Guardandosi in cagnesco


Mentre questi articolo era in stampa, a partire dl 10 luglio la situazione è precipitata nel Sud Sudan e gli scontri tra Dinka e Nuer si sono riesplosi con grande violenza a partire da Juba, dove ci sarebbe dovuto essere un incontro di pace.


È durata due anni e mezzo. La guerra civile sud sudanese ha fatto vedere i delitti più efferati. Due milioni e mezzo di sfollati, decine di migliaia di vittime civili. L’uso sistematico dello stupro come arma di guerra. L’Onu parla di crimini contro l’umanità. Ma il mondo non lo sa neppure. Ora c’è una pace instabile, con tutti i problemi ancora sul tavolo.

Riek Machar, il capo dei ribelli, è tornato a Juba. È il 26 aprile 2016. Dopo due settimane spese a Gambella in Etiopia per definire quali armamenti poteva portare con sé (missili terra-aria, anticarro, stringer, etc.), ha finalmente avuto l’ok delle autorità etiopi e poi dal presidente del Sud Sudan, il suo acerrimo nemico Salva Kiir Mayardit, per atterrare nella capitale. Fuori città c’è l’esercito regolare Spla (Sudan people liberation army) schierato in caso di necessità. «C’era un grande fermento in quei giorni. Io ero sul terreno e tutti stavano attaccati alla radio, perché non funzionavano i telefoni, ma solo radio e internet» ci racconta Angela Osti, da alcuni mesi nel paese come cornordinatrice di un progetto di emergenza per una Ong italiana. «Lo staff locale era agitato. Poi finalmente Machar arriva, ed è festa. Salva Kiir lo chiama fratello. Ma, pochi giorni dopo, tutti sono delusi dai nomi del governo transitorio di unità nazionale: sono gli stessi di due anni e mezzo prima, quando è scoppiata la guerra civile. La pace l’aspettavano tutti: “adesso che arriva la pace, sarà diverso…”, dicevano».

Sono passati due anni e nove mesi da quando è scoppiato il cruento conflitto interno al Sud Sudan, il nuovo stato africano, nato appena il 9 luglio del 2011.

«È la guerra più atroce che questi popoli abbiano mai vissuto. Non è stato così neppure nei decenni di guerre contro gli arabi del Nord. C’è stato un combattimento acerrimo tra due etnie che si sono massacrate a vicenda». Chi parla è Daniele Moschetti, superiore regionale dei missionari Comboniani in Sud Sudan.

Ma per capire come si è arrivati a questo punto, occorre fare un passo indietro.

Un paese giovane

Il Sud Sudan, è il 54° stato africano. Ha una superficie di 619.745 chilometri quadrati (due volte l’Italia) per 11,5 milioni di abitanti. Confina con Etiopia, Kenya, Uganda, Congo Rd, Repubblica Centrafricana e, ovviamente, Sudan dal quale si è staccato.

Paese con infrastrutture quasi inesistenti, ha una zona più umida e produttiva a livello agricolo ad Ovest, un’area paludosa nel centro Sud ed arido nell’Est.

È uno dei paesi più poveri del mondo ma rigurgita di acqua e di petrolio.

Le guerre del Sudan

Prima dell’indipendenza dal Sudan si contano due guerre tra i popoli del Sud, neri e cristiani o animisti, e il Nord, arabo e musulmano. Il Sud ha le risorse, come la terra coltivabile, l’acqua, e soprattutto il petrolio (l’80% dei giacimenti si concentrano qui). Le multinazionali iniziano a sfruttare il greggio sudanese intorno agli anni ’70.

Tra il 1956 (anno dell’indipendenza da Egitto e Gran Bretagna) e il 1972, si colloca la prima guerra civile sudanese, con connotazione più religiosa.

Nel 1983 scoppia la seconda guerra: il Sud, chiede l’indipedenza dal Nord, che non vuole mollare le risorse. Tra i vari eserciti del Sud che combattono contro l’esercito sudanese si distingue il Sudan people liberation army (Spla), comandato dal carismatico John Garang dell’etnia dinka, maggioritaria.

Con gli accordi di pace del 2005 viene sancita una grande autonomia del Sud, e si prevede un referendum per la secessione. John Garang diventa vicepresidente del Sudan. «Il sogno di Garang – racconta Moschetti – non era la divisione del Sudan e quindi l’indipendenza del Sud, ma il cosiddetto New Sudan», un paese unito e in pace. Ma non tutti la pensano come lui, sia dentro l’Spla, sia all’estero. Fondamentale è infatti la posizione del presidente dell’Uganda, Yoweri Museveni, che ha sempre appoggiato la secessione del Sud e contrastato il Nord di Omar al-Bashir. Museveni rappresenta gli interessi geopolitici degli Stati Uniti nell’area. Mentre l’Uganda sosteneva l’Spla contro al-Bashir, questi finanziava il Lord resistence army (Lra, vedi MC giugno 2012) di Joseph Kony contro Museveni.

Dopo 5 mesi di vicepresidenza, l’elicottero che trasporta Garang e la sua guardia ristretta da Kampala, Uganda, verso il Sudan precipita misteriosamente. Il mezzo era stato fornito dallo stesso presidente ugandese.

Si registra qualche tafferuglio a Karthum (capitale del Sudan) e a Juba (capitale del Sud), poi tutto è messo a tacere, e molto rapidamente Salva Kiir, vice di Garang, anche lui dinka, prende il suo posto. Curiosamente Kiir è proprio di quel gruppo nel Spla che spingeva per la secessione del Sud Sudan. Non è un leader carismatico come Garang, ma ha alle sue spalle Museveni e soprattutto l’amministrazione Usa, con George W. Bush prima e Barak Obama poi, che ha investito miliardi di dollari in questa operazione.

Così dall’accordo del 2005 si arriva al referendum (vedi MC marzo 2011) a gennaio 2011, con il quale il 98,8% dei votanti chiede la secessione dal Nord.

Storie di etnie e di potere

C’è un passaggio importante da analizzare per capire la crisi Sud sudanese degli ultimi anni.

«Il Nord non ha mai voluto mollare il Sud, perché voleva dire un collasso economico per Karthum, che di fatti c’è stato dopo il 2011», ricorda Moschetti. Ma esiste un altro piano di scontro tutto interno al Sud. Qui sono presenti 64 etnie o tribù, delle quali i popoli maggioritari sono Dinka (quattro milioni) e Nuer (un milione di persone), gli altri contano centinaia di migliaia di individui, come ad esempio i Bari. «Questi due popoli, cugini tra loro, sono entrambi allevatori nomadi, e hanno milioni di vacche. Occorre sapere che nella cultura pastorale la vendetta è un valore fondamentale».

Le frizioni tra Nuer e Dinka erano già state uno dei problemi grossi, durante la seconda guerra col Nord. Tra ’91 e il ’97 Nuer e Dinka, all’interno dello stesso Spla, si erano scontrati, per un contrasto tra i generali Riek Machar (nuer) e Salva Kiir (dinka). I Nuer avevano compiuto un massacro di Dinka a Bor, nel 1991 e per sette anni i due popoli sono stati divisi. Machar si era alleato con il Nord ed era sostenuto con armi di al-Bashir, al quale faceva molto comodo poter controllare la situazione. E questo ha innescato una voglia di vendetta del popolo dinka. Con la mediazione statunitense, il Spla si è ricomposto e si è arrivati all’accordo con il Nord del 2005. Ma le braci sono rimaste accese.

Indipendenza

«Si arriva al 2011 e all’indipendenza. La grossa difficoltà per Machar è stata accettare che il presidente eletto fosse ancora Salva Kiir, e lui fosse rimesso ancora, solo, vicepresidente. C’erano difficoltà e divisioni, anche perché sono due personaggi completamente diversi. Kiir è militare, generale, l’altro invece, pur essendo militare, ha studiato a Londra.

Sono andati avanti per due anni insieme, con grandi difficoltà, poi nel 2013 il gruppo dinka ha preso sempre più il potere e occupato tutte le posizioni nel governo e nel paese. A luglio ha scaricato Riek Machar, e ha mandato via tutti i ministri, sostituendoli con gente del proprio gruppo, per di più non preparata. Il 30 novembre ha smantellato l’ufficio politico del partito unico Splm (Sudan people liberation mouvement)». Intanto, ricorda sempre Moschetti, «si stavano preparando delle manifestazioni di diversi gruppi contro i Dinka. Il governo ha chiesto un dialogo e indetto tre giorni d’incontri: 13-15 dicembre 2013. Alla sera del 15, una domenica, abbiamo iniziato a sentire i primi spari a Juba. Non si erano messi d’accordo».

Scatta così una corsa al massacro dei Nuer a opera dei Dinka. Kiir cerca di giustificare goffamente la violenta repressione accusando Machar di tentativo di colpo di stato. I Nuer, attaccati, reagiscono. Il Spla si divide e nasce il Spla-io, ovvero «in opposition», quello dei Nuer. Inizialmente gli scontri sono a Juba, poi si estendono ovunque sia presente popolazione nuer. Dalle caserme, dove i militari nuer vengono uccisi, ai massacri della popolazione, compiuti sia da militari che da miliziani dinka. Gli stati più colpiti sono quelli a maggioranza nuer, che sono anche quelli a maggior concentrazione di pozzi petroliferi del Sud Sudan: Unity, Upper Nile e Jonglei.

Secondo Moschetti: «In parte si tratta della vendetta del massacro compiuto 22 anni prima ai danni dei Dinka. Ma probabilmente è anche uno dei modi con cui l’élite dinka aveva pensato di far fuori Machar, senza però riuscirci. Lui è scappato, e il governo ha poi accusato le Nazioni Unite di aver agevolato la sua fuga, il che è un po’ assurdo».

La guerra più atroce

La guerra civile Sud-Sud, durata due anni e mezzo è stata particolarmente violenta. Una commissione d’inchiesta delle Nazioni Unite sui diritti umani, cornordinata da David Marshall, nel marzo 2016 ha pubblicato un rapporto sulle violazioni. Parla esplicitamente di crimini di guerra e crimini contro l’umanità, commessi in particolare dalle forze regolari del Spla e dalle milizie in appoggio: «Fino dal 2013 tutte le parti in conflitto hanno perpetrato attacchi conto civili, stupri e altri crimini, arresti e detenzioni arbitrarie, rapimenti e privazioni di libertà, sparizioni forzate, e attacchi al personale Onu e loro strutture. Oltre due milioni di Sud sudanesi sono sfollati interni, quasi mezzo milione nei paesi confinanti, e decine di migliaia uccisi.

«L’ampiezza e il tipo di violenza sessuale – principalmente realizzata dal Spla governativo e milizie a esso collegate – è descritto con bruciante, devastante dettaglio, come l’attitudine alla macellazione di civili e distruzione di proprietà e mezzi di sussistenza», dice l’Alto Commissario per i Diritti Umani delle Nazioni Unite Zeid Ra’a Al Hussein. «Tuttavia la quantità di stupri e stupri di gruppo descritti dal rapporto sono solo una foto della realtà totale. Questa è una delle più orrende situazioni di violazione dei diritti umani nel mondo, con l’uso massiccio della violenza sessuale come strumento di terrore e arma di guerra, ma è stato praticamente assente dall’attenzione internazionale».

Le violazioni continuano per tutto il 2015, anche dopo la firma dell’accordo, e insanguinano in particolare gli stati Unity e Upper Nile, a maggioranza nuer e anche i Wester e Central Equatoria.

Il rapporto Onu descrive inoltre come «civili sospettati di appoggiare l’opposizione, inclusi bambini e disabilli, fossero uccisi, bruciati vivi, soffocati nei container sotto il sole, fucilati, impiccati agli alberi o tagliati a pezzi con il machete». Sempre secondo il rapporto «lo stupro è stato parte di una strategia per terrorizzare e punire i civili». L’Onu riconosce che anche le forze dell’opposizione hanno commesso atrocità, ma a un livello inferiore. Nelle 102 pagine del rapporto si legge che 10.533 civili sono stati uccisi solo nel 2015, fino a novembre, la maggior parte in modo deliberato. Gli inviati Onu hanno poi documentato più di 1.300 casi di stupro nel periodo tra aprile e settembre 2015 e solo nello Stato del Unity.

Museveni appoggia ancora una volta Kiir, inviando pure truppe ugandesi, che saranno di stanza a Bor (capoluogo del Jonglei), per impedire l’avanzata verso Sud del Spla-io, ovvero i Nuer nel Nord Jonglei.

Pressioni inteazionali

Dopo una decina di firme per la pace, sempre disattese, nell’agosto 2015 arriva quella buona. E si organizza il rientro di Machar, che avverrà solo ad aprile dell’anno successivo. Nel frattempo gli scontri continuano. Pochi giorni dopo l’arrivo di Machar a Juba si forma il governo transitorio di unità nazionale.

«Il nuovo governo è esattamente uguale a quello precedente al luglio 2013, quando il vice presidente Machar fu defenestrato dal presidente Kiir». Conferma Samuele Tognetti, rappresentate dell’Ong Comitato Collaborazione Medica, che vive nel paese dal 2013. «Sotto pressione dei grandi donatori inteazionali, in particolare Nazioni Unite, Usaid e Ukaid (le ultime due sono le cornoperazioni governative di Usa e Regno Unito), il presidente è stato costretto a scendere a patti con il rivale. Ha mantenuto anche l’altro vice, quello nominato dopo la cacciata di Machar, il generale James Wani Iggia di etnia bari». Non si tratta quindi di un negoziato, con una mediazione, in cui le parti si sono messe d’accordo, ma di una situazione artificiale nella quale i problemi restano irrisolti. «Al momento non cambia niente. Non vediamo alcun miglioramento generale delle condizioni del Sud Sudan dopo l’insediamento del nuovo governo, avvenuto pochi giorni dopo il ritorno di Machar a Juba» continua Tognetti. «L’economia invece di migliorare peggiora, il dollaro è scambiato contro il pound Sud sudanese 1 a 40. Nel 2013 era 1 a 4. Permangono i campi profughi, anche qui a Juba, e soprattutto negli stati nei quali la guerra è stata più cruenta, ovvero Unity e Upper Nile.

Oltre lo smantellamento dei campi, occorrerebbe poi far ripartire i pozzi petroliferi, fermi a causa della guerra, per rilanciare l’economia e far entrare valuta pregiata, in modo che il cambio e l’inflazione comincino a stabilizzarsi o a diminuire. Ma non sta avvenendo niente e non c’è un programma».

«Le Nazioni Unite vorrebbero chiudere tutti i campi di sfollati entro dicembre» ci dice Angela Osti, che lavora proprio con le vittime del conflitto «ma i ritorni devono essere spontanei e la gente deve tornare nelle zone di origine in sicurezza e in condizioni tali per cui non si crei un’altra crisi umanitaria. Tra gli altri c’è il campo di Bentiu, il più grande con circa 105.000 persone, in una zona di pozzi petroliferi, contesa tra Dinka e Nuer. Nei campi poi scoppiano scene di guerriglia tra le etnie e le strutture sono distrutte e date alle fiamme».

Chi comanda il Sud Sudan

I Dinka, pur non essendo la maggioranza assoluta, sono circa il 35% dei Sud sudanesi, di fatto controllano tutti i posti chiave, e non solo dell’amministrazione. «Noi lavoriamo molto con alcuni ministeri – continua il cornoperante – e possiamo constatare che sono quasi tutti Dinka». Conferma Moschetti: «Le zone petrolifere sono Nuer, ma quelli che ne approfittano sono Dinka. Anche alcune altre etnie, ma loro hanno mangiato miliardi di dollari, senza sviluppare il paese».

«Osserviamo molto nepotismo, clanismo. Gli altri gruppi accusano oggi i Dinka di mettere le proprie persone a tutti i livelli. È anche vero che sono la maggioranza. Poi c’è un’alta corruzione, dovuta ai soldi derivati dal petrolio. Fino al 2011, tutti i proventi dell’estrazione andavano a Karthum, anche se nel Sud c’era un governo semi autonomo, mentre i soldi per far funzionare le cose arrivavano dal Nord. Gli oleodotti vanno tutti dal Sud al Nord, a Port Sudan, dove il petrolio viene imbarcato. E il Sud Sudan deve pagare un dazio fisso a barile, indipendente dal prezzo del greggio sul mercato. Sia i generali del Spla, sia i pezzi grossi del governo hanno ingrossato i propri conti in banca in giro per il mondo, non certamente a Juba».

Nel 2018 sono previste le prossime elezioni presidenziali. Ma «non si possono vivere due anni con una tensione così» ci dice Tognetti. «A livello politico è un rapporto di forza tra due fronti: oggi non si vede una volontà di dialogo tra i due, altrimenti ci sarebbero delle politiche per migliorare le condizioni di questa nazione. Il dialogo deve essere frutto di buona politica che oggi è assente. È una fase molto incerta. Dove si va a finire? Di sicuro la città è militarizzata in modo massiccio, se si accende un cerino nel posto sbagliato, succede un pandemonio».

Ricorda Daniele Moschetti: «Diventa sempre più difficile resistere per la gente. Si mangia una volta al giorno, i salari sono rimasti gli stessi, ma è aumentato tutto, cibo compreso. In un paese che è uno dei più poveri al mondo. Dopo la Siria, il Sud Sudan è il peggiore».

Marco Bello




Ecuador. La maledizione del petrolio


Siamo andati a visitare le due città dell’Amazzonia ecuadoriana – Francisco de Orellana (Coca) e Nueva Loja (Lago Agrio) – cresciute sull’onda dello sfruttamento petrolifero. Oggi, con il crollo del prezzo del greggio, le luci della ribalta si sono affievolite. Rimangono invece i problemi ambientali, sociali e culturali, che la difficile congiuntura economica ha reso più evidenti. Abbiamo parlato con alcuni esponenti delle associazioni che, tra mille difficoltà, si battono contro l’arroganza delle compagnie petrolifere e la connivenza del governo. In difesa dell’Amazzonia, dei popoli indigeni e delle famiglie campesine.

Francisco de Orellana. Fuori della stazione degli autobus è in attesa una fila di taxi gialli. Francisco de Orellana – nota come El Coca (o semplicemente Coca) – è una città dell’Amazzonia ecuadoriana cresciuta attorno a tre fiumi: il Napo, il Coca e il Payamino. Capoluogo della provincia di Orellana, essa è considerata la seconda città petrolifera dell’Ecuador dopo Nueva Loja.

All’autista che ci conduce in hotel chiediamo come vadano gli affari. «Tanti taxisti, poco lavoro», sintetizza lui. «Ci sono sempre i turisti», ribattiamo. «Quelli non si fermano qui neppure un’ora. Arrivano in aereo da Quito e subito s’imbarcano su una lancia che li porterà in qualche lodge della foresta».

Quella del taxista non è la solita lamentela. Il crollo dei prezzi del greggio ha dato un duro colpo all’economia locale. Ce lo conferma anche Carlos Zabala, proprietario dell’Hotel Río Napo: «Andate a vedere la zona industriale che sta tra l’aeroporto e Sacha».

È la zona dove si trovano le imprese che offrono beni e servizi alle compagnie petrolifere, il cui lavoro di trivellamento e d’estrazione è molto complesso. Ci sono i capannoni d’industrie meccaniche, edili, chimiche, di trasporti e logistica. Tra esse c’è anche la statunitense Halliburton, divenuta mondialmente famosa durante la guerra in Iraq1. C’è la cinese Hilong, certamente meno nota ma probabilmente più importante dato che la Cina è oggi il primo partner petrolifero e soprattutto il primo creditore del paese.

Tutto pare però andare al rallentatore, quando non è addirittura fermo. Notiamo anche alberghi e ristoranti chiusi o in vendita. Fuori dai cancelli qualcuno accetta di dire due parole, confermando che l’attività è crollata assieme al crollo del prezzo del greggio.

Le autorità parlano di 30 mila persone (su una popolazione totale di 150 mila) che, nel corso dell’ultimo anno, hanno lasciato la provincia di Orellana per mancanza di lavoro. La governatrice Mónica Guevara ha dovuto varare misure di sostegno per i commercianti.

Viene da chiedersi: valeva la pena fondare l’economia di Coca (e di Orellana) sullo sfruttamento petrolifero?

Se i campesinos diventano attivisti

Andiamo a cercare una risposta nella sede della Asociación de Líderes Comunitarios Red Ángel Shingre. L’associazione è dedicata a Ángel Shingre, un contadino e attivista ambientale assassinato con tre colpi d’arma da fuoco a Coca il 4 novembre del 2003.

«I suoi assassini non sono mai stati identificati», ci spiega Diocles Antonio Zambrano, fondatore e responsabile dell’associazione. Come lo era Ángel anche Diocles è un campesino. Con cinque figli e 58 anni ben portati: «Quando negli anni Settanta arrivai qui dalla regione della costa, il verde era impressionante, i fiumi pieni di pesce, la foresta ricchissima di fauna. Tutta questa esuberanza della natura è stata uccisa prima dalla industria della palma africana2 e poi dal petrolio». L’Amazzonia non è stata la sola vittima.

«Prima del petrolio questo territorio era considerato disabitato. Invece era abitato da gente autoctona – Quichua, Shuar, Huaorani – che era parte di questa meraviglia. Avevano tanto territorio perché erano popolazioni da sempre nomadi, vivendo di caccia, pesca, raccolta di prodotti della foresta e qualche piccola coltivazione nella chacra (piccolo terreno rurale, ndr) per l’autosostentamento. Tutto in forma sostenibile. A poco a poco, la situazione degli indigeni è cambiata. Una parte di loro è andata a lavorare per le imprese petrolifere, sempre in cerca di manodopera a basso costo. Nel frattempo, sono iniziate le morti per cancro o per malattie rare, nonostante le compagnie e lo stesso stato facessero pubblicità sull’assenza di rischio in quelle attività».

Il gruppo di attivisti della Rete Ángel Shingre cerca di informare la popolazione che il petrolio è una miscela impressionante di composti chimici e di metalli pesanti, molti dei quali soggetti a bioaccumulo3. E tuttavia l’arroganza delle compagnie arrivava a livelli inauditi. «Veniva detto – racconta Diocles – che il petrolio era medicina, che era concime, che conteneva vitamine, proteine, finanche latte. E c’erano molti che ci cascavano tanto da seminare yucca, platanos, frijoles dove c’erano stati sversamenti di petrolio». Poi il castello di bugie è crollato sotto le evidenze degli studi scientifici.

«È stato dimostrato che la popolazione che vive vicino ai luoghi petroliferi ha il 200-230% di probabilità in più rispetto alla norma di contrarre il cancro (in particolare, al fegato, all’utero, alla prostata) e di avere aborti spontanei. Senza dire dei danni alle attività economiche dei contadini con morte di galline, cavalli, maiali. E poi – pare incredibile considerando dove siamo – nessuno dispone di acqua potabile perché gli idrocarburi hanno inquinato ogni fonte: fiumi, lagune, terreni».

Enormi cartelloni pubblicitari, posti dal governo ai lati delle strade, magnificano il petrolio. Chiediamo a Diocles se qualcosa di positivo è stato raggiunto e soprattutto se natura e petrolio possano coesistere. «Grazie al petrolio, c’è stato un certo “sviluppo” (però scrivetelo tra virgolette): costruzione di strade, ponti, strutture varie. Tuttavia, gli effetti negativi sono dieci volte più di quelli positivi. Per questo io dico: no, definitivamente no, non ci può essere una convivenza tra ambiente e petrolio. Sono incompatibili».

Lungo la via Auca

Le parole non bastano. Diocles ci offre un giro sui luoghi di estrazione, lungo la via Auca, qualche chilometro fuori della città. Lui li chiama «toxitour», e presto capiremo il perché. Il giorno seguente ci viene a prendere in hotel con un vecchissimo fuoristrada guidato dal figlio.

La strada è brutta e anche pericolosa. Ci sono curve e ponti strettissimi e senza alcuna protezione. Lungo tutto il percorso stradale, senza soluzione di continuità, tubazioni di varie dimensioni seguono l’andamento del terreno.

Ci fermiamo in una casa a lato della strada. «Signora Leonila, qui vicino c’è stato uno sversamento, vero?». «Sì, dalla tubazione qui davanti, ma il petrolio è arrivato fino alla nostra finca», risponde lei e ci fa accompagnare dal figlio. Scendiamo a piedi lungo una strada sterrata. C’è una povera casa di legno su palafitte. I panni stesi sotto la tettornia. Un uomo, una donna, un paio di bambini, che ci accolgono con curiosità. Il colono prende un badile e si dirige verso un rivolo d’acqua che sta a pochi passi dall’abitazione, seminascosto dalla vegetazione. Poche badilate e subito viene allo scoperto terra nera come il bitume. Puzzolente come il bitume. «Vi hanno risarcito?», domandiamo al figlio di Leonila. «No, nulla», risponde sconsolato.

Riprendiamo il cammino lungo la via Auca, la via del petrolio. Ci fermiamo per qualche foto (discreta) davanti a un campo di Petroamazonas, la compagnia dello stato ecuadoriano. Ci sono due alti mecheros4, che sputano fuoco e fumo sopra gli alberi. E, in mezzo, un grande contenitore di metallo con la scritta agua de formación5. A lato del campo sale una strada, su cui vanno e vengono camion pesanti. Un cartellone dice che Petroamazonas sta costruendo una centrale. Risaliamo in auto per proseguire, ma la vecchia jeep non ne vuole proprio sapere di ripartire. Ci passano accanto i grossi e lussuosi fuoristrada delle compagnie petrolifere. Le persone a bordo ci guardano con facce che paiono di commiserazione. Passano anche fuoristrada delle forze dell’ordine, presenti in forza a difesa delle installazioni petrolifere. «Mettete via le macchine fotografiche», consiglia Diocles.

Dopo un paio d’ore arriva il meccanico e finalmente possiamo tornare verso Coca. Ripercorriamo a ritroso la strada del mattino, attraversando El Dorado e Dayuma, villaggi anonimi, cresciuti dal nulla e adibiti a dormitori per i lavoratori petroliferi. Sono fatti di case approssimative, ma insegne ammiccanti e luci sgargianti evidenziano la presenza di bar e di bordelli, come sempre capita in zone dove si concentrano quasi esclusivamente uomini.

Diocles non la manda a dire: «Adesso che è arrivata la crisi, tutti dicono che bisogna puntare sul turismo e sull’agricoltura. Anche coloro che fino a ieri si sono riempiti le tasche con il denaro del petrolio. Per questa regione il petrolio è stata una vera maledizione. La maledizione della ricchezza».

Difficile, per noi, aggiungere qualcosa. Salutiamo con un abbraccio d’ammirazione Diocles, piccolo campesino e attivista ambientale che, anche a costo di apparire un po’ retorici, ci piace considerare un eroe solitario dei nostri giorni.

Ferite e colpi mortali

In Coca abbiamo toccato con mano i danni – ambientali e umani – prodotti dall’estrazione petrolifera. Abbiamo anche visto le conseguenze di un’economia di mercato incentrata sui prezzi del petrolio. Domani, percorrendo il Rio Napo, andremo verso il Parque Yasuní e poi ci sposteremo nella provincia di Sucumbíos, dove c’è l’altra capitale petrolifera: Nueva Loja-Lago Agrio. Forse la città simbolo della maledizione del petrolio. Quella dove la multinazionale statunitense Texaco-Chevron ha compiuto disastri inimmaginabili per i quali è stata condannata. Ma per i quali nulla ha pagato.

Paolo Moiola
(fine terza puntata – continua)

Note

1 – La Hulliburton è stata l’azienda di Dick Cheney, vicepresidente Usa durante l’amministrazione di George W. Bush e la Guerra del Golfo (2003), durante la quale si dice che la multinazionale sia stata favorita.

2 – La palma africana (Elaeis guineensis) si è diffusa in tutto il mondo in quanto il suo olio è molto richiesto, soprattutto dalle industrie alimentari e cosmetiche. La sua coltivazione su larga scala ha effetti nefasti sull’ambiente e sul clima.

3 – Il «bioaccumulo» è il processo attraverso cui sostanze tossiche persistenti si accumulano all’interno di un organismo, in concentrazioni superiori a quelle riscontrate nell’ambiente circostante. Questo accumulo può avvenire attraverso qualsiasi via: respirazione, ingestione o semplice contatto, in relazione alle caratteristiche delle sostanze.

4 – Vengono chiamati mecheros i camini attraverso i quali si brucia il gas che esce quando si estrae petrolio. Si tratta di un gas che contiene vari elementi contaminanti: metano, butano, etano, propano, acido solfidrico.

5 – In un giacimento petrolifero, il petrolio si trova in sospensione su uno strato di acqua  definita «acqua di formazione». Durante le attività di trivellamento ed estrazione si ha come effetto collaterale una grande produzione di acqua contaminata detta «acqua di produzione». Oltre all’olio, nell’acqua di produzione sono presenti inquinanti quali metalli pesanti, solidi sospesi e disciolti e elementi radioattivi.


Ecuador: l’economia del petrolio e le critiche

Petrolio e ambiente sono incompatibili

In Ecuador, l’economia del petrolio riveste un ruolo preponderante. Tuttavia, i costi che essa – inevitabilmente – comporta superano i benefici. Nomi e dati per orientarsi nella questione.

  • Zone petrolifere – Regione della costa (penisola di Santa Elena). A partire dal 1967, la regione dell’Amazzonia ecuadoriana – in particolare, le province di Orellana e Sucumbíos (Nord Est del paese) – è diventata la principale zona di produzione. Sono in corso nuove esplorazioni in altre province.
  • Città petrolifere – Francisco de Orellana-Coca (Orellana) e Nueva Loja-Lago Agrio (Sucumbíos), quest’ultima è la città più popolata dell’Amazzonia ecuadoriana.
  • Compagnie petrolifere statali – Le compagnie petrolifere di proprietà della stato ecuadoriano sono la Petroecuador e la Petroamazonas EP. Nell’aprile 2016 quest’ultima ha annunciato – tra la sorpresa e i dubbi di molti – il record storico di produzione: 366.754 barili al giorno (nonostante il prezzo internazionale del greggio sia sceso a quotazioni molto basse). Della raffinazione, immagazzinamento, trasporto e commercializzazione si occupa invece Petroecuador.
  • Compagnie petrolifere straniere – Stanno assumendo sempre più importanza le compagnie petrolifere della Cina: PetroChina, Andes Petroleum, Petroriental, Sinopec, Cnpc. Tra le altre si segnalano: Repsol, Agip, Petrosud, Enap, Pegaso, Petrobell, Pacipetrol, Tecpetrol, Consorcio Interpec, Consorcio DGC, Consorcio Marañón. Hanno lasciato il paese la Petrobras (Brasile), la Perenco (anglofrancese), nonché le statunitensi Oxy (Occidental) e Texaco-Chevron. Tra le aziende di servizi per le compagnie petrolifere primeggiano la Halliburton (Stati Uniti), la Hilong (Cina), la Weatherford (Stati Uniti) e la Mkp Petroleum (Stati Uniti).
  • Sistema contrattuale – Con la riforma della Legge sugli idrocarburi, approvata nel 2010, tra stato ecuadoriano e compagnie petrolifere si è passati dal contratto di partecipazione al contratto di prestazione di servizi. In questo secondo caso, lo stato garantisce alle singole compagnie petrolifere un prezzo fisso per barile estratto. Se il prezzo internazionale del greggio è alto, lo stato guadagna. Se il prezzo è basso o molto basso (come in questo momento), allora lo stato ecuadoriano può anche rimetterci.
  • Economia e petrolio – Negli ultimi 10 anni il petrolio ecuadoriano ha generato: tra il 43 e il 66 per cento del totale delle esportazioni; tra il 43 e il 59 per cento del bilancio statale.
  • Costi economia petrolifera – Difficile quantificare i costi ambientali, umani e sociali provocati dall’economia del petrolio. Universalmente conosciuto – per la sua entità e per le vicende processuali – il disastro provocato dalla Texaco-Chevron nell’Amazzonia ecuadoriana (dove operò dal 1964 al 1990).
  • Principali gruppi oppositori – Contro l’economia petrolifera ecuadoriana sono attive alcune organizzazioni di cittadini, soprattutto nella regione amazzonica:

1) «Union de Afectados y Afectadas por las Operaciones Petroleras de?Texaco» (Udapt), Nueva Loja (Sucumbíos); responsabili: Donald Moncayo, avv. Pablo Fajardo Mendoza, Luiz Yanza;

2) «Frente de Defensa de la Amazonía» (Fda), Nueva Loja (Sucumbíos); responsabili: Carlos Guamán, Carmen Aguilar;

3) «Asociación de Líderes Comunitarios Red Ángel Shingre», che opera a Coca (Orellana); responsabile: Diocles Zambrano;

4) «Fundación Regional de Asesoría en Derechos Humanos» (Inredh), che si occupa di diritti umani in senso ampio;

5) «Yasunidos», organizzazione nata principalmente per salvare dalle perforazioni petrolifere il Parco nazionale Yasuní, paradiso amazzonico della biodiversità.

(a cura di Paolo Moiola)


Incontro con monsignor Jesús Esteban Sádaba Pérez

Nell’Amazzonia assediata di Alejandro Labaka

Cappuccino di origine basca, mons. Esteban è responsabile del vicariato apostolico di Aguarico, provincia amazzonica di Orellana, dal lontano 1990. È il successore di mons. Alejandro Labaka, ucciso in un agguato nel 1987. Lo abbiamo incontrato nel capoluogo della provincia.

Francisco de Orellana. Ogni tanto, tra gli alberi e i fiori dello splendido giardino del Vicariato apostolico di Aguarico, s’intravvedono i tiranti del moderno ponte sul fiume Napo, inaugurato nell’aprile del 2012. Per la sua costruzione non si è badato certo al risparmio, come d’altra parte sul suo nome. È infatti conosciuto come Puente Majestuoso Río Napo.

Siamo qui per incontrare mons. Jesús Esteban Sádaba Pérez, dell’ordine dei Cappuccini, vicario apostolico di Aguarico dal 1990. Sorridente e pacato, parla uno spagnolo influenzato dall’accento basco (è di Pamplona).

Iniziamo la conversazione con uno sbaglio mettendo un «san» davanti al nome di Francisco de Orellana. «Beh, tanto santo non fu», risponde il vescovo senza riuscire a trattenere un sorriso. In effetti, Francisco de Orellana è il nome del conquistatore ed esploratore spagnolo, che navigò il Napo e il Rio delle Amazzoni, fino a raggiungee le foci. Era il 1542.

 

Mons. Esteban, lei arrivò qui, a Francisco de Orellana, nel 1990 in circostanze particolari: per sostituire mons. Alejandro Labaka, suo connazionale, che era rimasto ucciso in una storia di sangue.

«Direi piuttosto una storia di martirio. Mons. Labaka fu ucciso – insieme a suor Inés Arango – da lance indigene il 21 luglio del 1987. Le lance appartenevano a un gruppo di Tagaeri che i due missionari volevano proteggere dall’imminente arrivo degli uomini di una compagnia petrolifera (la Braspetro, ndr). Alejandro Labaka, cappuccino, era in Ecuador dal 1954. Quando, nel 1965, arrivò in questa regione decise subito di avvicinarsi agli indigeni e in particolare al gruppo più numeroso, quello degli Huaorani, conosciuti per l’indole guerriera (e un tempo noti con il termine dispregiativo di Aucas)».

Può ricordarci i nomi dei gruppi di indigeni che vivono in questa regione?

«In questa parte dell’Amazzonia ecuadoriana vivono tre nazionalità indigene: i citati Huaorani, i Quichuas dell’Oriente e gli Shuar. I più vulnerabili sono quelli che arrivano in città, perché perdono la loro cultura e dunque pagano un prezzo molto alto. Rimangono molte comunità che vivono nella foresta, vicino ai fiumi».

Esistono anche gruppi di indigeni non contattati o, come a volte si preferisce dire, in isolamento volontario?

«Sì, ci sono (almeno) due gruppi non contattati: i Tagaeri e i Taromenane».

Con l’arrivo delle attività petrolifere com’è stato modificato il paesaggio umano?

«Quando agli inizi degli anni Settanta arrivò l’industria petrolifera, qui c’erano il 90% di indigeni e il 10% di bianchi o meticci. In questo momento le percentuali sono invertite perché sono venuti migranti da tutte le parti del paese».

I grandi cartelloni pubblicitari ai margini delle strade dicono: «Il petrolio unisce le comunità amazzoniche!»; «Il petrolio migliora la tua comunità». Che ne pensa, mons. Esteban?

«Lo sfruttamento del petrolio ha portato – direttamente e indirettamente – distruzione della foresta e inquinamento dei fiumi che infatti oggi danno poca pesca. Per non parlare delle tensioni razziali e culturali. In questa situazione mantenere un equilibrio ambientale e umano è difficile, anche se non impossibile, come suggerisce papa Francesco».

In questo momento l’economia basata sul petrolio sembra però in forte crisi. In città tutti gli alberghi sono vuoti. Fuori città abbiamo visto decine di imprese – piccole e grandi (come la Halliburton e la Hilong) – che foiscono materiali e servizi alle compagnie petrolifere, ma pare che tutto si sia fermato.

«È così. Attualmente ci sono grandi difficoltà causate dalla caduta dei prezzi del petrolio. Si parla di 15.000 posti di lavoro perduti. Una parte di queste persone sono tornate ai luoghi da cui provenivano. In ogni caso si è generato un problema sociale molto grave».

Il Parque Yasuní è a pochi chilometri da qui. Monsignore, cosa comporta (comporterà) l’apertura di campi petroliferi al suo interno?

«Certamente lo sfruttamento del petrolio del Parque Yasuní porterà a una diminuzione della sua ricchissima biodiversità. Anche mettendo in campo le migliori condizioni tecnologiche e organizzative, difficile combinare obiettivi economici e difesa della natura, i cui diritti sono peraltro sanciti anche dalla Costituzione ecuadoriana. Occorrerebbe capire quale sia il modello appropriato non solo per la difesa della natura, ma di quella “casa comune” di cui parla il papa Francisco nella sua Laudato si’».

Mons. Esteban, ci dica due parole anche sul presidente Rafael Correa.

«È arrivato al potere per cambiare le cose. Poi, in questi anni, sono sopraggiunte anche delle difficoltà. Soprattutto, secondo me, quella di non saper dialogare. Inoltre, trovo che quando presenta le sue proposte lo fa sempre con un tono piuttosto aggressivo. Non penso sia una buona cosa per un governante che deve trasmettere speranza. Con lui ci sono molte cose che sono migliorate (le strutture, per esempio), ma altre situazioni che sono peggiorate. Io credo che abbiamo più cose ma che, in generale, abbiamo meno libertà».

Intende libertà d’espressione?

«Libertà in generale. D’altra parte, questo è l’anno della misericordia. Tutti ne abbiamo bisogno».

Paolo Moiola