Di pacchie e di abbagli


Negli ultimi mesi il dibattito su migrazione, cooperazione e sfruttamento dell’Africa si è ingarbugliato su frasi a effetto e invettive un tanto al chilo sul neocolonialismo. A farne le spese è la chiarezza su temi che, già complessi di loro, di tutto hanno bisogno meno che di essere resi più fumosi.

«Se riapri i porti tornano i morti». Così il vicepresidente del Consiglio e ministro dell’Interno Matteo Salvini commentava lo scorso 19 gennaio in una diretta Facebook il naufragio di un gommone a 45 miglia da Tripoli e la morte di 117 su 120 dei suoi passeggeri. «Cuori aperti per chi scappa davvero dalla guerra», aggiungeva poi nello stesso video, «ma porti chiusi per Ong, trafficanti e tutti gli altri», precisando di tenere «a che in Italia si entri chiedendo per favore e dicendo grazie se si ottiene qualcosa» e rallegrandosi dei primi effetti visibili del decreto sicurezza: «Tanti fermi di richiedenti asilo che commettono reati e tante espulsioni». La soluzione del leader leghista al problema dell’immigrazione è presto detta: evitare le partenze direttamente nei paesi d’origine, dove «con Onlus e associazioni perbene, con Ong perbene e volontari perbene si distinguono coloro che scappano dalla guerra – che sono pochi – e coloro che non scappano da nessuna guerra e non hanno diritto a partire e ad arrivare». A questo, continuava Salvini nella diretta Facebook, si aggiunge il fatto che in questo mese di marzo il ministro dovrebbe tornare «in un paese africano che stiamo aiutando per mettere i primi mattoni di un’operazione di sviluppo, di cooperazione, che riguarda la scuola, riguarda la sanità, riguarda il lavoro per decine di migliaia di quei ragazzi».

Quanto a chi è già arrivato in Italia, Salvini aveva dichiarato all’inizio di giugno 2018 in un comizio a Vicenza che «gli immigrati regolari e perbene non hanno niente da temere in questo paese e i figli loro sono i figli miei. Per gli immigrati clandestini è finita la pacchia: preparatevi a fare le valigie»@. Pochi giorni dopo aveva ribadito il concetto chiarendo che «i 170mila finti profughi che in questo momento stanno guardando la televisione in albergo pagati dagli italiani è una pacchia che non ci possiamo più permettere»@.

© Daniele Biella

Pacchie petrolifere

A controbattere a quest’ultima accusa era stata nel giugno 2018 un’immigrata nigeriana, in una lettera pubblicata sul sito Raiawadunia curato dal giornalista Silvestro Montanaro.

«Vengo da un paese, la Nigeria, dove ben pochi fanno la pacchia e sono tutti amici vostri», rivendicava la donna, originaria di Port Harcourt, città industriale sul Delta del fiume Niger dove ha sede la maggior parte delle raffinerie nigeriane. «La regione in cui vivo,» si legge ancora nella lettera, «dovrebbe essere ricchissima, visto che siamo tra i maggiori produttori di petrolio al mondo. E invece no. Quel petrolio arricchisce poche famiglie di politici corrotti, riempie le vostre banche del frutto delle loro ruberie, mantiene in vita le vostre economie e le vostre aziende».

Paese scosso da diversi colpi di stato, deninciava la donna, la Nigeria ha visto andare al potere «personaggi obbedienti ai voleri delle grandi compagnie petrolifere del suo (di Salvini, ndr) mondo, anche del suo paese. Avete potuto, così, pagare un prezzo bassissimo per il tanto che portavate via. E quello che portavate via era la nostra vita».

La Nigeria è fra i primi 10 fornitori di petrolio dell’Italia e nel 2018 il greggio proveniente dal paese africano ha inciso sul totale per poco meno del 4%@.

Un anno fa si è aperto a Milano il processo «Scaroni e altri» per la presunta maxi tangente da un miliardo e 92 milioni di dollari che i vertici di Eni e Shell avrebbero pagato al governo nigeriano in cambio dei permessi per l’esplorazione del giacimento offshore Opl 245. I fondi sono transitati sul conto del governo di Abuja presso la banca JP Morgan a Londra, poi rientrati in Nigeria in due tranche versate su conti riconducibili alla Malabu Oil & Gas Ltd dell’ex ministro nigeriano del petrolio Dan Etete e ad Abubakar Aliyu, imprenditore petrolifero noto in Nigeria come Mr. Corruption e molto vicino a Goodluck Jonathan, che all’epoca dei fatti contestati era il presidente della repubblica di Nigeria. Lo scorso settembre per questa vicenda sono stati condannati in primo grado due mediatori, l’italiano Gianluca di Nardo e il nigeriano Obi Emeka, che hanno scelto di essere giudicati con rito abbreviato. Come riporta Luigi Ferrarella sul Corriere della Sera@, nelle motivazioni della sentenza di condanna depositate lo scorso dicembre, la giudice per l’udienza preliminare Giusy Barbara afferma che «Tutti gli elementi di prova inducono questo giudice ad affermare che il management delle società petrolifere Eni e Shell è stato pienamente a conoscenza del fatto che una parte dei 1,092 miliardi di dollari pagati sarebbe stata utilizzata per remunerare i pubblici ufficiali nigeriani, che avevano avuto un ruolo in questa vicenda e che come “squali” famelici ruotavano intorno alla preda».

Lo scorso novembre, inoltre, un rapporto commissionato a un centro di ricerca da un gruppo di Ong – le britanniche Global Witness e The Corner House e l’italiana Re:Common, da un esposto delle quali è scaturito il processo in corso – mostra come le perdite per lo stato nigeriano non si limitano ai denari malversati della presunta maxi tangente, ma aumenteranno di ulteriori 6 miliardi di dollari a causa delle mancate entrate per il fisco nigeriano. L’analisi rivela infatti che l’accordo, del 2011, fra il governo di Abuja e le due compagnie petrolifere per l’esplorazione del giacimento Opl 245 include condizioni fiscali molto generose nei confronti di queste ultime. «I più alti funzionari nel Dipartimento delle Risorse petrolifere della Nigeria», si legge nel rapporto, «avevano protestato contro l’accordo, definendolo “altamente svantaggioso per gli interessi del governo federale”. Queste preoccupazioni sono state ignorate o respinte dai ministri dell’epoca, che sono attualmente accusati dai pubblici ministeri di aver ricevuto tangenti provenienti dal miliardo di dollari pagato da Shell e Eni per l’accordo»@.

© Valentina Tamborra

I mattoni di un’operazione di sviluppo?

Salvini rivendicava nella sua diretta Facebook atti concreti a sostegno della cooperazione allo sviluppo. Lo scorso agosto aveva anche annunciato di avere in cantiere un progetto che prevede almeno un miliardo di spesa e di investimento per sostenere l’economia e il lavoro di centinaia di migliaia di persone in Africa, soprattutto puntando sull’agricoltura, sulla pesca e sul commercio»@.

Su questo punto, i dati dicono però altro: «Negli ultimi anni», segnalano le Ong del network Link2007, «l’aiuto pubblico allo sviluppo (Aps) dell’Italia ha avuto un andamento crescente, passando dallo 0,17% del Pil nel 2013 a quasi lo 0,30% (0,294%) nel 2017. Tale progressione sarebbe dovuta continuare fino a raggiungere la media europea dello 0,5% del Pil, come indica la legge 125/2014 e lo stesso governo aveva programmato nella nota di aggiornamento al Def di settembre. Invece la legge di Bilancio inverte tale progressione fissando per il prossimo triennio un andamento decrescente: 0,289% nel 2019 e 0,262% per i due anni successivi»@.

E allora i francesi?

Noi i cattivi? C’è chi fa peggio. Questa sembra essere la logica di fondo con cui diversi esponenti politici, anche dell’area di governo, hanno tentato di recente di sollevare l’Italia dalle proprie responsabilità in fatto di migrazione e cooperazione.

Lo scorso gennaio sia Alessandro di Battista (M5S) che Giorgia Meloni (Fratelli d’Italia) in due differenti trasmissioni televisive si sono lanciati in una teatrale e approssimativa invettiva sul franco Cfa. Si tratta in realtà di due monete distinte utilizzate in due gruppi di paesi dell’Africa centrale e di quella occidentale. Due monete che hanno lo stesso nome e lo stesso tasso di cambio fisso nei confronti dell’euro, pur non essendo interscambiabili. Monete eredità della dominazione coloniale francese. Cfa, infatti, stava per Colonies Fraçaises d’Afrique (colonie francesi d’Africa) e, dopo le indipendenze dei paesi africani, l’acronimo è rimasto lo stesso ma significa ora Communauté financière africaine (comunità finanziaria africana).

È attraverso questa moneta, hanno sostenuto entrambi i politici italiani, che la Francia controlla le risorse e le economie di quei paesi e li priva della sovranità monetaria@ @.

In particolare, ha detto Di Battista, i 14 paesi africani che utilizzano il franco Cfa «per mantenere il tasso fisso prima con il franco francese e oggi con l’euro sono costretti a versare circa il 50% dei loro denari in un conto corrente gestito dal Tesoro francese».

Non è il Cfa il problema

© Marco Bello

Le precisazioni e le smentite alle parole dei due politici non si sono fatte attendere. In particolare, quella proposta da Mariasole Lisciandro sul sito lavoce.info sottolinea come i paesi dell’area Cfa versino alla Francia la metà delle loro riserve in valuta straniera (e non «la metà dei loro denari»), per un ammontare totale di 10 miliardi di euro@.

Inoltre, Di Battista e Meloni non hanno fatto una grande rivelazione, anzi, sono loro ad essere in ritardo visto che il dibattito sulla questa valuta africana è in corso da decenni. Chi lo critica sostiene che il tasso fisso danneggia le esportazioni dei paesi africani che lo usano, perché i prodotti esportabili sono troppo costosi per essere appetibili e che, viceversa, rende conveniente alle multinazionali francesi (ed europee) investire in quella zona potendo contare sulla stabilità del tasso di cambio. Chi invece è a favore del franco Cfa sostiene che ha garantito una maggior stabilità economica e tenuto sotto controllo l’inflazione (che nell’area è circa al 2%).

Ancora, diversi osservatori hanno fatto notare che la proporzione dei migranti provenienti dall’area Cfa è bassa: «Nell’elenco dei paesi da cui sono arrivati i migranti in Italia, diffuso dal ministero dell’Interno e aggiornato a dicembre 2018», scrive David Caretta su Il Foglio, «il primo paese che adotta il franco Cfa è la Costa d’Avorio, ottavo in lista, da cui sono arrivate 1.064 persone su 23.370»@.

E anche a voler prendere, invece degli arrivi dell’anno scorso, la popolazione straniera non comunitaria residente in Italia, le persone provenienti dalle due zone sono in totale 202mila su 3,7 milioni: il 5,2%. Un quinto ha meno di 17 anni@.

Bisogna infine ricordare che l’adesione alla valuta è volontaria – e alcuni paesi come la Mauritania e la Guinea Conakry ne sono usciti – e che il presidente francese Emmanuel Macron ha dichiarato nel novembre 2017 a Ouagadougou (Burkina Faso) che del franco Cfa «la Francia non è la padrona, ne è il garante. Questo significa che è prima di tutto una scelta degli stati membri della zona Cfa (…).
Il presidente Kaboré [capo di stato del Burkina] decide domani: “non sto più nella zona franco”? Non ci sta più»@.

Non c’è dubbio che un conto sono le dichiarazioni pubbliche di Macron e un altro i reali rapporti di forza economici, il ruolo degli interessi in Africa di grandi gruppi come Bolloré o Bouygues e i legami con Parigi di tanti membri delle élite dell’Africa francofona, spesso formati in università francesi e vicini alla Francia anche per via di rapporti familiari, come è il caso del presidente ivoriano Alassane Ouattara, la cui moglie è la donna d’affari di origine francese Dominique Claudine Nouvian.

Ma è proprio questo il punto: a voler fare le pulci alla Francia per la sua condotta non sempre esemplare e i suoi interessi in Africa si ha davvero l’imbarazzo della scelta, a cominciare dalla a dir poco fallimentare Opération Turquoise, operazione militare dispiegata durante il genocidio in Ruanda, per continuare con l’Opération Licorne e il ruolo francese – da molti giudicato poco neutrale -nella guerra civile in Costa d’Avorio. Criticare Parigi per il franco Cfa, per di più con argomentazioni claudicanti, abbassa in modo imbarazzante il livello del dibattito. Come si dice spesso in questi casi, sono questioni complesse. E non si spiegano (né si capiscono) nei 280 caratteri di un tweet o in un minuto e mezzo di talk show.

Chiara Giovetti

© Simone Perolari


Chi è un rifugiato

 

Sono anni ormai che si parla di migrazione, di profughi e di asilo, eppure i vertici del governo e molti degli esponenti politici italiani continuano a parlare di «veri» rifugiati, che sarebbero solo quelli che scappano dalla guerra, e «finti» rifugiati o migranti economici, che sarebbero più o meno tutti gli altri. Corollario: se vieni dalla Siria hai diritto, se vieni dalla Nigeria no, salvo zone in cui c’è Boko Haram.

Non è così.

  • Un rifugiato scappa da una persecuzione, non dalla guerra, ed è chi «temendo a ragione di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o per le sue opinioni politiche, si trova fuori del paese di cui è cittadino e non può o non vuole, a causa di questo timore, avvalersi della protezione di questo paese» (Convenzione di Ginevra, articolo 1, lettera a @).
  • La protezione sussidiaria è invece regolamentata da due direttive europee (2004/83/CE e 2011/95/UE) e garantita a chi «non possiede i requisiti per essere riconosciuto come rifugiato ma nei cui confronti sussistono fondati motivi di ritenere che, se ritornasse nel paese di origine, o, nel caso di un apolide, se ritornasse nel paese nel quale aveva precedentemente la dimora abituale, correrebbe un rischio effettivo di subire un grave danno».
  • Sono considerati danni gravi: la condanna a morte o all’esecuzione, la tortura o altra forma di pena o trattamento inumano o degradante o la minaccia grave e individuale alla vita o alla persona di un civile derivante dalla violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale.
  • Infine c’è la protezione umanitaria: può essere rilasciata per «seri motivi di carattere umanitario o risultanti da obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano», anche in caso di diniego alla richiesta di asilo. Ma con il decreto sicurezza la protezione umanitaria è stata eliminata ed è stato introdotto un permesso di soggiorno per «casi speciali».

Chi.Gio.




Penisola Arabica:

(Cristiani) Come ospiti tollerati (ma speranzosi)

Nella veste di responsabile del vicariato apostolico dell’Arabia
meridionale, monsignor Paul Hinder conosce le difficoltà di vivere in paesi
dove l’islam è religione di stato e la sharia fonte del diritto. Emirati Arabi,
Oman e Yemen, quest’ultimo devastato dalla guerra civile, sono i paesi dove il
vescovo svizzero si muove. Paesi nei quali l’Arabia Saudita, nazione egemone dell’area,
non fa mancare la propria influenza. Con i soldi o con le armi.

I slam, sharia, petrolio, immigrati. Sono alcuni degli
elementi che hanno in comune i sette paesi che compongono la penisola arabica.
Tutti a parte lo Yemen, che non ha né petrolio né immigrati e che, per di più,
da oltre quattro anni è devastato da una cruenta quanto misconosciuta guerra
civile.

In quest’area domina l’Arabia Saudita, monarchia oscura (e
oscurantista) verso la quale quasi tutti i paesi – in primis, gli Stati Uniti di
Donald Trump – mostrano una deferenza spiegabile soltanto con le enormi
ricchezze di cui essa può disporre. È Riad che guida la coalizione che combatte
in Yemen. È Riad che ha imposto un duro embargo contro il riottoso (ma
altrettanto ricco) Qatar. È Riad che ha fatto assassinare il giornalista
dissidente Jamal Khashoggi. È Riad che, dietro le quinte, trama nella guerra di
Siria e per l’isolamento dell’Iran sciita.
Nella penisola arabica, dal 2011 opera monsignor Paul Hinder, vescovo svizzero
di 76 anni. Il suo ruolo è quello di vicario apostolico dell’Arabia
meridionale, che comprende Emirati Arabi, Oman e Yemen. Lo abbiamo incontrato
prima dell’annuncio della visita di papa Francesco negli Emirati (3-5 febbraio
2019).

© Paolo Moiola

Convivere con la sharia

Monsignor Hinder, in quali paesi della penisola arabica lei sta operando?

«Oggi
sono vicario apostolico degli Emirati Arabi Uniti (nella cui capitale, Abu
Dhabi, risiedo), del sultanato di Oman e della repubblica dello Yemen. Dal 2005
al 2011 ero vicario anche di Arabia Saudita, Bahrein e Qatar. Poi la Santa Sede
ha fatto una riorganizzazione territoriale di tutta la penisola per avere una
suddivisione più ragionevole».

Come si vive in paesi dove la sharia è la principale fonte del diritto?

«Tutto
dipende da come essa è applicata nella pratica. È chiaro che ci sono vari modi
di interpretarla e applicarla. La sharia non è soltanto tagliare le mani o la
testa. Anche se capita ancora. Per esempio, in Arabia Saudita».

Non si tratta quindi di una esagerazione giornalistica?

«Non
lo è, ma questo non significa che sia l’atteggiamento generale. La sharia è
tutto quello che noi consideriamo diritto civile, quello che regola le cose
della famiglia, della proprietà, eccetera. Anche io sono andato alla “Corte
della sharia” per delle firme. Non è una cosa di cui avere paura: è il modo per
regolare i rapporti in una società musulmana. Chiaro che, per noi cristiani, ci
sono dei limiti nella libertà religiosa che, in questi paesi, non è
riconosciuta come una libertà propria della persona. E poi la libertà del
culto, di svolgere cioè le liturgie, è limitata. Come in Arabia Saudita dove
non esistono chiese, che invece esistono in tutti gli altri stati».

Intende dire che, a tutt’oggi, in?Arabia Saudita non esistono strutture
adibite a chiese?

«No,
anche dopo la visita del cardinale maronita (nel novembre 2017 il cardinale
Bechara Rai, patriarca dei maroniti, ha incontrato re Salman a Riad, ndr). Forse un domani, ma personalmente
nutro ancora dubbi. Ci sono – va precisato – delle comunità, formalmente rette
dal vescovo incaricato. Informalmente esistevano anche quando ero ancora
vescovo io. Ci sono messe celebrate in case private in modo discreto. Questo è
tollerato in quanto non disturba altri».

Oman, Emirati Arabi, Yemen sono paesi in cui esistono le chiese intese come
costruzioni?

«Esistono
ma per esempio senza campanili, senza croci esterne visibili dalla strada. Poi
all’interno sono come le chiese di qui, anche se non della stessa qualità
estetica e culturale. La chiesa di St. Mary di Dubai ha posto per 2mila fedeli
ed è ancora troppo piccola. Quella in Qatar, che avevo costruito io quando ero
vescovo, può ospitare 2.700 persone sedute. Nello Yemen, a causa della guerra,
le chiese sono in gran parte o parzialmente distrutte. In questo momento
inoltre non ci sono sacerdoti, e comunque non sono posti sicuri per i fedeli.
Quindi, la vita comunitaria dei pochi cristiani che stanno nello Yemen è
sospesa. C’è una comunità di suore di Madre Teresa che continua a lavorare, a
dare testimonianza a Sanaa in un modo veramente ammirevole».

Monsignore lei ha accennato allo Yemen, un paese dove è in atto una guerra
molto cruenta, anche se ignorata dai media internazionali. Dal suo punto di
vista, come può descrivere la situazione del paese?
Il presidente dello Yemen © UN Photo / Cia Pak

«Anch’io
non so tutto perché è molto difficile avere delle informazioni affidabili di
quella zona. Ovviamente la gente al telefono non parla e anche quelli che
vivono nel paese non conoscono bene la realtà. Da una parte c’è la guerra e
dall’altra una pace relativa o almeno senza guerra. Dobbiamo considerare che lo
Yemen è sempre stato un paese in conflitto in questi ultimi decenni. Ricordo
che se ne parlava già quando io ero ragazzo. Il conflitto attuale si è
complicato dopo l’intervento del 2015 da parte dell’Arabia Saudita e dei suoi
alleati. Un intervento che ha esteso la guerra e che ha fatto cadere sulle
spalle della popolazione yemenita questa contrapposizione con l’Iran, anche se
quest’ultimo non è coinvolto nello stesso modo, cioè in maniera diretta.

Cosa
fare? Io credo che il problema basilare, a parte i conflitti interni, manca la
capacità di arrivare a un compromesso: nella cultura del mondo arabo, o vinci o
hai perso. Questa mentalità impedisce molto spesso di incontrarsi a metà strada
e così si continua pensando di avere la meglio. Nel caso dello Yemen penso che
nessuna delle parti arriverà alla vittoria. Credo che sia necessaria una
soluzione che si elabori a livello di Nazioni Unite, se i grandi poteri vogliono.
Il problema è che finora è mancata la volontà. Lasciano proseguire la guerra.
Mancano le informazioni. I belligeranti non vogliono sia conosciuto troppo bene
ciò che capita nel paese. A questo scopo non è consentita l’entrata dei
giornalisti. Anche se sappiamo che oggi circa 5 milioni di bambini sono a
rischio di morte per fame. Se capitasse che il porto di Al-Hudaydah (il
principale porto sul Mar Rosso, ndr)
dovesse essere chiuso, questa sarebbe la conseguenza. Poi non possiamo
dimenticare le malattie. Le strutture sanitarie sono in parte distrutte. Ci
sono rifugiati all’interno del paese, mentre sono relativamente pochi gli
yemeniti che riescono a espatriare. Una “fortuna” per l’Europa che di certo non
vuole questa gente».

Parliamo di una guerra che riguarda milioni di persone.

«Certo.
Lo Yemen non è un piccolo paese: conta circa gli stessi abitanti dell’Arabia
Saudita (circa 28 milioni, ndr) che però è molto più grande come superficie».

Monsignore, come mai si parla tantissimo della guerra in Siria e, al
contrario, si parla pochissimo di quella in Yemen? C’è una ragione particolare?

«Particolare
non lo so. Di sicuro la Siria è culturalmente più vicina a noi. Molti l’hanno
conosciuta come turisti. Anch’io, quando ero consigliere generale dei
cappuccini, ho frequentato molto la Siria. I poteri inoltre vedono la Siria
come una zona di conflitto più importante. Anche se, a lunga scadenza, lo Yemen
non sarà da meno».

(Photo by Bandar AL-JALOUD / Saudi Royal Palace / AFP)
Monsignore, torniamo sull’Arabia Saudita, il paese più potente della
regione. Ci può dire qualcosa sulla situazione attuale di quel paese? Le
aperture democratiche di cui si è parlato sono reali oppure sono soltanto un
maquillage pensato dai reali?

«Democratiche
non è il termine giusto, perché questa è una monarchia che prende le decisioni
in modo assoluto. Ora stanno avvenendo dei cambiamenti, ma – questo è un mio
giudizio – sono per la facciata, anche per dare l’impressione, a livello
internazionale, di una relativa apertura. Il fatto che le donne possano guidare
l’auto è stato considerato in Occidente come un miracolo. E lo è, ma non cambia
la vita della società. Ci sono delle donne saudite che lottano per una società
più aperta che sono messe in prigione. Una cosa che non possiamo dimenticare è
che c’è un matrimonio tra il wahhabismo (che è l’interpretazione più severa
dell’islam) e la famiglia Saud. È quasi impossibile che arrivino a un divorzio
altrimenti l’Arabia Saudita, nelle forme attuali, avrà grandi problemi. Per
questo non penso che il principe ereditario Mohammad bin Salman, che sembra
essere l’uomo forte, possa andare avanti troppo veloce. Vedremo cosa capiterà.
Piccoli cambiamenti ci sono, che riguardano anche i cristiani. Il potere della
polizia religiosa è stato limitato. Non sono più frequenti le sanzioni che
c’erano prima. Piccoli passi che rendono un po’ meno problematica la vita dei
cristiani. Sarebbe però sbagliato che l’Occidente pensasse che i cambiamenti
avverranno presto. Come accaduto ai tempi della primavera araba quando si pensò
che, nel giro di qualche mese, ci sarebbe stata la democrazia per tutti. Non è
possibile. Diamo il tempo a queste realtà della penisola arabica (come di altre
parti del mondo musulmano) di sviluppare a modo loro il sistema politico».

Monarchie inamovibili

La benevolenza degli Stati Uniti di Trump verso l’Arabia Saudita deriva da
questioni di business, da questioni geopolitiche, o da che altro secondo lei?

«Alla radice secondo me ci sono due cose
principali, una è sicuramente l’economia. Chiaro che essendo il petrolio sotto
il suolo dell’Arabia Saudita (e degli altri stati vicini), c’è un interesse
economico. D’altra parte, gli Stati Uniti hanno sempre visto nell’Arabia
Saudita un fattore di stabilità, non guardando se il regime garantisce o meno i
diritti umani. Quando ci sono di mezzo politica e business, gli stati
occidentali non guardano molto alla morale. Non voglio dare un giudizio ma fare
una constatazione che vale non soltanto per gli?Stati Uniti ma anche per i
paesi europei».

A suo personale giudizio, in questi paesi, il concetto di democrazia
nell’accezione che se ne dà in Occidente potrà mai esistere?

«Non
direi mai, ma sicuramente non in tempo breve. In questi paesi tutta la
struttura, anche tribale, è un impedimento. Senza dimenticare che queste
monarchie non vogliono perdere il potere. Ci saranno dei passi verso elementi
democratici della Shura, il parlamento islamico, che comunque non rappresenta
tutta la popolazione (i migranti ad esempio sono esclusi). Io mi aspetto una
condivisione più grande da parte della popolazione indigena e cittadina, questo
sì. Non a breve comunque, e come lo faranno non lo so. Non sarà una democrazia
come la conosciamo noi. C’è poi un altro elemento da non dimenticare: loro
guardano quello che succede negli Stati Uniti e in Europa o in altri posti e
non sono necessariamente entusiasti di ripetere quello che ci sta capitando.
Forse anche noi in Occidente dobbiamo riscoprire cosa vuol dire essere
democratici con responsabilità».

Questo discorso che ha fatto vale per tutti i paesi dell’area arabica o
soprattutto per l’Arabia Saudita?

«Direi
per tutti gli stati, ricordando che lo Yemen formalmente è una repubblica e non
una monarchia. Però abbiamo visto che non funziona se non rispettano certi
elementi della tradizione. Dovrebbero trovare il modo di combinare tradizioni
antiche con una modernizzazione nella condivisione del potere».

© Werner Bayer

Prove di dialogo con l’islam

Monsignore lei crede che con l’islam sia possibile dialogare?

«Penso di sì e comunque non c’è altra scelta. Quando si
arriva ai contenuti delle nostre fedi diverse sicuramente si hanno dei problemi
enormi da superare, perché un dialogo comporta le competenze che io per esempio
non ho, dato che non sono esperto in islamologia. Sono capace di fare un
dialogo umano perché vivo in questa situazione, ho delle persone che conosco
che possono discutere su questo, ma non è un approfondimento delle posizioni
ideologiche che posso fare. Ci sono dei tentativi. Prima di tutto ci vuole la
conoscenza propria e dell’altro.?E poi trovare dei campi dove andare avanti
insieme, come la pacificazione in questi paesi che è una preoccupazione di
tutti. Ci saranno possibilità sul campo caritativo dove c’è una certa
collaborazione e dialogo. Poi c’è la questione di avere rispetto per l’altro,
rispettare l’altra religione nella sua qualità malgrado le debolezze che noi
notiamo o pensiamo di notare. Sono 15 anni che sono qui e il vedere come
vivono, come si forma la vita, mi ha fatto crescere il rispetto verso gli
altri, e spero sia viceversa, quando loro vedono come noi viviamo. Ciò può
aiutare a superare pregiudizi e anche elementi di conflittualità. Quando io
conosco qualcuno nella sua diversità e lo rispetto, c’è meno rischio che ci
attacchiamo fisicamente come è successo nel passato».

Sono migranti (non immigrati)

© Andreas Gebert / DPA / dpa Picture-Alliance / AFP

Risponde al vero che la maggioranza dei fedeli cattolici
proviene dalle larghissime fila degli immigrati in questi paesi?

«Dobbiamo essere chiari nella terminologia:
non sono immigrati nel senso stretto, ma migranti. Ci hanno detto questo gli
stessi governi. Non siamo immigrati perché non possiamo rimanere e non possiamo
diventare cittadini. Non esiste possibilità di naturalizzazione, neppure per
quelli che parlano arabo. Pertanto, si parla di migranti che stanno in questi
paesi per un tempo limitato. Tra essi ci sono alcuni di classe media che
potranno rimanere praticamente per la vita, ma che non saranno naturalizzati.
Possono restare se sono in grado di pagarsi il soggiorno che è concesso per 2 o
3 anni. Se poi qualcuno perde il lavoro, deve andarsene. Anche la Chiesa deve
essere molto cauta perché non può promettere ai propri preti di farli restare
per tutta la vita. Essere migranti rimane la nostra sorte. Come ho detto tante
volte, siamo “una Chiesa di migranti per migranti”. Dal vescovo, fino
all’ultimo arrivato a Dubai o ad Abu Dhabi».

Migranti, dunque. Ma da dove provengono?

«Per
quanto riguarda gli Emirati, vengono soprattutto dalle Filippine e dall’India,
ma anche da altri paesi arabi (Siria, Libano, Palestina) e dall’Africa, sempre
di più. E poi dalla Corea e dall’America Latina. Insomma, dal mondo intero.
Nella nostra chiesa abbiamo più di 100 nazionalità diverse».

Queste persone che tipo di professionalità hanno?

«C’è
un po’ di tutto, ma in particolare si tratta di lavoratori del settore delle
costruzioni. Nel 2020 a Dubai ci sarà l’esposizione mondiale, nel 2022 nel
Qatar il campionato mondiale di calcio: c’è e ci sarà bisogno di tanti operai
per due progetti mastodontici. Vivono in zone residenziali a parte. La mattina
sono trasportati con il bus al lavoro per tornare alla sera. Questi non possono
partecipare pienamente alla vita parrocchiale anche se facciamo degli sforzi
per aiutarli un po’. Per esempio, organizzando il venerdì il trasporto alla
chiesa. Poi ci sono le impiegate domestiche che sono legalmente più deboli e
meno protette, anche se dipende molto dal datore di lavoro. Ci sono alcuni che
portano i loro impiegati alla messa, e poi aspettano per riportarli indietro.
Altri invece le trattano come vere e proprie schiave».

Per esempio, un lavoratore dell’edilizia ha uno stipendio adeguato?

«Cosa vuol dire
adeguato? Anche qui ci sono leggi sul salario minimo. Sicuramente rispetto a
quello che guadagnano o potrebbero guadagnare a casa loro è molto di più. Il
grande problema è cosa fare quando non sono pagati o lo sono ma in ritardo di
mesi. Qui iniziano i problemi e un giro legale. Un governo dovrebbe controllare
di più affinché queste cose non capitino. In questi ultimi 15 anni hanno fatto
dei grandi progressi, ma questo rimane un problema serio. Può così accadere che
alcuni partano poveri e ritornino ancora più poveri. Altri che hanno visto la
loro situazione sbloccarsi quando erano già tornati al loro paese lasciando
indietro gli stipendi che per legge gli spettavano. Alle nazioni che esportano
manodopera nei paesi del golfo dovremmo dire: non aspettatevi di arrivare in un
paradiso. Molto spesso è una vita dura o durissima, anche quando le cose vanno
normalmente. Qui si guadagna di più ma questo ha un prezzo umano. Molte
famiglie si sfasciano. Per questo cerchiamo di aiutare i nostri fedeli con la
pastorale».

Se io sono un migrante, in questi paesi ho diritto all’istruzione, alla
sanità, insomma a usufruire dei servizi pubblici?

«Dipende dove sono.
Ad esempio, ad Abu Dhabi l’assicurazione sanitaria è obbligatoria. Quindi, un
datore di lavoro non può fare un contratto di lavoro senza. Anche noi come
Chiesa siamo obbligati. L’accesso alle strutture sanitarie c’è, anche se alcune
strutture sono soltanto per i locali. Spesso gli indiani preferiscono andare a
casa propria dove la sanità è meno cara ed è buona. Quanto alla scuola, è
essenzialmente privata ed è un problema per le famiglie meno abbienti a causa
delle rette. Come Vicariato abbiamo scuole aperte a tutti (anche ai musulmani)
e a prezzi accessibili. Questa è la nostra missione, perché per i ricchi ci
sono scuole sufficienti».

Monsignore, dopo quasi 15 anni nella Penisola Arabica, come giudica questa
sua esperienza?

«Io
sono andato in?Arabia con una certa reticenza. Avevo paura ad accettare la
nomina. Una volta arrivato mi sono dato completamente a questo compito,
nonostante tutti i problemi. I fedeli mi hanno dato gioia, vedendo una Chiesa
non perfetta ma molto attiva, impegnata, motivata, che mi ha aiutato ad
approfondire me stesso e la mia fede. Mi sento felice qui anche se è un mondo
diverso che mi rimarrà sempre un po’ straniero, ma ho imparato molto da questa
cultura e non vorrei mi mancasse. Forse vent’anni fa avrei risposto
diversamente a una simile domanda».

Paolo Moiola

La guerra nello Yemen

(Photo by – / AFP)

Un’arma chiamata indifferenza

Ci sono paesi dove si combattono guerre evidenti e cruente eppure
dimenticate da tutti (comunità internazionale, media, opinione pubblica). Lo
Yemen è uno di essi.

Sono sempre esistite le cosiddette «guerre
dimenticate», conflitti evidenti e cruenti ma che, per una serie di ragioni,
non arrivano o arrivano sporadicamente e parzialmente all’attenzione
dell’opinione pubblica mondiale. In questa situazione l’indifferenza diventa
un’arma micidiale. La guerra civile nello Yemen, paese tra i più poveri del
Medio Oriente, rientra a pieno titolo nella categoria. Una guerra civile
iniziata sulla fine del 2014 quando gli Huthi – un gruppo islamico sciita (di
una variante nota come zaydismo) – prendono gran parte della
capitale Sanaa. Nel marzo del 2015 l’Arabia Saudita, a capo di una coalizione
di 10 paesi (9 dopo il ritiro del Qatar), interviene nel conflitto a fianco del
deposto presidente Hadi, nel frattempo fuggito. Il paese è smembrato: una parte
(quella ad Ovest) in mano agli Huthi, una parte nelle mani della coalizione
saudita e una parte divisa tra al-Qaeda e Stato islamico. A dicembre 2018 le
Nazioni Unite sono finalmente riuscite ad aprire colloqui di pace a Stoccolma.

A oggi la guerra avrebbe già fatto oltre 12mila morti e
milioni di profughi, come milioni sarebbero le persone a rischio carestia. In
tutto questo s’inserisce anche una storia nella storia che riguarda l’Italia e
in generale l’Unione europea. Secondo il New
York Times
, la Rheinmetall Defence,
una industria d’armi di passaporto tedesco ma con stabilimento in Italia (a
Domusnovas, in Sardegna), è tra i fornitori di bombe dell’Arabia Saudita. La
cosa sarebbe però vietata dalla legge italiana n. 185 del 1990 che vieta
l’esportazione di armi verso paesi in conflitto. Senza dire che, nel settembre
2013, l’Italia ha sottoscritto il Trattato internazionale sul commercio delle armi
(Arms Trade Treaty, Att) che limita
fortemente la compravendita di armi. Nel frattempo, lo scorso 25 ottobre 2018
l’Europarlamento ha approvato una risoluzione che chiede agli stati membri di
imporre un embargo sulla fornitura di armi a Riad, dopo l’omicidio del
giornalista Jamal Khashoggi (un critico dell’intervento saudita in Yemen). La
risoluzione comunitaria non è però vincolante, probabilmente perché Francia e
soprattutto la Gran Bretagna sono importanti fornitori d’armi di Riad. Proprio
come gli Stati Uniti, di gran lunga in testa nelle vendite all’Arabia Saudita (fonte: Sipri).

Nessun conflitto meriterebbe
indifferenza. Visto il coinvolgimento di molti paesi occidentali, la guerra
civile in Yemen la merita ancora meno. 

Paolo Moiola

L’assassinio del giornalista saudita

© al-Jazeera

L’affaire Jamal Khashoggi

Forse il coinvolgimento del principe ereditario non sarà mai provato.
Tuttavia, l’assassinio del dissidente ha messo in grande imbarazzo Riad. E il
presidente Trump.

Il 2 ottobre 2018 il giornalista
saudita Jamal Khashoggi entra nel consolato del suo paese a Istanbul per
sbrigare una questione burocratica relativa al matrimonio con la sua fidanzata
turca. Da quel momento si perdono le sue tracce. Qualche giorno dopo la sua
scomparsa si scopre che è stato ucciso da funzionari sauditi e – pare –
smembrato. Tutto sembra indicare Mohammed bin Salman (Mbs) come mandante
dell’omicidio.

Nato a Medina nel 1958, Khashoggi
era un giornalista moderato ma critico verso il proprio paese e in particolare
verso il principe ereditario Mbs, da molti (frettolosamente) eletto al ruolo di
riformatore della monarchia saudita. Costretto al silenzio, nel 2017 Khashoggi
aveva deciso di trasferirsi negli Stati Uniti, dove collaborava come
opinionista al Washington Post.

Qualsiasi sarà l’evoluzione della
vicenda (le accuse della Turchia, della Cia, del senato Usa, ecc.) per il
principe ereditario saudita non ci dovrebbero essere conseguenze. Lo si è visto
anche al summit del G20 di Buenos Aires, all’inizio di dicembre, quando Mbs?ha
stretto mani e dispensato sorrisi. L’assassinio di Khashoggi non potrà certo
fermare l’ascesa del giovane e ambizioso rampollo di re Salman.

Paolo Moiola

© al-Jazeera

I sette paesi islamici

La penisola dell’Arabia Saudita

Nella penisola arabica la Chiesa cattolica è presente con due Vicariati,
uno retto da mons. Camillo Ballin e uno da mons. Paul Hinder.

Vicariato Apostolico dell’Arabia Settentrionale:

Vicario:
 mons. Camillo Ballin

? Arabia Saudita:

monarchia assoluta, dal 1926 governata dalla famiglia al-Saud,
il paese più importante della penisola arabica è al centro dell’interesse
mondiale per le ricchezze petrolifere, le ambiguità sul terrorismo islamista e
l’alleanza con gli Stati Uniti. Da giugno 2017 è attraversata da faide
familiari a causa della nomina del giovane Muhammad bin Salman (Mbs) come
successore di re Salman. Attualmente capeggia la rivolta contro il Qatar e la
guerra in Yemen.

? Kuwait:

è una monarchia della famiglia al-Sabah; la maggioranza
della sua popolazione è immigrata. 

? Bahrein:

il piccolo arcipelago è una monarchia retta dalla famiglia
sunnita al-Khalifa. Da 2011 è teatro di proteste della maggioranza sciita, il
cui leader, lo sceicco Ali Salman, è in prigione, condannato a vita nel
novembre 2018.

? Qatar:

monarchia ereditaria della famiglia al-Thani, è una penisola
vasta quanto metà della Lombardia, paese ricchissimo e molto attivo sulla scena
internazionale (anche con il network mediatico al-Jazeera), dal giugno 2017
subisce l’embargo diplomatico ed economico da parte di Arabia Saudita, Emirati
Arabi Uniti, Bahrein ed Egitto. Il 3 dicembre 2018 ha annunciato l’uscita
dall’Opec, l’Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio di cui era membro
dal 1961.

Vicariato Apostolico dell’Arabia Meridionale:

Vicario:
mons. Paul Hinder

? Emirati Arabi:

è uno stato federale composto da 7
emirati; i 2 più importanti sono Abu Dhabi e Dubai.

? Oman:

con meno risorse petrolifere degli
altri (Yemen escluso) il sultanato dell’Oman è il più tranquillo tra i paesi
della penisola arabica; il sultano Qabus è al potere dal 1970.

? Yemen:

il paese più povero della regione
è in guerra dal settembre del 2014; si fronteggiano i ribelli conosciuti come
Huthi (musulmani sciiti legati all’Iran) e una coalizione islamista guidata
dall’Arabia Saudita.




Sud Sudan: L’ennesimo processo di pace per il conflitto più cruento


È la guerra civile più efferata degli ultimi tempi. Ma anche la più dimenticata. In 5 anni ha ucciso tra le 50 e le 300mila persone, ha prodotto oltre 3,5 milioni di sfollati e 5 milioni a rischio fame. È stato fatto uso massiccio dello stupro e di violenze anche su minori, disabili, anziani. Da alcuni mesi una mediazione internazionale sta cercando di portare le tante fazioni in conflitto alla firma di una pace duratura. Riuscirà il petrolio dove il buonsenso ha fallito?

È il 5 agosto 2018. A Khartum, capitale del Sudan, Omar al Bashir, controverso presidente (accusato dalla Corte penale internazionale di crimini contro l’umanità) e mediatore, ottiene la firma di un accordo di pace «provvisorio» tra le fazioni in guerra (civile) nel Sud Sudan. Questo è lo stato più giovane del mondo, si è diviso dal Nord il 9 luglio del 2011. «È come se il loro ex presidente fosse riuscito a imporsi per farli firmare», dice qualcuno. Presenti alla firma pure i presidenti di Kenya, Uganda e Gibuti, oltre che diversi corpi diplomatici. Salva Kiir Mayardit (presidente del Sud Sudan) e il suo acerrimo nemico Riek Machar (primo tra i ribelli), insieme a tutte le altre fazioni in conflitto in Sud Sudan, firmano. Ma il processo di pace non inizia e non finisce qui. Il 27 giugno è stata firmata la «Dichiarazione di Khartum», che doveva essere un cessate il fuoco tra tutte le parti, mentre il 25 luglio è stato siglato un accordo preliminare.

I presidenti lasciano la capitale del Sudan mentre i tecnici mettono a punto l’accordo reale e definitivo. Molti sono gli aspetti da definire sulla sua applicazione.

Ma ora cosa succederà? Riuscirà il più giovane paese dell’Africa, sconvolto da cinque anni di guerra cruenta a pacificarsi? A guardare il video – divenuto virale – che mostra Machar porgere la mano a Kiir e questo che abbassa la testa senza ricambiare il gesto, qualche dubbio ci assale.

A fine agosto arriva la notizia che Machar e i leader del Ssoa (South Sudan Opposition Alliance) non vogliono firmare l’accordo definitivo, che non prenderebbe in considerazione alcune loro richieste su divisione in stati, quote etniche del governo e meccanismi di modifica della Costituzione. Poi, nelmomento in cui scriviamo, Machar dichiara di voler firmare, perché confida che la mediazione sudanese sia garante delle loro rivendicazioni.

AFP PHOTO / SUMY SADURNI

Una storia breve

Dopo l’indipendenza dal Sudan, nel 2011, viene creato un governo in cui Kiir è presidente e Machar il suo vice. Subito però riaffiorano le antiche rivalità tra i Dinka, etnia maggioritaria (circa 4 milioni) tra i 64 gruppi etnici sudsudanesi (12,5-13 milioni in tutto), e Nuer la seconda etnia per dimensione (un milione). Nel 2013 il dinka Kiir accusa il nuer Machar di essere artefice di un complotto per rovesciarlo e scoppia la guerra tra le due principali fazioni, che poi si moltiplicheranno.

Nell’agosto 2015 le parti firmano un accordo simile a quello di oggi, che porta a un governo transitorio, in cui Machar è ancora vice presidente (si veda MC maggio 2017). Accordo poi fallito pochi mesi dopo, con Machar che fa una vera «chiamata alle armi» contro i Dinka al potere, chiedendo a tutti i sudsudanesi di combatterli. Operazione che non piace ai paesi della regione e alla comunità internazionale, che invece hanno interesse a stabilizzare il Sud Sudan.

Una poltrona per cinque

I dubbi sulla firma del 5 agosto restano, perché i nodi cruciali non sono stati risolti. I punti fondamentali dell’accordo sono i seguenti: Salva Kiir rimane presidente, mentre Riek Machar ridiventa vicepresidente. Ma ci sono già due vice, ovvero James Wani Igga (di etnia bari), che aveva sostituito lo stesso Machar nel 2013, e Taban Deng Gai, nuer, messo nel 2015 perché rappresentava l’opposizione, la quale però non l’ha mai riconosciuto. A questo punto Machar potrebbe rientrare come primo vicepresidente, mentre se ne aggiungerebbero altri due, in modo da accontentare tutte le fazioni. In particolare i Dinka legati alla famiglia di John Garang (il leader carismatico morto misteriosamente nel 2005), che si dissociano dalla gestione di Kiir di questi anni e i Silluk (si fa il nome di Lam Akol, già alto ufficiale dell’Spla, poi ministro del Sudan e quindi fondatore della fazione Splm – democratic change).

«Sono tutte persone molto speciali e difficili, con delle storie un po’ strane. Lo stesso Salva Kiir, che pure non è un santo, si chiede come farà mai a governare con questi cinque vice presidenti», confida un osservatore.

Si dovrebbe formare un governo di pre transizione che durerebbe in carica alcuni mesi, con lo scopo di creare un parlamento e un nuovo governo di transizione della durata di tre anni, nei quali i seggi e gli incarichi sarebbero contingentati per etnia. Si tratta di fatto di un accordo di condivisione del potere, che però non prevede meccanismi o programmi, ma solo divisione di posti.

Jason Patinkin/IRIN

I nodi sul tappeto

Uno dei principali punti controversi dell’accodo è quello della sicurezza, da garantire per tutti. Intimamente legato alla creazione di un esercito unico, come vorrebbe il governo. Oggi ci sono una moltitudine di eserciti e di gruppi armati, ognuno legato a una fazione o meglio a un leader. Lo stesso Spla (esercito governativo) è diviso al suo interno. Ma come integrare tutte queste milizie? Sarebbero tanti i militari da mandare a casa, in particolare ufficiali e generali.

Ogni gruppo si garantisce la sicurezza con il suo esercito. Ad esempio, Machar che da anni vive in esilio, per tornare a Juba in sicurezza dovrebbe portarsi il suo esercito, come già successo nel 2016, creando tensioni con l’esercito governativo.

L’altro punto è la suddivisione territoriale, che l’attuale governo vuole portare a 32 stati. Dai 10 stati suddivisi in 86 contee del 2011, si è passati nel 2015 a 28 stati teorici. L’operazione sembra fatta più che per organizzare lo stato, per garantire ulteriori posti di potere da suddividere tra le fazioni. Il problema è che il paese rischia di diventare ancora più ingovernabile.

«Ci sono situazioni molto diverse. È un paese al quale non riesci a dare un’identità». Ci racconta una cooperante che è in Sud Sudan da tre anni e ha avuto modo di viaggiare in diverse zone.

«Nel Nord gli stati Unity, Jonglei, Upper Nile, sono popolati da tribù nomadi, dedite alla pastorizia. Ci sono i problemi di furti di bestiame e delle inondazioni. Sono le zone più arretrate. Rispetto a Greater Equatoria (nel Sud, dove c’è la capitale Juba) c’è un abisso. Quest’ultimo è uno stato a sé. C’è molta instabilità, gruppi armati che non si sa a che fazione appartengono, tante imboscate sulle strade. Nonostante questo, la gente sta tornando dall’Uganda, dove nel 2017 sono fuggiti a milioni. È gente che sta cercando di stabilizzare la propria vita. Negli stati Norhtern e Western Bhar el Ghazal, Warap, Lakes, ci sono altre popolazioni, contadini. A Wau la gente esce dal campo di sfollati e va a coltivare, si fa i mattoni per ricostruire la casa. Poi la notte rientra a dormire nel campo.

Si vedono almeno tre paesi diversi con mentalità e approcci alla vita propri».

AFP PHOTO / ASHRAF SHAZLY

Pressioni internazionali

Gli osservatori sono concordi nel giudicare che le pressioni internazionali, in particolare dei paesi dell’Igad (Autorità intergovernativa per lo sviluppo, organizzazione dei paesi del Corno d’Africa), sono state fondamentali per ottenere la firma di tutti i belligeranti. E il Sudan è stato in prima linea. «Il Sudan, come anche il Sud Sudan, versa in una grave crisi economica. Se i pozzi di petrolio del Sud riprendono a pompare, il greggio ha come unica via l’oleodotto che lo porta a Port Sudan, sul Mar Rosso, nel Nord, e Khartum riceve per ogni barile un grossa quota di profitti», dice l’osservatore.

In effetti, il giorno stesso della firma, al Bashir ha annunciato la ripresa dell’estrazione di greggio e, puntuale, il 26 agosto un test è stato fatto nello stato di Unity, alla presenza di due delegazioni di Sudan e Sud Sudan guidate dai rispettivi ministri del Petrolio. La produzione dovrebbe normalizzarsi entro la fine dell’anno. Gli esperti dicono che nel Sud Sudan è passata dai 350.000 barili/anno di cinque anni fa, a circa 120.000 barili/anno.

Altri paesi interessati sono l’Uganda, che ha sempre appoggiato la fazione di Salva Kiir, (mentre il Sudan è piuttosto legato a Riek Machar), l’Etiopia, che ha dovuto accogliere alcune centinaia di migliaia di sfollati, e il Kenya.

Mentre l’Unione europea è stata assente, gli Stati Uniti, che hanno molto investito in Sud Sudan, hanno criticato l’accordo firmato a Khartoum. Inoltre, hanno fatto pressione all’Onu e fatto passare l’embargo sulle armi (13 luglio), ma si tengono lontani dal processo in atto.

Voci dal terreno

Ma quali cambiamenti ha portato sul terreno questo nuovo processo di pace?

Secondo l’operatrice umanitaria, «non c’è alcun cambiamento interno nel paese. Ad esempio in questi giorni si sta combattendo nel campo di sfollati di Juba. Qui ci sono 30.000 persone, tutti Nuer ma di diversi clan, e basta un nulla per fare scoppiare la violenza. Spesso si combattono per portare più servizi al loro gruppo. A livello locale, dove noi andiamo per assistere gli sfollati, l’accordo di pace non ha portato a cambiamenti». E continua: «In alcune zone del Nord gli sfollati rientrati in patria che assistiamo, mi hanno detto: tra alcune settimane ricomincia la stagione secca, le truppe hanno più facilità di spostamento e verranno a riprendere questa zona. Noi siamo già pronti a scappare di nuovo in Sudan».

Un missionario che lavora a Juba ci racconta: «Per l’accordo la gente ha grande speranza. Sono esausti di questa situazione, quindi qualsiasi cosa va bene, purché ci sia tranquillità e l’economia si riprenda. A giugno un dollaro era arrivato a valere 350 sterline sudanesi. Con i salari minimi intorno alle 3-4.000 sterline. Molti prodotti sono di importazione, arrivano dall’Uganda o da altri paesi, per cui i prezzi aumentano con il cambio. Dopo la firma dell’accordo il dollaro è a 160 sterline, e questo dà un grosso respiro alla gente. In realtà al mercato c’è confusione, perché c’è ancora chi applica cambi diversi».

Displaced children stand at a camp for Internally Displaced Persons (IDP) near Kadugli, the capital of Sudan’s South Kordofan state during a United Nations humanitarian visit on May 13, 2018. / AFP PHOTO / ASHRAF SHAZLY

Conferma il missionario: «Il costo della benzina è sceso e questo è importante, soprattutto per le merci trasportate. Ad esempio, il prezzo della farina è sceso. Ma non si sa quanto durerà. Il dubbio è: come faranno queste persone, che sono sempre le stesse al governo, a superare le loro divisioni e disaccordi? Come credere che non siano lì per la loro ambizione, ma per dare un minimo di pace al paese?».

La guerra che va avanti da cinque anni è particolarmente efferata, come denuncia l’ultimo rapporto dell’Alto commissariato per i diritti umani dell’Onu: «[…] Questa è una delle più orrende situazioni dei diritti umani nel mondo, con l’uso massiccio dello stupro come strumento di terrore e arma di guerra […]», dichiara l’Alto commissario Zeid Ra’ad Al Hussein.

Un sud sudanese, operatore umanitario, con studi all’estero (come tutti a livello universitario), ma che lavora nel suo paese, analizza la situazione. Raggiunto telefonicamente, ci chiede l’anonimato, come già le altre fonti, per ragioni di sicurezza: «Molte persone sono in attesa degli sviluppi di questa firma. Ma se si guarda alla situazione nel paese, è ancora molto confusa. C’è la fazione del governo, poi ci sono tante fazioni di opposizione. La gente vuole la pace, ma molti non sono pronti per questo, come i politici che cercano solo i propri interessi. C’è molta corruzione in ambiente politico. Tutti vogliono mantenere la loro fetta di potere».

E continua: «Fatto l’accordo di pace, ora devono vedere come metterlo in atto, ovvero come governare. Con questo tipo di accordo è difficile soddisfare tutte le persone. Ci sono tante comunità (o etnie), molte differenze, e se i politici lavoreranno solo a livello politico, sul terreno non si vedranno cambiamenti».

Il coordinatore (africano) di una Ong medica internazionale ci confida: «La situazione è molto fluida.

Ci sono diverse violazioni degli accordi, in molte zone, e gli operatori umanitari sono preoccupati».

A fine luglio, alcune centinaia di giovani armati, hanno attaccato e saccheggiato una base di Ong e Nazioni Unite a Maban, nel Nord dello stato di Upper Nile. Non si capisce che origini abbia questo attacco».

Continua la nostra fonte: «La popolazione aspetta che gli accordi di pace siano realmente implementati, ma finora non ci sono stati ancora cambiamenti.

C’è parecchio pessimismo. I sud sudanesi non hanno molta fiducia. Non è il primo accordo e la gente ha paura che i militari ricomincino a combattersi. Chi è più vicino al governo (o alla etnia del presidente) è più ottimista, al contrario le comunità legate all’opposizione sono più pessimiste.

Le Ong non sono molto sicure che gli accordi saranno implementati. Il problema è anche che ci sono molte richieste da parte dell’opposizione, condizioni molto complesse da garantire».

AFP PHOTO / PATRICK MEINHARDT

Società civile cercasi

«Inoltre qui – ci confida il missionario che risiede a Juba, ma ha vissuto anche in altre zone – la popolazione è costretta ad accettare le cose così come sono. Quando il valore della moneta crollava di settimana in settimana mi sono stupito che non ci siano stati scioperi o manifestazioni. La gente sa che non può esprimersi liberamente. Accetta facilmente di farsi proteggere dal forte di turno. Inoltre i gruppi sono spesso allineati etnicamente. La società civile ha ancora una lunga strada da percorrere per dar vita al cambiamento. Probabilmente c’è da aspettare che questa generazione di politici finisca e sia sostituita da un’altra». E continua: «Le Ong nazionali sono finanziate dai grandi enti e offrono servizi di vario tipo. Creano lavoro per la gente locale, ma portano avanti un approccio di emergenza piuttosto che di sviluppo, anche perché questo permette loro di continuare a lavorare».

Importante è stato il ruolo del South Sudan Council of Churches (Consiglio delle chiese sud sudanesi) che riunisce Chiesa cattolica, la Chiesa episcopale (la più diffusa) e la Chiesa presbiteriana.

Ci racconta il missionario: «Il governo rispetta le chiese ma le teme pure. Teme la loro indipendenza. Se una chiesa è allineata la ascolta, altrimenti la lascia un po’ da parte e la Chiesa cattolica è quella che fa più fatica ad allinearsi, quindi si attira più sospetti.

Inoltre è un momento un po’ difficile della nostra Chiesa: quattro diocesi su sette sono senza vescovo. Molte energie devono essere spese per far fronte ai tanti problemi interni e quindi non riesce sempre a farsi ascoltare dal governo. Nonostante tutto le rimane una grande autorità morale: parla una voce unica, non ci sono divisioni etniche in essa. È presente in tutte le comunità (le etnie), per cui non è di parte. Le altre Chiese invece corrono il rischio di essere più allineate e di essere percepite come tali. La Chiesa presbiteriana ha più influenza nelle zone nuer, per cui è stata vista come la chiesa più vicina alle opposizioni. Mentre la Chiesa episcopale aveva gerarchie soprattutto dinka, per cui era vista come filo governativa. Adesso sta superando questo, grazie al nuovo primate più neutrale».

Oltre alle Ong locali e alle Chiese, ci spiega il coordinatore della Ong internazionale, «ci sono altre associazioni per i diritti umani, associazioni delle donne per la pace. Ma le associazioni basate in Sud Sudan devono essere dalla parte del governo. Ce ne sono anche non allineate, ma stanno all’estero, perché non è conveniente per motivi di sicurezza. Essere contro diventa rischioso. Non è un paese nel quale puoi esprimere liberamente quello che vuoi, puoi solo parlare a favore del governo».

La cooperante riassume così le sue sensazioni: «Sono molto delusa. Non è possibile che dal 2013 ci siano sempre le stesse dinamiche. Quello che mi delude di più è che ai politici non importa nulla della gente, fanno solo i loro giochi di potere. Si scontrano e poi vanno a cena assieme. Si stringono le mani, poi litigano di nuovo. Quanto potrà durare un accordo di pace con queste prospettive?»

Marco Bello




Perú, mons. Baretto, la storia del vescovo ambientalista

Testo dell’incontro col vescovo cardinal Pedro Baretto e Mauricio López Oropeza di Paolo Moiola |


In Perú sono in corso centinaia di conflitti ambientali. Sia in Amazzonia (la selva) che nelle Ande (la sierra). La salvaguardia dell’ambiente e la salute delle persone costituiscono elemento centrale della missione pastorale di mons. Pedro Barreto?Jimeno, arcivescovo di Huancayo (Junín), vicepresidente della Conferenza episcopale peruviana e neocardinale (dal 29 giugno). Da pochi mesi, in qualità di socio fondatore della «Red Eclesial Panamazónica» (Repam), il prelato è stato anche nominato membro della commissione vaticana che sta preparando il Sinodo amazzonico del 2019. Lo abbiamo incontrato nella sua Lima poco prima della sua nomina a cardinale.

@ Paiolo Moiola

Miraflores (Lima). Nelle giornate di sole da Miraflores, noto distretto di Lima, si può ammirare un magnifico panorama sull’Oceano Pacifico. Arriviamo al centro ignaziano della locale parrocchia di Fátima per approfittare della presenza di mons. Pedro Barreto Jimeno, gesuita e arcivescovo di Huancayo, capoluogo del dipartimento di Junín, regione andina nel centro Ovest del paese. In Perú il prelato è molto conosciuto per le sue battaglie in favore dell’ambiente (el obis­po eco­ló­gi­co).

Dal 2004 presta servizio tra le Ande, ma ci confessa quasi subito che il suo cuore «è amazzonico». Un sentimento nato durante i tre anni da vicario apostolico a Jaén, capoluogo dell’omonima provincia amazzonica (selva alta) del dipartimento di Cajamarca.

In quello stesso periodo entra nel consiglio permanente della «Conferenza episcopale peruviana» e nella «Conferenza episcopale latinoamericana» (Celam).

Jaén è la porta d’ingresso dell’Amazzonia Nord orientale del Perú. «L’Amazzonia – spiega mons. Barreto – comprende quasi otto milioni di chilometri quadrati e nove paesi, con il Brasile in testa (65% della superficie totale) seguito dal Perú. Come uomini di chiesa ci rendevamo conto che il lavoro da fare era tanto e disperso su un territorio immenso. Nell’aprile del 2013, a un mese dall’elezione del papa Francesco, il Celam si riunì in Ecuador per dibattere la questione. Nel settembre 2014 ci ritrovammo – vescovi, religiosi e religiose – a Brasilia e decidemmo di creare la “Rete ecclesiale panamazzonica”, la Repam. Che non è una vera istituzione, né una struttura, ma – come dice il suo nome – una rete che cerca di unire con il dialogo e l’aiuto reciproco popoli indigeni e non indigeni che vivono in Amazzonia. Ciò che ci sorprese fu l’immediato messaggio di felicitazioni del papa. Questo ci spinse a considerarne lui il fondatore».

A partire da quel momento la crescita della Rete panamazzonica è molto rapida.

«Il papa ci chiese di presentare al mondo la Repam. Lo facemmo il 4 marzo del 2015 a Roma, nell’aula Giovanni Paolo II. Poco dopo, il 19 marzo, tenemmo un’udienza tematica sulle attività minerarie in Amazzonia davanti alla Commissione interamericana per i diritti umani (Cidh) a Washington».

Il ruolo e la visibilità della Repam prendono in seguito grande impulso da due eventi importanti: l’uscita, nel maggio 2015, dell’enciclica Laudato si’, interamente dedicata all’ambiente e, nell’ottobre 2017, l’annuncio del papa di un Sinodo panamazzonico per l’ottobre 2019.

© Malcom K.

Dall’Amazzonia alle Ande

Dopo l’esperienza a Jaén, mons. Barreto deve lasciare l’Amazzonia per le Ande: regione di Junín, nella cosiddetta sierra. «Fui nominato – racconta – arcivescovo di Huancayo, una città posta in una valle dentro alle Ande, la valle del rio Mantaro. È la valle interandina più grande del Perú: 77 chilometri di lunghezza e una media di 22 di larghezza».

Luoghi molto diversi dall’Amazzonia, ma afflitti da problematiche identiche: il difficile rapporto tra l’ambiente naturale e le attività umane e tra il diritto al lavoro e quello alla salute.

Nel dipartimento di Junín, le concessioni minerarie riguardano circa il 20% del territorio totale. Si estraggono rame, piombo, zinco, molibdeno, argento. Vi operano diverse imprese tra cui la cinese Chinalco, la canadese Pan American Silver, la peruviana Volcan, la brasiliana Milpo. La più famosa, per i disastri provocati, è la statunitense Doe Run, da anni in liquidazione. Queste attività minerarie danno un po’ di lavoro (sottopagato) alla popolazione locale, ma portano soprattutto tanti danni, all’ambiente e alla salute delle persone.

«Da secoli – racconta il vescovo (cardinale dal 29 giugno, ndr) – è una zona eminentemente mineraria. C’è una città che si chiama La Oroya, a 3.700 metri d’altezza, che è considerata una delle cinque città più inquinate al mondo. Da alcuni anni non vengono più emessi gas tossici perché il complesso metallurgico della Doe Run è fermo, ma se si vedono le foto dall’alto – su internet è possibile – si nota una massa bianca. Non è neve, sono particelle di piombo, rame, zinco, tutti metalli pesanti che in questi 90 anni di produzione (l’attività iniziò nel 1922, ndr) si sono accumulati sulle montagne». E nel sangue degli abitanti, soprattutto bambini e anziani. Acqua, aria e suolo presentano livelli di contaminazione decine di volte superiori ai limiti consentiti.

Venuto a conoscenza dei gravi problemi ambientali, mons. Barreto si dà subito da fare. Nel marzo 2005, a pochi mesi dal suo insediamento come arcivescovo, istituisce un tavolo di dialogo (Mesa de diálogo) con l’ambizioso obiettivo di trovare una «soluzione integrale e sostenibile al problema ambientale e lavorativo a La Oroya e il recupero della conca del fiume Mantaro».

Il dialogo è però lungo e complicato. In gioco ci sono gli interessi della multinazionale statunitense e il lavoro di ben 2.000 persone. A mons. Barreto arrivano minacce di morte e intimidazioni.

Il complesso metallurgico di La Oroya passa attraverso fasi di insolvenza economica (2009), contenziosi con lo stato per i mancati investimenti di adeguamento ambientale (Programa de Adecuación Medio Ambiental, Pama) e, infine, nel 2017-2018 alcuni tentativi di vendita, finora falliti.

Il Cardinal Pedro Baretto © Paolo Moiola

I cinesi di Morococha

Il problema – ancora irrisolto – di La Oroya non è il solo. A circa 40 chilometri di distanza sorge Morococha, cittadina cresciuta sopra un enorme giacimento di rame a cielo aperto. Dal 2008 il giacimento – noto come progetto Toromocho – è di proprietà della Chinalco, impresa appartenente al governo cinese. «Il primo problema da affrontare – racconta mons. Barreto – fu quello di spostare la popolazione. La Chinalco costruì una nuova città: Nueva Morococha. Il trasferimento delle 1.200 famiglie iniziò nel 2012 e ancora non si è concluso».

Nel frattempo, tra gennaio e luglio 2017, l’impresa ha estratto 106mila tonnellate di rame. «Anche nel caso di Toromocho – precisa mons. Barreto -, c’è un danno ambientale perché un’attività mineraria, per quanto si possa essere attenti, contamina sempre. Il problema è che nella regione non ci sono molte alternative lavorative. Anche se, come chiesa, abbiamo iniziato un piccolo progetto di produzione tessile che impiega soprattutto donne ma che comunque non basta».

Secondo l’Istituto peruviano di economia, l’attività mineraria genera circa l’11% del Prodotto interno lordo (Pil) del paese, la metà della valuta straniera che entra in Perú, il 20% delle entrate fiscali, oltre a migliaia di posti di lavoro diretti e indiretti.

«Il Perú – racconta mons. Barreto – è sempre stato un paese minerario. Però è anche un paese agricolo. Nella valle del Mantaro le miniere inquinano e, allo stesso tempo, in agricoltura si stanno utilizzando fertilizzanti che nel resto del mondo sono proibiti. Dovrebbe essere trovato un equilibrio tra un’attività mineraria responsabile e un’agricoltura egualmente responsabile».

Mons. Barreto, il vescovo (cardinale) ambientalista, non è a priori contro le miniere. «Io – precisa – direi che l’attività mineraria è necessaria. Non possiamo cioè dire “no” alle miniere. Quello che dobbiamo dire è: in questa riserva, in questo biotopo, in questo parco non può esserci attività mineraria. Un esempio: in questo momento un’impresa mineraria sta esplorando la laguna di Marcapomacocha. Qui occorre rispondere con un secco “no”».

Di certo, guardando al territorio peruviano, sembrerebbe che tutto il paese sia stato dato in concessione. «È vero – conferma il prelato -. Si parla della stessa piazza d’Armi di Cuzco. Un’assurdità. L’attività mineraria dovrebbe essere responsabile e con chiare restrizioni. Non possiamo opporci, ma dobbiamo dire: prima delle miniere sta la responsabilità per la vita e la salute delle persone».

Amazzonia, bioma universale

Dall’Amazzonia alle Ande l’impegno di mons. Barreto in difesa dell’ambiente non è mai cambiato. «A volte mi chiedono come mai un arcivescovo che vive in mezzo alle Ande sia entusiasta dell’Amazzonia. Il fatto è che qui si parla di un bioma che dà vita non solamente a noi ma a tutta l’umanità. Nella Laudato si’ – al numero 38 – il papa descrive l’Amazzonia come uno dei polmoni del mondo assieme alla conca fluviale del Congo».

In generale, però, la consapevolezza della sua importanza vitale è molto scarsa. Anche per questo gli attacchi alla sua integrità si fanno ogni giorno più numerosi. Come ammette anche mons. Barreto:?«Se si chiede a un peruviano della costa se il suo paese è amazzonico, questi risponderà che abbiamo la selva. In realtà, il 63 per cento del territorio peruviano è amazzonico. Abbiamo ancora zone intatte ma abbiamo anche zone infernali come a Puerto Maldonado (visitata dal papa a gennaio 2018, ndr), dove le attività minerarie illegali e informali hanno prodotto disastri. Quando si arriva in aereo si vedono nella foresta grandi fette di territorio dove ormai non cresce un solo filo di vegetazione, distrutta da mercenari che utilizzano il mercurio per cercare l’oro».

Da pochi mesi mons. Barreto, vicepresidente della Repam, è stato nominato membro della commissione (riquadro) istituita per preparare un’assemblea straordinaria sulla Panamazzonia.

«Quella di convocare un sinodo sulla regione amazzonica – chiosa il prelato – è stata una decisione sorprendente di papa Francesco. La prima volta nella storia della Chiesa. In precedenza e in più occasioni, il papa aveva detto che la Chiesa deve avere un volto amazzonico e indigeno (un rostro amazónico y indígena). Come va interpretata questa affermazione? Significa spingere per una conversione ecologica, un nuovo stile di vita, basato non su un paradigma tecnocratico ma su un nuovo paradigma che porti a soluzione il problema socioambientale e offra a tutti una vita degna e solidale».

Paolo Moiola

© Graham Styles


Il segretario esecutivo della Repam

«Vogliamo “amazzonizzare” il mondo»

In tanti parlano di Amazzonia, ma in pochi agiscono per contrastare la sua distruzione. Nata meno di quattro anni fa, la «Rete ecclesiale panamazzonica» (Repam) sta operando nei nove paesi amazzonici e tentando di coscientizzare il resto del mondo sul problema. Ne abbiamo parlato con Mauricio López Oropeza, segretario della Repam.

@ Paolo Moiola

Puerto Leguízamo (Colombia). «Da quando sono entrato in questo territorio, mi è stato rubato il cuore». Mauricio López Oropeza, 40 anni, è messicano e l’Amazzonia l’ha conosciuta in Ecuador dove arrivò dieci anni fa per completare gli studi. Oggi è sposato con Ana Lucía, cittadina ecuadoriana, lavora con la Caritas nazionale ed è segretario esecutivo della Rete ecclesiale panamazzonica (Repam) dalla sua fondazione.

Mauricio, come si può descrivere l’Amazzonia in poche parole?

«L’Amazzonia non è soltanto un territorio. È un bioma unico. Un sistema vivo in cui i fiumi rappresentano il sangue e le vene. Un sistema diverso e complesso di cui ancora oggi conosciamo pochissimo. I popoli originari che vi vivono rappresentano un modello distinto da quello occidentale».

Negli ultimi cinquant’anni è cambiato il modo di guardare all’Amazzonia.

«È vero. Prima l’Amazzonia era il patio trasero (cortile di casa) del pianeta. Era vista come una terra praticamente disabitata che occorreva dominare, controllare, colonizzare. Le sue popolazioni erano considerate composte da indios selvaggi da civilizzare. Oggi l’Amazzonia si è trasformata in plaza central (piazza centrale) su cui tutti si riversano a causa degli enormi interessi che su di essa si sono scatenati».

Quali sono le minacce principali che gravano sull’Amazzonia?

«La prima minaccia è il modello di sviluppo seguito. È un modello neoliberista che ha nell’estrattivismo la propria manifestazione più devastante. Essendo ricca di petrolio e di risorse minerarie, l’Amazzonia è colpita dalla “maledizione dell’abbondanza”. Ciò produce una pressione enorme a favore dell’estrazione. In questo modo è come bruciare un archivio naturale: non sappiamo quanta ricchezza genetica potrebbe perdersi.

La seconda minaccia è l’espansione della frontiera agricola (con la soia in prima fila) e dell’allevamento bovino in un territorio inadatto a queste attività. La capacità organica dell’Amazzonia è molto più bassa rispetto ad altri territori. Tuttavia, essendo considerata uno spazio disponibile (a dispetto di eventuali territori indigeni), il disboscamento è incessante (siamo ormai al 25% del totale) e questo sta mettendo a rischio tutto il sistema, in primis quello del ciclo dell’acqua».

Distruggere l’ambiente amazzonico significa implicitamente distruggere coloro che lo abitano.

«La terza minaccia riguarda infatti la sopravvivenza stessa dei popoli amazzonici. I più minacciati sono quelli in isolamento volontario (popoli non contattati). Sarebbero 140 nel mondo, 130 di essi nella Panamazzonia e 110-120 nella sola Amazzonia del Brasile. È una sfida enorme. Come salvare queste sorelle e fratelli che vivono in modo completamente distinto da quello occidentale? I popoli indigeni hanno tutto il diritto di entrare, qualora lo vogliano, nelle dinamiche del nostro mondo, ma debbono anche avere la possibilità di preservare il proprio territorio e la propria cultura.

In questo hanno fallito i governi – di destra e di sinistra – che sono andati contro le proprie costituzioni e accordi internazionali sottoscritti».

Qual è la situazione attuale nei paesi amazzonici?

«In tutti i nove paesi abbiamo situazioni problematiche. Il Brasile – sia con Temer che con Dilma – certamente ha fatto passi indietro rispetto al passato. Per esempio, rispetto alla demarcazione delle terre indigene. Il modello neoliberale e accaparratore sta dominando le decisioni politiche brasiliane. Anche in Bolivia, dove si parlava dei diritti della madre terra, si è fatta marcia indietro come nel caso del Tipnis. Qui si è tolta la intangibilità e una strada taglierà in due la riserva. Pare per favorire gli interessi dei produttori di coca con i quali il governo ha una relazione molto diretta. Infatti, il tracciato della strada non favorisce le comunità, ma segue proprio il percorso della coca.

Anche in Ecuador abbiamo fatto tanti bei discorsi, ma oggi – con il paese dipendente dal petrolio – si sta parlando sempre e soltanto di permettere l’esplorazione petrolifera in zone intangibili, naturali, ancestrali. Quando è uscito il primo barile di petrolio dal parco Yasuní hanno festeggiato. Dicono che ci siano standard elevatissimi per la sicurezza, ma sappiamo tutti che non esiste un impatto ambientale nullo.

Nel Perú ci sono continue perdite di petrolio nei territori delle comunità indigene. I popoli Awajún e Wampis sono stati criminalizzati per avere richiesto la consultazione preventiva, anche se essa è un diritto riconosciuto come costituzionale. E poi c’è la terribile situazione di Madre de Dios (vedere MC, giugno 2012).

In Colombia, come in Perú e in Brasile, c’è molta attività mineraria illegale che usa metalli pesanti che contaminano i fiumi. Già ci sono casi di popolazioni indigene malate a causa del pesce contaminato da mercurio. La condizione di postconflitto ha inoltre determinato dinamiche nuove e una situazione paradossale. Riserve naturali che ricadevano nei territori in mano alla guerriglia erano rimaste integre, ora sono esplorate e date in concessione anche per finanziare il processo di pace e dare alternative agli ex guerriglieri.

In Venezuela, c’è la questione legata al cosiddetto arco minero del fiume Orinoco (negli stati Bolivar, Amazonas e Delta Amacuro, ndr). Qui c’è il più grande progetto di estrazione mineraria del paese, proprio in un luogo di alta biodiversità e di presenza indigena. L’impatto sarà molto grave, come dimostrano varie ricerche. Infine, anche nei paesi amazzonici più piccoli – Guyana, Suriname e Guyana francese – ci sono gravi problemi a causa delle miniere. Insomma, il modello estrattivista si sta approfondendo praticamente ovunque».

I governi dei paesi amazzonici sostengono che non ci sia un’alternativa all’estrattivismo.

«Ma neppure si sforzano di trovare strade alternative. Questo modello ha generato un grande debito con le popolazioni originarie e soprattutto il costo della distruzione dell’Amazzonia è assai maggiore dei benefici e mette a rischio il futuro delle prossime generazioni».

Cos’è la «Red eclesial panamazónica»?

«La Repam è uno sforzo di articolazione di distinte istanze della Chiesa cattolica nel gran territorio amazzonico. Anche se è stata fondata soltanto tre anni fa, essa è il risultato di decenni, per non dire secoli, di presenza sul territorio. Una presenza che ha avuto matrici positive ma anche negative. Come dice papa Francesco, dobbiamo iniziare chiedendo perdono per gli errori storici, i peccati e i crimini commessi nel processo di colonizzazione. Oggi però esiste anche una Chiesa profetica con uomini che hanno dato la propria vita per l’Amazzonia. Approfittando della sua presenza capillare su tutto il territorio, la Repam si è posta al servizio della realtà amazzonica e dei suoi problemi».

In quanto «rete», quali modalità di comunicazione privilegiate?

«Come Repam abbiamo relazioni con varie istituzioni del territorio, tra cui anche quelle che si occupano di comunicazione. O meglio di comunicazione per la trasformazione. Come l’Asociación Latinoamericana de Educación Radiofónica (Aler) o Radialistas Apasionadas y Apasionados».

Con Radialistas (vedere MC, aprile 2016) avete collaborato per un lavoro sulla Laudato Si’.

«Vero. Con José Ignacio López Vigil e i suoi collaboratori abbiamo pensato come far arrivare la Laudato Si’, una delle encicliche più potenti in tema ambientale, al cuore della gente e delle comunità. L’enciclica è scritta in un linguaggio diverso, ma rimane anche un’impronta teologica, scientifica e politica. Il nostro obiettivo era di abbassare il tono per renderla comprensibile alle persone semplici. Per questo abbiamo creato una serie radiofonica di 20 puntate in cui San Francesco d’Assisi ritorna sulla terra e scopre i disastri prodotti dall’uomo. Sfruttando la sua abilità nel parlare con tutti, lo facciamo dialogare con il fratello petrolio, con la sorella soia transgenica, con il fratello mais e via dicendo, percorrendo tutta l’America Latina per far intendere l’impatto del cambio climatico e la gravità della situazione».

Mauricio, come avete accolto l’annuncio del Sinodo panamazzonico dell’ottobre 2019?

«Come una grande opportunità. Il nostro slogan è “amazonizar el mundo” (amazzonizzare il mondo). Che significa rendere cosciente il mondo intero dell’importanza vitale di questo territorio unico. Bellissimo, fragile e profondamente minacciato».

Paolo Moiola


Siti

• il sito della diocesi di Huancayo: www.arzobispadodehuancayo.org
• il sito dell’«Observatorio de Conflictos Mineros en el Perú»: http://conflictosmineros.org.pe/
• il sito della «Rede eclesial panamazónica» (Repam): http://redamazonica.org/




Cari missionari, lettere dai lettori

Usukhjargal

Usukhjargal è un simpatico bimbetto di 7 anni, che abita in una gher (la tradizionale tenda mongola) alla periferia di Arvaiheer, capoluogo polveroso della provincia dell’Uvurkhangai, in Mongolia, tra le montagne Khangai e la steppa che dirada verso il deserto. Ha l’occhio vispo di un bambino pieno di vita, mentre scende la collina stringendo la mano callosa di papà Jargalsaikhan che da tre anni aiuta noi missionari con i lavori manuali.

Sette anni fa i medici avevano sconsigliato alla mamma di portare a termine la gravidanza, sulla base di (presunte) mal-
formazioni, o più probabilmente perchè prevedevano un parto difficile, che avrebbe creato loro fastidi. Ed eccolo qui ora, saltando e correndo nel cortile della missione, con le immancabili gote rosse e il sorriso sulle labbra. I genitori sono stati così felici di averlo avuto che l’hanno ritenuto un dono di Dio e hanno chiesto per lui il battesimo quando aveva poco più di un anno.

È stato tra i bimbi del primo gruppo del nostro asilo informale ospitato in una gher dal 2013. L’asilo e iniziato con lui ed è un progetto che si sta rivelando molto positivo: sono molte le famiglie che per povertà ed emarginazione non riescono ad iscrivere i propri figli alle scuole materne statali. Così abbiamo pensato di crearne una con mezzi molto semplici e poco dispendiosi, valorizzando gli elementi culturali più sentiti, come appunto l’abitare nelle gher.

Usukhjargal adesso frequenta la seconda elementare, ma continua a venire tutti i giorni alla missione, dove si unisce agli altri bambini del doposcuola. In un’altra gher calda (anche quando fuori fa meno trenta) e accogliente, bambini e ragazzi delle scuole vengono a fare i compiti e a giocare, assistiti da due signore della comunità.

Il volontariato qui è ancora una novità, ma queste due mamme hanno capito che possono rendersi utili con quello che sanno fare e sono di esempio a tutti. Una di loro è Otgonbayar, la mamma di Usukhjargal. Cerchiamo così di promuovere la cultura della gratuità che fa ancora fatica ad affermarsi in un paese che sta emergendo da 70 anni di comunismo.

Due volte alla settimana Usukhjargal (insieme a tutti gli altri bambini e adulti che lo desiderino) viene a farsi la doccia alla missione, dove da otto anni è attivo un servizio di docce e bagni pubblici gratuiti. Nelle gher ovviamente non c’è acqua corrente e l’igiene personale è dunque ridotta al minimo, per non dire che è molto sacrificata.

All’asilo e al doposcuola cerchiamo di provvedere cibo buono e salutare, per supplire alle carenze vitaminiche di un’alimentazione poco variegata e talvolta insufficiente.

Un giorno, mentre Usukhjargal faceva la fila per lavarsi le mani prima di merenda, ho visto un bambino che gli bisbigliava all’orecchio. Mi sono avvicinato e ho sentito dire: «Sai che bello, mio papà adesso non beve più! Alla sera vediamo insieme la tv e non ci sono più urla e oggetti che volano dentro la  nostra gher…». È infatti un vero cammino di guarigione quello che il papà dell’amichetto di Usukhjargal ha intrapreso con un gruppo di uomini che si trovano regolarmente alla missione per cercare insieme una via che li faccia uscire dall’alcolismo, vera piaga sociale da queste parti. La missione è qui per tutti e può mettere in atto questi segni di prossimità e aiuto se è sostenuta da persone di buona volontà.

Guardando giocare Usukhjargal, non posso che ringraziare Dio per tutti coloro che in questi anni ci stanno permettendo di prenderci cura di lui e di tanti altri come lui, piccoli e grandi. È il miracolo della solidarietà che si rende concreto attraverso la Fondazione Missioni Consolata Onlus. Grazie.

Giorgio Marengo
Arvaiheer, 16/02/2018

Grazie per il dossier sui migranti

Buongiorno,
ho conosciuto la vostra bellissima rivista qualche anno fa, quando sono passato un po’ per caso alla Consolata con i miei studenti in visita di istruzione a Torino. Innamorato dei contenuti e del vostro stile, ho volentieri fatto l’abbonamento alla rivista, che ricevo e leggo sempre con attenzione.

In particolare ho trovato davvero fatto bene, sintetico ma insieme esaustivo, il dossier pubblicato nel numero di gennaio a firma di Daniele Biella, circa i migranti e il reportage dalla nave Aquarius. Poiché tratto spesso con i miei alunni temi che puntano a sensibilizzarli e a superare i molti, troppi luoghi comuni sull’argomento, vorrei poter diffondere il dossier a titolo informativo, anche in ambito comunale (sono consigliere comunale nel mio paese e accogliamo alcuni richiedenti asilo, ma con purtroppo molti pregiudizi tra i cittadini).

Dino Caliaro
27/01/2018

 

Grazie di cuore. Le ricordo che dal nostro sito è possibile scaricare il dossier come pdf e poi stamparlo.

Preghiere e novene

Gentilissimi,
seguo sempre con grande interesse la vostra rivista. Volevo dare un mio piccolo contributo inoltrandovi alcune preghiere, orazioni, novene a cui sono legate promesse molto potenti e/o grandi indulgenze. Ovviamente non è mia intenzione dirvi cosa dovete o non dovete pubblicare, solo queste preghiere mi hanno aiutato molto e credo possano aiutare anche tante altre persone. Così ho pensato di suggerirvene alcune, che magari già conoscerete o già avrete pubblicato, sperando arrivino a quante più persone possibile. Sperando di fare cosa gradita ringrazio in anticipo per l’attenzione e porgo distinti saluti

Monia
27/02/2018

Cara Monia,
le confesso che quando ho ricevuto la sua email con la lista di ben ventitré novene e preghiere (da quella – a me ignota – alla «Sacra Spalla» alla «Via Crucis» – che con le novene ha ben poco da spartire), il primo pensiero è stato «un altro spam. Cestina». Poi ci ho ripensato perché poteva diventare un’opportunità per questa pagina di dialogo con i lettori. Il tema della preghiera, sul quale ormai da oltre un anno sta scrivendo don Paolo Farinella, sta suscitando molto interesse perché tocca il cuore della vita cristiana. In questo contesto è abbastanza chiaro che stiamo cercando di proporre uno stile di preghiera biblicamente e liturgicamente fondato, provando a evitare devozionalismi e pietismi, pur rispettando la vera «pietà popolare» e le sue ricche tradizioni.

Noi che viviamo dopo il Concilio Vaticano II abbiamo ricevuto un dono grandissimo: quello dell’Eucaristia – la «messa» – che è passata da «rito e obbligo» a «celebrazione e incontro» di salvezza nello spezzare la Parola (finalmente comprensibile a tutti) e il Pane. L’Eucarestia è al cuore della nostra preghiera, tutto il resto viene da quel fare memoria viva della Pasqua e alla messa tutto ritorna per diventare offerta gradita a Dio.

Le «preghiere, orazioni, novene a cui sono legate promesse molto potenti e/o grandi indulgenze», possono anche aiutare, ma hanno il rischio di mantenere in noi una falsa concezione di Dio, un Dio che ha ripetutamente bisogno di essere supplicato e che ascolta solo se si recitano con fedeltà e insistenza certe formule.

Che contrasto tra la prolissità e ripetitività di molte novene e la sobrietà della preghiera di Gesù. Ai discepoli che gli chiedono «insegnaci a pregare» (Lc 11,1-4), lui offre solo la brevissima preghiera del «Padre», senza fare promesse, senza mettere condizioni né sul numero di volte né per quanti giorni né sulle modalità (in piedi, seduti, inginocchiati…).

Quando Gesù dorme sulla barca nella tempesta (Mc 4, 37-40 – figura della Chiesa e di noi nelle difficoltà della vita) ai discepoli spaventati non dice di pregare i salmi, di fare rituali, di recitare speciali invocazioni: chiede solo di avere fede.

E quando nella stessa barca vanno in panico perché non hanno «pane» (Mc 8,14-21) li rimprovera perché «non hanno capito» il miracolo del pane, cioè l’Eucarestia, il «Pane di vita» spezzato per noi e sempre presente in mezzo a noi. Anche per noi, nelle acque tempestose dei nostri tempi, la forza viene dalla fede che sostiene la nostra preghiera, non dal numero e tipo di preghiere che recitiamo. Gesù ci ha fatto una promessa: «Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Mt 28,20). Impariamo a camminare con lui, sapendo che c’è sempre, anche se a volte sembra dormire.

Galeano

Eduardo Galeano (AFP files / Pabro Porciuncola)

Solo adesso ho letto l’articolo su Galeano, contenuto nel numero di dicembre della rivista. Sono allibito nel leggere le dichiarazioni di Gianni Minà sul Venezuela, e soprattutto a leggerle su una rivista come Missioni Consolata. Quanto viene detto dai giornali occidentali, compreso il nostro Avvenire, sulla disastrosa situazione dei diritti umani dei venezuelani viene trattato con disprezzo dal giornalista. Le recenti elezioni della Costituente sono state vinte da Maduro? Ma queste elezioni sono state illegali, il presidente Maduro non aveva nessun diritto di eliminare il Parlamento, eletto comunque democraticamente, in un paese dominato prima da Chavez e adesso dall’ex camionista Maduro, e di sostituirlo con la Costituente. L’opposizione non ha potuto fare niente per fermare lo strapotere dei chavisti e decine di persone sono state uccise dalla polizia durante le manifestazioni di protesta in difesa della democrazia. I venezuelani sono alla fame, già decine di bambini sono morti di stenti e la colpa non è certo dei cosiddetti «servizi di intelligence nordamericani». La colpa è dell’arroganza del potere e dell’incapacità di far fronte ai bisogni della popolazione, ridotta a fare lunghissime code di fronte a negozi che non hanno quasi nulla da vendere. D’altronde, Gianni Minà è ben conosciuto per la sua amicizia con Fidel Castro prima e adesso con Raùl, il fratello che ha preso il potere. I cubani stanno un po’ meglio dei venezuelani, per loro fortuna, ma Gianni Minà non dovrebbe dimenticare che i Castro hanno accumulato un’immensa fortuna nel povero paese caraibico; l’attuale presidente Castro controlla direttamente tutta l’economia cubana, e ne ha approfittato largamente. Non è la prima volta che su Missioni Consolata vengono pubblicati articoli molto discutibili, già anni fa avevo letto le lodi della «presidenta» cilena Michelle Bachelet che. come tutti sanno, è una sostenitrice della «salute riproduttiva», cioè dell’aborto. Ma che linea ha scelto Missioni Consolata? Il fondatore sarebbe d’accordo se fosse ancora vivo? Perché non vi leggete gli ottimi articoli che Avvenire ha dedicato alla crisi venezuelana? E l’Avvenire non è certo al servizio delle «agenzie di informazione nordamericane». Da una rivista cattolica mi aspetto come prima cosa un’informazione corretta, non di regime. Distinti saluti.

Franco Eustorgio Malaspina
Milano, 03/02/2018

Caro Sig. Malaspina,
grazie di averci scritto. Le confesso che mi ha sorpreso che sia «allibito» di fronte a quanto ha scritto Minà sul Venezuela visto che sembra conoscere le frequentazioni dello stesso e quindi sapere bene come la pensa. Circa la «presidenta» Michelle Bachelet (di cui abbiamo scritto nel maggio e giugno 2014) è certamente discutibile nel suo appoggio alla «salute riproduttiva», ma ha pagato con la prigione e la tortura il suo impegno politico, mentre il generale Pinochet, pur devoto della Madonna, non ha esitato a imprigionare, torturare e uccidere i suoi oppositori.

Non siamo né fans di Castro né di Chávez, tantomeno di Maduro. I Castro, come dice lei, hanno pur accumulato un’immensa fortuna, ma non risultano certo nella lista dei più ricchi del mondo. Quel signore che fa spedire pacchi a mezzo mondo e vuole mettere il «braccialetto» ai suoi operai perché lavorino «meglio», è immensamente più ricco di loro e di tanti altri.

Se poi ci segue in rete, avrà visto che sulla nostra pagina Facebook abbiamo segnalato più e più volte proprio le pagine di Avvenire sia sul Venezuela che su altre gravi situazioni del mondo. Ammetto che su questa rivista non abbiamo più pubblicato articoli specifici sulla situazione di quel paese (l’ultimo è dell’agosto 2016). E questo è un errore, anche se continuiamo a seguirne la drammatica situazione grazie ai nostri missionari e agli amici che abbiamo sul posto.

Che direbbe poi il nostro Fondatore? Nel nostro piccolo, noi cerchiamo di fare un’informazione documentata e approfondita che permetta al lettore di farsi la sua opinione su situazioni, fatti e persone. Su questo l’Allamano non penso avrebbe da obiettare. Scriviamo «slow news» (facendo il verso al fast food) proprio perché non vogliamo imporre niente a nessuno, ma servire la verità con una speciale attenzione ai poveri, agli emarginati e a quelli che sono ignorati dalla grande comunicazione. Non siamo esenti da errori e possiamo sbagliare. Riportare fatti e opinioni di persone che non vivono o sono contro i principi cristiani non è sposarne le idee e rinunciare alla nostra fede e religione. Siamo pronti a essere corretti e a confrontarci su fatti e idee. Per questo la ringraziamo ancora della sua email.

Petrolio causa di tensioni nel mondo

Nell’articolo sull’Ecuador (MC 12/2017) si parla della curiosa proposta dell’ex presidente Correa di chiedere un contributo alla comunità internazionale per non estrarre petrolio da una zona ecologicamente sensibile. Non si vede bene quale comunità sarebbe interessata a dare un contributo a un presidente sudamericano, che poi potrebbe diventare un Maduro, il quale forse si fa pagare in proprio per non estrarre più il petrolio venezuelano, convenientissimo ma con aziende in preda al marasma e con attrezzature che mancano anche dell’ordinaria manutenzione.

Ma probabilmente sono interessate le banche Usa che han prestato i soldi alle società che praticano il fracking devastando l’Ovest di Usa e Canada, ma assicurando loro l’autonomia energetica. Se il petrolio scende stabilmente sotto i 50 euro falliscono sia le società che le banche, e finora l’unico costosissimo sistema di non farlo scendere è di impedire la produzione in Iraq e Siria, attizzando continue complicatissime guerre, e possibilmente d’ora in poi razionare gli acquisti dall’Iran. E mantenere uno stato di tensione che impedisca anche solo di progettare un investimento per l’estrazione sottomarina dal Mediterraneo orientale, tra Cipro e l’Egitto, l’area più incasinata del mondo, ma con petrolio e gas molto convenienti.

Claudio Bellavita
02/02/2018

Lascio la risposta a Paolo Moiola, autore dell’articolo.

La proposta dell’ex presidente Correa è stata ritirata dallo stesso (quando era ancora in carica) a causa della scarsa risposta avuta a livello internazionale. L’idea era rivoluzionaria in quanto avrebbe consentito di salvaguardare uno scrigno mondiale di biodiversità qual è quella parte di Amazzonia ecuadoriana. Senza parlare della mancata emissione di CO2 nell’atmosfera che avrebbe contribuito a mitigare le conseguenze del cambio climatico. Quanto all’eventuale trasformazione di Correa, egli non è più presidente e vive in Belgio, paese della moglie. Dunque, il rischio che diventi un altro Maduro – come paventa il lettore – non sussiste.

 




Ecuador: Meglio i turisti che il petrolio


Sani Isla è il nome di una comunità indigena quichua di un migliaio di persone che vive sulle rive del fiume Napo, davanti al parco nazionale Yasuní. In questi anni la comunità ha dovuto affrontare le mire espansionistiche delle società petrolifere, prima della statunitense Occidental Petroleum (Oxy), poi della ecuadoriana Petroamazonas. La prima se n’è andata, la seconda ha iniziato a operare anche all’interno del vicino Yasuní, scrigno mondiale della biodiversità e casa di alcune etnie isolate. Nel frattempo, dopo varie esitazioni, la comunità di Sani Isla ha scelto la strada del turismo ecosostenibile, dell’artigianato e della silvicoltura. Allontanando le sirene delle imprese petrolifere. Almeno per il momento.

Francisco de Orellana. Il Rio Napo è uno dei maggiori affluenti del Rio delle Amazzoni. È un fiume importante perché attraversa la foresta amazzonica ecuadoriana, costeggiando tra l’altro il Parco Nazionale Yasuní, uno scrigno inestimabile di biodiversità (nonché casa di alcune etnie indigene isolate)1. La nostra lancia a motore, partita dal piccolo molo di Francisco de Orellana (anche conosciuta come Coca), schizza veloce sul pelo dell’acqua. Ogni tanto decelera o vira con agilità per evitare tronchi di alberi che affiorano dall’acqua.

Il fiume, largo e abbastanza profondo, è percorso soprattutto da canoe e da piccole imbarcazioni a motore. Ma ogni tanto s’incrociano anche chiatte che trasportano camion legati all’industria petrolifera. È proprio il petrolio che sta mettendo a repentaglio i fragili equilibri dell’Amazzonia ecuadoriana. Lo si capisce anche da una banale osservazione dell’ambiente circostante. Non molto dopo la partenza dal porticciolo di Coca, sulla riva sinistra del Napo notiamo alcune torri petrolifere sormontate dalla tipica fiamma che brucia il gas in eccesso2. Senza dire degli sbancamenti di cui sono fatti oggetto alcuni tratti della sponda sinistra del fiume.

Avvistamenti di questo tipo per fortuna non si ripetono nelle due ore successive di navigazione: sulle due rive del Napo è pura vegetazione. A un certo punto, mentre sulla riva opposta è già territorio del Parco Yasuní, la lancia inizia a rallentare e si avvicina alla sponda sinistra dove c’è un ormeggio e una passerella. «Bienvenidos a Sani Isla», recita il cartello.

Le donne di Sani Isla

Ci accolgono quattro giovani donne, indigene dell’etnia quichua3 che abita questo spicchio d’Amazzonia ecuadoriana. Indossano semplici ma eleganti camicette colorate e gonne a falde. Una tabella di legno conficcata nel terreno spiega che a Sani Isla, con il supporto di due organizzazioni, la statunitense Rainforest Partnership e la ecuadoriana Conservación y Desarrollo, si porta avanti un progetto lavorativo per le donne della comunità.

Una signora con i capelli neri raccolti in una treccia ci spiega che qui lavorano 34 donne divise in 5 gruppi che si alternano settimanalmente. Dal 2010 le donne producono oggetti d’artigianato – collane, braccialetti, orecchini, borse di stoffa -, fatti con semi e fibre vegetali, raccolte nella foresta o appositamente coltivate. I prodotti vengono poi venduti ai turisti che arrivano dai vicini lodge (Sacha, Sani, Napo Wildlife Center) della foresta e che visitano Sani Isla.

Quello dei lodge è un turismo con un impatto ambientale contenuto sia per i numeri esigui di turisti che muove (è costoso) sia per le sue modalità ecosostenibili. In ogni caso, nessuna attività umana produce un impatto comparabile con la devastazione insita in qualsiasi attività petrolifera (esplorazione, perforazione, estrazione, trasporto, ecc.). La comunità di Sani Isla lo sa benissimo perché in passato, sul rapporto con le imprese petrolifere, si è divisa al proprio interno.

Nel 1998 i leader della comunità firmarono un accordo con l’impresa statunitense Occidental Petroleum (Oxy), per consentire l’esplorazione petrolifera sul loro territorio che si estende per 20.567 ettari legali (e altri 42.000 reclamati)4. Come compensazione ottennero la costruzione di una struttura ecoturistica, il Sani Lodge. Questo opera dall’anno 2000 ed è interamente gestito dalla comunità, che ne ricava un reddito importante. Per fortuna, la Occidental non trovò il petrolio e se ne andò. Venne però sostituita dalla ecuadoriana Petroamazonas (del gruppo Petroecuador), che già operava in zona e con la quale venne sottoscritto un nuovo accordo. Ma tra molti abitanti di Sani Isla, divenuti nel frattempo più consapevoli dei pericoli dell’attività petrolifera, iniziò a crescere il malcontento. Fu così che, nel dicembre del 2012, l’assemblea comunitaria rigettò quell’accordo, aprendo un contenzioso legale e politico tuttora in corso.

Una donna del gruppo, Mariska, ci accompagna per illustrarci il luogo e le piante che crescono qui attorno. È molto giovane e un po’ timida, ma risponde con gentilezza alle domande, anche a quelle che preferirebbe evitare. «Un tempo – spiega – la comunità lavorava con le compagnie petrolifere, adesso soltanto con il turismo, che è meglio perché non inquina».

A Sani Isla non ci sono abitazioni dato che le singole famiglie vivono lungo il Rio Napo. Qui ci sono soltanto le strutture comunitarie, alcune costruite in maniera tradizionale (con legno e tetti di frasche), altre in muratura. In mezzo un campetto da calcio, una serra, un’antenna radio. Ai lati alcuni piccoli appezzamenti coltivati con prodotti della foresta, soprattutto cacao.

Le strutture più grandi sono due semplici costruzioni in muratura dalla forma rettangolare, un solo piano, grandi finestre e tetto piatto. In una ci sono una lavagna e banchi scolastici su cui poggiano alcuni libri. L’altra, distante pochi metri, ospita un’ampia sala con sedie di plastica dove si tengono le assemblee. Sul bancone, un libro: Pachacamacpac Quillcashca Shimi, recita la copertina. Lo apriamo per capire di che tratti. È una Bibbia bilingue (spagnolo e quechua), segno che la sala è utilizzata anche per le funzioni religiose.

Nessuna compensazione vale l’inquinamento

Sulla porta di una casetta notiamo una giovane donna con un neonato in braccio. Ci avviciniamo e vediamo che la porta è quella dell’ambulatorio medico.

All’interno ci sono due persone giovani – una donna e un uomo – seduti attorno a un tavolo sul quale ci sono un misuratore di pressione, alcune boccette di disinfettante, un barattolo con batuffoli di cotone, alcuni quaderni. I due si presentano come Elizabeth Orbe e Charles Belzu, medici.

«Io sono medico comunitario – spiega Elizabeth -. Lavoro per Petroamazonas. Prestiamo servizio a tutte le comunità che stanno nella sua zona d’influenza. È un lavoro svolto in accordo con il ministero della Salute».

«Io lavoro per il ministero di Salute pubblica e sono specialista in medicina familiare – racconta Charles, boliviano e laureato a Cuba -. Veniamo di norma la domenica perché in questo giorno ci sono le riunioni della comunità. Facciamo anche delle visite alle case quando ci sono anziani o donne in gravidanza che non possono muoversi o che non hanno la possibilità economica per muoversi».

«Le patologie più comuni – spiega Elisabeth – sono problemi della pelle, respiratori e gastrointestinali. Di solito la loro causa sono le scarse condizioni igieniche».

Senza voler mettere in imbarazzo i due giovani medici chiediamo delle patologie conseguenti a inquinamento. «Per quanto ci riguarda – risponde Charles – non abbiamo riscontrato problemi dovuti a inquinamento. Il governo permette l’estrazione petrolifera, ma pretende attenzione per l’ambiente».

All’esterno, su un muro dal vivace colore arancione, una piccola targa recita: «Quest’opera fu costruita da Occidental Petroleum (Oxy) in accordo con la comunità nell’anno 2002».

«Quella adesso non c’è più. Ora c’è Petroecuador», ci dice un giovane dagli occhi arrossati seduto su una panca posta davanti all’entrata.

Parla lentamente, quasi scandendo le parole, forse perché lo spagnolo non è la sua lingua madre. «Mi chiamo Cirilo e sono un agente di salute della comunità di Sani Isla», spiega.

L’agente di salute è una sorta d’infermiere generico. «Le persone che vengono da me – racconta – hanno spesso problemi di pelle a causa di mosquitos e zancudos. E poi c’è la questione dell’acqua: qui non c’è acqua potabile. Dobbiamo purificarla o comprarla a Coca. Quanto ai medici vengono soltanto la domenica».

Chiediamo a Cirilo di questo rapporto ambiguo con le compagnie petrolifere. Lui non ha dubbi ribadendo più volte e senza tentennare: «Vengono qui e inquinano. Noi dobbiamo essere molto duri nei loro riguardi».

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Le acque del Rio Napo

In una capanna senza pareti alcune donne stanno preparando il cibo su una grande griglia scaldata da un fuoco di legna. Sopra cuociono platano (banana da cottura, ndr), tuberi di yucca e alcune varietà di semi.

In un angolo, accanto alle amache in cui sono adagiati due neonati, un’altra donna indigena, accovacciata a terra, sta pulendo pesce del Rio Napo. Il fiume però non è più pescoso come un tempo. Difficile dire se a causa del super sfruttamento o per l’inquinamento delle sue acque causato da sversamenti di petrolio (derrame de crudo). L’ultima emergenza resa pubblica risale al giugno del 2013 quando le acque inquinate del Napo arrivarono fino alla provincia di Maynas, foresta amazzonica del Perù.

Paolo Moiola

 Note

(1) Il Rio Napo nasce alle falde del vulcano Cotopaxi. Confluisce nel Rio delle Amazzoni dopo circa 1.130 chilometri, gli ultimi 667 in territorio peruviano.
(2) La pratica è nota come «gas flaring».
(3) La scrittura: Quichua o Kichwa per l’etnia, Quechua per la lingua.
(4) Fonte: Rainforest Partnership, The Sani Warmi Project, 2013.


Amazzonia

Tra sfruttamento e preservazione

Più l’ambiente è delicato, più la presenza umana produce un impatto rilevante. Come fare per impedire lo sfruttamento delle risorse dell’Amazzonia? Come fare se l’interesse particolare di un paese (Ecuador, Brasile, Perù e altri paesi amazzonici) è in conflitto con quello generale della comunità internazionale? E che dire dei diritti dei popoli indigeni che l’Amazzonia la abitano?

Nel 2007 Rafael Correa, all’epoca presidente dell’Ecuador, lanciò una proposta rivoluzionaria nota come «Iniciativa Yasuní-Itt». Le ingenti riserve petrolifere del Parco Yasuní sarebbero rimaste nel sottosuolo se la comunità internazionale avesse contribuito a dare all’Ecuador almeno la metà delle entrate che il paese avrebbe ricavato sfruttando quei giacimenti. In questo modo si sarebbe salvaguardata una delle maggiori riserve mondiali di biodiversità, evitando nel contempo di immettere nell’atmosfera altre quantità di anidride carbonica.

I fondi raccolti furono però molto esigui rispetto a quanto previsto dal governo ecuadoriano. Pertanto, nell’agosto del 2013, Correa, ancora presidente, annunciò la fine del progetto e l’inizio dello sfruttamento del petrolio dello Yasuní, pur limitato – spiegò – all’1 per cento della superficie del parco nazionale.

L’idea – sicuramente rivoluzionaria – non ebbe successo un po’ per demerito del governo ecuadoriano, molto per lo scarsissimo contributo della comunità internazionale. Oggi lo sfruttamento del petrolio del Yasuní è iniziato e le prospettive non sono rosee, perché i danni – pur occultati – già iniziano a vedersi.

Il disastro brasiliano – In Brasile, paese che possiede la maggior parte dell’Amazzonia (circa il 64% dell’estensione totale), la situazione è ancora più drammatica, come certificano gli studi dell’istituto Imazon (Instituto do Homem e Meio Ambiente da Amazônia) e i dati satellitari dell’Inpe (Instituto Nacional de Pesquisas Espaciais). Il disboscamento (desmatamento) annuale è diminuito dal 2004 (quando raggiunse la cifra record di 27.800 Kmq, con un aumento del 100% rispetto al 1997) al 2012 (4.700 Kmq), ma successivamente ha ripreso ad aumentare in maniera preoccupante. Stando ai dati ufficiali, nel 2016 il disboscamento è stato di circa 8.000 chilometri quadrati (un’area vasta come la regione Friuli Venezia Giulia). Le ricerche attestano che la causa principale del disboscamento è l’allevamento bovino, seguito dalle piantagioni di soia.

Particolare versus generale – I paesi amazzonici dichiarano che la loro sovranità è un diritto intangibile anche quando si parla di Amazzonia. In base a questa considerazione affermano di avere il diritto di decidere cosa fare dell’ambiente amazzonico e delle sue ricchezze. Dimenticando però che quello stesso diritto dovrebbe essere riconosciuto ai popoli indigeni, abitanti originari di quei territori.

Conoscere per difendere – La preservazione dell’Amazzonia è un obbligo indiscutibile, a maggior ragione in tempi di drammatico cambiamento climatico. Trovare e mettere in essere una difesa efficace senza privare i paesi amazzonici di opportunità di crescita è un problema aperto e di non facile soluzione. Il mercato internazionale delle emissioni (per esempio, quello del programma Redd, Reducing Emissions from Deforestation and Forest Degradation) è ancora embrionale e presenta aspetti ambigui. L’ecoturismo, pur non esente da impatti ambientali, può essere un’attività economica accettabile se adeguatamente regolamentata. Anzi, può diventare uno strumento utile per far conoscere la bellezza del mondo amazzonico. E quindi per aiutare a difenderlo dalle innumerevoli minacce esterne, in primis dallo sfruttamento indiscriminato delle sue ricchezze.

Paolo Moiola

 

Archivio MC

Tra gli articoli più recenti sull’Ecuador segnaliamo:

  • I dieci anni di Rafael Correa, maggio 2016;
  • L’alunno e il professore, giugno 2016;
  • La maledizione del petrolio, luglio 2016;
  • Una storia troppo sporca, agosto-settembre 2016.

Tutti gli articoli sono firmati da Paolo Moiola.

Siti web

  • yasunidos.org -è la Ong ecuadoriana che difende il Parco Yasuní.
  • rainforestpartnership.org – è la Ong statunitense che si occupa di salvaguardia delle foreste pluviali e che sostiene anche il progetto Sani Isla.

Videoreportage

Un videoreportage sul Río Napo e su Sani Isla è visibile su YouTube sul canale di Paolo Moiola: www.youtube.com/user/pamovideo




Arabia Saudita – Usa: Trump d’Arabia


All’Arabia Saudita, paese ritenuto il principale sponsor (ideologico e finanziario) del terrorismo jihadista, Donald Trump ha venduto armi per miliardi di dollari. Il presidente e il re saudita hanno indicato l’Iran sciita come l’unico responsabile del terrore. Pochi giorni dopo la visita l’Isis ha attaccato Tehran.

Riyadh, Arabia Saudita, 21 maggio 2017. Nessuno dimenticherà presto quell’inquietante immagine, rimbalzata nei media e nei social network di tutto il mondo, che ritrae intorno a un globo luminoso il presidente Usa Donald Trump, il re Salman Bin Adbulaziz Bin al-Saud, padrone di casa, il presidente egiziano al-Sisi e, ai loro lati, i leader di altri 50 paesi islamici. La scena pare evocare rappresentazioni di fratellanze occulte per il dominio sul mondo.

Armi e miliardi

Il primo viaggio estero di Donald Trump aveva obiettivi politici, ma soprattutto economici a tutto vantaggio degli Stati Uniti. L’accordo stipulato con Riyadh prevede una vendita di armi all’Arabia Saudita per un valore di 110 miliardi di dollari da pagare subito e altri 350 miliardi in dieci anni. Un accordo elefantiaco che – come scrive John Wight (counterpunch.org, 23 maggio) – potrebbe essere un «incentivo che la politica e i media statunitensi richiedono per girarsi dall’altra parte quando [l’Arabia Saudita] decapita, crocifigge, cava gli occhi pubblicamente, e esegue altre punizioni crudeli e barbare su base regolare». Tale arsenale di distruzione dovrà difendere il già ben difeso Israele e rappresenterà una minaccia sia per l’Iran, uno dei bersagli preferiti della propaganda bellica di Trump, sia per tutto il Vicino e Medio Oriente e Nordafrica.

Trump: Iran terrorista

Nella sua visita, Trump non ha lesinato elogi per il regime di Riyadh, esaltandolo, paradossalmente, per la «lotta al terrorismo» e lanciando, allo stesso tempo, dure accuse all’Iran. Visti gli ampi studi e la documentazione al riguardo, non è un segreto per nessuno che la dottrina salafita wahhabita dell’Arabia Saudita sia la matrice ideologica e metodologica del jihadismo sia di al-Qa‘ida sia del Daesh, e responsabile del sostegno materiale all’estremismo cosiddetto islamico.

Appare dunque un chiaro segno di appoggio alle politiche di Riyadh, il discorso aggressivo e manipolatorio di Trump verso l’Iran: «Dal Libano all’Iraq allo Yemen, l’Iran finanzia, arma e addestra terroristi, milizie e altri gruppi estremisti che diffondono distruzione e caos nella regione. Per decenni, l’Iran ha alimentato il fuoco dei conflitti settari e del terrore. È un governo che parla apertamente di omicidi di massa, promettendo la distruzione di Israele, la morte dell’America, e la rovina per molti leader e nazioni riunite in questa stanza. Tra gli interventi più tragici e destabilizzanti dell’Iran c’è la Siria. […] Le nazioni responsabili devono lavorare insieme per porre fine alla crisi umanitaria in Siria, sradicare l’Isis, e riportare la stabilità nella regione. […] Finché il regime iraniano non diventerà un partner per la pace, tutte le nazioni con coscienza devono lavorare insieme per isolarlo, impedirgli di finanziare il terrorismo e pregare per il giorno in cui gli iraniani avranno il governo giusto che si meritano».

Trump attacca un paese che due giorni prima, il 19 maggio, era andato alle urne e aveva rieletto il moderato e filo occidentale Hassan Rohani (vedi sotto).

AFP PHOTO / Saudi Royal Palace / BANDAR AL-JALOUD

Re al-Saud: l’Iran è il colpevole

Ancora più grottesta la dichiarazione di re Salman Bin Adbulaziz Bin al-Saud: «L’Arabia Saudita rifiuta ogni estremismo e lotterà per fermarne il finanziamento. Vogliamo una vera collaborazione con gli Stati Uniti per perseguire la via dello sviluppo e della pace, così come chiede la nostra religione. L’islam sarà sempre la religione della pietà e della tolleranza. Oggi, tuttavia, alcuni presunti musulmani vogliono presentare un quadro distorto della nostra religione. L’Arabia Saudita non ha mai conosciuto il terrorismo fino alla rivoluzione khomeinista. L’Iran interferisce negli affari interni di altri paesi, come dimostra il suo intervento nello Yemen (Riyahd è protagonista in quella guerra, ndr). Noi non consideriamo nemico il popolo iraniano ma il regime iraniano. Con l’accordo di Sua eccellenza Trump colpiremo il terrorismo, divulgheremo inoltre la cultura della tolleranza contro il terrore e la sua propaganda».

Pecunia non olet

La chiave di lettura di tutta l’operazione di propaganda Usa-Saudita sta qui: «Vi ringraziamo per la creazione di questo grande momento storico – ha affermato Trump -, e per il vostro massiccio investimento in America, nella sua industria e lavoro. Vi ringraziamo anche per i vostri investimenti nel futuro di questa parte del mondo».

Pecunia non olet (il denaro non puzza): questo vale per qualsiasi potente, ma ancora di più per Trump, che, oltre a essere un capo di Stato è anche, o soprattutto, un uomo d’affari miliardario. In qualche modo, è quanto ha fatto notare il ministro degli Esteri iraniano, Mohammad Javad Zarif, che, secondo quanto ha riportato l’agenzia iraniana ParsToday, ha sottolineato come uno degli obiettivi di Trump è «mungere i sauditi». Zarif ha ricordato che Riyadh è il più importante acquirente delle armi americane e, con Israele, il primo alleato di Washington nel Medio Oriente .

Probabilmente, come diversi analisti indipendenti hanno rilevato, le accuse di Trump, e di tutti gli altri presidenti Usa, contro l’Iran sono parte di una strategia volta a creare timori e minacce in Medio Oriente, e a vendere costosi arsenali bellici ai paesi arabi e islamici della regione.

Il «pacchetto di armamenti» (oltre 450 miliardi di dollari per tank, navi militari, sistemi missilistici di difesa, radar e comunicazioni, e tecnologia della sicurezza cibernetica) servirà – secondo quanto affermato dalla Casa Bianca – a «promuovere la sicurezza del Regno e della regione del Golfo di fronte alle minacce iraniane». Servirà anche a espandere le attività delle aziende statunitensi in Medio Oriente e a creare decine di migliaia di posti di lavoro nell’industria della «difesa», come si legge nella dichiarazione.

Sunniti contro sciiti

Il gotha dell’islam sunnita riunito in Arabia Saudita, tra sabato 20 e domenica 21 maggio, aveva l’aria minacciosa di una coalizione anti-sciita in procinto di organizzare una guerra a tutto campo contro gli odiati avversari religiosi, ma soprattutto geopolitici, nel Vicino e Medio Oriente. Infatti, il terrorismo mediorientale, cioè al-Qa‘ida e le sue filiazioni (compresa quella definita «moderata» di Jabat al-Nusra), e il Daesh (Isis), hanno origine e supporto nel paese ospite del vertice arabo e non certo in Iran. Una farsa pericolosa, dunque, portata avanti da leader irresponsabili.

Da parte sua, il nuovo inquilino della Casa Bianca ha perseguito due obiettivi importanti allo stesso tempo, e interconnessi tra loro: quello del business miliardario e dell’affondo all’Iran, in una prospettiva di conflitto totale tra i due schieramenti mediorientali: il sunnita – con i paesi del Golfo e la Turchia, determinati a dominare nella regione -, e quello sciita – con l’Iran, il Libano degli Hezbollah e la Siria di Assad. Fondamentale, in questo risiko giocato sulla pelle di milioni di esseri umani, sarà il ruolo della Russia di Putin e della Cina, che per il momento mantengono una certa compostezza.

Attraverso il business degli armamenti e di tutto l’indotto bellico l’economia statunitense prenderà fiato. Inoltre, gli Usa forniranno ulteriore protezione e sicurezza incondizionate a Israele – nonostante i crimini di cui continua a macchiarsi contro gli autoctoni Palestinesi -, e stabiliranno un predominio sul sempre strategico Medio Oriente. Insomma, siamo in una nuova fase del neocolonialismo occidentale, con gli Stati Uniti di Trump a ricoprire il ruolo di attore principale, in competizione o alleanza conflittuale con Gran Bretagna e Francia, e in antagonismo con Russia e Cina.

Il tornaconto dei leader arabi

Come storicamente hanno già dimostrato più volte, a partire dalla fine del secolo XIX e proseguendo nel XX, i leader arabi si distinguono per la totale incapacità di guardare oltre il loro tornaconto personale e familiare, e di seguire una politica estera autonoma, unitaria e in contrasto con quella delle potenze coloniali. Per comprendere la situazione odierna, infatti, è fondamentale ritornare alla storia dei paesi arabi dei primi decenni del Novecento e ai fallimentari accordi tra sceicchi arabi e potenze europee per la spartizione del Vicino e Medio Oriente, e alle vicende coloniali europee in Libia. Insomma, gli errori arabi si ripetono all’infinito, senza lasciar intravedere una maturazione.

La storia è ciclica, soprattutto nel mondo arabo e islamico e quando ci sono di mezzo potere e affari. Speriamo che questa nuova e macabra farsa non si trasformi in un’altra tragedia.

Angela Lano

1 / Il terrorismo e la «svolta» del 5 giugno 2017

Arabia Saudita contro Qatar

Lo scorso 5 giugno Arabia Saudita, Egitto, Bahrein ed Emirati arabi uniti hanno rotto le relazioni diplomatiche con il Qatar. L’Arabia Saudita, genitrice ideologica e materiale di ogni forma di devianza dottrinale, e i suoi alleati accusano Doha di «finanziare il terrorismo». E qui s’intende l’Iran e le sue relazioni con Siria e Hezbollah che, secondo il Trump-pensiero, sono all’origine del terrorismo, e non – invece – al-Qa’ida e il Daesh, come noto finanziate da Arabia Saudita e altri paesi del Golfo. Riyadh investe soldi a palate in Europa, Asia, Africa e Americhe sia per «business» sia per attività di «catechesi» (wahhabi). Il Qatar ha comprato mezza Europa e anch’esso finanzia qua e là per diffondere la stessa ideologia wahhabi. Tra i due paesi è in atto da tempo una guerra per procura che si allarga sempre di più, e il cui obiettivo è il controllo di vaste aree di Africa e Medio Oriente. Entrambi sono appoggiati da potenze occidentali (Stati Uniti, Israele, Gran Bretagna, Francia) che vedono in certe dinamiche l’«utile caos» per continuare a colonizzare militarmente ed economicamente ampie regioni del mondo. La crisi tra i paesi del Golfo sembra essere precipitata dopo la visita del businessman nonché presidente Usa, Trump, in Arabia Saudita.

Angela Lano

2 / Iran: le prime conseguenze

Tehran sotto attacco

Mercoledì 7 giugno terroristi dell’Isis hanno attaccato il parlamento di Tehran facendo almeno 12 morti. Il fatto è avvenuto dopo la rielezione di Hassan Rohani e dopo la rottura delle relazioni diplomatiche tra Arabia Saudita e suoi alleati con il Qatar (notizia a lato). Con Razie Amani, giornalista iraniana e docente all’Università di Tehran, abbiamo parlato delle accuse di Trump all’Iran.

«Le dichiarazioni di Trump sono in linea con la creazione di una Nato araba e con la presenza massiccia delle armi statunitensi in Medio Oriente, a difesa di Israele. L’attacco contro l’Iran è anche contro il Libano di Hezbollah e la Siria di Assad (cioè, gli “assi della resistenza”). Il Daesh, come fu per al-Qa‘ida, è stato creato per destabilizzare il Vicino e Medio Oriene, in particolare il Libano e la Siria».

A livello geopolitico che esiti avrà l’alleanza economico-militare tra Usa e Arabia, rafforzata dai recenti accordi? «Secondo me non esiste una vera alleanza, ma un affare enorme che gli Usa hanno fatto in Arabia Saudita, non solo a livello economico ma anche per rendere più forte la presenza statunitense in Medio Oriente. L’unica reale conseguenza geopolitica è il rafforzamento del regime di Riyadh in quanto suddito di Stati Uniti e Israele, e il tentativo di indebolimento dell’Iran nella regione. Dobbiamo comprendere che la Nato non gioca più a scacchi con la Russia sul territorio europeo, come decenni fa. Lo fa in Medio Oriente».

Rohani è stato rieletto. Quali sono le motivazioni e le prospettive? «È la figura che rappresenta la parte “moderata” e filo occidentale del paese. Rohani ha basato la sua propaganda elettorale sulla paura: “Se non voterete me, ci saranno guerra e sanzioni occidentali”. Come se le sanzioni non fossero in atto già da lungo tempo. La sua missione è realizzare un’apertura e una maggiore obbedienza dell’Iran agli Usa e alla grande finanza mondiale. Ma sappiamo che ciò non servirà a nulla, anzi, sarà dannoso». L’attentato del 7 giugno lo dimostra.

Angela Lano




Congo Brazzaville: non solo petrolio


Un paese semisconosciuto. Spesso confuso con il suo vicino, il più noto Congo RD. Ma è uno dei principali produttori africani di petrolio. E i rapporti con l’Italia sono molto stretti, da mezzo secolo. Non tra i popoli, ma tra i vertici e i tecnici delle imprese petrolifere. Cerchiamo di sapee di più.

Tra Italia e Repubblica del Congo c’è un’amicizia di lunga data. Il mastice che tiene uniti i due paesi è il petrolio. Dal 1968, l’Eni, la società italiana di idrocarburi, estrae greggio e continua a fare prospezioni nei fondali marini e sulla terra ferma della nazione africana. Non è un caso che il premier italiano Matteo Renzi nella sua prima visita in Africa, nel luglio 2014, abbia incluso una tappa proprio a Brazzaville, la capitale del Congo. E in quella visita si premurò di incontrare il presidente Denis Sassou Nguesso. Esiste quindi un solido sodalizio d’affari. Per noi italiani Brazza è un partner strategico, come lo sono Angola, Mozambico, Algeria, Nigeria e, un tempo, Libia.

Un mare di greggio

L’economia della Repubblica del Congo – anche chiamata Congo Brazza – dipende in gran parte dal petrolio. Il paese è uno dei cinque grandi produttori dell’Africa subsahariana (insieme ad Angola, Nigeria, Gabon e Mozambico). Secondo i dati foiti dal Fondo monetario internazionale, l’«oro nero» assicura l’80% delle entrate del bilancio statale. Il greggio viene estratto soprattutto da giacimenti offshore (cioè al largo delle coste), ma esistono riserve anche sulla terraferma, così come notevole è la presenza di sabbie bituminose dalle quali è possibile ricavare petrolio (sebbene con procedimenti molto inquinanti e costosi). Il Congo Brazza ha pure importanti giacimenti di gas che però non riesce a sfruttare appieno perché manca una rete di distribuzione (nonostante rappresentino un’ulteriore potenziale fonte di ricchezza).

«Il Congo – spiega Antonio Tricarico, analista dell’associazione Re:Common, che a più riprese si è occupato della situazione congolese – punta anzitutto allo sfruttamento dei giacimenti marini. E questo per due motivi: in primo luogo perché nei fondali congolesi il petrolio è abbondante e le riserve promettono bene, in secondo luogo perché i giacimenti petroliferi congolesi sono relativamente vicini alla costa e quindi più facilmente sfruttabili. Alcuni anni fa, quando il prezzo del greggio era abbastanza elevato, il Congo ha investito nello sfruttamento delle sabbie bituminose e dei biocombustibili. Il progetto però è rimasto limitato alla fase esplorativa, probabilmente perché non era più conveniente rispetto alla produzione offshore e sulla costa. Oggi il governo punta soprattutto sulla concessione delle tradizionali licenze di sfruttamento». Secondo l’Energy Information Administration (ente statistico sull’energia del governo Usa), il paese ha riserve di petrolio che ammontano a 1,6 miliardi di barili. Un patrimonio che potrebbe portare sollievo a quella ampia fascia (46,5%) di popolazione che vive ancora sotto la soglia di povertà e potrebbe garantire energia al 65% di congolesi che ancora vivono senza elettricità.

Sventola il tricolore

Questa ricchezza però fa gola a molti. E infatti sul territorio di Brazza operano compagnie statunitensi, francesi, portoghesi, angolane. E, come già detto, anche l’italiana Eni. La società di San Donato opera nella nazione africana da 48 anni. È impegnata sul fronte dell’estrazione di petrolio, del gas naturale e delle sabbie bituminose. Secondo quanto riporta il sito Eni (www.eni.it), nel 2015 in Congo sono stati estratti un totale di 103mila barili al giorno tra gas e petrolio, cioè poco meno di quanto si estrae in Nigeria (137mila barili) e più di quanto viene ottenuto dai pozzi in Angola (101mila). La produzione è concentrata nei giacimenti di Zatchi, Loango, Ikalou, Djambala, Foukanda e Mwafi, Kitina, Awa Paloukou, M’Boundi, Kouakouala, Zingali e Loufika. Proprio quest’anno, 2016, l’Eni ha aumentato la produzione e prevede di toccare i 14mila barili al giorno. L’attività degli italiani si è concentrata soprattutto sull’estrazione marina.

Il blocco Marine XII sembra quello più promettente: si stima che i vari giacimenti di quest’area abbiano riserve di gas e petrolio per circa 6 miliardi di barili. Ma le esplorazioni continuano e gli ingegneri del «Cane a sei zampe» pensano che altre risorse siano ancora disponibili. L’Eni inoltre è attiva anche nella produzione di corrente elettrica. Nel 2007 ha infatti siglato un accordo con Brazzaville per la realizzazione di centrali elettriche che utilizzano il gas flaring, cioè il gas associato all’estrazione di petrolio. Questo gas, invece di essere rilasciato nell’atmosfera (è molto inquinante), viene portato, attraverso un gas-dotto di 55 km, nell’area di Djeno dove sono state realizzate due centrali che producono energia.

«I rapporti tra Congo ed Eni sono ottimi – osserva Tricarico -. Una piccola curiosità: Claudio Descalzi, l’attuale amministratore delegato dell’azienda del “Cane a sei zampe”, ha fatto una parte importante della sua carriera proprio in Congo e si è sposato con una donna congolese. Al di là dei pettegolezzi, la società italiana, in questi ultimi anni, ha rafforzato la sua presenza nel paese africano che è diventato sempre più strategico per i piani alti di San Donato. Nei prossimi anni, se non nei prossimi mesi, l’Eni dovrebbe addirittura acquisire alcune delle licenze ora in mano a Total. Quest’ultima pare invece volersi progressivamente sganciare da Brazzaville. L’Eni è quindi un attore chiave nel paese ed è destinato a diventarlo sempre di più in futuro».

Petrolio opaco

Il settore petrolifero congolese però alimenta un sistema opaco, in cui è difficile definire con esattezza i confini tra la legalità e la complicità con un sistema politico non trasparente, e poco rispettoso delle procedure democratiche. La questione che ha destato maggiore perplessità negli osservatori è il decreto presidenziale (non ancora trasformato in legge) approvato nel 2014. Esso prevede l’obbligo di rinnovo delle concessioni petrolifere e, in tale contesto, la cessione di una percentuale che va dall’8 al 10% (in alcuni casi fino al 25%) delle concessioni a società congolesi. Ciò non esclude lo sfruttamento dei giacimenti da parte delle compagnie straniere, ma impone una presenza sempre più importante di società congolesi nel settore degli idrocarburi.

Nel 2014 l’Eni ha venduto proprie partecipazioni in quattro campi petroliferi a una società che si chiama Aogc (Africa oil & gas corporation). La notizia della cessione a Aogc è emersa durante l’assemblea degli azionisti dell’Eni il 13 maggio 2015. «La Aogc è stata proposta come partner da Eni o dal governo congolese?», ha chiesto Elena Gerebizza, azionista e rappresentante delle due Ong Global Witness e Re:Common. «Non siamo stati noi a sceglierla», ha risposto Claudio Descalzi. L’Aogc non è una società qualsiasi. Nel consiglio di amministrazione siedono Denis Gokana, consigliere del presidente Sassou Nguesso, e alcuni funzionari pubblici. Nel 2005 l’azienda è finita nel mirino dell’Alta corte di giustizia inglese che l’ha inserita in una lista di società offshore create per distrarre i ricavi petroliferi congolesi. Secondo una ricerca di Global Witness, la Aogc sarebbe anche servita per pagare i salati conti dello shopping parigino di Denis Christel, figlio del presidente Sassou Nguesso (spesso i dirigenti africani amano fare compere nelle capitali europee, ndr).

Ma quello dell’Aogc non è l’unico caso che desta perplessità. «Nel periodo 2003-2005 – continua Tricarico – esistevano in Congo varie società petrolifere che io definirei di facciata, perché prendevano appalti dalla società nazionale degli idrocarburi e poi utilizzavano i soldi a beneficio della famiglia presidenziale. In questi mesi, nella Repubblica di San Marino, l’intermediario francese Philippe Maurice Chironi sta subendo un processo per presunto riciclaggio di 70 milioni di euro – di cui circa 20 effettivamente sequestrati – riconducibili a persone legate al presidente del Congo Brazzaville, Denis Sassou Nguesso».

Il settimanale «l’Espresso» ha sollevato un altro caso delicato, quello del blocco Marine XII. Il regime di Nguesso ha posto una condizione per il rilascio della concessione – ha scritto il periodico -: l’Eni avrebbe dovuto cedere il 25% del blocco a un’azienda selezionata dal governo. La scelta è caduta sulla New Age, una società nata due anni prima su iniziativa dell’Och-Ziff Capital Management Group, il più grande hedge fund statunitense. «Per quello scambio con Eni – si legge su l’Espresso -, New Age ha detto di aver versato all’azienda guidata oggi da Descalzi 53 milioni di dollari. Il problema è che quel prezzo era equivalente a un terzo del valore reale della quota, secondo i calcoli della McDaniel Associates Consultants, società di consulenza citata dalla stessa New Age. Ovvero la quota azionaria è stata largamente sottopagata. La differenza, spiega l’Eni, dipende dal fatto che “non si è trattato di una vendita su base commerciale; New Age entrò rimborsando proporzionalmente le spese sostenute fino al momento dell’ingresso nella joint venture”. Sulle attività africane di Och-Ziff stanno indagando le autorità statunitensi. Né l’hedge fund né gli inquirenti hanno specificato su quali investimenti sono in corso gli accertamenti».

Dulcis in fundo, sempre «l’Espresso», ha denunciato l’esistenza nel paradiso fiscale delle British Virgin Islands di una società, la Elengui Limited, la cui direttrice e socia unica era Marie Madeleine Ingoba, moglie congolese di Claudio Descalzi. La società è stata chiusa proprio nei giorni in cui Matteo Renzi ha nominato Descalzi al posto di Paolo Scaroni (2014).

Perché la moglie dell’allora numero due dell’Eni ha creato questa società? Marie Madeleine Ingoba ha sostenuto che «la società era stata costituita al solo scopo di essere utilizzata per sviluppare un progetto immobiliare a Brazzaville, la ristrutturazione e l’ammodeamento di un hotel nella capitale congolese, che però non si è mai materializzato». La scelta di crearla in un paradiso fiscale è stata dettata dalla praticità – ha detto la signora Descalzi -, la registrazione alle British Virgin lslands era la soluzione più rapida e meno costosa. Ma, sempre secondo la signora Descalzi, la sua società non ha mai avuto alcun rapporto con Eni.

L’amicizia è una bella cosa, ma il rischio è che l’Italia sia diventata troppo amica del Congo.

Enrico Casale

 




Una storia troppo sporca


«Gli abitanti si atteggiano a vittime per ottenere risarcimenti». «Gli ambientalisti esagerano sempre e ostacolano il progresso». Anche in Ecuador è normale sentire giudizi di questo tenore. Siamo andati a vedere e toccare con mano cosa ha lasciato nell’Amazzonia ecuadoriana la multinazionale petrolifera Chevron-Texaco. Il disastro – ambientale, umano, culturale – è pesantissimo e certificato dai tribunali. Eppure, a distanza di 6 anni dalla condanna, la compagnia statunitense nega qualsiasi risarcimento. A dispetto di quest’arroganza e impunità, le vittime, riunite in un’associazione, non si arrendono.

Nueva Loja (Lago Agrio) – Ci mostra le carte. Soltanto in queste stanze sono archiviate – in bell’ordine – centinaia di buste gialle contenenti documenti processuali di ogni tipo. Mentre prende dagli scaffali una busta qualsiasi, ci spiega: «Conserviamo più di 250.000 fogli». La apre: «Anno 2003, Corte Superior de Justicia de Nueva Loja, contra Chevron Corporation», si legge sul frontespizio della prima pagina.

Siamo con Donald Moncayo nella sede di Udapt, Unión de afectados y afectadas por las operaciones petroleras de Texaco, l’organizzazione nata a Nueva Loja nel 2001 per riunire tutte le vittime – sia indigeni che coloni – della compagnia petrolifera statunitense.

Come accaduto a Coca, anche qui ci viene proposto di andare a vedere e toccare con mano i danni prodotti dall’attività petrolifera1. Con la nostra guida lasciamo dunque la sede di Udapt per andare al pozzo denominato Lago 8 e perforato nel 1968, poco fuori della città.

Prove contundenti

Per ridurre al minimo i costi, la Texaco aveva scelto di costruire le vasche di contenimento per l’acqua di produzione (altamente contaminata) nel terreno e a cielo aperto.

«E soprattutto – spiega Donald – esse erano poste molto vicine a fiumi o a esteros (zone paludose). In questo modo, tutti i reflui delle estrazioni andavano in queste piscine e da qui, attraverso tubi, venivano dispersi nei corsi d’acqua e nella palude con conseguenze devastanti per l’ecosistema. Come ciò non bastasse, con l’espansione urbana, oggi ci sono case costruite a pochi metri da queste vasche».

La Texaco si è sempre difesa affermando di aver completato la bonifica delle piscine – ne sono state individuate 880 – nel 19982.

«Cosa hanno fatto? Semplicemente hanno tappato le vasche con circa 50-90 centimetri di terra pulita. E così dicono di avere bonificato. Un’operazione in cui hanno speso 40 milioni di dollari. L’ironico della vicenda è che, per difendersi dal giudizio, la compagnia sta spendendo 2.000 milioni di dollari. Se a quei tempi questa cifra fosse stata investita in un adeguato ripristino ambientale, adesso non ci sarebbero simili problemi».

Indossiamo degli stivali per andare a vedere una delle piscine incriminate. Una di quelle che Texaco dice di aver sistemato e ripulito. Donald prende una bottiglia d’acqua, un machete e un aese per fare buche, una specie di trivella manuale. Passiamo accanto a un tubo dell’oleodotto. «Qui passa il petrolio del pozzo Lago 29. Un petrolio leggero, un buon petrolio».

Arriviamo in uno spazio coperto da sterpaglia. «Questa era una piscina – ci indica Donald -. Il problema sta sotto la copertura di terra. Sta nell’acqua sotterranea che è stata contaminata. Purtroppo le persone quell’acqua la utilizzano».

Donald comincia a liberare un pezzo di terreno con il machete e poi, indossati un paio di guanti, inizia a bucarlo con la trivella a mano.

Lo scavo dura qualche minuto. La terra asportata dall’attrezzo comincia a diventare via via più nera. «Annusate», ci dice Donald a un certo punto. L’odore inizia ad essere pungente. «È l’odore tipico dei cosiddetti composti aromatici, altamente tossici per l’uomo e l’ambiente».

Viene estratto un sacchetto di plastica. «Nel pozzo erano gettati sacchi di sale. Neppure quelli hanno tolto in una decontaminazione che loro hanno definito perfetta».

«Facciamo una prova», dice Donald. Prende la bottiglia di acqua e ne taglia la parte superiore con il machete. «Mettiamo nell’acqua pulita un po’ della terra che abbiamo raccolto. Poi, con un pezzetto di legno pulito, mescoliamo il tutto. Come potete notare, la terra si deposita mentre il petrolio, più leggero, va verso l’alto». L’evidenza è clamorosa: siamo davanti a una bottiglia di petrolio, trovato a meno di 50 centimetri dalla superficie. Una prova evidente del danno ambientale procurato dalla Texaco.

Donald immerge la propria mano inguantata nel liquido. La risolleva e la apre davanti ai nostri occhi e al nostro naso. Sì, è proprio petrolio. «E poi dicono di aver risanato» chiosa Donald.

Ci propone di sentire quanto bruci la mano sporca di petrolio dopo pochi secondi al sole. «Mettetevi un guanto». Obbediamo e sì, la mano si riscalda subito.

Sono state 105 le relazioni degli esperti di ogni campo – chimici, biologi, naturalisti – che hanno dimostrato il danno che i signori di Texaco hanno prodotto. Un danno che continua, anche se in apparenza non si nota. «Qui non abbiamo acqua potabile, né acqua trattata. Se manca la pioggia, la gente deve per forza ricorrere all’acqua sotterranea. Non c’è altra possibilità». Donald parla di razzismo: «È un razzismo completo di tutte le sue lettere: r-a-c-i-s-m-o – scandisce -. È una lotta tra chi ha denaro e chi no. Tra chi preferisce spendere milioni di dollari in processi piuttosto che in azioni di bonifica ambientale».

Più di tutto può la necessità di lavorare. «La gente sa. Molti però preferiscono non parlare perché prestano servizio nelle imprese petrolifere. Che pagano bene: un addetto può guadagnare 800-900 dollari al mese, una cifra impossibile da raggiungere se lavori nella finca. Ti pagano per lavorare. E per tacere. Se inizi a parlare, fanno presto a licenziarti».

È arrivato il cancro

Forse la piscina del pozzo Lago 8 è semplicemente un caso isolato. Una piscina che non è stata ripulita bene dalla Texaco. Una situazione particolare, ingigantita dagli esponenti di Udapt per giustificare i propri reclami.

Risaliamo in auto per andare in un’altra zona, distante chilometri da qui. «Andiamo a trovare una famiglia che è stata vittima della Texaco», ci spiega Donald. Entriamo in foresta fino a raggiungere la casa su palafitte della famiglia Cabrera. Troviamo Ilterio Cabrera seduto all’ombra della palafitta proprio mentre è intento a sfogliare un recente libro fotografico sulle vittime della Texaco.

Alla sua famiglia l’autore ha dedicato alcune pagine perché essa è stata duramente colpita dalle operazioni della multinazionale, che nella sua finca aveva costruito una piscina. Per una «strana coincidenza» nella famiglia ci sono stati 3 morti per cancro: il fratello minore nel 1999, la mamma nel 2004 e il papà nel 2006. «Anche i nostri vicini hanno avuto morti per tumore» ci spiega l’uomo con un sorriso amaro.

Ilterio Cabrera vive qui con la moglie Marlene e 3 dei 5 figli. «Quando non trovo lavoro, coltivo la terra: cacao e mais soprattutto». Un’esistenza sul filo perché la contaminazione continua ancora oggi.

Una guerra di resistenza

Andiamo al pozzo chiamato Charapa 1. A ricordarlo, oltre al cartello con il nome, c’è un misuratore di pressione e qualche tubo arrugginito.

«Fu perforato da Texaco nel 1971. Per esso costruirono tre piscine. Una là e altre due da questa parte. Una di esse sta a 40 metri dalla casa della famiglia Cabrera». Ci muoviamo verso una di esse. È differente da quella del pozzo Lago 29, perché qui il petrolio è immediatamente visibile sotto le foglie sparse sul terreno. «Qui versavano – spiega Donald – il cosiddetto petrolio di prova. Quando si riempiva il buco, il petrolio defluiva fuori. I contadini chiamavano l’impresa che mandava qualcuno ad aspirarlo. Poi esso veniva riversato sulle strade per – si giustifica la compagnia – evitare la polvere. Peccato che qui le piogge siano frequenti e che esse spargessero il petrolio per ogni dove. Ecco perché non occorre vivere nei pressi di una piscina per ammalarsi di cancro o di altre patologie. Oltre a questa opzione, ce n’era poi una seconda: bruciare il petrolio della piscina. Bruciava per giorni e la colonna di fumo generata si vedeva da ovunque».

Donald scende nella buca con il badile. Il terreno è morbido. Non occorre scavare: già con la prima badilata si estrae un materiale vischioso dal colore e odore inconfondibili. È petrolio.

I responsabili di tutto questo hanno perso il giudizio, ma non hanno mai pagato. «In Ecuador la Texaco non possiede più nulla e pertanto siamo andati a reclamare in altri paesi dove essa opera: in Argentina, in Brasile e in Canada abbiamo aperto dei procedimenti per sequestrare i beni della compagnia. Purtroppo, facciamo fatica perché non abbiamo denaro. Loro pensano che allungando i tempi dei processi alla fine noi desisteremo per mancanza di risorse. Ma questo non succederà».

La passione con cui la nostra guida ci ha condotto in questo itinerario tra i disastri della Texaco è contagiosa. Impossibile rimanere indifferenti.

«Questa – conclude Donald Moncayo – è come una scuola, un’università. Noi abbiamo il dovere di mostrare al mondo cosa fanno le imprese multinazionali fuori dei loro paesi. Perché ciò che è accaduto qui non si ripeta in altri luoghi».

Paolo Moiola
(fine quarta puntata – continua)


Note

1 – Nella precedente puntata (MC 7/2016, pp. 51-57) è stato raccontato il «toxitour» a Coca, la seconda città petrolifera del paese, dopo Nueva Loja. I toxitour non sono gite turistiche. Chi li organizza lo fa per motivi informativi e didattici. Non esiste un prezzo. Chi vuole, lascia un’offerta.

2 – Il 30 settembre del 1998 la Texaco si accordò con il governo di Jamil Mahuad certificando di aver riparato i danni prodotti in Amazzonia e liberandosi di ogni futura responsabilità. Riparazioni poi giudicate parziali o fittizie.

 




Guardandosi in cagnesco


Mentre questi articolo era in stampa, a partire dl 10 luglio la situazione è precipitata nel Sud Sudan e gli scontri tra Dinka e Nuer si sono riesplosi con grande violenza a partire da Juba, dove ci sarebbe dovuto essere un incontro di pace.


È durata due anni e mezzo. La guerra civile sud sudanese ha fatto vedere i delitti più efferati. Due milioni e mezzo di sfollati, decine di migliaia di vittime civili. L’uso sistematico dello stupro come arma di guerra. L’Onu parla di crimini contro l’umanità. Ma il mondo non lo sa neppure. Ora c’è una pace instabile, con tutti i problemi ancora sul tavolo.

Riek Machar, il capo dei ribelli, è tornato a Juba. È il 26 aprile 2016. Dopo due settimane spese a Gambella in Etiopia per definire quali armamenti poteva portare con sé (missili terra-aria, anticarro, stringer, etc.), ha finalmente avuto l’ok delle autorità etiopi e poi dal presidente del Sud Sudan, il suo acerrimo nemico Salva Kiir Mayardit, per atterrare nella capitale. Fuori città c’è l’esercito regolare Spla (Sudan people liberation army) schierato in caso di necessità. «C’era un grande fermento in quei giorni. Io ero sul terreno e tutti stavano attaccati alla radio, perché non funzionavano i telefoni, ma solo radio e internet» ci racconta Angela Osti, da alcuni mesi nel paese come cornordinatrice di un progetto di emergenza per una Ong italiana. «Lo staff locale era agitato. Poi finalmente Machar arriva, ed è festa. Salva Kiir lo chiama fratello. Ma, pochi giorni dopo, tutti sono delusi dai nomi del governo transitorio di unità nazionale: sono gli stessi di due anni e mezzo prima, quando è scoppiata la guerra civile. La pace l’aspettavano tutti: “adesso che arriva la pace, sarà diverso…”, dicevano».

Sono passati due anni e nove mesi da quando è scoppiato il cruento conflitto interno al Sud Sudan, il nuovo stato africano, nato appena il 9 luglio del 2011.

«È la guerra più atroce che questi popoli abbiano mai vissuto. Non è stato così neppure nei decenni di guerre contro gli arabi del Nord. C’è stato un combattimento acerrimo tra due etnie che si sono massacrate a vicenda». Chi parla è Daniele Moschetti, superiore regionale dei missionari Comboniani in Sud Sudan.

Ma per capire come si è arrivati a questo punto, occorre fare un passo indietro.

Un paese giovane

Il Sud Sudan, è il 54° stato africano. Ha una superficie di 619.745 chilometri quadrati (due volte l’Italia) per 11,5 milioni di abitanti. Confina con Etiopia, Kenya, Uganda, Congo Rd, Repubblica Centrafricana e, ovviamente, Sudan dal quale si è staccato.

Paese con infrastrutture quasi inesistenti, ha una zona più umida e produttiva a livello agricolo ad Ovest, un’area paludosa nel centro Sud ed arido nell’Est.

È uno dei paesi più poveri del mondo ma rigurgita di acqua e di petrolio.

Le guerre del Sudan

Prima dell’indipendenza dal Sudan si contano due guerre tra i popoli del Sud, neri e cristiani o animisti, e il Nord, arabo e musulmano. Il Sud ha le risorse, come la terra coltivabile, l’acqua, e soprattutto il petrolio (l’80% dei giacimenti si concentrano qui). Le multinazionali iniziano a sfruttare il greggio sudanese intorno agli anni ’70.

Tra il 1956 (anno dell’indipendenza da Egitto e Gran Bretagna) e il 1972, si colloca la prima guerra civile sudanese, con connotazione più religiosa.

Nel 1983 scoppia la seconda guerra: il Sud, chiede l’indipedenza dal Nord, che non vuole mollare le risorse. Tra i vari eserciti del Sud che combattono contro l’esercito sudanese si distingue il Sudan people liberation army (Spla), comandato dal carismatico John Garang dell’etnia dinka, maggioritaria.

Con gli accordi di pace del 2005 viene sancita una grande autonomia del Sud, e si prevede un referendum per la secessione. John Garang diventa vicepresidente del Sudan. «Il sogno di Garang – racconta Moschetti – non era la divisione del Sudan e quindi l’indipendenza del Sud, ma il cosiddetto New Sudan», un paese unito e in pace. Ma non tutti la pensano come lui, sia dentro l’Spla, sia all’estero. Fondamentale è infatti la posizione del presidente dell’Uganda, Yoweri Museveni, che ha sempre appoggiato la secessione del Sud e contrastato il Nord di Omar al-Bashir. Museveni rappresenta gli interessi geopolitici degli Stati Uniti nell’area. Mentre l’Uganda sosteneva l’Spla contro al-Bashir, questi finanziava il Lord resistence army (Lra, vedi MC giugno 2012) di Joseph Kony contro Museveni.

Dopo 5 mesi di vicepresidenza, l’elicottero che trasporta Garang e la sua guardia ristretta da Kampala, Uganda, verso il Sudan precipita misteriosamente. Il mezzo era stato fornito dallo stesso presidente ugandese.

Si registra qualche tafferuglio a Karthum (capitale del Sudan) e a Juba (capitale del Sud), poi tutto è messo a tacere, e molto rapidamente Salva Kiir, vice di Garang, anche lui dinka, prende il suo posto. Curiosamente Kiir è proprio di quel gruppo nel Spla che spingeva per la secessione del Sud Sudan. Non è un leader carismatico come Garang, ma ha alle sue spalle Museveni e soprattutto l’amministrazione Usa, con George W. Bush prima e Barak Obama poi, che ha investito miliardi di dollari in questa operazione.

Così dall’accordo del 2005 si arriva al referendum (vedi MC marzo 2011) a gennaio 2011, con il quale il 98,8% dei votanti chiede la secessione dal Nord.

Storie di etnie e di potere

C’è un passaggio importante da analizzare per capire la crisi Sud sudanese degli ultimi anni.

«Il Nord non ha mai voluto mollare il Sud, perché voleva dire un collasso economico per Karthum, che di fatti c’è stato dopo il 2011», ricorda Moschetti. Ma esiste un altro piano di scontro tutto interno al Sud. Qui sono presenti 64 etnie o tribù, delle quali i popoli maggioritari sono Dinka (quattro milioni) e Nuer (un milione di persone), gli altri contano centinaia di migliaia di individui, come ad esempio i Bari. «Questi due popoli, cugini tra loro, sono entrambi allevatori nomadi, e hanno milioni di vacche. Occorre sapere che nella cultura pastorale la vendetta è un valore fondamentale».

Le frizioni tra Nuer e Dinka erano già state uno dei problemi grossi, durante la seconda guerra col Nord. Tra ’91 e il ’97 Nuer e Dinka, all’interno dello stesso Spla, si erano scontrati, per un contrasto tra i generali Riek Machar (nuer) e Salva Kiir (dinka). I Nuer avevano compiuto un massacro di Dinka a Bor, nel 1991 e per sette anni i due popoli sono stati divisi. Machar si era alleato con il Nord ed era sostenuto con armi di al-Bashir, al quale faceva molto comodo poter controllare la situazione. E questo ha innescato una voglia di vendetta del popolo dinka. Con la mediazione statunitense, il Spla si è ricomposto e si è arrivati all’accordo con il Nord del 2005. Ma le braci sono rimaste accese.

Indipendenza

«Si arriva al 2011 e all’indipendenza. La grossa difficoltà per Machar è stata accettare che il presidente eletto fosse ancora Salva Kiir, e lui fosse rimesso ancora, solo, vicepresidente. C’erano difficoltà e divisioni, anche perché sono due personaggi completamente diversi. Kiir è militare, generale, l’altro invece, pur essendo militare, ha studiato a Londra.

Sono andati avanti per due anni insieme, con grandi difficoltà, poi nel 2013 il gruppo dinka ha preso sempre più il potere e occupato tutte le posizioni nel governo e nel paese. A luglio ha scaricato Riek Machar, e ha mandato via tutti i ministri, sostituendoli con gente del proprio gruppo, per di più non preparata. Il 30 novembre ha smantellato l’ufficio politico del partito unico Splm (Sudan people liberation mouvement)». Intanto, ricorda sempre Moschetti, «si stavano preparando delle manifestazioni di diversi gruppi contro i Dinka. Il governo ha chiesto un dialogo e indetto tre giorni d’incontri: 13-15 dicembre 2013. Alla sera del 15, una domenica, abbiamo iniziato a sentire i primi spari a Juba. Non si erano messi d’accordo».

Scatta così una corsa al massacro dei Nuer a opera dei Dinka. Kiir cerca di giustificare goffamente la violenta repressione accusando Machar di tentativo di colpo di stato. I Nuer, attaccati, reagiscono. Il Spla si divide e nasce il Spla-io, ovvero «in opposition», quello dei Nuer. Inizialmente gli scontri sono a Juba, poi si estendono ovunque sia presente popolazione nuer. Dalle caserme, dove i militari nuer vengono uccisi, ai massacri della popolazione, compiuti sia da militari che da miliziani dinka. Gli stati più colpiti sono quelli a maggioranza nuer, che sono anche quelli a maggior concentrazione di pozzi petroliferi del Sud Sudan: Unity, Upper Nile e Jonglei.

Secondo Moschetti: «In parte si tratta della vendetta del massacro compiuto 22 anni prima ai danni dei Dinka. Ma probabilmente è anche uno dei modi con cui l’élite dinka aveva pensato di far fuori Machar, senza però riuscirci. Lui è scappato, e il governo ha poi accusato le Nazioni Unite di aver agevolato la sua fuga, il che è un po’ assurdo».

La guerra più atroce

La guerra civile Sud-Sud, durata due anni e mezzo è stata particolarmente violenta. Una commissione d’inchiesta delle Nazioni Unite sui diritti umani, cornordinata da David Marshall, nel marzo 2016 ha pubblicato un rapporto sulle violazioni. Parla esplicitamente di crimini di guerra e crimini contro l’umanità, commessi in particolare dalle forze regolari del Spla e dalle milizie in appoggio: «Fino dal 2013 tutte le parti in conflitto hanno perpetrato attacchi conto civili, stupri e altri crimini, arresti e detenzioni arbitrarie, rapimenti e privazioni di libertà, sparizioni forzate, e attacchi al personale Onu e loro strutture. Oltre due milioni di Sud sudanesi sono sfollati interni, quasi mezzo milione nei paesi confinanti, e decine di migliaia uccisi.

«L’ampiezza e il tipo di violenza sessuale – principalmente realizzata dal Spla governativo e milizie a esso collegate – è descritto con bruciante, devastante dettaglio, come l’attitudine alla macellazione di civili e distruzione di proprietà e mezzi di sussistenza», dice l’Alto Commissario per i Diritti Umani delle Nazioni Unite Zeid Ra’a Al Hussein. «Tuttavia la quantità di stupri e stupri di gruppo descritti dal rapporto sono solo una foto della realtà totale. Questa è una delle più orrende situazioni di violazione dei diritti umani nel mondo, con l’uso massiccio della violenza sessuale come strumento di terrore e arma di guerra, ma è stato praticamente assente dall’attenzione internazionale».

Le violazioni continuano per tutto il 2015, anche dopo la firma dell’accordo, e insanguinano in particolare gli stati Unity e Upper Nile, a maggioranza nuer e anche i Wester e Central Equatoria.

Il rapporto Onu descrive inoltre come «civili sospettati di appoggiare l’opposizione, inclusi bambini e disabilli, fossero uccisi, bruciati vivi, soffocati nei container sotto il sole, fucilati, impiccati agli alberi o tagliati a pezzi con il machete». Sempre secondo il rapporto «lo stupro è stato parte di una strategia per terrorizzare e punire i civili». L’Onu riconosce che anche le forze dell’opposizione hanno commesso atrocità, ma a un livello inferiore. Nelle 102 pagine del rapporto si legge che 10.533 civili sono stati uccisi solo nel 2015, fino a novembre, la maggior parte in modo deliberato. Gli inviati Onu hanno poi documentato più di 1.300 casi di stupro nel periodo tra aprile e settembre 2015 e solo nello Stato del Unity.

Museveni appoggia ancora una volta Kiir, inviando pure truppe ugandesi, che saranno di stanza a Bor (capoluogo del Jonglei), per impedire l’avanzata verso Sud del Spla-io, ovvero i Nuer nel Nord Jonglei.

Pressioni inteazionali

Dopo una decina di firme per la pace, sempre disattese, nell’agosto 2015 arriva quella buona. E si organizza il rientro di Machar, che avverrà solo ad aprile dell’anno successivo. Nel frattempo gli scontri continuano. Pochi giorni dopo l’arrivo di Machar a Juba si forma il governo transitorio di unità nazionale.

«Il nuovo governo è esattamente uguale a quello precedente al luglio 2013, quando il vice presidente Machar fu defenestrato dal presidente Kiir». Conferma Samuele Tognetti, rappresentate dell’Ong Comitato Collaborazione Medica, che vive nel paese dal 2013. «Sotto pressione dei grandi donatori inteazionali, in particolare Nazioni Unite, Usaid e Ukaid (le ultime due sono le cornoperazioni governative di Usa e Regno Unito), il presidente è stato costretto a scendere a patti con il rivale. Ha mantenuto anche l’altro vice, quello nominato dopo la cacciata di Machar, il generale James Wani Iggia di etnia bari». Non si tratta quindi di un negoziato, con una mediazione, in cui le parti si sono messe d’accordo, ma di una situazione artificiale nella quale i problemi restano irrisolti. «Al momento non cambia niente. Non vediamo alcun miglioramento generale delle condizioni del Sud Sudan dopo l’insediamento del nuovo governo, avvenuto pochi giorni dopo il ritorno di Machar a Juba» continua Tognetti. «L’economia invece di migliorare peggiora, il dollaro è scambiato contro il pound Sud sudanese 1 a 40. Nel 2013 era 1 a 4. Permangono i campi profughi, anche qui a Juba, e soprattutto negli stati nei quali la guerra è stata più cruenta, ovvero Unity e Upper Nile.

Oltre lo smantellamento dei campi, occorrerebbe poi far ripartire i pozzi petroliferi, fermi a causa della guerra, per rilanciare l’economia e far entrare valuta pregiata, in modo che il cambio e l’inflazione comincino a stabilizzarsi o a diminuire. Ma non sta avvenendo niente e non c’è un programma».

«Le Nazioni Unite vorrebbero chiudere tutti i campi di sfollati entro dicembre» ci dice Angela Osti, che lavora proprio con le vittime del conflitto «ma i ritorni devono essere spontanei e la gente deve tornare nelle zone di origine in sicurezza e in condizioni tali per cui non si crei un’altra crisi umanitaria. Tra gli altri c’è il campo di Bentiu, il più grande con circa 105.000 persone, in una zona di pozzi petroliferi, contesa tra Dinka e Nuer. Nei campi poi scoppiano scene di guerriglia tra le etnie e le strutture sono distrutte e date alle fiamme».

Chi comanda il Sud Sudan

I Dinka, pur non essendo la maggioranza assoluta, sono circa il 35% dei Sud sudanesi, di fatto controllano tutti i posti chiave, e non solo dell’amministrazione. «Noi lavoriamo molto con alcuni ministeri – continua il cornoperante – e possiamo constatare che sono quasi tutti Dinka». Conferma Moschetti: «Le zone petrolifere sono Nuer, ma quelli che ne approfittano sono Dinka. Anche alcune altre etnie, ma loro hanno mangiato miliardi di dollari, senza sviluppare il paese».

«Osserviamo molto nepotismo, clanismo. Gli altri gruppi accusano oggi i Dinka di mettere le proprie persone a tutti i livelli. È anche vero che sono la maggioranza. Poi c’è un’alta corruzione, dovuta ai soldi derivati dal petrolio. Fino al 2011, tutti i proventi dell’estrazione andavano a Karthum, anche se nel Sud c’era un governo semi autonomo, mentre i soldi per far funzionare le cose arrivavano dal Nord. Gli oleodotti vanno tutti dal Sud al Nord, a Port Sudan, dove il petrolio viene imbarcato. E il Sud Sudan deve pagare un dazio fisso a barile, indipendente dal prezzo del greggio sul mercato. Sia i generali del Spla, sia i pezzi grossi del governo hanno ingrossato i propri conti in banca in giro per il mondo, non certamente a Juba».

Nel 2018 sono previste le prossime elezioni presidenziali. Ma «non si possono vivere due anni con una tensione così» ci dice Tognetti. «A livello politico è un rapporto di forza tra due fronti: oggi non si vede una volontà di dialogo tra i due, altrimenti ci sarebbero delle politiche per migliorare le condizioni di questa nazione. Il dialogo deve essere frutto di buona politica che oggi è assente. È una fase molto incerta. Dove si va a finire? Di sicuro la città è militarizzata in modo massiccio, se si accende un cerino nel posto sbagliato, succede un pandemonio».

Ricorda Daniele Moschetti: «Diventa sempre più difficile resistere per la gente. Si mangia una volta al giorno, i salari sono rimasti gli stessi, ma è aumentato tutto, cibo compreso. In un paese che è uno dei più poveri al mondo. Dopo la Siria, il Sud Sudan è il peggiore».

Marco Bello