continuiamo a distribuire aiuti alimentari, anche se si prevede che tutto questo peggiorerà. I casi di Covid-19 continuano ad aumentare, così come i decessi e siamo uno dei paesi che fa meno test. D’altra parte, omicidi e femminicidi sono una realtà quotidiana.

padre Ramon Lazaro,
Guadalajara, Messico


Dall’Eswatini, disinfezione




I paradossi di una politica escludente

Comunicato dei missionari italiani riuniti nella Fesmi, nella Cimi e nel Suam


In questi giorni abbiamo assistito con tristezza al modo irresponsabile in cui l’odissea di 42 persone salvate nel Mediterraneo è stata nuovamente trasformata in una vicenda che banalizza la questione epocale e globale delle migrazioni, di cui noi missionari e missionarie siamo quotidianamente testimoni oculari nei Paesi dove ci troviamo ad operare.

Piuttosto che cercare soluzioni, in Italia si preferisce giocare alla battaglia navale esasperando toni e situazioni, con l’epilogo che tutti abbiamo visto in queste ore.

Sbaglia chi si scaglia contro la comandante della nave Sea Watch 3, Carola Rackete, accusandola di aver intenzionalmente speronato la motovedetta della Guardia di Finanza che impediva l’attracco della nave. Sarà la magistratura a stabilire come sono andate le cose e chi davvero abbia forzato la mano in tutta questa vicenda.

Come istituti e testate missionarie continuiamo a raccontare i drammi da cui origina l’odissea di chi parte in cerca di un futuro oggi negato in troppe parti del mondo, ed esprimiamo viva preoccupazione per il clima di forte ostilità contro il soccorso in mare di ogni migrante, soprattutto se proveniente dall’Africa.

Ma soprattutto non si può accettare che venga proposto a modello di gestione efficiente della questione migratoria l’indifferenza di fronte alla disperazione di persone soccorse in mare e lasciate per due settimane senza un porto sicuro d’approdo. Persone che avevano già iniziato a commettere atti di autolesionismo. Mettere il loro destino prima del proprio, accettando anche di pagarne le conseguenze, è l’essenza del Vangelo di Gesù di Nazareth, che noi missionari e missionarie cerchiamo di portare a ogni popolo.

Carola ha disobbedito al decreto sicurezza per obbedire alla sua coscienza e alla legge del mare: è la legge internazionale del “soccorso da non omettere” a chi rischia di morire.

Ancora una volta la vicenda della Sea Watch 3 rivela i paradossi di una politica che trasforma le migrazioni in un argomento su cui gridare anziché provare a elaborare risposte realiste. Una politica che sbandiera la ricetta dei porti chiusi, ma li lascia aperti per chi, senza naufragare, li raggiunge grazie a trafficanti di persone che continuano a fare affari con nuovi metodi e nuove rotte.

L’unica risposta seria è una politica che dall’Italia ricominci a guardare il fenomeno nella sua complessità, sapendo che nei prossimi anni diventerà ancora più intenso, anche per gli effetti del cambiamento climatico. E occorre collaborare con il resto del mondo. Il 10 dicembre 2018 ben 192 Paesi hanno firmato un “Patto globale” promosso dall’Onu per gestire le migrazioni in modo sicuro e ordinato, e dissolvere così il traffico di persone. L’Italia non lo ha ancora sottoscritto. Perché?

E quali alternative propone il governo italiano al di là degli slogan sulla “difesa dei confini”?

E chi, in risposta alle migrazioni, tanto aveva a cuore lo slogan “aiutiamoli a casa loro”, cosa sta facendo in questo senso oggi che è al governo di questo Paese?

Di questo l’Italia deve tornare urgentemente a parlare. Se non vogliamo ritrovarci presto a tirare fuori ancora una volta il peggio intorno a una nave bloccata al largo di Lampedusa.

FESMI – CIMI – SUAM & GPIC
(Federazione Stampa Missionaria Italiana;
Conferenza Istituti Missionari Italiani;
Segretariato Unitario Animazione Missionaria e sua commissione Giustizia e pace)

 

1° luglio 2019

 


P.S.  Il 30 giugno 2019 è circolato un messaggio a firma di padre Alex Zanotelli: si riferisce alla notte del 29 giugno e smentisce lo speronamento della motovedetta della Guardia di Finanza nel porto di Lampedusa. Ma in quelle ore padre Alex era a Verona. Chi gli ha attribuito questa notizia falsa?

Hanno pubblicato questo comunicato:

  • ComboniFem, la rivista delle Missionarie Comboniane



Irriducibili sognatori

Editoriale. | Di Gigi Anataloni |


Mentre scrivo si stanno contando i voti. Populismo e destre sembrano alla riscossa. C’è chi esulta e c’è chi piange. «Metà Italia contro élite e migranti», titola un giornale. Quando leggerete queste righe, forse avremo già un nuovo presidente del consiglio e un nuovo governo. Il devoto di san Gennaro o chi ha in tasca il rosario della mamma? Oppure si deciderà di andare a una nuova votazione? Bisognerebbe essere indovini per saperlo.
Fare il commentatore politico non è mia competenza ma, come cittadino, prete e missionario, non posso essere indifferente a quanto succede, soprattutto di fronte alla svolta populista e razzista che intravedo nel paese che amo e di cui sono orgoglioso. Paese che, tra l’altro, ha uno dei tassi più alti di mescolamento genetico al mondo (le analisi sul nostro Dna ce lo confermano), visto che da tempi immemori è stato luogo di incontro e scontro tra i popoli più diversi. L’Italia deve molta della sua bellezza e genialità proprio alla sua diversità.
Quasi tutti i commentatori concordano nel dire che uno degli elementi che ha favorito i vincitori è stata la questione dei migranti, come se fossero loro la causa della mancanza di lavoro e dell’insicurezza diffusa. Noi, da irriducibili sognatori che siamo, continueremo a sostenere, incoraggiati da quei tantissimi italiani che danno più ascolto al cuore che alle paure della pancia, che i migranti non sono un pericolo, ma un valore; che sono persone, uomini e donne come noi, non alieni o nemici, e vanno trattate con giustizia, rispetto e dignità, senza falsi paternalismi o pregiudizi. Giustizia richiede pratiche burocratiche snelle ed efficienti, accoglienza in strutture adeguate e non mezze prigioni, e inserimento, integrazione, scuola, lavoro regolare, salari giusti e cittadinanza a chi è già italiano di fatto (jus soli e affini). Giustizia è anche eliminazione delle nuove schivitù, della tratta, dello sfruttamento dei minori, del lavoro nero. Giustizia è anche dire no al paternalismo e creare con i migranti rapporti seri basati su correttezza e responsabilità, diritti e doveri, e rispetto delle leggi, senza condonare atteggiamenti antisociali o mafiosi.
La paura e l’esagerata percezione di insicurezza stanno spingendo molti ad armarsi, imitando?i nostri eterni modelli e rivali nordamericani. La corsa alle armi non è solo degli individui, ma anche degli stati. La nostra bella nazione, che nella sua Costituzione rigetta la guerra, ha aumentato le spese militari almeno del 4,5% rispetto al 2017, e del 25,8% rispetto al 2006, ed è una delle prime produttrici e venditrici di armi al mondo. Noi, da irriducibili sognatori, continueremo a sostenere che la pace non si ottiene né mantiene con le armi, ma con il dialogo, il rispetto, l’aiuto reciproco tra le nazioni, la difesa dell’ambiente, il commercio equo, un’economia solidale e la lotta alla povertà. Che a livello personale l’arma più potente è il perdono e la nonviolenza, e che gratuità, volontariato, servizio, condivisione, aiuto a chi è nel bisogno e rispetto delle diversità sono più forti e danno più sicurezza di porte blindate, di regolamenti razzisti, di armi in casa, di ronde e vigilantes. Siamo incoraggiati dal fatto che il nostro paese è davvero ricco di gruppi, associazioni e movimenti che «lottano» per la pace e la nonviolenza e sono attivi nel volontariato e nel servizio alla comunità. Questo è bello e dà tanta speranza.
C’è un germe di speranza anche nelle elezioni appena svolte: l’affluenza alle urne ha battuto tutte le previsioni di astensionismo, soprattutto tra i giovani. Questo significa che, nonostante certi politici fallimentari e autoreferenziali, gli italiani credono ancora nella «Politica» e nella partecipazione alla vita del paese, e sono coscienti «del diritto, che è anche dovere, di usare del proprio libero voto per la promozione del bene comune» (Gaudium et Spes 75). Perché «la comunità politica esiste in funzione di quel bene comune, nel quale essa trova significato e piena giustificazione e che costituisce la base originaria del suo diritto all’esistenza» (GS 74). Noi, irriducibili sognatori, continueremo a credere che il futuro non è dei corrotti, dei venduti ai grandi poteri economici, di chi mette i suoi interessi al primo posto o è affamato di potere, dei mafiosi e dei massoni, ma di quegli uomini, cristiani e non, che, presa «coscienza della propria speciale vocazione nella comunità politica», si impegnano in prima persona, «sviluppando in se stessi il senso della responsabilità e la dedizione al bene comune» (GS 75).?«Bene comune» che, oggi più che mai, ha dimensioni planetarie, visto che ogni scelta politica, economica e ambientale ha effetti su tutta l’umanità.

Gigi Anataloni

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P.S. MC non ha cambiato titolo. Quest’anno la testata ricorda i 120 anni della rivista, fondata dal beato Allamano nel 1899 come il bollettino «La Consolata» dell’omonimo santuario di Torino. Dal 1901 il bollettino ha due anime: il santuario e le missioni d’Africa. Così nel 1928 si divide in due pubblicazioni: quella del santuario e «Missioni Consolata» che è la voce dei missionari.




Ghana: La democrazia prima di tutto


È il 1957 quando il paese di Kwame Nkrumah diventa indipendente. Tra i primi stati africani. Ma la vera indipendenza è difficile, occorre farcela con le proprie risorse. Il popolo del Ghana è rimasto unito, seppur ricco di diversità, e risolve i problemi con il dialogo. L’alternanza politica è la regola. Un esempio importante per il continente.

Democrazia, stabilità, alternanza e libertà di religione. Su questi elementi si gioca l’immagine positiva di un paese orgoglioso di rappresentare un esempio per tutto il continente. Certo, dietro la facciata si nascondono criticità e disagi sociali ed economici rilevanti, ma il Ghana continua a essere la prova che i paesi africani possono crescere, migliorare e affrontare i problemi senza arrivare a crisi estreme o, peggio, all’uso della forza.

È un paese fiero dei suoi sessant’anni di democrazia appena compiuti. Quell’ex Costa d’Oro che il 6 marzo del 1957 proclamò l’indipendenza dall’impero coloniale britannico, diventando da quel momento ispirazione e fiducia per tutti gli altri che a seguire avrebbero conquistato il diritto di essere indipendenti e sovrani. Da allora è come se il Ghana si fosse assunto una sorta di responsabilità morale nei confronti delle nazioni sorelle che stavano formandosi. Kwame Nkrumah, primo presidente del Ghana indipendente, era anche uno dei padri del panafricanismo, cosa che aiutò a guardare la storia anche nella prospettiva del futuro.

Acrobati durante le celebrazioni del 60° di indipendenza il 6/03/2017 a Accra. / AFP PHOTO / CRISTINA ALDEHUELA

Un po’ di storia

Anche il Ghana ha vissuto la sua dose di governi militari – fase conclusasi definitivamente nel ‘93, dopo Rawlings e l’apertura della cosiddetta quarta Repubblica. Né va dimenticato che lo stesso Nkrumah fu vittima di un colpo di stato in cui oltre ai «soliti» poteri occidentali pare fosse implicato il governo canadese di allora. Era un’indipendenza «troppo indipendente» quella vagheggiata dal primo presidente ghanese e il suo sguardo socialista e panafricano non piaceva agli ex colonialisti e alle altre potenze straniere.

La «vera» indipendenza

Il Presidente del Ghana Nana Akufo-Addo. 07/01/2017. Stringer / Anadolu Agency

Nel giorno del sessantesimo anniversario dell’indipendenza (6 marzo 2017), la figlia di Nkrumah, Samia, ha ricordato quello che si sognava fosse la vera indipendenza: emancipazione economica, uso delle proprie risorse e ricchezze, unione panafricana tra tutte le nazioni del continente.

La realtà di questi decenni è stata un po’ diversa: l’opportunismo politico, la voglia di potere, la «svendita» delle terre e delle risorse, il desiderio di arricchirsi alle spalle della popolazione hanno creato i punti deboli della struttura della governance del Ghana. Quello che ancora rimane però – dopo sessant’anni – è appunto la capacità di restare uniti, di risolvere le questioni attraverso il dialogo, di superare ogni tipo di contrasto che possa essere legato alle diverse appartenenze. E il Ghana da questo punto di vista è ricco di diversità.

Oltre venticinque milioni di abitanti appartenenti a nove gruppi etnici principali, tredici lingue e fedi religiose che vanno dal Cristianesimo all’Islam alle diffuse pratiche tradizionali. Con gruppi numerosi anche di buddisti. La differenza vera nel paese non è data da questi aspetti. Quello che conta sono la posizione sociale, l’educazione, il conto in banca. In Ghana, il cui 65% del territorio è agricolo, si sta allargando il gap tra zone rurali e le grandi città e conseguentemente l’accesso ai servizi e così pure al miglioramento delle condizioni economiche. Va detto che dei buoni risultati sono difficili da raggiungere con un gettito fiscale pari solo al 19.9% del Pil. Su questo aspetto manca ancora una soddisfacente politica di gestione e controllo.

L’urbanizzazione è un fenomeno esteso non solo ad Accra, la capitale che arriva a «ospitare» fino a due milioni di pendolari che si vanno ad aggiungere ai circa 4 milioni di abitanti, ma anche a Kumasi, capitale della regione Ashanti, una delle più ricche del paese, e Takoradi, centro in crescita costante dalla fine degli anni 2000 quando furono scoperti i giacimenti di petrolio off shore. A «svuotarsi» sono soprattutto la regione del Volta, che comprende la fascia costiera verso il confine con il Togo e la zona interna salendo lungo il fiume, e il Nord del paese al confine con il Burkina Faso. Zone povere, dall’economia limitata, dove la scarsità di pesce e la siccità costante non offrono alternative. Né grandi opportunità sono state proposte dai governi che si sono finora succeduti. Inoltre, urbanizzazione vuol dire anche sovraffollamento, come dimostrano i numerosi slum che si trovano soprattutto nella capitale Accra.

La grande discarica

La vergogna più grande è Agbogbloshie, meglio nota come Sodoma e Gomorra, la più grande discarica di e-tech (e non solo) di tutta l’Africa Occidentale, probabilmente dell’intero continente. È occupata soprattutto da persone provenienti dal Nord in cerca di fortuna che si sono ritrovate in uno sporco e rischioso «lavoro» di riciclo di materiali elettrici e plastica, computer, frigoriferi, stampanti, etc. I fumi dei roghi che bruciano copertoni, plastica e fili elettrici si alzano ogni giorno dall’area che è un tutt’uno con mercati, strade e abitazioni. Un’emergenza ambientale che si va ad aggiungere a quella sanitaria.

Economia in affanno

Tornando alla situazione economica, che qualcosa sia andato non proprio per il verso giusto in questi anni, lo dimostra il dato dell’inflazione, oggi attestata intorno al 13%, in certi momenti è arrivata anche al 18%. Il Pil pro capite è pari a poco meno di 1.800 dollari annui e una serie di prestiti rinnovati negli anni dal Fondo monetario internazionale ammonta a un totale di 918 milioni di dollari. Eppure gli investitori continuano ad arrivare, la speranza dei cittadini sembra sempre più forte delle critiche mentre le previsioni delle agenzie internazionali sono estremamente ottimiste. Il segreto? Sempre uno: democrazia.

L’alternanza reale

Da decenni vince più che un partito, un concetto, un «patto» non scritto, quello dell’alternanza. Alle ultime elezioni – dicembre 2016 – è stata la volta dell’Npp (New Patriotic Party) con il suo leader Nana Akufo Addo.

Il neo presidente ha centrato la sua campagna elettorale sulle performance negative del governo precedente guidato da John Mahama (Ndc, National Democratic Congress) che pure ha avuto un importante ruolo nel riconoscere la sconfitta e impedire l’accendersi di polemiche o scontri. Ma da subito analisti e cittadini hanno cominciato a essere scettici sulle magnifiche promesse di Akufo Addo per migliorare l’economia del paese, prima fra tutte quella del motto: One discrict, one factory – una industria per ogni distretto. La carenza di industrie, sicuramente al di sotto delle potenzialità del paese, rimane una nota dolente. Solo il 14.4% della popolazione attiva è impegnata in questo settore, mentre il settore dei servizi, spesso informali, occupa il 41%. Come a dire che l’arte di arrangiarsi funziona meglio delle opportunità offerte sia dalle compagnie private sia dallo stato. L’agricoltura occupa invece il 45% della popolazione ed è anche in questo settore che il neo presidente ha promesso di intervenire in modo massiccio, auspicando una produzione che duri tutto il corso dell’anno grazie alla fornitura dell’acqua, soprattutto nelle due regioni del Nord.

Altro elemento problematico riguarda il settore pubblico che, secondo recenti stime, influirebbe addirittura per il 74% sulle spese fisse dello stato. Si tratta di 500.000 persone, solo il 2% della popolazione, a cui però spesso viene attribuita mancanza di esperienza e competenze e assunzioni derivate da legami con l’entourage governativo e giri di mazzette. È quella parte del potere che ai ghanesi non piace e che la stampa libera non manca di denunciare. Una situazione che fa rabbia, soprattutto ai giovani che rientrano in quel 48% di senza lavoro stimati dalla Banca mondiale. Eppure sono proprio i giovani a dimostrare l’energia e la vitalità di questo paese. Giovani che navigano in rete con smartphone di ultima generazione e che hanno capito che il futuro è legato allo studio e alla conoscenza. E non parliamo dei figli dell’establishment che vanno a studiare all’estero, ma di quelli che affollano le Università ghanesi, molte frequentate da studenti che arrivano da altri paesi africani e anche europei, per progetti di scambio. Citiamo ad esempio: la Knust, la Kwame Nkrumah University of Science and Technology, che ogni anno mette sul mercato i migliori talenti nel settore scientifico e della tecnologia, l’Università di Legon e Ashesi University, università privata fondata da un ghanese della diaspora che dopo anni negli Usa al servizio della Microsoft ha deciso di tornare nel suo paese e investire in quella che sarà la futura classe dirigente.

I giovani, motore del Ghana

È proprio parlando con i giovani che si percepisce che il Ghana è in fase di cambiamento, ma nello stesso tempo rischia lo stallo se continua a perpetuare difetti e debolezze che sono diventati intrinseci. «Studio Fashion Design all’Università di Kumasi ma preferisco di gran lunga la vita cittadina di Accra», ci racconta Vera, 22 anni. «La mentalità qui è ancora molto ristretta, avrei voluto fare la modella, ma vuol dire scendere a brutti compromessi ancor prima di cominciare». Vera elenca i pregi e difetti del suo paese: «Amo il fatto che non facciamo guerre, che c’è la pace e sei libero di fare quello che vuoi, però va anche detto che le donne non hanno grande possibilità di esprimersi. Sposarsi e far figli è la loro strada, ma io e molte ragazze della mia età la pensiamo diversamente». «Quello che non sopportiamo più – dice invece Kofi, studente alla Central University – è la corruzione, il sistema delle mazzette. Se cerchi un lavoro, soprattutto nel settore pubblico, devi essere pronto a pagare qualcuno. Questo non è il Ghana che ci hanno promesso». «Il meglio del mio paese è la pace e la stabilità che ci accompagna da circa trent’anni, ma la cosa peggiore è la corruzione, specie nel servizio pubblico», dice Alhassan, trentenne laureato in Business e management, che ha fondato una Charity per sostenere i bambini che vivono nello slum di Agbogbloshie. E la diffidenza nei confronti della politica si manifesta nelle parole di Yaw, ventottenne laureato in cerca di occupazione. «Io sono tra quelli che sono andati a votare e il 6 marzo ho partecipato alle celebrazioni del nostro sessantesimo anniversario dell’indipendenza. Sono orgoglioso di essere ghanese e che siamo stati il primo paese sub sahariano a “liberarci”. Ma i nostri politici non sembrano fare i nostri interessi. Vanno al potere, incolpano il governo precedente di aver fatto male, ma poi loro stessi pensano a come arricchirsi prima di passare l’amministrazione dello stato al prossimo presidente».

Ma allora perché il Ghana continua a rappresentare un esempio? La risposta ce la dà Ama, giovane ragazza di 25 anni che sogna di lavorare nel settore del turismo. «Noi siamo liberi, possiamo dire quello che pensiamo, criticare chi ci governa e votare un nuovo presidente se il precedente non ha fatto quanto ci aspettavamo. Questa è la nostra ricchezza, non ci piace il conflitto. Preferiamo il dialogo. E continuare a sperare nel futuro».

Antonella Sinopoli

AFP PHOTO / CRISTINA ALDEHUELA


Le religioni in Ghana

L’importante è credere

In Ghana il fatto di appartenere a una chiesa è quasi un obbligo. Le cerimonie sono lunghe e il clima mistico. E c’è un grande proliferare di chiese evangeliche. La tolleranza religiosa è più che una tradizione. Anche cristiani e musulmani lavorano insieme e si scambiano visite alle feste comandate.

In Ghana la domenica mattina non è possibile prendere appuntamento con gli amici o programmare nessun genere di incontro. Tutti ti diranno che sono in chiesa. Cerimonie lunghissime che durano anche cinque o sei ore e che hanno poco a che vedere con le liturgie occidentali. Più orientate a una sorta di furore mistico che si manifesta nella ripetizione delle parole della Bibbia o dei Vangeli, nell’ispirazione del pastore e nella partecipazione, urlata e danzata, dei fedeli.

Secondo il World Christian Database in Ghana si contano 700 denominazioni cristiane e almeno 71.000 congregazioni individuali (chiese create da una persona). Il paese ha una grande varietà di appartenenze e soprattutto una lunga tradizione di tolleranza religiosa. La non discriminazione a causa della fede e la totale libertà di professare il proprio credo sono stabiliti dalla Costituzione ghanese, e non sono principi teorici ma radicati fortemente nella popolazione.

Secondo gli ultimi dati, in Ghana il 71,2% si dichiara cristiano. La prevalenza va alla chiesa pentecostale-carismatica con il 28,3%, seguono altre chiese protestanti con il 18,4% e la cattolica con un 13,1%. La religione musulmana è professata dal 17,6% della popolazione, la tradizionale dal 5,2%. Poi ci sono anche altre fedi professate nel paese, come quella buddista.

Persone che vivono insieme, lavorano, vanno a scuola e a volte partecipano alle cerimonie religiose degli altri. A scuola, per esempio, oppure nei grandi eventi pubblici, quando un capo di stato può prendere parte a un’importante celebrazione in moschea anche se è cristiano, o viceversa. A volte capitano dei «disagi». Per esempio recentemente si è investito l’apparato giudiziario per decidere se fosse giusto che nelle scuole gli studenti musulmani dovessero partecipare alle preghiere cristiane di inizio giornata, e non viceversa. Letture e interpretazioni che però non tolgono la capacità di stare insieme e di rispettarsi a vicenda in una contaminazione costante di vite. Il muezzin che chiama alla preghiera è il suono di sottofondo quotidiano, lo sono le preghiere nei mercati all’aperto e così pure i canti che arrivano alti dalle numerosissime chiese sparse in città e nei più remoti villaggi. «La tolleranza religiosa e il rispetto per le altre fedi ci è stato passato come un tesoro da chi ha fondato questo paese e noi lo onoriamo – dice il reverendo Alfred Ahiahornu della Calvary Baptist Curch in un quartiere di Accra -. Non ci facciamo la guerra per motivi religiosi e anche nelle questioni politiche musulmani e cristiani siedono allo stesso tavolo e decidono insieme». Forse qualche parte del mondo potrebbe guardare al Ghana come esempio, in questo senso. Il solo elemento a sfavore di questa libertà proclamata e applicata è la poca capacità di inserire in questa tolleranza una figura come l’ateo. Resta per i ghanesi difficile comprendere che qualcuno possa dichiararsi tale. Qualunque chiesa o moschea va bene, l’importante è appartenere a qualcosa che professi l’esistenza di un dio, possibilmente salvifico, e dell’aldilà.

Antonella Sinopoli




Il web ti vede


Il social network più popolare si è lanciato alla conquista del mondo. Per far questo stringe accordi con compagnie telefoniche e fornisce servizi gratuiti. Qualche stato, spinto dalla società civile, dice no. Facebook punta al controllo totale della rete e a incamerare enormi quantità di dati su ognuno di noi. Per poi orientare le nostre vite.

Uno scontro tra due delle più popolose potenze mondiali si è consumato tra il 2014 e il 2015: da una parte l’India, con un miliardo e 250 milioni di abitanti, dall’altra Facebook, con un miliardo e mezzo di utenti. I due giganti sono venuti ai ferri corti, legali, per l’iniziativa Facebook Free Basics, lanciata dal social network in 53 paesi in Africa, Medio Oriente, Asia, Oceania e America Latina, economie emergenti in cui la maggior parte della popolazione ha accesso limitato a internet a causa della scarsa diffusione di computer e smartphone, o per la parziale copertura di rete del territorio nazionale, o ancora per i costi proibitivi delle connessioni. Il programma Facebook Free Basics, fortemente voluto da Mark Zuckerberg in persona (fondatore di Facebook, ndr), consiste essenzialmente nella stipulazione di accordi con operatori mobili locali per fornire un accesso a Facebook di default, ovvero senza la necessità di usare un browser (programma per la navigazione in rete, ndr) per aprire il sito del social network, e con costi di navigazione completamente a carico della compagnia mobile.

Facebook o internet?

Il fatto che l’iniziativa si chiamasse precedentemente Internet.org rivela la vera ambizione del progetto: quella di rendere Facebook non solo la porta d’accesso alla rete, ma un vero e proprio sinonimo di internet. Questa tendenza, in realtà, precede il lancio di Internet.org nel 2014 in Zambia. Due anni prima, nel 2012, nel corso di uno studio per l’organizzazione Research ICT Africa, il capo del team di ricerca, Richard Stork, aveva notato un dato bizzarro: il numero degli intervistati che dichiarava di usare Facebook era superiore a quello di chi affermava di usare internet.

Un caso simile si era verificato, nello stesso anno, in Indonesia, dove Helani Galpaya, una ricercatrice per il think tank LIRNEasia, aveva commentato così i risultati del suo studio: «Sembra che, per gli intervistati, internet non esista. C’è solo Facebook». Altre ricerche condotte in Africa e Asia del Sud confermarono questa tendenza: Facebook e internet sono ormai termini intercambiabili. Un fatto incoraggiante alla vigilia dello sbarco di Facebook Free Basics nella frontiera più ambita: l’India. Per Zuckerberg, intenzionato a far crescere la sua creatura nel più grande mercato mondiale ancora disponibile (in Cina Facebook è tuttora proibito) questo era tutt’altro che un problema: del resto, come ribadito dallo stesso fondatore del social network in interventi pubblici, articoli pubblicati su giornali locali e incontri a porte chiuse con autorità politiche indiane, il punto fondamentale del progetto era consentire a centinaia di milioni di persone di restare in contatto e condividere ricordi, notizie e opinioni. Cento milioni sono già utenti di Facebook ma il potenziale è di 800 milioni. Che tutto ciò avvenga all’interno di un recinto è, a detta della multinazionale, secondario. Facebook Free Basics, nelle parole di Zuckerberg, era un regalo. Che però l’India ha rifiutato.

Il presidente della Nigeria, Muhammadu Buhari (centro) e il Vice President eYemi Osinbajo (sinistra) posano con Mark Zuckerberg, fondatore di facebook,  2/09/2016. / AFP PHOTO / SUNDAY AGHAEZE

Il controllo del web

La campagna contro l’iniziativa di Zuckerberg ha portato per la prima volta al centro del dibattito pubblico il tema della neutralità della rete, ovvero il principio che i provider di banda larga debbano concedere a tutti i produttori di contenuti lo stesso spazio. Un controllore (in questo caso Facebook) a guardia dell’accesso al web avrebbe potuto decidere a quali organi d’informazione dare la priorità, lasciando in ombra altri. La scelta potrebbe essere dettata da ragioni politiche o di mercato, dando spazio a contenuti che hanno più possibilità di essere cliccati. La mobilitazione di attivisti ed esperti della rete ha così costretto l’autorità indiana per le telecomunicazioni a revocare l’autorizzazione al servizio offerto dal gigante digitale tramite un operatore di telefonia mobile locale. Un no, arrivato a febbraio 2016, che è stato il più traumatico nei 12 anni di esistenza di Facebook. Per Nikhil Pahlwa, fondatore di «Medianama», un sito d’informazione sul settore delle telecomunicazioni indiane, la minaccia principale sarebbe stata quella di rendere la compagnia di Menlo Park (Facebook) l’unica porta d’accesso al web per la gran parte dei cittadini indiani, che così avrebbero attinto prevalentemente alle informazioni disponibili nel social network per farsi delle opinioni sulla politica, l’economia e la società del proprio paese e del mondo intero.

False notizie, che costano

Non si tratta di riflessioni oziose tra addetti ai lavori, perché le conseguenze sono reali e riguardano la vita, e spesso la morte, di migliaia di persone. Sempre in India, nel novembre 2016, il governo di Navendra Modi ha deciso di mettere al bando, da un giorno all’altro, l’86% della carta moneta in circolazione come misura radicale contro la corruzione. Poche ore prima dell’annuncio ufficiale, la notizia del bando circolò a velocità vertiginosa su WhatsApp, il servizio di instant messaging di proprietà di Facebook, usato da 180 milioni di indiani, e sullo stesso Facebook, scatenando un vero e proprio assalto a banche e altri istituti finanziari per cambiare le banconote di piccolo taglio. Inoltre, secondo la voce che circolava sui social media, le nuove banconote da 500 e 2.000 rupie avrebbero contenuto un microchip per tracciarne i movimenti. La notizia era ovviamente falsa, ma aveva contribuito a seminare il panico e a rendere più frenetica la corsa all’accumulo di banconote di grosso taglio prima del passaggio al nuovo formato. Nella ressa, decine di persone hanno perso la vita.

Un effetto ancora più drammatico della diffusione di notizie false su Facebook si è verificato in Sud Sudan, il più giovane paese africano insanguinato da una guerra civile dal dicembre 2013. Secondo un rapporto delle Nazioni Unite pubblicato lo scorso novembre, «i social media sono stati usati dai sostenitori di tutte le fazioni, inclusi alcuni membri del governo, per esagerare incidenti, diffondere falsità e minacce o lanciare messaggi d’odio».

L’uso dei media per incitare alla violenza non è una novità: è nota l’esperienza di Radio Mille Colline, che contribuì attivamente ad aizzare estremisti Hutu nel 1994 in Rwanda contro i propri compatrioti di etnia Tutsi. E l’importanza delle notizie false come strumento di propaganda governativa per coalizzare le masse contro un nemico, o per inventare il nemico tout court, ha una lunga storia alle spalle. Certo, i social media consentono una circolazione più rapida e virale della propaganda, come il recente dibattito sulle fake news, esploso dopo la vittoria di Donald Trump alle ultime elezioni statunitensi, ha messo più volte in luce.

Visitatori al Africa Web Festival (AWF) in Abidjan il 29/11/2016. / AFP PHOTO / ISSOUF SANOGO

Cosa sono i Big Data?

Nella discussione sulla rivoluzione in atto nella comunicazione politica, resta sullo sfondo un elemento centrale. Facebook e altri social media consentono di identificare con estrema precisione gli individui non solo più recettivi nei confronti delle fake news, ma anche più autorevoli nella loro rete di contatti, cosicché una bufala rilanciata da loro ha maggiore credibilità. Tutto ciò è reso possibile dalla capacità di social media come Facebook di raccogliere una mole senza precedenti di informazioni personali, i cosiddetti Big Data.

Il tema dei Big Data sta suscitando l’entusiasmo di esperti di cooperazione per lo sviluppo e interventi umanitari, interessati al modo in cui le tecnologie digitali possono aumentare la precisione degli interventi e migliorarne l’efficienza. Meno discusso è il lato oscuro dei Big Data, ovvero quello che la matematica e attivista americana Cathy O’Neil chiama, nell’omonimo libro appena pubblicato, le Weapons of Math Destruction (armi di distruzione matematica, ndr), un gioco di parole sull’espressione Weapons of Mass Destruction, armi di distruzione di massa. Nel saggio della O’Neil le armi sono gli algoritmi usati per elaborare l’enorme quantità di dati prodotti dalle nostre comunicazioni sui social media, transazioni finanziarie e spostamenti fisici, per costruire dei profili che possono essere sfruttati per gli scopi più vari. Il mercato dei Big Data è particolarmente sofisticato negli Stati Uniti, dove sono usati per predire in quali aree urbane verranno commessi dei crimini, o il tasso di rischio per chi chiede un prestito, o il premio per un assicurato.

Cathy O’Neil sostiene che, attingendo alle reti sociali dei cittadini, questi servizi rischiano di cristallizzare delle disuguaglianze esistenti. Pertanto, una persona che proviene da un quartiere disagiato e ha amici o parenti con una storia di insolvenze alle spalle ha meno possibilità di ricevere un prestito e rischia di essere fermato e perquisito più spesso dalla polizia nella zona in cui vive. Anche nei paesi in via di sviluppo un numero crescente di fornitori di servizi finanziari sta usando dati estratti dai social media per stabilire il livello di rischio dei potenziali clienti: è il caso, ad esempio, di Branch e First Access, due fintech, ovvero compagnie finanziarie che usano tecnologie digitali, che offrono prestiti a centinaia di migliaia di utenti di denaro mobile (mobile money, vedi MC luglio, agosto-settembre e novembre 2014, ndr) in Kenya e Tanzania sulla base dei dati raccolti tra contatti telefonici e su Facebook.

Minaccia alla democrazia

Secondo Frank Pasquale, un giurista dell’Università del Maryland e autore di The Black Box Society, la fiducia cieca nei dati generati dall’uso di tecnologie digitali e soprattutto l’opacità dei meccanismi decisionali fondati sugli algoritmi, nasconde una minaccia al principio fondativo delle istituzioni democratiche, ovvero il «conoscere per deliberare». E qui, per chiudere il cerchio, conviene tornare ai social media, ai due maggiori terremoti politici del 2016, ovvero il referendum sul Brexit britannico e l’elezione di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti, e al filo rosso che lega questi due eventi.

Lo scorso dicembre, due giornalisti investigativi, Hannes Grassegger e Mikael Krogerus, hanno pubblicato sulla rivista svizzera Das Magazin il frutto di un’inchiesta durata diversi mesi che getta una luce inquietante sul modo in cui i Big Data estratti dai social media possono essere usati per individuare elettori tentennanti e condizionarli in una certa direzione. I due reporter hanno puntato la lente su un’agenzia con sede a Londra, la Cambridge Analytica, che ha prestato consulenza sia per Leave.EU, il fronte anti-europeista nel referendum del 23 giugno sulla permanenza britannica nell’Unione europea, che per la campagna elettorale di Trump nella corsa alla Casa Bianca. Cambridge Analytica appartiene al Scl (Strategic Communication Laboratories) Group, una società di comunicazione politica che ha seguito le campagne elettorali di partiti e movimenti politici in tutto il mondo, dalle elezioni in Sud Africa nel 1994 a quelle in Kenya nel 2013, passando da quelle in Ucraina nel 2004 a quelle in Romania nel 2008, incluso un progetto di ricerca condotto in Italia nel 2012 per un non specificato partito politico.

Identikit digitali

Guidata dal 41enne britannico Alexander James Ashburner Nix, la Cambridge Analytica è specializzata nella raccolta ed elaborazione di dati per «audience targeting», ovvero per identificare con la massima precisione i membri del corpo elettorale in modo da modulare messaggi politici che tocchino, per così dire, i tasti giusti. I social media offrono un enorme bacino di dati, e la potenza di calcolo degli strumenti a disposizione permette di trasformare questi dati in informazioni leggibili, stabilendo rilevanze statistiche. Ma ciò che trasforma queste informazioni in proiettili che colpiscono nel segno sono delle tecniche psicometriche ispirate alle ricerche di uno psicologo polacco dell’università di Cambridge, Michal Kosinski.

Durante i suoi studi nello Psychometric Centre dell’ateneo britannico, Kosinski si era occupato di ampliare le possibilità offerte da un modello per identificare diverse tipologie di personalità umana sviluppato negli anni ‘80, il cosiddetto modello Ocean, un acronimo dei termini che, in inglese, significano apertura (Openness), coscienziosità (Conscientiousness), estroversione (Extroversion), piacevolezza (Agreeableness) e nevrosi (Neuroticism). Secondo la teoria alla base di questo modello, la personalità di chiunque può essere ricondotta a una miscela, in parti diverse, di queste caratteristiche. Dopo aver messo a punto un test, MyPersonality App, per ricostruire le personalità dei partecipanti, Kosinski l’aveva condiviso su Facebook aspettandosi che poche decine di amici partecipassero al gioco. Aveva raccolto invece milioni di risposte.

Kosinski e il suo team di ricerca avevano lavorato su questa mole mastodontica di dati e, nel 2012, hanno pubblicato un articolo su un giornale accademico dimostrando che, conoscendo una media di 68 «mi piace» cliccati da utenti americani di Facebook, è possibile indovinare, al 95%, il colore della pelle e, all’85%, se il rispondente è democratico o repubblicano. Il ricercatore si spingeva fino al punto di affermare che conoscendo 70 «mi piace» di una persona la si conosce come se fosse un amico, con 150 come se fosse un figlio e con 300 come se fosse una moglie o un marito. Una disponibilità di oltre 300 «mi piace», elaborati secondo il modello Ocean, consente di conoscere l’utente più di quanto questo conosca se stesso.

Programmatori della start-up company Hacklab.in in Bangalore (India). / AFP PHOTO / Manjunath KIRAN

Big Data e politica

Secondo quanto riportato dai due giornalisti svizzeri, lo stesso giorno della pubblicazione dell’articolo Kosinski ha ricevuto una minaccia di denuncia e un’offerta di lavoro, entrambe da Facebook. Spaventato dai risultati della sua ricerca, e dalle sue implicazioni politiche, Kosinski però ha declinato l’offerta e, da quel momento, si è dedicato a mettere in guardia sull’impatto dei social media sul dibattito democratico, prevedendo il rischio che questa tecnica possa massimizzare l’influenza delle notizie false sui social media, marcando un pericoloso passaggio dal «conoscere per deliberare» al «conoscere per condizionare». Un incubo che è sembrato realizzarsi quando è emerso che Cambridge Analytica ha usato un metodo ispirato alla ricerca di Kosinski, e basato sull’applicazione del modello Ocean ai dati raccolti sui social media, sia per la campagna della Brexit che per quella di Trump. E che potrebbe rivelarsi molto più di una collaborazione una tantum: uno dei membri del consiglio di amministrazione di Cambridge Analytica è Stephen Bannon, ex direttore di Breitbart, il megafono della cosiddetta Alt-Right, la nuova estrema destra americana, stratega della vittoriosa campagna di Donald Trump e tuttora braccio destro dell’inquilino della Casa Bianca.

La tecnica, usata per la prima volta nel referendum britannico e nelle elezioni americane potrebbe trovare presto applicazione altrove. E potrebbe essere migliorata da agenzie concorrenti. Una delle più avanzate e opache compagnie che operano nel campo dei Big Data applicati alla comunicazione politica e alla raccolta d’intelligence è la Palantir Technologies, creata nel 2004 da Peter Thiel, miliardario tedesco-americano già fondatore di PayPal, il gigante dei pagamenti online nel 1999, e tra i primi a credere in Facebook, di cui tuttora detiene cinque milioni di azioni e siede nel consiglio d’amministrazione. Thiel, a differenza della grande maggioranza degli imprenditori della Silicon Valley, ha preso pubblicamente posizione a sostegno di Trump. La sua Palantir si occupa di analisi di antiterrorismo per il Dipartimento americano della difesa e per altre agenzie di spionaggio e attinge, tra gli altri, ai dati generati dalle comunicazioni sui social media.

Un semplice «mi piace» non dirà poi tanto, ma centinaia possono fornire un profilo completo. Un click non costa nulla ma, come nel famoso slogan forgiato dal video-artista Richard Serra nel 1973 e diventato popolare negli anni ‘90, «Se qualcosa è gratis, vuol dire che il prodotto sei tu».

Gianluca Iazzolino

 




Stati Uniti: nelle Americhe di Donald Trump


Da gennaio 2017 il 45.mo presidente degli Stati Uniti d’America è Donald Trump. È arrivato alla guida della maggiore potenza mondiale nonostante la sua fama di finanziere bancarottiere, evasore fiscale e molestatore. Cosa ha spinto gli statunitensi a questa scelta dirompente? Come cambierà la politica estera degli Usa? Come si comporterà la Chiesa cattolica statunitense (molto silente durante l’intera campagna elettorale)?

L’America ha parlato, e ha eletto Donald Trump presidente. A qualche settimana dal risultato del voto questo è ancora un paese sotto shock. Durante una campagna elettorale lunga quasi un anno e mezzo, che ha sfiancato la psiche e l’anima degli Stati Uniti, pochi pensavano che il finanziere bancarottiere, evasore fiscale e molestatore potesse raccogliere la maggioranza degli «electoral votes» (rappresentano i cosiddetti «grandi elettori» eletti su base statale, chi vince in uno stato – anche per un solo voto – prende tutto, ad esempio vincendo in Florida Trump ha preso tutti i 29 grandi elettori di quello stato, ndr) dell’arcaico sistema che ancora governa le elezioni presidenziali. Per la maggioranza degli americani che non hanno votato per lui è come non riuscire a svegliarsi da un incubo.

Il Partito repubblicano soggiogato e conquistato da Trump si trova ora a dover esercitare il potere nel governo federale che da anni ormai odia in modo quasi teologico, come incarnazione del male. Le elezioni dell’8 novembre 2016 non solo hanno portato Trump alla presidenza, ma hanno prodotto anche una solida maggioranza repubblicana alla Camera e al Senato, e in molti stati. La maggioranza della Corte Suprema federale sarà plasmata per decenni dalle nomine che farà l’amministrazione Trump. È un terremoto politico che ha sconvolto le aspettative: con un Partito repubblicano risorto dalle proprie ceneri, asservitosi al pirata che lo ha scalato e umiliato, e un Partito democratico senza una leadership e senza un messaggio se non quello perdente della «identity politics» (suddivisione della popolazione in base a elementi identificativi: nazionalità, genere, religione, lingua, ecc., ndr) in cui si sperava che la demografia di un paese sempre più multiculturale risolvesse il problema della mancanza di una visione.

Le spiegazioni

In un paese diviso lungo linee diverse che si sovrappongono – disparità sociali e di reddito, salti generazionali, identità culturali ed etniche-razziali, ubicazioni geografiche ed esistenziali, livelli di educazione scolastica – i messaggi lanciati e ricevuti con l’elezione di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti sono vari. Ci sono due tentativi principali di spiegare quanto accaduto. La prima spiegazione è di tipo materialistico: Trump è stato eletto dai dimenticati e perdenti del sistema economico e finanziario, dagli snobbati del sistema informativo, dagli esclusi dal sistema educativo. La seconda spiegazione è di tipo identitario: Trump è stato eletto da quanti si sono ritrovati nel messaggio non solo anti-immigrazione e anti-musulmano (non sconosciuto all’Europa di oggi), ma nativista e razzista, chiaramente «white supremacist» e sottilmente antisemita, isolazionista e violento del candidato anti-establishment. Sono due spiegazioni che devono entrambe far parte del tentativo di spiegare quanto accaduto. Comprendere è un’altra questione, se con comprendere vogliamo intendere di mettersi nei panni di coloro che, l’8 novembre 2016, hanno accettato e normalizzato l’immaginario trumpiano, molto vicino a quello nativista (l’idea di un’America in cui sia ancora politicamente, socialmente e culturalmente dominante la parte della popolazione composta da bianchi e protestanti) e schiavista di metà Ottocento. Non tutti, né molti degli elettori di Trump sono razzisti, ma non tutti lo hanno votato per esprimere un disagio economico. È impossibile spiegare l’America solo con i meccanismi di classe, senza ricorrere alla storia dei rapporti tra razze e religioni, e senza una presa di coscienza di come le identità si intersecano e sovrappongono.

Il neo presidente Donal Trump visita il presidente uscente Obama alla Casa Bianca il 10/11/2016 / AFP PHOTO / JIM WATSON

Contro Obama

Il risultato dell’elezione non può essere spiegato senza ricordare che la campagna per la presidenza Trump l’ha, in un certo senso, iniziata anni fa, poco dopo l’elezione di Barack Obama nel 2008, accusando il nuovo presidente di non essere cittadino americano («Voglio che mostri il suo certificato di nascita», disse più volte) e quindi di essere stato eletto illegittimamente. Il mandato del primo presidente afroamericano ha incontrato da parte del Partito repubblicano una resistenza tesa non soltanto a ostacolae l’agenda, ma a delegittimae la funzione. Dal 2008 in poi negli stati governati dai repubblicani ci sono stati sistematici tentativi (in molti casi coronati da successo) di impedire il voto degli americani non bianchi, e degli afroamericani in particolare: in aiuto a questo tentativo di revocare le conquiste del civil rights movement, la Corte Suprema federale (guidata da un chief justice cattolico, John Roberts) ha cassato una parte della legislazione degli anni Sessanta promulgata per difendere il diritto di voto delle minoranze in quegli stati con una storia di tentativi di privare una parte della popolazione della possibilità concreta di esercitare il diritto di voto.

Contro Obama non vi è stata solo la resistenza politica da parte del Partito repubblicano. Anche la Chiesa cattolica, i sindacati di polizia, il sistema giudiziario hanno agito per delegittimare la sua presidenza e non hanno fatto molto per mascherare la loro convinzione di avere a che fare con la presidenza di un alieno rispetto al sistema.

L’elezione di Donald Trump è anche la reazione di un paese spaventato, specialmente nella sua componente bianca, da un futuro più multietnico e multiculturale. I silenzi della gran parte dei vescovi della Chiesa cattolica (che è la chiesa più grande del paese) durante i passaggi più foschi della campagna elettorale di Trump non verranno giudicati in modo benevolo dagli storici. È uno dei frutti di una politica cattolica tutta giocata sulla questione dell’aborto, peraltro in modo ideologico: è noto che le politiche dei repubblicani, tese a tagliare lo stato sociale indiscriminatamente (fino quasi ad azzerarlo), conducono di norma a un numero maggiore di aborti.

Un razzismo sistemico

Ad alcuni italiani l’elezione di Trump ha riportato alla memoria la sorpresa, ovvero lo sconcerto, per la prima vittoria elettorale di Silvio Berlusconi nel 1994. Nonostante gli evidenti paralleli tra la carriera e lo stile dei due personaggi, ci sono alcune fondamentali differenze, a parte quella ovvia di importanza sulla scena globale tra due paesi come l’Italia e gli Stati Uniti. La prima differenza è di ordine storico globale. Nel 1994 Berlusconi arrivava sulla scena come l’eccezione all’interno dello scenario europeo e occidentale del primo dopo guerra fredda; Trump è invece il punto più estremo di una serie di rivolgimenti all’interno delle democrazie occidentali (soprattutto il voto per «Brexit» di qualche mese fa, ma anche la decennale crisi dell’Unione Europea; le pulsioni autoritarie in Polonia e Ungheria) e nello scenario euro-asiatico (la fine della democrazia in Turchia e in Russia) che fanno temere per la pace e la stabilità, e soprattutto per la capacità della democrazia in Occidente di resistere ai populismi. La seconda differenza ha a che fare con la storia della democrazia e dei diritti negli Stati Uniti d’America. Nell’Italia di Berlusconi non c’era, come c’è negli Stati Uniti, una parte importante della popolazione con una memoria diretta e personale del razzismo legalmente sancito contro molti milioni di cittadini: la segregazione razziale, specialmente nel Sud degli Stati Uniti, fino alla metà degli anni Sessanta (per non parlare della memoria dei campi di inteamento per i giapponesi americani durante la Seconda guerra mondiale) non è storia dimenticata, e soprattutto non è qualcosa che appartenga solo al passato. Gli Stati Uniti sono ancora pervasi da un razzismo sistemico – nella politica, nell’economia, nella giustizia, nelle scuole – che, per continuare a produrre ineguaglianze radicali, non ha bisogno di persuasioni convintamente razziste dei singoli.

Queste due differenze spiegano la paura con cui molti americani hanno accolto l’elezione di Trump: una paura per il futuro del paese, specialmente dei propri figli, con un ruolo particolare per la questione ambientale visto il rifiuto sia di Trump che dei repubblicani di prendere seriamente le sfide della sostenibilità. Ma c’è anche una paura fisica, per la propria incolumità personale specialmente negli americani non bianchi (afroamericani, latinos, asiatici) e nelle minoranze sessuali. Di fronte al nativismo i documenti in regola rappresentano in molti casi una protezione tardiva. Dopo le elezioni si sono moltiplicate le notizie di incidenti a sfondo razziale nei campus universitari e contro chiese afroamericane. L’America non sembra essere accogliente come prima verso studenti e lavoratori stranieri. Potrebbe esserci un effetto Brexit anche su certi settori dell’economia americana, come l’educazione superiore.

L’anima religiosa (e le assenze della Chiesa)

Il Cardinal Daniel DiNardo. ( Brett Coomer / Houston Chronicle )

L’anima religiosa del paese non esce indenne da questa stagione politica che peraltro sembra essere appena iniziata. La prima domenica dopo le elezioni ha visto gli americani andare in chiesa con uno spirito molto diverso dal solito e diverso tra le varie chiese: alcune chiese hanno celebrato (tra cui quelle evangelicali bianche), altre hanno invocato coraggio e perseveranza nella prova (quelle afroamericane). La Chiesa cattolica ha faticato a nascondere l’imbarazzo che deriva dall’essere una chiesa più divisa di altre e più sprovveduta di altre a cogliere i segni dei tempi: è una chiesa che soffre di una divisione tra quelle realtà che operano sul terreno e la dirigenza, nonostante le buone nomine episcopali e cardinalizie di papa Francesco.

La Conferenza episcopale è stata una voce del tutto assente nell’assistere i cattolici a disceere l’importanza dell’elezione, e la sua neghittosità è stata confermata dall’assemblea dei vescovi tenutasi la settimana dopo le elezioni presidenziali. Il 15 novembre 2016 i vescovi hanno infatti eletto le nuove cariche tra cui il nuovo presidente (il cardinale Daniel DiNardo, uno dei tredici firmatari della lettera contro papa Francesco durante il Sinodo del 2015), il nuovo vicepresidente e quindi futuro presidente (l’arcivescovo di Los Angeles José Horacio Gómez, chierico vicino all’Opus Dei, nato in Messico e difensore degli immigrati) e altre cariche (tra cui il presidente della Commissione giustizia e pace, il vescovo Timothy Broglio, ordinario militare e non esattamente interprete della forte cultura «justice and peace» della chiesa americana di base). I vescovi americani stanno tentando di impostare il rapporto con Trump sulla base delle policies del suo governo, evitando di confrontarsi con la campagna di odio e di razzismo interpretata e scatenata dal suo movimento. Il timore è che l’episcopato americano non sia intellettualmente e moralmente in grado, tranne alcune eccezioni, di fare fronte all’emergenza morale e culturale della presidenza Trump (e del vicepresidente Mike Pence, un ex cattolico ora evangelicale che potrebbe essere il vero ideologo dell’amministrazione).

La politica estera

L’elezione di Trump apre una pagina tutta da scrivere per la politica estera americana. Ci sono in gioco questioni geopolitiche complesse e tragiche – Siria, Turchia, e il Medio Oriente; il ruolo della Russia; la nuclearizzazione dell’Asia orientale, Giappone e Cina; l’America Latina «cortile di casa» degli Usa; l’Unione Europea e Brexit – su cui la politica estera americana ha inanellato negli ultimi quindici anni una serie impressionante di sconfitte. I proclami di Trump per un nuovo isolazionismo dovranno fare i conti con il prezzo che il nazionalismo americano deve pagare per una supremazia globale che non è più incontrastata. Il rapporto con la Russia di Putin e il suo impatto sul risultato delle elezioni americane è una delle questioni che restano da indagare.

La politica vaticana, così come chiunque abbia a cuore la pace, la giustizia e la cooperazione, hanno molto da temere da un’amministrazione Trump. C’è da attendersi più vigilanza dal Vaticano di papa Francesco e del cardinal segretario di Stato Parolin che dall’episcopato negli Usa, tranne alcuni vescovi. Il cattolicesimo americano interessato alla politica si divide tra neo-conservatori (che cercheranno di trovare un accordo di desistenza con Trump sulle questioni bioetiche e biopolitiche) e cattolici radicali postmodeisti (per i quali la politica è terreno da evitare, se non da etichettare come devozione all’idolatria nazionalista americana). In mezzo tra questi due estremi il common ground cattolico americano è ridotto ai minimi termini sociologicamente e intellettualmente. Una delle questioni che l’elezione di Trump solleva per la chiesa americana è come possa risolvere le tensioni sempre più evidenti tra la sua cattolicità e il suo americanismo.

Massimo Faggioli

È docente ordinario nel dipartimento di teologia e scienze religiose della Villanova University (Philadelphia). Ha lavorato come ricercatore presso la «Fondazione per le scienze religiose Giovanni XXIII» di Bologna dal 1996 al 2008 e ha conseguito il dottorato in Storia religiosa all’Università di Torino nel 2002. Collabora con varie riviste italiane e non, tra cui Il Regno, Jesus, Commonweal, e La Croix Inteational. Le sue pubblicazioni scientifiche si occupano di Vaticano II, di ecclesiologia, e di nuovi movimenti cattolici. Questo articolo è il suo esordio su Missioni Consolata.

  • www1.villanova.edu
    Il sito della Villanova University, istituto fondato nel 1842 dagli Agostiniani.

 


Approfondimento

Gli Usa di Trump e Cuba senza Fidel,
«El bloqueo» al tempo di Donald 

Con papa Francesco e Barack Obama l’Avana e Washington si stavano avviando – pian piano – a una normalizzazione delle relazioni. Dopo gli ultimi avvenimenti, tutto torna in forse.

Avevamo visto Fidel Castro, con il volto smunto ed emaciato e una voce fioca ed impastata, nell’intervista concessa a Gianni Minà – ultimo giornalista a incontrarlo – per il suo recentissimo documentario, «Papa Francesco, Cuba e Fidel». Il vecchio leader aveva parlato di Cuba, degli Stati Uniti e della chiesa cattolica, soprattutto del suo incontro privato con papa Francesco.

Il 25 novembre, subito dopo la morte di Fidel, da tempo malato e ritirato dalla politica attiva, sono iniziate le manifestazioni di giubilo dei cosiddetti esuli cubani di Miami, da sempre spina dorsale del partito repubblicano statunitense e dei suoi candidati in Florida (nonché ideatori ed esecutori di quasi tutte le attività illegali – terrorismo compreso – contro l’isola). Il Miami Herald, quotidiano ferocemente anticastrista, titolava: «La morte di Castro porta speranza, sollievo a Miami». È stato triste, perché giornire della morte altrui è sempre un atto di viltà.

Il neopresidente Donald Trump ha postato i suoi tweet – nuova ed «esaltante» frontiera della comunicazione modea – prima per dire che Castro era stato «un brutale dittatore che aveva oppresso il suo popolo per quasi sessant’anni», poi per affermare che adesso Cuba dovrà concedere di più altrimenti lui porrà fine agli accordi («I will terminate deal») siglati da Barack Obama.

Da miliardario (peraltro, molto controverso anche in questa sua veste) forse Trump pensa di riuscire – finalmente – a comprare quella dignità, morale e materiale, fino ad oggi salvaguardata dalla gente cubana con coraggio, fatica e rinunce, nonostante 55 anni di inflessibile embargo (el bloqueo) statunitense.

Qualsiasi cosa si pensi di Fidel – eroe o dittatore sono le due definizioni che vanno per la maggiore – la dignità della Cuba castrista rimarrà una testimonianza che nessuno (sia politico, editorialista, professore o blogger) riuscirà mai a cancellare.

Paolo Moiola




Ecuador: da dieci anni Rafael Correa

Dal gennaio 2007 l’economista Correa guida il piccolo paese latinoamericano. Rispetto al passato, l’Ecuador è migliorato, soprattutto nel campo dei servizi pubblici: strade, ospedali, scuole. Al presidente viene però contestato di non aver speso bene il fiume di denaro entrato nel paese con la rendita petrolifera. E di avere spesso un atteggiamento autoritario, come dimostra anche la recente approvazione di 15 emendamenti alla Costituzione del 2008, quella del «buen vivir». Abbiamo raccolto qualche opinione per le strade della vecchia Quito, l’affascinante capitale del paese.

Quito. Quando il cielo è terso, se si alzano gli occhi, si vedono la collina de El Panecillo con la gigantesca statua della Vergine di Quito e, spostando leggermente lo sguardo, il Pichincha, il vulcano alle cui falde nel 1534 i conquistatori spagnoli costruirono la futura capitale dell’Ecuador, a 2.700 metri d’altezza (media). Alla domenica la città vecchia è (ancora) più bella perché circolano meno auto rispetto agli altri giorni. E poi alcune delle sue strettissime vie, almeno per alcune ore, sono chiuse al traffico. Una di queste strade è la calle García Moreno, più nota come «la calle de las Siete Cruces», per via delle sette grandi croci in pietra costruite a lato di altrettante chiese di sette diverse congregazioni. Passiamo davanti a una delle chiese più famose, quella della Compagnia di Gesù, con la sua facciata barocca in pietra vulcanica e i suoi interni ricoperti con oro (pan de oro).

Percorse poche centinaia di metri, si raggiunge la piazza dell’Indipendenza, più conosciuta come Plaza Grande: raccolta, curata, accogliente. Si notano alcune giovani indigene che, con in testa il loro tipico cappello in feltro (sombrero o bombín), camminando (non si può occupare il suolo della piazza con la merce), offrono i loro coloratissimi foulard. Altre donne, questa volta meticce, vendono gelato sciolto attingendolo da un contenitore portato a tracolla. Al centro della piazza, attorno alla statua degli eroi del 10 agosto 1809 (un primo tentativo d’indipendenza, poi fallito), sostano diversi uomini che, dietro pagamento, scattano foto ricordo subito stampate. Sotto i portici del palazzo arcivescovile lavorano alcuni lustrascarpe ufficiali, con tanto di sedia con il logo della città. Su un altro lato sta il bianco Palacio de Carondelet, il palazzo presidenziale che ospita il governo e il presidente della Repubblica. Su quello opposto i palazzi (modei) del governo municipale. Infine, sul quarto lato troneggia la cattedrale metropolitana sulla cui scalinata in pietra scura siedono cittadini e turisti.

La «Revolución ciudadana» e l’economia

A pochi metri dalla scalinata della chiesa c’è un assembramento di una ventina di persone, uomini e donne di mezza età. Ci avviciniamo per capire meglio e, con grande sorpresa, ci accorgiamo che stanno parlando di politica. Al centro, un uomo sorregge un cartello, titolato Pensamiento libre, con fotografie di volti di politici e altre persone influenti che vengono definiti golpisti e fautori di una restaurazione conservatrice (restauración conservadora) a discapito della Revolución ciudadana (la «Rivoluzione dei cittadini»), il nome dato al programma di governo del presidente Rafael Correa, un economista di formazione cattolica.

Una donna dice: «Guardiamo agli altri paesi e facciamo il confronto. Il nostro paese ha avuto 9 anni di stabilità e di pace». Si riferisce al periodo di presidenza di Rafael Correa, in carica dal gennaio 2007. Alcuni – la maggioranza – annuiscono con la testa, altri non condividono. Un uomo interviene per dire che la vita è troppo cara (cosa reale, anche a causa della dollarizzazione, l’adozione del dollaro statunitense come valuta nazionale, avvenuta nel 1999). Un altro ribatte che i beni di prima necessità come il pane hanno da anni lo stesso prezzo. Un altro parla del lavoro. «A volte per noi uomini manca. Però se uno ha voglia di lavorare, qualcosa trova. Certamente occorre adattarsi. Se l’unico lavoro è scaricare patate, io lo faccio». Non c’è abbastanza produttività, grida una persona con uno zainetto. Gli risponde un uomo che indossa un paio di occhiali: «Il governo fa strade e ospedali e io ne sono contento. Ma non può pensare a tutto. La gente deve lavorare, perché bisogna seminare per poter raccogliere».

Una persona grida che il governo è corrotto. Un giovane con caschetto da ciclista gli risponde: «Queste persone sono quelle che mai avevano pagato le tasse. Sono le persone che sfruttavano i lavoratori».

Sull’economia dell’Ecuador le opinioni sono però molto discordanti. In generale, si concorda che in questi anni sono migliorati molti servizi pubblici: la rete stradale, le scuole, gli ospedali. E il tasso di povertà è passato – stando a cifre ufficiali – dal 36,74% del dicembre 2007 al 23,28% del dicembre 20151. Nonostante i miglioramenti, dunque, una persona su 4 è povera. Nella (sacrosanta) lotta alla povertà, il governo Correa ha anche utilizzato lo strumento (non esente da rischi) del sussidio, il cosiddetto Bono de Desarrollo Humano: 50 dollari mensili distribuiti a 2 milioni di persone (su una popolazione di 16). Detto questo, si obietta però che nessun presidente ha potuto disporre di tante entrate pubbliche come Correa e che non c’è corrispondenza tra l’ammontare di queste e le spese pubbliche. Tra l’altro, dato che le entrate derivano per la quasi totalità dalla vendita delle risorse petrolifere, oggi, con il crollo verticale del prezzo del petrolio, le debolezze strutturali dell’economia stanno venendo alla luce. Senza arrivare a sposare il giudizio categorico dell’economista Eduardo Válencia Vásquez, professore alla Pontificia Università Cattolica dell’Ecuador (Puce), che considera Correa affetto da «attitudine politica bipolare» (socialista a parole, neoliberista nei fatti)2, è certamente vero che l’economia ecuadoriana è rimasta ancorata a un modello estrattivista e monoculturale, che tra l’altro sta producendo gravi danni all’ambiente e ai diritti delle popolazioni indigene.

La «Revolución ciudadana» e i media

L’uomo che sorregge il cartello dice: «Qualcuno dice che in Ecuador non c’è libertà d’espressione. Questo è un falso. Però se io sono ingiuriato o calunniato, debbo essere protetto e il colpevole deve pagare». Nel 2013 l’Ecuador ha varato una legge sui media, la Ley orgánica de comunicación, che – pur partendo da buoni principi (democratizzare la comunicazione, impedire le concentrazioni, eccetera) – ha finito con l’esercitare pressioni indebite sui media. Fermiamo un giovane che si aggira con una piccola macchina fotografica e un registratore. «Tutti dovremmo essere giornalisti. Perché la verità è un diritto. La verità è vita», ci spiega.

Nel dicembre 2015 ci sono stati 15 emendamenti alla Costituzione, votati dall’Assemblea legislativa (senza alcuna consultazione popolare)3. Uno di essi ha trasformato la comunicazione da «diritto» a «servizio pubblico». Secondo molti esperti, questo è un passo indietro perché attribuisce allo Stato il potere finale di decidere sulla libertà d’espressione.

La «Revolución ciudadana» e l’istruzione

Un uomo ci tira in disparte per farci sapere la sua opinione: «Abbiamo un presidente di prima classe amato dal popolo. È una persona che, ad esempio, ha dato istruzione gratuita e le migliori università del mondo ai nostri giovani. È una leggenda. Oserei dire che è un miracolo di Dio». Si riferisce ai programmi denominati Escuelas del Milenio (a discapito, però, delle scuole bilingui) e Globo Común, con quest’ultimo che permette ai migliori studenti di andare a studiare a spese dello stato in molte università inteazionali.

A Quito il sole è ormai calato e la nuova temperatura suggerisce di indossare una maglia. L’improvvisato, e sorprendente, dibattito pubblico tra persone della strada sta volgendo a conclusione.

Prima di andarcene, alcuni ci ricordano che domani, lunedì, potremo vedere il presidente Rafael Correa salutare la piazza dal balcone del suo palazzo, come fa quasi tutti i lunedì in occasione della cerimonia del cambio della guardia.

Saluti e applausi

È lunedì e la Piazza Grande è in fermento. Davanti al Palacio de Carondelet sono state sistemate delle sedie pieghevoli dove siedono alcune classi di giovani studenti, tutti indossando le rispettive divise scolastiche.

Dai lati si muovono verso il centro della piazza i Granaderos de Tarqui, lo speciale corpo dell’esercito adibito a scorta presidenziale: c’è la banda musicale e il gruppo a cavallo. Intanto, sulla torre del palazzo, viene issata un’enorme bandiera nazionale. Dal terrazzo del palazzo presidenziale si affaccia finalmente Rafael Correa, circondato dai suoi collaboratori. Lui saluta la folla in tripudio.

La banda militare – composta da trombe, sassofoni, clarinetti, tromboni e tamburi – inizia a suonare, subito accompagnata dal canto spontaneo delle persone in piazza. Dietro la banda, con passo cadenzato, sfilano i lancieri e sui lati della piazza i granatieri a cavallo.

Tutta la cerimonia – dura pochi minuti – si svolge con ordine e sincronia sotto gli occhi del presidente, che al termine saluta dal balcone, prodigo di sorrisi.

Momenti intensi che qualcuno potrebbe definire d’impronta populista, ma che in realtà sono parte di una sorta di «Dna latinoamericano» che non va disprezzato, perché in qualche modo avvicina la gente comune al mondo della politica. Tuttavia, in questi anni di Revolución ciudadana molte speranze si sono rivelate infondate ed errori (economici e culturali) sono stati commessi.

Con i controversi emendamenti costituzionali del dicembre 2015 è stata anche introdotta la possibilità della rielezione senza limiti per tutte le cariche pubbliche. Per la presidenza questa possibilità sarà però possibile soltanto a partire dal 24 maggio 2017. Dunque, alle prossime elezioni del febbraio 2017 Correa non potrà ripresentarsi. La sua è stata una buona mossa, indipendentemente dal fatto che essa sia stata dettata da una scelta etica o da mero opportunismo politico.

Vicino a noi, un vecchietto indossa uno spolverino con una foto del presidente. Gli chiediamo un parere su Correa: «È il migliore presidente che l’Ecuador abbia mai eletto. Ho 86 anni, ma con lui arriverò a 100». Un altro signore si avvicina a noi: «Adesso sì che abbiamo un paese di tutti. Soprattutto di quelli che prima non avevano voce».

Detto questo, occorre constatare che l’Ecuador non è diventato il paese del «buen vivir» (sumak kawasay, in lingua quechua), come prometteva la Costituzione del 2008. Peraltro bellissima.

Paolo Moiola
(fine prima puntata)




La cultura è rivoluzione


1. La crisi di oggi e le sue cause nel passato

Vent’anni dopo

Haiti è un paese davvero strano. Unico, con una cultura forte, speciale, che affonda le sue radici nella singolarità della storia del suo popolo. La dominazione di un piccolo gruppo su una moltitudine, un passato di schiavitù e di rivoluzione antischiavista, antirazzista e anticoloniale. Come ci spiega bene il professor Laënnec Hurbon nell’intervista che segue. Un paese che provoca due reazioni opposte alla prima visita. Chi prova repulsione e vuole andarsene appena possibile, chi invece vi rimane attaccato per la vita.

Dopo due decenni di frequentazione mi viene spesso rivolta la domanda: cosa è cambiato ad Haiti in questi 20 anni? Difficile rispondere. Poco, se si guarda il livello di vita della grande maggioranza degli haitiani. Molto, se si esaminano gli stati d’animo delle persone incontrate.

Atterro all’aeroporto internazionale Toussaint Louverture che è già sera e non fa particolarmente caldo. È fine febbraio, è vero che anche qui è inverno, seppure tropicale. Forse è arrivato il fenomeno del cambiamento climatico. Quest’arietta fresca non me la ricordavo. Il mio pensiero va al 1995. Era luglio, quando per la prima volta misi piede sull’isola. Il clima era diverso, e non solo quello meternorologico.

Si grondava di sudore tutto il giorno. I marines statunitensi erano ovunque. Avevano appena riportato il presidente Jean-Bertrand Aristide al potere, amato dal popolo, ed esautorato tre anni prima, a fine 1991, da un colpo di stato, organizzato e finanziato dagli stessi Stati Uniti, con a capo George Bush (padre). Era un esempio troppo pericoloso per gli altri paesi sotto l’influenza statunitense.

Per riportarlo in patria, Bill Clinton, diventato presidente degli Usa, aveva imposto ad Aristide di firmare le famigerate concessioni ai piani di aggiustamento strutturale, tra le quali l’abbassamento dei dazi doganali per il riso e il mais, che avrebbero sancito l’invasione dei prodotti alimentari made in Usa e di conseguenza la miseria di centinaia di migliaia di famiglie di contadini haitiani e il loro inurbamento in enormi bidonville.

Ma in quel momento l’euforia era grande. Titid (come Aristide veniva chiamato in creolo) era il messia, tornato per salvare la sua gente. Il sacerdote salesiano era diventato presidente a furore di popolo con le prime elezioni davvero democratiche e partecipate, nel dicembre 1990. Il prete era espressione dei movimenti della società civile, che affondavano le loro radici nella classe povera rurale, quei contadini animati attraverso le comunità ecclesiali di base portate dal vento della Teologia della liberazione.

Purtroppo però, Titid, in esilio proprio negli Usa, era stato comprato dai democratici con a capo Clinton.

Il messia è perso

Anche la speranza in un futuro migliore, in quel lontano 1995, era negli occhi e nelle parole di tutti. A luglio fu eletto il parlamento e a dicembre il nuovo presidente della Repubblica, il delfino di Aristide, l’agronomo René Préval. Gli «amici» Usa avevano impedito che Titid recuperasse i tre anni di presidenza rubatigli dal golpe. Préval sarebbe diventato famoso in tutto il mondo i giorni successivi al 12 gennaio 2010, per la sua ignavia di fronte al terremoto che avrebbe distrutto la capitale Port-au-Prince. In quei giorni terribili Préval, al suo secondo mandato, avrebbe consegnato le chiavi del paese agli Stati Uniti. Lo ricordiamo camminare nervoso, con una sigaretta in mano, senza sapere cosa dire o fare.

L’euforia del ’95 si spense negli anni successivi e la fiducia nel futuro si trasformò in desolazione. Tutti si accorsero che Aristide era diventato molto ricco, era cambiato, si era trasformato un politico ambizioso e scaltro.

Due anni dopo ebbi la fortuna di vivere a Port-au-Prince, dove lavorai come fotografo e formatore per il settimanale in lingua creola Libète (Libertà), legato ai movimenti sociali. A causa del lavoro, girai in lungo e in largo il paese. Fu in quel periodo che persone di ogni livello sociale, mi raccontarono la delusione e il disincanto rispetto a una classe dirigente che, venuta dalla base dopo che la rivolta popolare aveva scalzato il duvalierismo (1986), aveva approfittato del potere solo per fare il salto nella ristretta classe alta, a spese di tutto il paese.

Ricostruzione a «cinque stelle»

Poi venne il terremoto che in pochi minuti distrusse ampie zone della capitale e di altre città e falciò circa 300.000 vite. Nessuno ne saprà mai il numero reale. Complice l’inurbamento selvaggio, dovuto all’impoverimento delle masse rurali, e l’assenza di regole nella pianificazione territoriale e nell’edilizia. Fu un «momento zero» per il paese.

Tornato ad Haiti alcuni mesi dopo, parlando con la gente vi ritrovai una grande voglia di rinascita, di ricostruzione. Quasi il sisma fosse stato un’opportunità per ricominciare tutto su basi nuove. Fu la conferma della capacità degli haitiani di resistere, adattarsi e reagire, anche di fronte ai colpi più duri. Anche in quel momento, al di là di una grande tristezza e della paura di nuove scosse, si sentiva nella gente la voglia di fare, di cambiare il paradigma di dominazione e di miseria subito fino ad allora.

Ma ancora una volta intervennero gli Stati Uniti, e Bill Clinton, ormai presidente emerito, che si installò a capo della commissione per la gestione dei fondi della ricostruzione. Lui, non un dirigente hatiano, avrebbe deciso come spendere i soldi. E così sarebbero nate alcune nuove zone industriali (la più importante nella baia di Caracol, splendida insenatura nel Nord, inaugurata dai coniugi Clinton nel 2012) dove le imprese statunitensi del tessile avrebbero sfruttato la manodopera haitiana per 2-2,5 dollari al giorno. E a Port-au-Prince sarebbero spuntati tre grandi hotel, mai visti da quelle parti, tra i quali il Meriott, finanziato, guarda caso, proprio dalla Fondazione Clinton e inaugurato un anno fa.

Oggi, negli haitiani, anche quella voglia di rivincita, di ricostruire meglio la propria società, è svanita. E la ricostruzione? Molti mi chiedono. A parte gli hotel cinque stelle, e le zone industriali, sono state rimosse le macerie e asfaltate alcune strade verso Nord. Ma la maggior parte degli edifici pubblici non sono stati rifatti, mentre tra i privati, solo qualcuno è riuscito a liberarsi delle macerie e a ricostruire a spese sue. Diversi sono stati anche gli istituti religiosi che si sono occupati del problema della casa per la gente più povera.

Alle elezioni post terremoto di fine 2010, gli Usa (di Barak Obama), imposero il presidente nella figura del cantante di kompa Michel Martelly. Questa volta lo fecero senza preoccuparsi troppo delle apparenze, intervenendo direttamente sui risultati del primo tuo e facendoli modificare da una commissione di revisione elettorale. L’operazione fu cornordinata direttamente da Hillary Clinton, all’epoca segretario di stato Usa, in una visita di 24 ore. Il cantante è anche legato alla corrente duvalierista e affarista. Dopo 20 anni la destra toò al potere.

Fallimento elettorale

A Port-au-Prince il traffico è sempre asfissiante e imprevedibile. Ma trovo un certo miglioramento dagli anni ’90. All’epoca non riuscivo a passare gli ingorghi neppure in moto. Oggi ci sono più strade asfaltate nei quartieri e i conducenti sono un minimo più disciplinati.

Qualità che non vedo nella politica haitiana. L’impasse politico-elettorale di questi ultimi mesi si sta radicalizzando ogni giorno di più e rischia di portare il paese in un vero caos.

Michel Martelly ha evitato di organizzare elezioni durante i cinque anni della sua presidenza, così le cariche istituzionali dello stato sono andate in scadenza, senza essere rinnovate. Finalmente, grazie a una mediazione della Chiesa cattolica, a inizio 2015 si è potuto formare il Consiglio elettorale provvisorio (Cep), organo preposto per organizzare le consultazioni. Erano previste amministrative, legislative e presidenziali.

«All’inizio si diceva che il Cep era equilibrato. Ma c’erano politici che non volevano le elezioni – ci confida Ricardo Augustin, consigliere del Cep delegato dalla chiesa -. Quando il Cep ha bocciato alcune candidature che non rispondevano ai criteri, si è allargato il fronte dei contrari». Le prime consultazioni (legislative) si sono tenute il 9 agosto, e sono state macchiate da violenze in diversi seggi elettorali di provincia. «L’8 agosto si avevano ancora dei dubbi se realizzare le elezioni. Dopo siamo stati criticati, come se avessimo forzato. Abbiamo verificato che il 70% dei verbali erano validi. Accettate le critiche, abbiamo corretto gli sbagli». Due mesi dopo è stata la volta delle presidenziali: «Le elezioni del 25 ottobre sono andate bene. Abbiamo ricevuto i complimenti da parte di molti, e il rapporto degli osservatori inteazionali è stato favorevole». Poi, due giorni dopo, gli oppositori hanno iniziato a versare fango sulla consultazione. «Hanno denunciato frodi senza avere prove. È stato un piano preparato e ben eseguito per affossare le elezioni. Al Cep abbiamo subito pressioni, diffamazione e menzogne. Ma abbiamo pubblicato i risultati». I due candidati ammessi al secondo tuo delle presidenziali erano Juvenal Moise, candidato del partito di Martelly, e Jude Célestin, uomo dell’ex presidente Préval. Lo stesso Célestin che era stato estromesso dal ballottaggio di inizio 2011.

Il balletto dei politici

Le elezioni sono state contestate con forza dall’opposizione e rimandate due volte. Si sarebbero dovute tenere il 24 gennaio ma violente manifestazioni di piazza si sono susseguite quotidianamente. La notte tra giovedì 21 e venerdì 22, due scuole sedi di seggi a Gonaives e Léogane, sono state date alle fiamme. «La violenza si stava annunciando – continua Agustin -. Il presidente del Cep ha deciso di rinviare ulteriormente il secondo tuo, perché il rischio di derive era evidente. Così chi non voleva le elezioni ha vinto», dice il consigliere del Cep, che è stato il primo a dimettersi, seguito dagli altri membri dell’organismo elettorale.

Dall’esterno sembra che il popolo haitiano non abbia voluto le elezioni perché manipolate. In realtà sono i partiti di opposizione, tra cui quelli di Préval e di Aristide, che hanno bloccato il processo, sicuri che altrimenti Moise avrebbe vinto.

«Le manifestazioni di piazza –  ci racconta il neoeletto senatore del Nord Ovest, Onondieu Louis – non sono state popolari, anche se i media si sono affrettati a sdoganarle come tali, ma decise a tavolino e pagate dai politici». Che non si trattasse di una rivolta popolare è d’accordo anche la sociologa e politica Suzy Castor che fa un’analisi più ampia: «Ho visto molta disaffezione per le elezioni. La gente ha perso la speranza. Nel 1990, andare a votare, era stato come esercitare un potere. Oggi non vale più nulla. Nel 2010 c’era ancora l’idea di provare a voltare pagina, votando il cantante Martelly. Ma sono seguiti cinque anni di delusioni. Le manifestazioni sono state fatte da pochi agitatori professionisti, che hanno coinvolto i delusi».

Creatività  istituzionale

Nelle settimane successive è regnata la confusione istituzionale. Il presidente Martelly ha finito il suo mandato il 7 febbraio, secondo la Costituzione, e non è stato eletto un nuovo presidente. Il parlamento non era completo e il governo era anch’esso in scadenza.

I presidenti di Senato, Camera dei deputati e Martelly hanno firmato un accordo, per il quale il parlamento – la cui legittimità è contestata perché figlio di queste elezioni – avrebbe eletto un presidente provvisorio che, in 120 giorni al massimo, dovrà organizzare il secondo tuo e installare un nuovo presidente. Nell’accordo non si parla invece della Commissione di verifica delle elezioni, richiesta da diversi settori.

Il Parlamento ha scelto, il 14 febbraio, Joselerme Privert, presidente del Senato (che così è rimasto senza presidente), già ministro di Aristide e vicino a Préval. Ma per fare questo è stato affossato un primo accordo, più equilibrato, richiesto dalla società civile, che prevedeva come presidente provvisorio l’attuale presidente della Corte di Cassazione. «L’opposizione vuole accedere al potere, e l’unico modo è cacciare Juvenal Moise, l’imprenditore agricolo arrivato in testa al primo tuo. Narcisse vuole prendere il potere, ha dietro Aristide. Lei è arrivata quarta». Ci spiega Ricardo Augustin.

Grazie a questa operazione, sebbene per un mandato provvisorio, partito al potere e opposizione hanno invertito i ruoli. Oggi è Lavalas (partito di Aristide e, in passato, di Préval) che gestisce il potere. Ci dice il senatore Onondieu: «Noi vogliamo continuare il processo elettorale, ma non sembra questa l’intenzione del presidente, che vuole restare al potere il più a lungo possibile». È abbastanza chiaro che non ci sono i tempi tecnici per una revisione elettorale e per l’organizzazione di elezioni anche parziali entro la scadenza del presidente provvisorio. Suzy Castor: «Un’opzione è che il governo provvisorio si proroghi, altrimenti se ne deve fare un altro. Ma la transizione durerà 8-12 mesi. È una situazione molto complessa, non è solo una crisi elettorale, ma è più vasta, è una crisi sociale. E non data ieri». E continua: «C’è anche una profonda crisi economica. Il debito è enorme e pesa sulla popolazione, salvo un piccolo gruppo di potere. Il costo della vita è aumentato a causa della svalutazione della moneta. Assistiamo all’affondamento dello stato, alla sua delegittimazione, e alla degradazione della classe media, che si è impoverita e si è ridotta».

Mi vengono in mente le parole di un leader contadino di Gros Moe, nel Nord (povero) del paese: «Haiti è un paese ricco, ma l’ipocrisia dei paesi che lo circondano non vuole che si sviluppi. Noi stiamo bene qui e vogliamo sfruttare la nostra risorse».

È la coscienza di avere una grande ricchezza culturale, naturalistica, produttiva e volerla sfruttare al meglio per fare andare avanti le cose, per migliorare la vita delle persone.

Sono passati vent’anni. Una generazione. Sono sulla Grande rue, il centro pulsante della capitale. Guardo davanti a me un giovane bagnato di sudore che spinge un carretto. Vedo un neonato del 1995. Non ha avuto molto di più di suo padre. Anzi, forse a lui è pure negata la speranza in una vita migliore. Per sé e i suoi figli.

Marco Bello


2. Incontro con il professor Laënnec Hurbon

Da Haiti venne… la libertà

di Marco Bello

Pittura, musica, danza. Poi poesia e letteratura. Un paese fucina di creazioni culturali. Che hanno una base comune: la religione Vodù. Un ambiente naturalistico stupendo da valorizzare. Ma i politici guardano solo a interessi immediati e personali. Potrà la cultura salvare il popolo di Haiti? Lo abbiamo chiesto a un grande intellettuale haitiano.

Il professor Laënnec Hurbon, sociologo e teologo, è uno dei più noti studiosi haitiani contemporanei. Ha scritto numerosi saggi sui rapporti tra religione, cultura e stato. Direttore di ricerca al Cnrs (Centro nazionale di ricerca scientifica) di Parigi dal 1987, è professore all’Università Quisqueya (Port-au-Prince) di cui è uno dei fondatori (1990). Ci ha accolti nella sua tranquilla casa di Port-au-Prince dove vive.

Professore, Haiti è ricca di cultura, che ruolo può giocare oggi essa per una rinascita del paese?

«Come spiegare una tale profusione di pratiche culturali, creatrici, dalla pittura – forse la più nota – , alla musica, dalla danza alla letteratura? Certo è che siamo in un paese ancora dominato dall’analfabetismo. Haiti ha due lingue, il francese, che è parlato da chi è andato a scuola, quindi una minoranza, e il creolo che è parlato da tutti. Al popolo haitiano il sistema non ha offerto molte possibilità d’espressione della propria dignità. Prima di tutto il sistema della schiavitù. È stato necessario, durante quegli anni, che gli schiavi si creassero la loro propria cultura, diversa da quella dei padroni. Quindi si è avuto un lavoro di inventiva, che è consistito nel porsi come esseri umani in cerca di dignità e di un senso da dare alla propria vita. Questa situazione è cambiata con la rivoluzione haitiana del 1791 e con gli anni dell’indipendenza (dal 1804).

Da quel momento in poi si può osservare tutta la difficoltà che il paese ha avuto per fondare uno stato davvero sovrano. Ci sono stati molti ostacoli, provenienti in primo luogo dall’estero, perché Haiti era circondata, durante tutto il XIX sec., da paesi nei quali la schiavitù era ancora un’istituzione dominante. È nel 1848 che i popoli dei Caraibi francesi hanno potuto ottenere l’abolizione della schiavitù. A Portorico è arrivata molto tardi, alla fine del XIX, così anche a Cuba, e in Brasile (1888). Haiti ha dovuto farcela da sola in un contesto ostile all’indipendenza della nazione haitiana, e ha forgiato il suo proprio orientamento attraverso pratiche culturali che non sempre corrispondevano a quello che lo stato dominante offriva sull’isola. Quest’ultimo, infatti, non considerava l’insieme dei cittadini. Dopo l’indipendenza si erano costitute, di fatto, due società. Una dominata da coloro, chiamati “grandon”, che ottenevano i vantaggi del governo, e potevano approfittare del nuovo stato indipendente; l’altra costituita dalla massa di ex schiavi, una società contadina che viveva chiusa e non aveva molte possibilità.

La cultura haitiana, la più importante, si è costituita in un contesto quasi di apartheid sociale, perché c’era un élite urbana di fronte a una maggioranza contadina. Abbandonata dallo stato, quest’ultima era costituita da cittadini di serie B, e sono loro che hanno forgiato una cultura propria, nella quale troviamo il Vodù. Come se ci fosse stata la creazione di un’altra civilizzazione, durante tutto il XIX secolo, nella quale troviamo pratiche culturali di grande invenzione che riprendevano elementi e rituali imposti dalle chiese dominanti, dallo stato, dall’estero, integrandoli con l’eredità tramandata dall’Africa. E attraverso il Vodù, si sono sviluppate pratiche di danza, mitologia, leggende – i racconti in particolare -, architettura e tecniche varie. Possiamo dire che se Haiti oggi ha una cultura eccezionale nei Caraibi, è grazie a quanto sviluppato dalle masse della gente povera delle campagne, considerate come cittadini di second’ordine. Le élite, quelle con una visione, un sogno per Haiti, hanno attinto da lì per produrre una pittura molto conosciuta a livello mondiale, una musica molto apprezzata nei Caraibi, che prevede una grande capacità d’inventiva. Tutto questo si appoggia al Vodù, anche se non è Vodù. La poesia e la letteratura hanno preso anche loro da quello che le masse contadine hanno costruito.

Ad Haiti abbiamo una cultura molto forte perché abbiamo vissuto delle situazioni di dominazione, dove l’espressione non era libera, con governanti preoccupati più dell’estero che dell’insieme dei cittadini. Ed è questo il problema specifico di Haiti. Occorre capire come fare diventare la nazione haitiana una comunità di cittadini che si rispettano e hanno diritti. Diritti fondati su una storia ben precisa, quella della prima grande rivoluzione di schiavi vittoriosi grazie a una lotta condotta, dal 1791 al 1804, anche contro l’esercito di Napoleone. Un pezzo importante nella storia universale, perché ha dato il via a tutte le lotte che sono state combattute dagli altri paesi. Haiti ha dato l’esempio, ha aperto tutta una serie di insurrezioni antirazziste, antischiaviste e anche anticoloniali, con grande anticipo. È qualcosa che è molto forte, che Haiti ha prodotto e le va riconosciuto».

Risorse culturali importanti e uniche che potrebbero anche portare reddito al paese, ma occorre promuoverle. Pensa che ci sia oggi la volontà politica di valorizzare questa cultura nel mondo?

«Io penso che manchi una reale volontà politica di promuovere la cultura haitiana. C’è piuttosto una volontà di sfruttamento, di strumentalizzare, di mantenere la società nello stato in cui è. Mentre tutto quello che esprime la cultura haitiana nasce da una vera utopia, un sogno di una nuova Haiti, di un paese nel quale ognuno riconosce l’altro nei suoi diritti.

Ecco il problema, la cultura haitiana non è mai stata veramente sostenuta dai governanti. Si vede qualche sforzo ogni tanto per il carnevale, che rappresenta un’altra sorgente d’espressione e diversità della nostra capacità di fare cultura. Anche a livello della letteratura, molto spesso si riconosce prima all’estero l’importanza di alcune opere, e solo in un secondo momento in patria.

Oltre a questo, il grosso lavoro che deve fare lo stato haitiano è sul fronte dell’educazione, dell’insegnamento, del riconoscimento del creolo, che è molto importante, l’alfabetizzazione per permettere a tutti di entrare in comunicazione gli uni con gli altri, a livello politico e sociale (il creolo è utilizzato nella scuola primaria sono da fine anni ‘70, nda). Si sente palpitare attraverso le associazioni più diverse, i movimenti sociali, una ricerca molto forte di dignità, espressa in diversi tipi di pratiche, come musica e pittura. C’è tanto da fare, ma ci sono stati progressi: è stata creata l’Accademia di creolo, vi sono testi, radio e Tv in creolo. C’è un nuovo rapporto con la lingua, anche se gli uomini politici spesso si mettono a parlare in francese per escludere la maggioranza della popolazione. La questione culturale è centrale per l’avvenire di Haiti».

Nei servizi, la Chiesa cattolica in molti casi ha sostituito lo stato. Come ha potuto collegarsi alla cultura tradizionale, come il Vodù?

«La Chiesa cattolica in fondo ha giocato un ruolo importante nello sviluppo di Haiti, perché grazie al concordato del 1960, tra il Vaticano e lo stato haitiano, religiosi e religiose hanno potuto aprire scuole e hanno avuto anche responsabilità di scuole pubbliche, ed è grazie a queste persone che abbiamo potuto avere una vera cooperazione sull’educazione. La Chiesa ha avuto un ruolo capitale per la cultura e, allo stesso tempo, è stata responsabile di strutture a carattere sociale: ospedali, aiuto ai più poveri. La Chiesa cattolica è stata un apparato che ha permesso allo stato haitiano di sopravvivere, di esistere. Ma, evidentemente, c’è qualcosa di contraddittorio e paradossale, perché i missionari non sempre hanno capito la cultura haitiana e questo ha spesso spinto a voler eradicare il Vodù, che è un’eredità africana. C’erano molti pregiudizi contro la cultura africana: tutto quello che arrivava da quel continente era considerato come stregoneria, era demonizzato. Questo ha creato nella mentalità ad Haiti, una tendenza a separare la gente cattolica da coloro che vivevano nelle campagne e praticavano il Vodù.

Una situazione cambiata con il Concilio Vaticano II, quando la Chiesa ha iniziato a riconoscere, ai più alti livelli, il diritto alla libertà religiosa e la necessità di avere un altro tipo di rapporto con le popolazioni dove si inseriva.

Oggi la questione si pone in altri termini, perché la Chiesa cattolica è in competizione con molti movimenti religiosi, che hanno invaso il paese a partire dall’occupazione statunitense (1915-34). Da una ventina di anni il movimento pentecostale si è diffuso, soprattutto nelle classi popolari.

La Chiesa cattolica ha mitigato la sua volontà di combattere il Vodù, e ne ha introdotto alcuni elementi nella liturgia, come l’uso dei tamburi in chiesa. Ha introdotto il creolo e ha avuto un ruolo molto importante per la sua promozione e accettazione come normale lingua di comunicazione. Stessa cosa hanno fatto anche i protestanti. Ma il protestantesimo, soprattutto nella sua versione pentecostale, ha lottato contro il Vodù, ha voluto che la gente abbandonasse il Vodù, che considera come qualcosa che viene dal demonio. Evidentemente in questo modo il protestantesimo agita ancora di più l’immaginario religioso che diventa ancora più presente, si difende e oggi dispone di una sua organizzazione autonoma (vedi MC giugno 2014) e comincia a essere riconosciuto nello spazio pubblico, dalla radio alla televisione. Molti si dichiarano oggi apertamente vuduisti. La battaglia è per la tolleranza religiosa, la libera competizione dei movimenti, la laicità dello stato, che permetterà la protezione di tutte le religioni».

Il 9 agosto e il 25 ottobre 2015 si sono svolte le elezioni per il parlamento e per il presidente della repubblica. Perché la partecipazione alle elezioni è stata così bassa?

«Dal 1986 il movimento di democratizzazione del paese ha fatto progressi e il paesaggio sociale è cambiato. La differenza che esisteva tra élite urbane e classi popolari delle campagne e bidonville oggi si esprime diversamente. La gente fa delle richieste allo stato, reclama i propri diritti, vuole più uguaglianza, partecipare alla vita politica e cittadina, e questo crea una continua crisi a livello politico. Perché le strutture dello stato e la classe politica si trovano in ritardo rispetto al livello di coscienza popolare ad Haiti.

La bassa affluenza esprime una mancanza di fiducia nelle istituzioni dello stato e in particolare in quella elettorale. Intanto c’è stata una pletora di candidati (i candidati presidente erano 54, nda), che non fanno realmente campagna, e non hanno programmi politici. Non si vede la differenza tra un partito e l’altro. Di fronte a questo le persone sono perse, non sanno chi votare.

Inoltre la gente ha boicottato anche perché ci sono prove di tentativi di manipolazione da parte dell’esecutivo, nel modo in cui le elezioni sono state condotte. E questo succede sempre, ogni volta che ci sono elezioni in questo paese. È qui che si vede che abbiamo a che fare con una classe politica chiusa su se stessa, non intenzionata a scendere in mezzo alla gente, interessarsi ai problemi reali espressi dai diversi strati sociali del paese. Sono più portati a risolvere i loro problemi personali, legati ai posti e alle ricompense da ottenere».

La lotta politica alla quale assistiamo è una lotta di potere e di interessi o anche ideologica e di classe?

«Non vedo lotta ideologica né lotta di classe espressa nettamente. Quello che è chiaro è che il governo degli ultimi cinque anni è stato imposto in maniera quasi diretta dagli statunitensi. Gli Usa si sono introdotti nel paese attraverso la Minsutah (contingente Onu presente dal 2004, nda) e hanno voluto che fosse Martelly a diventare presidente. C’è stato tutto uno sforzo per scartare la persona che era arrivata seconda (Jude Célestin, nda). Martelly è arrivato al potere senza alcun programma e oggi vediamo in che stato si trovano le istituzioni a causa del suo governo. È stato un periodo di apertura al business, nel quale non ci si doveva più interessare di politica. Si sarebbero dovute fare strade, organizzare elezioni. Ma il presidente era più interessato a organizzare il martedì grasso del carnevale. È simpatico, però ci sono cose più importanti e serie da risolvere nel paese. Abbiamo avuto a che fare con un governo di business man e oggi ne paghiamo le conseguenze».

A livello della ricostruzione, che risultati vede in questi sei anni?

«Molti soldi sono stati promessi, ma pochi sono stati dati. C’è stata l’espressione di una grande compassione per Haiti, ma spesso le Ong hanno preso il paese come un grande campo di gente da assistere, quando invece si sarebbe dovuto avere una visione molto più ampia, di medio e lungo termine, al di là della ricostruzione. Il sisma è stato un’opportunità offerta ad Haiti per realizzare una vera costruzione del paese. Questo non è stato fatto. Non metto tutto sul conto degli stranieri, perché era compito del governo presentare dei progetti che avrebbero potuto accogliere questo aiuto e orientarlo. E se il governo non ha un piano, l’aiuto arriva da diverse parti e c’è un certo spreco. Si è portato un po’ di appoggio a gente che non aveva nulla, ma che continua a non avere nulla. Ci sono molte critiche che sono state fatte sugli aiuti. Raul Peck, cineasta molto conosciuto, ha realizzato il film “Assistenza mortale”, una critica radicale dell’aiuto. La gente è in continua richiesta di “stato”: scuole, sicurezza, salute, lavoro, casa, ma tutto questo è trascurato».

La cura dell’ambiente è fondamentale e le risorse possono essere utilizzate per il turismo. Ma come fare?

«Ci sono associazioni che lavorano su queste questioni, ma non sono tenute in conto dal potere, non ricevono sovvenzioni. Occorre che ci sia un governo con un programma, che ci siano uomini politici attenti all’ambiente. I candidati alla presidenza hanno molta fame di potere, ma poco appetito per le questioni importanti come ambiente, sviluppo sostenibile, lotta all’inquinamento, prevenzione dei terremoti e intemperie. È un paese che ha bisogno di pensare il suo avvenire, di avere gente che presenti dei piani più generali a livello di politiche nazionali».

I rapporti con la Repubblica Dominicana sono particolarmente tesi in questi ultimi mesi, perché?

«Haiti è in una situazione particolare, perché una buona parte degli scambi economici avviene con la Repubblica Dominicana (Rd), ma con un grosso deficit nella bilancia commerciale. I dominicani vendono per due miliardi, mentre Haiti esporta per qualche centinaio di milioni. Buona parte della popolazione che non ha lavoro va in Rd, dove vivono molti haitiani, da oltre un secolo. C’è una volontà della Rd di controllare i lavoratori haitiani, di cui però ha molto bisogno. Questo ha creato situazioni gravi. Come nel 1937, quando ci fu un vero genocidio di haitiani, organizzato dal dittatore Trujillo. Questo massacro fu dovuto alla volontà di chi governava in Rd di fare una pulizia etnica, perché per i dominicani tutto quello che viene da Haiti viene dall’Africa, dal Vodù, è nero, mentre invece loro si considerano come indios ed europei. I dominicani hanno ancora il problema su come assumere il passaggio della loro storia che riguarda la schiavitù. Allo stesso tempo hanno bisogno degli haitiani per il lavoro nella canna da zucchero, nell’agricoltura, nelle costruzioni. La situazione è grave anche perché c’è un atteggiamento di scarso interesse da parte dei governanti haitiani. I vicini, hanno approvato una legge per espellere tutti gli haitiani che non hanno documenti. È un modo per ripulire Santo Domingo e le altre città da chi, secondo loro, non dà una bella immagine. Nonostante questo, ci sono sforzi che sono già stati fatti. Adesso sono i governanti haitiani che devono capire come gestire i rapporti con Rd, come trattare i problemi relativi al commercio e alla cultura. Come i due popoli possono vivere insieme. Occorre pensare a quello che ci avvicina, quello che è simile e quello che è diverso, per permettere dei rapporti e liberare dai pregiudizi. Ripensare il modo di vedere l’economia e la cultura haitiana, facendo attenzione al rapporto con la Rd. La storia tra i due paesi è complessa, e loro adesso sono più avanti come sviluppo, come educazione, università. Ci vuole uno sforzo da parte degli haitiani».

Marco Bello
con la collaborazione di Alessandro Demarchi




Scivolando nel baratro

 

Neppure il tempo di riprendersi da una guerra civile durata 15 anni. Un presidente vuole ricandidarsi, a dispetto della Costituzione. Un popolo che non ci sta e chiede vera democrazia. La repressione è violenta. Intanto c’è chi si arma nella foresta.

«Aspetta, senti questi colpi?», stiamo parlando via computer con un giornalista di Bujumbura, capitale del Burundi, quando sento in cuffia diversi spari singoli, seguiti da almeno tre raffiche di mitra. «Stanno sparando vicino a casa mia», continua un po’ turbato, ma non troppo. Poi torna il silenzio e la conversazione riprende normalmente. «Ieri ho rischiato di cadere in un’imboscata. Ero in auto con mia moglie, di passaggio su una grossa arteria di Bujumbura. Alcuni poliziotti inseguivano dei motociclisti e volevano ucciderli. Altri poliziotti sono sopraggiunti e stavano per sparare verso i fuggiaschi, ma noi eravamo in mezzo. Poi si sono fermati perché i loro colleghi sarebbero stati sulla traiettoria. Sono scene che si vedono nei film!».

Il piccolo paese dell’Africa centrale, da nove mesi a questa parte, sta vivendo una crisi politica sempre più acuta e sta, di fatto, precipitando in una nuova guerra civile.

Le premesse

Dopo una guerra fratricida durata dal 1993 al 2003, con strascichi fino al 2008, gli accordi di Arusha (2000) e Pretoria (2003) misero le basi per una nuova Costituzione che ha portato alla coabitazione delle diverse forze in campo. Il paese ha vissuto quindi un decennio di relativa pace.

Con le prime elezioni del nuovo corso (2005) sale al potere Pierre Nkurunziza, ex comandante guerrigliero, ora capo politico del partito Cndd-Fdd (Consiglio nazionale per la difesa della democrazia – Forze per la difesa della democrazia). Ma è alle elezioni successive, nel 2010, che il partito di Nkurunziza viene accusato di brogli elettorali (cfr. MC maggio 2011 e giugno 2013). Lui tira dritto e, mentre l’opposizione boicotta il secondo tuo, il suo partito prende la quasi totalità dei seggi in parlamento. Nkurunziza diventa presidente-padrone del paese, iniziando a imporre metodi da «partito unico». Restrizioni alla libertà di stampa, violenze verso i leader di opposizione e i giornalisti, uso della tortura tornano a essere all’ordine del giorno, così come le fughe all’estero dei perseguitati.

La nuova Costituzione prevede un limite di due mandati di cinque anni per il presidente della Repubblica. L’uomo forte di Bujumbura non vuole lasciare il potere e si inventa un cavillo per potersi ripresentare. Così il 25 aprile dello scorso anno presenta ufficialmente la sua candidatura. Immediata è la reazione della società civile e della gente comune che scende in piazza per manifestare il proprio dissenso.

Ma le manifestazioni erano state proibite, e subito si registrano scontri tra polizia e popolazione indifesa.

Nei giorni seguenti il governo impone il silenzio alle radio private, prima fra tutte la scomoda Radio pubblica africana (Rpa). Sono una decina le vittime dei primi giorni. La comunità internazionale si schiera all’unanimità contro la terza candidatura, ma non riesce a far desistere il presidente.

Tentato golpe ed elezioni farsa

Il 13 maggio, forti della pressione popolare che continua nelle strade e di una visita all’estero del presidente, un gruppo di generali tenta di rovesciarlo. Ma i fedelissimi di Nkurunziza riescono ad arginarli e ad arrestare diversi golpissti, mentre alcuni riescono a scappare.

Nel frattempo oltre 100.000 burundesi fuggono nei paesi confinanti: Tanzania, Repubblica Democratica del Congo e, soprattutto, Rwanda. Qui, appoggiati dal presidente rwandese Paul Kagame, alcuni esuli si organizzano e si armano.

Anche questa volta Nkurunziza va avanti, gestisce le elezioni di luglio, alle quali non partecipano gli osservatori inteazionali, e si conferma al potere. Ormai la stretta sugli oppositori politici e sui media indipendenti è totale. Inizia una vera e propria caccia all’uomo: chiunque si opponga, o si sia opposto, alla terza candidatura, diventa un potenziale «nemico della patria», a cominciare dagli stessi compagni di partito del presidente non allineati.

Verso la guerra civile

Il conflitto sale di livello l’11 dicembre scorso. I gruppi dell’opposizione armata, ormai presenti nel paese, escono allo scoperto, attaccando tre campi militari, due a Bujumbura e uno nell’interno. Il bilancio si salda con 12 morti tra gli assalitori, che riescono a recuperare armi dell’esercito regolare. Questa data sancisce la presenza della ribellione sulle colline intorno alla capitale Bujumbura. Si fanno chiamare Forze repubblicane del Burundi (Forebu) e Resistenza per uno stato di diritto in Burundi. A capo del Forebu sarebbe il generale Godefroid Niyombare, leader del tentato golpe di maggio.

Anche la repressione fa un salto di qualità. Nella notte tra venerdì 11 e sabato 12 dicembre la polizia rastrella i quartieri cosiddetti «contestatari» dove si annidano gli oppositori. La mattina sono oltre 150 i cadaveri di giovani trovati lungo le strade della città, che ben presto le autorità fanno scomparire.

«L’opposizione armata si è ormai dichiarata. Sono ben equipaggiati, hanno preso anche materiale radio dai depositi dell’esercito, e sono sulle colline intorno a Bujumbura», ci racconta un cornoperante straniero che chiede l’anonimato. «Ogni tanto fanno delle incursioni in città. L’altro giorno hanno assaltato la casa del presidente del Parlamento, nel quartiere Mutanga Nord». E continua: «L’esercito è diviso. Non tutti sono d’accordo con il potere. Ci sono disertori che raggiungono la ribellione. Chi resta non si esprime contro, altrimenti lo fanno secco».

Il lavoro di rastrellamento nei quartieri lo fa la polizia. Avviene ormai ogni notte. «Ai posti di blocco o a fare le perquisizioni sono sempre gli stessi poliziotti, perché molti si rifiutano. Inoltre ci sono diversi rwandesi tra loro, mercenari. Hanno le stesse divise, ma si capisce la loro provenienza perché parlano kinyarwanda e non kirundi (due lingue molto simili, parlate nei due paesi, ma con evidenti differenze, ndr)». Si tratta dei famigerati interamwe, gli hutu rwandesi che vivono nel confinante Congo Rd dai tempi del genocidio in Rwanda (1994), in costante guerra con il regime di Kagame.

«Questo spiega perché i quartieri a maggioranza tutsi, come Nyakabiga, sono maggiormente presi di mira», ci dice il nostro interlocutore. Intanto, a fine gennaio Amnesty Inteational mostra le prove di fosse comuni.

Conflitto etnico?

La questione etnica, che sembrava risolta grazie agli accordi di Arusha, rischia di riaffiorare.

Il giornalista burundese, raggiunto via computer, ci spiega: «C’è una piccola dose di etnicismo, ma in realtà è piuttosto un problema politico. Ovvero tutti quelli che sono contro il terzo mandato sono messi nello stesso gruppo e sono da eliminare, che siano essi hutu o tutsi. Però se vivi in un quartiere come Musaga, Nyakabiga, Jabe, a maggioranza tutsi, è più facile che, una volta arrestato, tu sia ucciso».

E continua: «La polizia cerca oppositori nei quartieri, tutti i giorni e le notti. E se sei un giovane tra i 15 e i 20 anni vieni subito arrestato». I giovani fermati sono picchiati e drogati, alcuni finiscono in carcere, altri vengono rilasciati.

«Un giovane che conosco, di 15 anni, si trovava in centro per caso, e durante un rastrellamento lo hanno preso. Dopo averlo picchiato e imbottito di pasticche lo hanno liberato. Ora è a casa in stato di choc», ci racconta il cornoperante. «Qualche giorno fa hanno arrestato 104 ragazzi nel quartiere di Mutakura. Alcuni li rilasceranno, altri li terranno in prigione. Ci sono 26.000 prigionieri nelle carceri».

Continua il giornalista: «Oltre alla polizia, i miliziani imbonerakure sono molto attivi. Si tratta della lega dei giovani del partito al potere. Sono potenti e pattugliano i quartieri soprattutto la notte. In un grosso quartiere, Ciarama, a Nord della capitale, ogni famiglia deve pagare loro 1.000 franchi (60 centesimi, nda) per assicurare la sicurezza dell’area. È un quartiere nuovo, ci sono molti militari e dignitari e vogliono mantenere questa milizia». Gli imbonerakure sono una vera e propria milizia al servizio del potere, utilizzata per i lavori più sporchi e agiscono nella totale impunità.

Verso il collasso

Il presidente vive ormai nascosto: «Nkurunziza non risiede quasi mai in capitale, ma resta nella sua città natale, Ngozi, nel Nord del paese», conferma il giornalista.

Rincara il cornoperante: «Non può neanche fidarsi dei propri compagni di partito. I soldi sono finiti e avrà difficoltà a pagare la polizia, i funzionari, i ministri e il loro entourage. Per ora cerca di recuperare soldi dalle Organizzazioni inteazionali, obbligandole ad aprire conti in valuta alla Banca della Repubblica del Burundi. Il resto lo farà la corruzione. Inoltre, alle Ong inteazionali arrivano insolite ingiunzioni di pagamento di tasse non giustificate».

I finanziatori, per prima l’Unione europea, hanno congelato i fondi, mentre gli investitori hanno rallentato. L’economia è bloccata: «I prezzi degli alimenti sono raddoppiati in città, perché i contadini non si arrischiano a venirli a vendere. Nelle campagne si sopravvive con l’agricoltura di sussistenza, ma in capitale diventa difficile e comunque dispendioso, procurarsi da mangiare», continua il cornoperante.

Dialogo, tra sordi

Dei tentativi di «dialogo» si svolgono il 28 dicembre 2015 a Kampala, in Uganda. Qui si incontrano governo burundese, opposizione e società civile. Questo incontro fa seguito a quello tenuto poco prima delle elezioni e fallito perché abbandonato dai rappresentanti dell’esecutivo.

Il governo burundese rifiuta di riconoscere, e quindi dialogare, con il Consiglio nazionale per il rispetto dell’accordo di Arusha e il ritorno dello stato di diritti in Burundi (Cnared). Si tratta di una piattaforma composta da ex compagni di partito del presidente, oppositori e società civile che chiede al presidente di farsi da parte. Ci racconta il giornalista burundese: «Nel dialogo a Kampala, il governo ha detto che non può sedersi con il Cnared. Alla testa della piattaforma, nella quale si incontrano tutti gli oppositori in esilio, c’è Léonard Nyangoma, anche lui ex ribelle. Tutti i vecchi del Cndd che si sono opposti al terzo mandato. Il governo non vuole parlare con loro. La situazione si complica. La mediazione del presidente ugandese Museveni non è abbastanza forte». Il governo accusa i membri del Cnared di aver partecipato al tentato golpe del maggio 2015. Così la data successiva prevista dalla mediazione per il dialogo, il 6 gennaio, salta.

Intanto il Consiglio di pace e sicurezza dell’Unione africana (Ua) vorrebbe mandare una missione multinazionale di interposizione per bloccare l’escalation di violenze, ma il governo di Nkurunziza non ne vuole sapere e la vede come una «forza d’invasione straniera».

«Sì, l’Ua vuole inviare delle truppe, ma il governo le ha rifiutate. L’ultima parola è all’Ua, ma per intervenire in un paese membro sono necessari i due terzi dei voti favorevoli dell’assemblea. Io non penso che si potranno avere, perché la maggior parte dei presidenti sono dei dittatori, e sono al potere da decine di anni. C’è Kagame che ha ufficializzato il suo terzo mandato (potrà governare fino al 2034, nda), Museveni ha più di 20 anni al potere, Mugabe è il più vecchio».

Così pure l’iniziativa dell’Ua, decisa il 18 dicembre, rimane senza seguito.

Tre scenari per il futuro

Anche l’Onu vuole evitare il peggio e potrebbe finanziare la missione dell’Ua. L’operazione più veloce sarebbe spostare in Burundi parte dei caschi blu della Minusco, presenti nel vicino Congo.

Un rapporto confidenziale per il Consiglio di sicurezza dell’Onu, realizzato da Hervé Ladsous, capo delle operazioni per il mantenimento della pace in Burundi, diventato pubblico a inizio gennaio, ha ipotizzato tre possibili scenari futuri. Primo: la situazione resta stabile, con gravi ripetute violazioni dei diritti umani. In questo caso occorre favorire una missione dell’Ua. Secondo: la violenza sale di livello, in seguito a una scissione nell’esercito o a un assassinio politico. La guerra diventa aperta tra fazioni e si diffonde in tutto il paese. Non ci sono negoziati politici. Il rischio umanitario interessa due milioni di persone. Terzo: le violenze divampano e assumono una connotazione etnica, con incitazione a crimini contro l’umanità, crimini di guerra e genocidio.

Il memorandum ipotizza l’invio di una missione di caschi blu, possibile solo con risoluzione del Consiglio di Sicurezza. Fatto più allarmante, secondo l’autore del testo: «L’Onu non sarebbe attualmente in grado di proteggere la popolazione burundese senza un aiuto degli stati membri». Un primo effetto del rapporto è la missione del consiglio di sicurezza nel paese il 20 gennaio.

Il consigliere per la comunicazione della presidenza del Burundi, Willy Nyamitwe, reagisce immediatamente con un tweet: «Il rapporto mente». Anche il cornoperante ci confida la sua visione: «Può essere un periodo che durerà. Può instaurarsi una guerra civile. Sono andati troppo oltre. A livello internazionale gli interventi economici per mettere in difficoltà il governo sono stati fatti. Ma questi sono ex guerriglieri, abituati a stare in foresta, a vivere con poco, ad ammazzare. Quindi resisteranno fino alla fine».

Marco Bello

 




Il presidente che iniziò al Boca

 

Dal 10 dicembre a guidare l’Argentina c’è un nuovo presidente, il conservatore Mauricio Macri, figlio di un ricco imprenditore italiano. La sua carriera pubblica iniziò nel 1995 quando fu eletto alla presidenza del Boca Juniors, una delle più conosciute e titolate squadre di calcio al mondo. Adesso Macri è alla guida di una nazione dove i problemi – a cominciare da quelli economici – non mancano mai. E la sua coalizione, riunita sotto la slogan Cambiemos (Cambiamo), non ha la maggioranza al Congresso.

San Paolo (Brasile), 7 febbraio. L’hotel è pieno di argentini in attesa di un volo per l’Europa. L’occasione è propizia per fare qualche domanda. «Come si sta comportando il nuovo presidente?», chiediamo a un gruppo di loro. «L’uomo si sta dando da fare per chiudere con l’epoca di Cristina», è il coro unanime. Facciamo notare che la (ex) presidenta ha varato programmi sociali importanti e che ha combattuto a livello internazionale contro la speculazione finanziaria, un cappio al collo dell’Argentina. I cosiddetti «fondi avvoltornio» (fondos buitre) ne sono ancora oggi la manifestazione più vergognosa e intollerabile (sotto qualsivoglia punto di vista). Non riusciamo tuttavia a convincere i nostri interlocutori, i quali – con visibile disapprovazione – elencano gli ultimi casi di corruzione. Forse è una casualità o forse sono le normali contumelie – consuete in (quasi) tutto il mondo – nei riguardi dei rappresentanti politici. Di sicuro Mauricio Macri, l’inatteso vincitore delle elezioni presidenziali dello scorso dicembre, rappresenta un cambio in un certo qual modo «storico» perché si colloca al di fuori – almeno in teoria – delle due grandi coalizioni politiche argentine, quella giustizialista-peronista (di cui fa parte la corrente kirchnerista, una sorta di peronismo di sinistra) e quella radicale.

Handout picture released by the City Govement of Buenos Aires, showing Pope Francis (L) greeting Buenos Aires Mayor Mauricio Macri (C), his wife Juliana Awada and their daughter Antonia, during a private audience in Vatican City on September 19, 2013. AFP PHOTO / GCBA / Antonello Nusca --- RESTRICTED TO EDITORIAL USE - MANDATORY CREDIT "AFP PHOTO / GCBA / Antonello Nusca " - NO MARKETING NO ADVERTISING CAMPAIGNS - DISTRIBUTED AS A SERVICE TO CLIENTS / AFP / GCBA / Antonello Nusca
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Il calcio è potere

Chi è, e da dove proviene il nuovo presidente? Figlio di un italiano che in Argentina ha costruito un impero economico1, Macri ha trovato la sua personale rampa di lancio non nel mondo dell’impresa, bensì in quello del calcio, che nel paese latinoamericano costituisce – senza timore di smentita – una vera e propria «religione». Soprattutto quando si parla del Boca (Juniors), la squadra dell’omonimo quartiere di Buenos Aires, fondata nel 1905 da un gruppo di ragazzi figli di immigrati italiani. Il Boca è uno dei club più famosi a livello mondiale, in cui hanno militato campioni celebrati, come Diego Armando Maradona e oggi Carlos Tévez.

Macri ne è stato lungamente (dal 1995 al 2008) presidente, e soprattutto un presidente vittorioso. Durante e dopo quell’esperienza di dirigente calcistico, si collocano anche le sue fortune politiche, prima come deputato nazionale e poi come governatore del distretto di Buenos Aires, cuore pulsante del paese.

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Conservatore e liberista

Le prime mosse di Macri sono state quelle proprie di un politico conservatore e liberista.

Alcuni giorni dopo la sua entrata alla Casa Rosada, il neopresidente ha annunciato (14 dicembre) la sua prima misura di carattere economico: l’eliminazione delle tasse (retenciones) sull’esportazione per i produttori agricoli di frumento, mais e carne; la riduzione di quella per i produttori di soia (il prodotto principe delle esportazioni, una fonte d’oro e di disastri ambientali). Un regalo di enorme valore per i latifondisti argentini, che dal 2008 lottavano contro il regime fiscale imposto da Cristina Kirchner Feández. La seconda misura è stata varata pochi giorni dopo: la cancellazione del regime di controllo cambiario sul dollaro, che limitava gli acquisti della valuta statunitense per cittadini e imprese. La liberalizzazione ha prodotto una immediata svalutazione della moneta nazionale, il peso, rendendo i prodotti argentini più competitivi (ma facilitando anche la fuga di capitali e l’inflazione).

La politica economica del neopresidente piace ai ricchi. E probabilmente piacerà anche alle istituzioni inteazionali che contano, tra cui non rientra l’Assemblea generale della Nazioni Unite. Va ricordato che quest’ultima, il 10 settembre 2015, aveva votato una risoluzione – con 136 voti a favore, 41 astensioni e 6 contrari (Stati Uniti, Gran Bretagna, Canada, Giappone, Germania e Israele) – per limitare le azioni dei fondi speculativi nei confronti dei debiti sovrani (dell’Argentina e di molti altri paesi). Si era trattato di una bella vittoria per Cristina, ma una vittoria meramente morale, senza alcuna ricaduta pratica. L’inefficacia di quella risoluzione ha ribadito come nel mondo finanziario le decisioni siano prese da pochissimi a spese della stragrande maggioranza.

Tanto per intenderci, a pochi giorni dalle elezioni argentine il Financial Times aveva pubblicato un articolo con un titolo emblematico: Anything bests Feández (Qualsiasi cosa sarà meglio di Cristina)2.

Il de profundis del Clarín

Se è vero che al Congresso la coalizione di Macri (Cambiemos) non ha la maggioranza, è altrettanto vero che il neopresidente non si troverà a dover combattere con il Grupo Clarín, come invece è capitato ai governi di Néstor e Cristina Kirchner.

Il Gruppo Clarín è di gran lunga la principale industria editoriale dell’Argentina3. Ad esso fanno capo giornali (tra cui il quotidiano El Clarín), televisioni, radio, reti di comunicazione. Tra il Clarín e i Kirchner – rei di voler limitare per legge (Ley de Medios) il monopolio mediatico del gruppo – è sempre stata guerra. Una guerra senza esclusione di colpi.

Subito dopo la vittoria di Mauricio Macri, il gruppo editoriale non solo ha recitato il de profundis del kirchnerismo, ma ne ha scritto le memorie, non salvando praticamente nulla dei 12 anni di governo. Lo ha fatto, utilizzando le sue migliori risorse umane e tecnologiche, con il corposo dossier El legado K (L’eredità K)4 e con il film Ficción K, el documental del relato (Commedia K, il documentario del racconto)5.

Quello fatto dal Clarín è un dipinto a tinte fosche, quasi da far rimpiangere l’epoca di Carlos Menem (1989-1999) o addirittura i tempi della dittatura (1976-1983): un paese diviso, l’aumento della povertà (1 argentino su 4), la distruzione dell’agricoltura e dell’allevamento, la forte contrazione dell’industria. Anche la battaglia per i diritti umani – con la celebrazione dei processi a un migliaio di militari golpisti – alla fine viene interpretata come un’arma di seduzione e di acquisto di consensi nelle mani dei Kirchner6.

Adesso tutto cambierà, prevede il dossier del Clarín. «Il quinquennio 2016-2020 e il nuovo scenario politico – vi si legge – offrono una piattaforma di opportunità per avanzare»7.

Talentuosa, ma indisciplinata

Qualunque sia l’eredità lasciata dall’epoca dei Kirchner, la presidenza di Mauricio Macri non sarà comunque una passeggiata. Il quadro economico generale è problematico e imprevedibile, sia a livello nazionale che latinoamericano. Il paese rimane potenzialmente molto ricco, ma afflitto da patologie che paiono inguaribili (corruzione generalizzata, diseguaglianze sociali marcate).

Semplificando, si potrebbe forse dire che l’Argentina è un po’ come i suoi calciatori: talentuosa, ma indisciplinata.

Paolo Moiola
(seconda parte – fine)

 

Note

(1) Il fondatore è Francesco Macri, nato a Roma nel 1930.
(2) Articolo del 21 ottobre, reperibile sul sito del quotidiano britannico: www.ft.com
(3) Il sito: www.grupoclarin.com.ar
(4) Il dossier sui 12 anni di kirchnerismo si può leggere liberamente a questo link: http://especiales.clarin.com/el-legado-K/
(5) Il documentario si può vedere liberamente a questo link: http://www.clarin.com/politica/Ficcion-capitulos-peor-relato_0_1489651181.html
(6) Silvana Boschi, Las conquistas que terminaron siendo manipuladas por el relato, in dossier citato.
(7) Dante Sica, La industria, de la expansión a una fuerte contracción, in dossier citato.