Perù. Popoli indigeni ancora isolati. Per fortuna.
In Perù, una parte del Congresso voleva depotenziare una legge che protegge i popoli indigeni isolati. Pericolo scampato. Per il momento.
Secondo i dati del ministero della Cultura del Perù, nel paese andino ci sono 55 popoli indigeni, di cui 51 vivono in Amazzonia e 4 sulle Ande. Si parla di circa 4 milioni di persone, pari al 26% della popolazione totale. Di queste all’incirca settemila vivono in isolamento, cioè volutamente separate dal resto della società. Ad esse ci si riferisce con il termine di «Pueblos indígenas en situación de aislamiento y contacto inicial» (Piaci, in sigla).
Lo scorso 23 giugno, una commissione (Comisión de descentralización) del Congresso peruviano ha «fermato» (momentaneamente) il progetto n. 3518 presentato da Jorge Morante Figari, esponente di Fuerza popular, il partito fujimorista. Il progetto legislativo mira a modificare radicalmente la norma 28736, nota come «Ley Piaci», che dal 2006 difende (almeno in linea teorica) l’esistenza e l’integrità dei popoli indigeni isolati.
Qualora la proposta venisse approvata, la competenza in materia di Piaci passerebbe dal ministero della Cultura ai governi regionali i quali potrebbero riconoscere o meno l’esistenza stessa dei popoli isolati, cancellare riserve indigene già riconosciute e sospenderne la creazione di altre.
Contro le riserve indigene e, in generale, contro i diritti dei popoli indigeni sono in campo forze poderose, di solito guidate da imprenditori bianchi. Una delle più note è la «Coordinadora por el desarrollo sostenible de Loreto» (Cdl). Loreto è la regione amazzonica del Perù che ospita il maggior numero di popoli indigeni: ben 32. Secondo Christian Pinasco Montenegro, presidente della Cdl, nella regione non esistono popoli indigeni isolati e, pertanto, le riserve non hanno ragione di esistere. Per Belvi Gelith Saldaña Calderon, vicegovernatrice di Loreto, la legge Piaci va modificata perché è un ostacolo allo sviluppo della regione. Sul lato opposto, a difesa dei popoli isolati e della legge del 2006 c’è l’organizzazione che raggruppa i popoli indigeni dell’Amazzonia peruviana («Asociación interétnica de desarrollo de la selva peruana», Aidesep). Infine, tra i più rispettati difensori dei diritti dei popoli indigeni s’incontra anche mons. Miguel Ángel Cadenas, vescovo di Iquitos, con una lunga esperienza missionaria tra i Kukama (il maggiore gruppo indigeno di Loreto).
Per il momento l’offensiva anti indigena è stata bloccata. Ma c’è da scommettere che i fautori di essa torneranno alla carica, magari sotto altre insegne o in altre forme. In Perù come altrove, le terre indigene fanno gola.
Paolo Moiola
Anche Puno è in Perù
Nel paese andino è uscito di scena un altro presidente: il maestro Pedro Castillo è passato dal palazzo presidenziale al carcere. Dallo scorso dicembre, il Perù è guidato, per la prima volta nella sua storia, da una donna, Dina Boluarte. La situazione è però esplosiva. Le proteste continuano. Anche a causa di un Congresso che (per ora) rifiuta l’anticipo delle elezioni al 2023.
In piedi davanti alla lavagna, la scolara scrive e riscrive più volte la stessa frase: «Puno è Perù» (Puno si es el Perù). La scolara ha le fattezze di Dina Boluarte, dallo scorso 7 dicembre nuova presidente in sostituzione di Pedro Castillo, passato dal palazzo al carcere. La vignetta – semplice e drammatica – ricorda quanto in troppi hanno dimenticato: la rivolta che in questi mesi ha sconvolto il paese andino ha profonde ragioni culturali e storiche. Il Perù da sempre dimenticato – quello delle popolazioni quechua e aymara della sierra – dice basta alle umiliazioni e alle ingiustizie.
È vero: la situazione è sfuggita di mano, ma non si possono liquidare i manifestanti semplicemente qualificandoli come «vandali, terroristi, comunisti».
Anche in base a un banale conto: la quasi totalità delle vittime (oltre 60, a inizio febbraio) si contano tra di loro. Proviamo allora a riavvolgere il nastro degli eventi per capire come si è arrivati a questo punto.
Pedro Castillo
Nell’aprile del 2021 era arrivato al seggio elettorale a cavallo e indossando un sombrero (vistoso, ma tipico di quella zona rurale). Vinte le elezioni, il 28 luglio era entrato in carica come presidente. Raggiunto il culmine, la sua parabola discendente era però iniziata quasi subito. Si è chiusa lo scorso 7 dicembre, quando Pedro Castillo Terrones è passato direttamente dal palazzo presidenziale di Lima al carcere di Barbadillo (distretto di Ate), dopo un fallito tentativo di autogolpe (con dissoluzione del congresso [parlamento, ndr] e governo d’emergenza).
La sua avventura alla guida del paese andino è durata meno di 17 mesi ma con ben cinque governi e settanta ministri. Un periodo contrassegnato da troppi errori, sia per l’incompetenza (incapacità e ingenuità) del presidente che per la forza della destra (spesso definita derecha bruta y achorada), padrona del Congresso e del potere economico.
Con 33 milioni di abitanti, il Perù è un paese ricco ma – identicamente a tutti gli altri stati latinoamericani – con enormi disparità economiche. Secondo dati ufficiali, nel paese ci sono 8,6 milioni di poveri, pari al
25,9 % della popolazione (Inei, maggio 2022). Pedro Castillo Terrones, maestro di scuola primaria e sindacalista, aveva vinto le elezioni presidenziali soprattutto con i voti delle regioni rurali più povere, battendo (per un soffio) l’eterna esponente della destra, Keiko Fujimori, figlia prediletta di Alberto Fujimori, il dittatore incarcerato dal 2007 per scontare una condanna a 25 anni.
L’errore decisivo
Difficile trovare successi nell’anno e mezzo di presidenza Castillo. Ad aprile 2022, proteste di piazza contro il rialzo dei prezzi del carburante portano a scontri con le forze dell’ordine e paralizzano il paese. Nello stesso mese il presidente si fa notare per una proposta di legge sulla castrazione chimica dei violentatori. A maggio, il suo progetto di riforma della Costituzione del 1993 (risalente, dunque, all’epoca fujimorista) attraverso un’assemblea costituente viene bocciato dal Congresso. Il 6 dicembre, poche ore prime di una nuova (la terza) mozione di messa in stato d’accusa («moción de vacancia», «impeachment») da parte del Congresso, Castillo si rivolge ai peruviani con un messaggio televisivo: «Fratelli e sorelle del Perù […]. Stasera confermo che non ho mai rubato un solo sol al mio paese. Non ieri, non oggi, né mai. Sono onesto. Un uomo di campagna che sta pagando gli errori per la sua inesperienza ma che non ha mai commesso alcun reato. […] Voglio ribadire, dalla casa di tutti i peruviani, il palazzo del governo, che sono un democratico che rispetta la Costituzione, le istituzioni, il giusto processo, lo stato di diritto e l’equilibrio dei poteri. Continuerò a lavorare instancabilmente, per promuovere la riattivazione e la crescita economica per raggiungere ogni angolo del paese con opere e sviluppo che generino l’eguaglianza che tanto desideriamo».
Parole del tutto condivisibili, ma clamorosamente disattese poche ore dopo con il suicidio politico dell’autogolpe.
Per il Perù, tuttavia, quella dell’ex presidente Castillo non è una storia particolarmente originale viste le disavventure giudiziarie dei predecessori (Alejandro Toledo, Ollanta Humala, Alan García, Pedro Pablo Kuczynski, Martín Alberto Vizcarra). Eppure, il male oscuro del paese non pare trovare genesi nei suoi presidenti. Stando a un’inchiesta di Ipsos Perù (del 22 settembre), è il Congresso a essere considerato come la più corrotta tra le istituzioni peruviane e quella che meno agisce per combattere la corruzione. Molto netto è anche il giudizio del Centro Bartolomé de las Casas secondo il quale «il sistema politico nel suo complesso sta attraversando un processo di disprezzo, disaffezione e diffidenza che mina la fattibilità della democrazia in Perù».
Dina Boluarte
Alla massima carica dello stato è subentrata la vicepresidente Dina Boluarte, avvocata di 60 anni con un percorso politico tortuoso alle spalle (era alleata di Castillo). Nella storia del paese, è la prima donna ad assumere la carica di presidente, il 131° in 201 anni di vita repubblicana. Dovrebbe rimanere nel ruolo fino alle prossime elezioni anticipate, ma su quando esse avverranno, al momento (6 febbraio) non c’è accordo: il Congresso ha bocciato più volte l’anticipo a ottobre 2023, tanto da spingere la stessa presidente a presentare un progetto di legge per stabilire la data. Fin dall’inizio, la sua presidenza è stata segnata, soprattutto nel Sud del paese (Puno e Cusco, in particolare), dalle proteste di piazza (blocchi stradali, invasioni di strutture pubbliche, incendi di commissariati e tribunali, saccheggi di negozi e supermercati) di chi rifiuta l’imposizione del nuovo corso politico. Proteste che hanno lasciato sul terreno almeno una sessantina di morti, una ventina nella sola giornata del 9 gennaio (dati Defensoria del pueblo). I manifestanti hanno sempre respinto le accuse di aver fatto ricorso, per primi, alla violenza incolpando gruppi d’infiltrati che avrebbero agito per screditarli. Difficile appurare la verità, anche se varie fonti confermano che «los Ternas» (poliziotti del «Grupo Terna» che agiscono in borghese) siano stati particolarmente attivi durante le manifestazioni. Quello che è certo è che le forze dell’ordine hanno risposto con una violenza ingiustificata. Come denunciato anche dall’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani e dalla (pur timida) Organizzazione degli stati americani.
«Basta», è stato costretto a titolare El Comercio, il quotidiano dell’élite peruviana dopo la citata giornata del 9 gennaio. Il giornale ha scritto che molti manifestanti (non – si noti bene – la gran parte o la maggioranza di essi) sono scesi in strada in maniera pacifica e che «la risposta dello stato non è stata la più adeguata». «È necessario – ha scritto il quotidiano la República in un suo editoriale («Paren la matanza») – che si fermi il massacro, nel quale sono coinvolti un governo che si disinteressa, usa la violenza in maniera indiscriminata e agisce come se nulla stesse accadendo, e un Congresso incapace e che volta le spalle alla realtà» (10 gennaio).
Più netto César Hildebrandt, uno dei più noti giornalisti peruviani, secondo il quale non c’è nulla di eroico nella resistenza di una presidenta rifiutata dal 70% dei cittadini (secondo inchieste Iep e Ipsos). Sul settimanale da lui diretto, si legge (3 febbraio): «Ogni giorno c’è più tensione tra la presidente della repubblica e il capo del consiglio dei ministri (Luis Alberto Otárola). Questo rende ancora più debole un governo che deve affrontare un Congresso inamovibile e l’indignazione della strada. Il paese sembra un tunnel senza uscita».
Andare alle elezioni quanto prima è una soluzione suggerita (3 febbraio) anche da The Economist, il noto settimanale internazionale (che certamente non è una voce vicina alla sinistra).
Lima e gli altri
Gianni Vaccaro, cooperante italiano di area cattolica che abita con la famiglia peruviana alla periferia di Lima, ci dice: «Capisco i manifestanti. La popolazione che ha votato per Castillo – quella del mondo rurale, del Sud andino e della sierra in generale – sostiene che il suo voto non è stato rispettato e per questo chiede che presidenta e Congresso se ne vadano».
«Questa – sostiene il nostro interlocutore – è una manifestazione storica, perché è il mondo rurale che protesta, proprio contro i privilegi di Lima, che ovviamente è indifferente. Per Lima intendiamo la sede rappresentativa dell’élite di sempre, quella che, dal 1821 (anno dell’indipendenza, ndr), ha ereditato il colonialismo spagnolo per esercitare un colonialismo interno». Si è parlato – obiettiamo – anche d’interferenze esterne (dei paesi vicini e dell’ex presidente boliviano Evo Morales): «Un’altra volta l’idea coloniale, classista e razzista che, se il mondo rurale protesta, è perché qualcuno lo sta manipolando».
«Non può essere – conclude – che il Congresso, simbolo della Lima escludente e razzista, abbia sempre la partita vinta». D’altra parte, se quasi il 60% dei cittadini considera giustificate le proteste della piazza significa che anche Puno, Cusco e la sierra fanno parte del Perù.
Una società al limite della guerra civile non poteva non trovare riflessi all’interno della Chiesa cattolica del paese. Proviamo a ripercorrere le tappe di questa escalation di eventi drammatici.
In dicembre, poche ore dopo il tentativo di golpe, la Conferenza episcopale della Chiesa cattolica (Cep) – istituzione ancora forte nel paese andino – emette un comunicato per stigmatizzare «la incostituzionale e illegale decisione del signor Castillo» ed esprimere fiducia nelle istituzioni democratiche.
La novità più interessante è, però, il comunicato interreligioso del 22 dicembre. «Interreligioso» nel senso pieno del termine visto che è sottoscritto da tutti i rappresentanti delle confessioni religiose presenti nel Perù: dai cattolici agli evangelici (di varie denominazioni), dagli islamici agli ebrei, dagli ortodossi ai mormoni.
«Riconosciamo la dura crisi sociale e politica, che non è di oggi, ma ha radici profonde in una storia di disparità e disuguaglianze», si legge nelle prime righe. La richiesta dei firmatari è precisa: «La grave situazione richiede uno sguardo che non si riduca solo all’immediato, ma si estenda alle politiche di lungo e medio periodo, dove l’istruzione e il lavoro siano l’elemento centrale, per il bene di tutti i peruviani». Il documento si conclude con queste parole: «Chiediamo pace, tranquillità, unità e riconciliazione sulla base di un ampio processo di ascolto e dialogo nazionale».
Meno legata alla situazione politica peruviana, ma sicuramente significativa, è invece la lettera di auguri natalizi firmata da mons. Héctor Miguel Cabrejos Vidarte, presidente sia della Cep che del Celam (Consiglio episcopale latinoamericano). In essa, il prelato sottolinea, infatti, la necessità di far fronte ai bisogni di «coloro che non hanno le tre T assicurate “Techo, Trabajo, Tierra” (tetto, lavoro, terra)».
Successivamente, davanti alle decine di morti di Juliaca (Puno, 9 gennaio 2023), la Conferenza dei vescovi peruviani denuncia gli eventi «come conseguenza della distorsione del diritto alla protesta, facendo ricorso all’illegalità; e, per altro lato, per l’uso eccessivo della forza (da parte di forze armate e polizia, ndr). Entrambe le situazioni sono da condannare e per entrambe occorre, prontamente, individuare i responsabili. È necessario distinguere le giuste proteste dal resto […]. Camminiamo uniti per costruire la pace nel nostro amato Perù».
Ancora più significativa è la celebrazione nella cattedrale di Lima di domenica 15 gennaio. Per l’occasione, sui gradini che portano all’altare principale vengono collocati sei pannelli con le foto delle vittime degli scontri. Mons. Carlos Castillo, arcivescovo della capitale e primate del paese, legge i nomi di tutti i 49 morti (le vittime fino a quel momento, ndr) e tiene un’omelia che, pur incentrata sul dolore per le morti e la violenza, non risparmia nessuno.
«Oggi mediteremo su cosa significhi tutto ciò che sta accadendo. Alla Chiesa compete una riflessione fondamentale di natura spirituale. Le indagini, le interpretazioni politiche, economiche e sociali, corrispondono ad altri ambiti. Noi non andiamo né a destra né a sinistra, né al centro, noi andiamo in fondo».
«Ci sono modi pacifici di organizzarci per risolvere le grandi necessità di ogni regione povera del Perù – dice ancora l’arcivescovo -. Non abbiamo bisogno di liquidare lo Stato che tanto è costato per costruirlo e che oggi viene osteggiato per interessi meschini ed egoistici».
Tre giorni dopo, in occasione del 488.mo anniversario della fondazione di Lima, lo stesso arcivescovo officia una messa e un Te Deum con la presenza della presidenta Dina Boluarte, del sindaco Rafael Lopez Aliaga e del presidente del Congresso José Williams. A dimostrazione che la Chiesa peruviana, in questo drammatico momento storico, ha scelto di ricoprire una posizione super partes. Così, nel comunicato del 20 gennaio, i vescovi del Perù offrono la propria disponibilità «per mediare e per costruire ponti d’incontro».
Pochi giorni dopo, davanti alla presidenta è molto esplicito mons. Paolo Rocco Gualtieri, da pochi mesi nunzio apostolico nel paese andino: «Quando una parte della società cerca di godere di tutto ciò che il mondo offre come se i poveri non esistessero, questo, a un certo punto, ha le sue conseguenze. Ignorare l’esistenza dei diritti degli altri, prima o poi, provoca qualche forma di violenza inaspettata, come stiamo assistendo in questi giorni» (25 gennaio).
Se le gerarchie cattoliche – a parte qualche eccezione – sono legate a una sorta di diplomazia dell’equidistanza, meno lo sono alcuni sacerdoti. Come padre Luis Zambrano, prete diocesano e parroco della parrocchia Pueblo de Dios a Juliaca, diocesi di Puno, luogo del massacro del 9 gennaio: «Sono d’accordo che la via d’uscita più urgente sia che [Dina Boluarte] si dimetta dalla presidenza e faccia qualcosa affinché anche il Congresso si sciolga e si tengano le elezioni generali nel 2023. Si tratta di darle un consiglio affinché faccia quel gesto di distacco, quella rottura necessaria, pensando al futuro del Perù. […] Sarà un primo passo che calmerà un po’ l’attuale sconvolgimento sociale. Il tempo delle parole è passato. Ora solo un gesto può alleggerire questa situazione estrema».
In una situazione che non trova vie d’uscita condivise, il 3 febbraio anche la Chiesa ufficiale rompe però gli indugi attraverso un nuovo comunicato della Cep: «Il popolo sovrano ha diritto di decidere sui destini della nostra patria attraverso elezioni trasparenti e giuste per rinnovare i poderi esecutivo e legislativo».
Paolo Moiola
Perù: quel conflitto antico tra Centro e Periferia
È da otto anni che non metto piede in Perù e spesso preferisco non parlarne perché non vivo quello che accade quotidianamente. Lo guardo e lo seguo da distante.
Oggi però due parole le vorrei spendere, dopo l’autogolpe fallito del presidente contadino Castillo contro il Congresso (parlamento peruviano), la sua incarcerazione e l’ascesa al potere della vicepresidente Dina Boluarte che può annotare nel suo diario personale più morti che giorni di Governo: 47 contro 38 [dati al 14/01/2023].
Durante il suo breve mandato, l’esercito ha ucciso 47 persone di Juliaca, Puno, Cuzco e altre provincie che stavano chiedendo in piazza elezioni immediate, dopo l’ennesima crisi di governo che vive questo paese.
Ma di chi sono queste 47 vite e quanto valgono?
Sono persone delle regioni più rurali, di quelle periferie dimenticate dal governo centrale di Lima. E la cosa più triste di questo massacro non è il numero ma l’indifferenza di chi governa.
Un mio amico peruviano, e che vive a Lima, ieri mi diceva questo: «La cosa più inquietante è che non riconosco più i miei amici, i miei compagni di scuola, che si accontentano di giustificare queste morti sotto la dicitura: erano dei violenti».
Come se la morte di uno che vive in Puno, nel Sud dimenticato del paese, al confine con la Bolivia, non avesse valore. Come se 47 morti di persone delle province non valessero come 47 morti di persone del centro/Lima e quindi non fossero sufficienti al governo di Dina Boluarte per dimettersi. E di fronte a questo è caricaturale il lutto nazionale dell’11 gennaio che suona un po’ come: «S’ha da fare per evitare una figuraccia internazionale, ma non me ne frega niente».
Non intendo giustificare Castillo, primo presidente che arriva appunto dalle periferie e aveva quindi la grande responsabilità di portare la voce di queste aree del paese ai livelli apicali.
Anzi come si dice in America Latina, ha fatto davvero una mala jugada (un autogol, nda) perché invece di migliorare le condizioni delle zone più rurali e rafforzare il protagonismo politico delle persone indigene ed escluse, con la sua stessa incapacità strategica e politica inficia oggi la possibilità di una persona delle comunità di poter raggiungere alti livelli decisionali.
E questo ha reso quel conflitto antico tra centro e periferia ancora più insanabile. Quando il silenzio internazionale calerà su questa storia, tutto rimarrà uguale. Le periferie si ritroveranno a essere sempre più schiacciate da quel centro elitario, un po’ troppo bianco o un po’ meno indigeno, che azzittisce troppo spesso nel sangue la sua stessa gente, residente solamente un po’ più distante da ciò che si considera il centro.
Simona Carnino
Nota:
Alcune di queste foto, scattate 11 anni fa, sono state realizzate da una bambina a cui ho dato una macchina fotografica compatta, mentre io osservavo un tribunale comunitario che stava giudicando una persona per il reato di abigeato, ai tempi della mia vita peruviana divisa tra Centro e Periferia (2012).
Prima la pandemia con 200mila morti, poi un’elezione che ha portato il paese sull’orlo di un golpe «trumpismo andino») e di una guerra civile. Il Perù festeggia il bicentenario (1821-2021) della propria indipendenza in un clima molto teso.
Era il 28 luglio del 1821 quando il generale José de San Martín, uno dei liberatori delle Americhe, da un palco in piazza Mayor (Plaza de Armas) di Lima proclamò l’indipendenza dall’impero spagnolo. Nell’anno della pandemia, il Perù celebra non soltanto il bicentenario della propria indipendenza da Madrid, ma anche l’inizio di un nuovo quinquennio presidenziale.
Le elezioni dell’11 aprile e del 6 giugno sono state vinte dal maestro Pedro Castillo, atipico e imprevisto candidato della sinistra. Secondo l’organismo elettorale peruviano (Onpe), la differenza in suo favore è stata di 44.176 voti. Pochi, ma sufficienti per un sistema democratico che rispetti il «principio di maggioranza». Keiko Fujimori, la candidata della destra, figlia prediletta dell’ex presidente e dittatore Alberto Fujimori (in carcere con una condanna di 25 anni per violazione dei diritti umani e corruzione), non ha però accettato la sconfitta dando il la a una lunga sequela di ricorsi legali al Tribunale elettorale nazionale (Jurado nacional de elecciones, Jne) e di pesanti azioni di disturbo (tentativi di corruzione del Jne, dichiarazioni golpiste di ex ufficiali delle Forze armate, manifestazioni di piazza, ecc.).
Eppure, anche gli osservatori dell’Organización de estados americanos (Oea) hanno sancito la regolarità del processo elettorale. Mentre Ned Price, portavoce del Dipartimento di stato degli Stati Uniti, si è felicitato con le autorità peruviane per «aver amministrato in sicurezza un altro turno di elezioni libere, giuste, accessibili e pacifiche, anche nel mezzo delle importanti sfide dovute alla pandemia di Covid-19» (22 giugno).
Pedro Castillo
Il vincitore, José Pedro Castillo Terrones, maestro elementare, sindacalista e rondero (persona appartenente a gruppi rurali di autodifesa, ndr), ha prevalso principalmente nel Perù rurale, quello dimenticato dallo stato (soprattutto nei campi – fondamentali – della sanità e dell’istruzione) e impoverito da un sistema economico ingiusto.
Come abbiamo accennato all’inizio, la sua è stata una vittoria di stretta misura, ma ottenuta in condizioni proibitive. Contro di lui, candidato proveniente da Puña (Chugur, Cajamarca), un paesino della sierra (come è chiamata in Perù la regione delle Ande) dove anche le donne indossano un sombrero, è stata infatti orchestrata una campagna di disinformazione a tutto campo, sia in patria che all’estero (qui, sotto la guida del premio Nobel Mario Vargas Llosa). In Perù, si sono schierati contro Castillo i gruppi imprenditoriali, la classe medio alta di Lima, la quasi totalità dei media (per l’80 per cento appartenenti al gruppo de El Comercio) e quella parte di popolazione urbana abbagliata dall’assistenzialismo dei fujimoristi (finanziatori di «comedores» e «vasos de leche»). Castillo è stato chiamato «terruco» (terrorista) e «serrano» (peruviano di serie B), ma ha resistito a bugie e offese, rispondendo con grande moderazione.
Keiko Fujimori
La sconfitta, Keiko Fujimori, leader di Fuerza popular, è tuttora in libertà condizionata. Nell’aprile 2020 era stata rilasciata dalla prigione dove scontava la carcerazione preventiva a seguito di una lunga serie di capi d’accusa. Sconfitta nel segreto dell’urna (per la terza volta di seguito nella sua carriera politica), la signora Fujimori ha scatenato le sue truppe: un centinaio di avvocati, appartenenti agli studi più prestigiosi del Perù, e i suoi sostenitori, tra cui La Resistencia (un gruppo violento di matrice fascista), che protestavano per le strade di Lima. L’unico argomento utilizzato per attaccare l’avversario è stato il suo (presunto) comunismo. Se i seguaci di Keiko hanno mostrato cartelli del tipo «No al fraude comunista de la Onpe» o «Mi familia le dice no al comunismo», quelli di Castillo hanno issato cartelli che ricordavano l’essenza della democrazia: «Mi voto se respeta» (visto che i voti questionati sono quelli delle zone rurali, dove ha vinto il maestro).
L’azione destabilizzante di Keiko Fujimori non si spiega soltanto con la sua sete di potere, caratteristica probabilmente ereditata dal padre. Si spiega soprattutto sulla base dei suoi legami (anche finanziari) con l’oligarchia peruviana che domina il paese – materialmente e culturalmente – fin dal 1821.
Il nuovo colonialismo
Il colonialismo non è finito con una data sui libri di storia. Ne ha parlato molto Aníbal Quijano, sociologo peruviano scomparso nel 2018. Il professore è andato oltre quel concetto generico per parlare di «colonialidad» (colonialità), intesa come «modello di potere».
Senza però fare ricorso al pensiero accademico, è sufficiente riportare quanto affermato in un’intervista da Eduardo Adrianzén, drammaturgo molto conosciuto nel paese: «C’è ancora una mentalità coloniale che non vuole considerare alla pari il cittadino amazzonico, andino o il peruviano che non è di una grande città o che non vive secondo i valori di questa. Il pensiero culturale egemonico-urbano-limegno pretende di essere l’unico e il solo corretto e proprio qui sta il problema, ed è per questo che vedi le élite dei dinosauri disperate perché non vogliono perdere il controllo. […] Oserei dire che il cittadino limegno medio ha quattro filtri che si attivano appena incontra qualcuno: il colorimetro (il colore della pelle), il vestimetro (i vestiti che indossa), l’odorimetro (l’odore che emana), il parlometro (come parla, se è istruito o no)» (La República, 27 giugno). Non si tratta di esagerazioni: il Perù è un paese razzista. «È un razzismo sotterraneo, ma che diventa esplicito sui social network», ha spiegato il sociologo Farid Kahhat (Bbc News, 2 luglio).
Golpe, stallo e resistenza
Per spiegare la situazione peruviana si è parlato di un «golpe lento», di un «trumpismo andino», paragonando il Perù agli Stati Uniti di Trump. Tutto vero com’è vera una pandemia che, soprattutto per carenze strutturali, ha già fatto oltre 200mila morti e mandato sul lastrico quell’enorme fetta di popolazione che vive di lavoro informale.
Le prime conseguenze dell’estenuante stallo politico sono state quelle solite, pesanti ma quasi noiose nella loro prevedibilità: svalutazione del sol, la moneta nazionale, rispetto al dollaro, caduta della Borsa (per mano degli immancabili speculatori), fuga di capitali (dei ricchi, ovviamente). Più una conseguenza più piccola, ma significativa: una decina di giornalisti delle televisioni Canal 4 (America Tv) e Canal N si sono dimessi o sono stati licenziati per non aver seguito la linea editoriale della proprietà (il citato gruppo de El Comercio) che imponeva di appoggiare Keiko Fujimori. Tanto di cappello – anzi, di sombrero (come quello sempre indossato da Castillo) – per questi giornalisti peruviani. Anche la Chiesa cattolica (approfondimento a pag. 39), dopo essere stata molto suggestionata dalla propaganda contro il (presunto) comunismo del vincitore, ha seguito la via indicata da papa Francesco chiedendo di riconoscere senza ulteriori indugi la vittoria di Pedro Castillo.
Dal 28 luglio 2021
Sono trascorsi duecento anni dall’indipendenza del Perù dalla Spagna, ma il processo di liberazione non è terminato. Come abbiamo visto, i retaggi del colonialismo (e della colonialidad) sono ancora ben presenti e radicati nel paese andino. Premesso questo, il 28 luglio 2021 segna un nuovo inizio, che sarà difficile, complicato, imprevedibile. Per ora è questa la sola certezza.
Paolo Moiola
Da una parte (e dall’altra)
La Chiesa cattolica peruviana e le elezioni
Sacerdoti e vescovi erano schierati in maggioranza contro il maestro Castillo. Poi, la rotta è stata corretta per merito dell’intervento (silenzioso) di papa Francesco.
Sono stati mesi complicati anche per la Chiesa cattolica peruviana, istituzione molto influente nel paese andino. Vescovi e sacerdoti sono intervenuti nel dibattito elettorale sia dai pulpiti delle chiese che da quelli dei social media. E sovente si sono schierati, scegliendo una parte.
Le avvisaglie di una lotta senza esclusione di colpi iniziano già a marzo quando il padre Jaime Ruiz del Castillo, missionario spagnolo e vicario generale della diocesi di Moyobamba (San Martín), fa parlare molto di sé per le feroci critiche all’«abortista» Veronika Mendoza, all’epoca principale candidata della sinistra, e per l’appoggio a Rafael López Aliaga (Renovación popular), membro dell’Opus Dei.
Un imprevisto di nome Castillo
Dopo il primo turno elettorale, celebrato l’11 aprile, la situazione cambia con il passaggio al secondo turno di Keiko Fujimori e, soprattutto, di Pedro Castillo, vincitore inatteso ed esponente di una sinistra vecchia maniera.
Si tratta di un cambiamento importante del quadro generale visto che Pedro Castillo e Keiko Fujimori hanno posizioni molto simili, se non coincidenti, sulle tematiche dirimenti in ambito religioso: aborto, matrimonio omosessuale, diritti Lgbt, eutanasia non rientrano nelle agende programmatiche dei due contendenti.
Tra vescovi e sacerdoti l’opposizione al maestro Castillo si concentra sulla sua adesione al marxismo, immediatamente declinato come adesione al comunismo duro e puro. E questo nonostante le ripetute smentite pubbliche dell’interessato: «Non siamo comunisti, non siamo chavisti, non siamo terroristi. Siamo lavoratori come ognuno di voi» (Andina, 28 aprile).
Una battaglia ideologica
Visto il clima esasperato, tra il primo e il secondo turno elettorale, la Conferenza episcopale peruviana (Cep) si unisce al Coordinamento nazionale per i diritti umani (Cnddhh), all’associazione civile Transparencia e all’Unione delle Chiese cristiane evangeliche del Perù (Unicep) per proporre ai due candidati l’accettazione di un accordo denominato «Proclama cittadino: giuramento per la democrazia», un patto in dodici punti per il rispetto della democrazia, delle istituzioni e dei diritti umani. Il 17 maggio, entrambi i contendenti firmano l’accordo durante un incontro pubblico trasmesso dalle televisioni. Il proclama, lodevole nelle intenzioni, non sortisce però gli effetti sperati e non abbassa i toni del confronto elettorale.
Nello stesso giorno, durante l’omelia nella parrocchia di Santa Mónica, a San Isidro, ricco distretto di Lima, il padre Pablo Augusto Meloni Navarro, sacerdote e medico, ricorda ai fedeli che «il comunismo è intrinsecamente perverso», come già aveva affermato papa Pio XI nell’enciclica Divini Redemptoris del 1937. Senza mai citarne il nome, il padre critica lo slogan «palabra de maestro» utilizzato da Pedro Castillo (di professione maestro), affermando che il solo maestro è Gesù Cristo.
Il 24 maggio, monseñor José Antonio Eguren Anselmi, arcivescovo di Piura e Tumbes e membro del Sodalicio de Vida cristiana, in una lettera aperta scrive tra l’altro: «Lo faccio come un qualsiasi peruviano, che non vuole per il suo paese che il totalitarismo comunista distrugga la nostra libertà, i nostri diritti e la nostra indipendenza».
Lo stesso giorno, in favore di telecamere, Keiko Fujimori si reca alla sede della Cep per incontrare monseñor Miguel Cabrejos, presidente della stessa e del Consejo episcopal latinoamericano (Celam).
Il giorno seguente, la Cep rende pubblica una Carta al pueblo de Dios in cui, al punto 6, si condanna il comunismo come «un sistema perverso» e, al medesimo tempo, «il capitalismo selvaggio che riduce l’essere umano al consumismo e alla ricerca del profitto a ogni costo».
Lo stesso 25 maggio, nell’infuocato dibattito interviene anche padre Omar Sánchez Portillo, segretario generale della Caritas di Lurín, molto presente su YouTube con omelie e interviste. Il sacerdote lamenta che il clero e i fedeli stiano zitti davanti al pericolo comunista che comprometterebbe il futuro del Perù e che è nemico della Chiesa come sancito dal numero 2.425 del Catechismo della Chiesa cattolica (che rifiuta sia il «comunismo ateo» sia «il capitalismo che privilegia il mercato sulla persona», ndd).
Il 30 maggio, a una settimana dal secondo turno elettorale, monseñor Javier del Río Alba, arcivescovo di Arequipa, afferma: «Sappiamo tutti che il marxismo-leninismo è un’ideologia atea. Di conseguenza, tutto il programma e tutte le idee partono dalla negazione dell’esistenza di Dio; e sappiamo anche che, per questa ideologia, la religione è considerata come un nemico che deve scomparire». Il prelato specifica che la firma sul «Proclama cittadino» non significa che la Chiesa cattolica appoggi il candidato Pedro Castillo.
Il crocefisso di Keiko
Dopo i risultati del secondo turno e davanti all’escalation di recriminazioni (soprattutto da parte di Keiko Fujimori), interviene monseñor Pedro Barreto, cardinale e gesuita, arcivescovo di Huancayo e primo vice presidente della Cep, il più conosciuto e aperto tra i vescovi del paese: «Invito tutti i cittadini e i partiti politici ad aspettare e rispettare scrupolosamente i risultati ufficiali di questo secondo turno. Mettere in discussione e parlare di frode, di golpe, insomma di tante altre cose, è irresponsabile e non possiamo accettarlo» (9 giugno).
A stemprare la situazione ci pensa papa Francesco incontrando a Roma prima (il 16 giugno) monseñor Cabrejos e, il giorno seguente, monseñor Carlos Castillo Mattasoglio, arcivescovo di Lima. Il pontefice invia una benedizione speciale «perché ci sia pace, unità e si trovino le vie migliori per risolvere i problemi del Perù, pensando sempre agli emarginati e ai poveri». Circolano foto con grandi sorrisi e abbracci. Viste le divisioni create dalle elezioni, quello di papa Francesco è un intervento necessario ma non sufficiente.
Il 26 giugno Keiko Fujimori, brandendo un crocefisso, prega in Plaza Bolognesi davanti ai suoi sostenitori: «Signore Dio onnipotente, Signore Gesù, ti chiediamo, oggi che il nostro paese è così polarizzato, diviso, pieno di paura e incertezza, che tu ci dia forza, speranza, amore, gioia, fede nel nostro futuro. Oggi siamo qui riuniti perché vogliamo conoscere la verità, vogliamo giustizia elettorale e che il popolo venga rispettato».
Lo stesso giorno, in Plaza San Martín, non lontana da quella dell’antagonista, Pedro Castillo, vincitore (virtuale) delle elezioni, si dimostra più laico e, per l’ennesima volta, ripete: «Non siamo chiavisti, non siamo comunisti, siamo democratici», ribadendo che il suo obiettivo politico è «non più poveri in un paese ricco, parola di maestro».
Correzione di rotta e mediazione
Sempre il 26 giugno, la Cep dirama un comunicato in cui, al punto 2, si dice di rispettare il risultato indicato dagli organi elettorali. Quattro giorni dopo è mons. Carlos Castillo a parlare stigmatizzando l’utilizzo dei simboli religiosi e il ritardo nella proclamazione del vincitore (Vatican News, 30 giugno). È un’evidente correzione di rotta, che fa infuriare la destra fujimorista (Aldo Mariátegui, Perú21, 2 luglio). Pertanto, vista la situazione pericolosamente polarizzata, è molto probabile che papa Francesco dovrà far sentire ancora la sua voce.
Paolo Moiola
Perù, tempi di maccartismo
La conversazione
Dopo le elezioni del 6 giugno, abbiamo conversato con Wilfredo Ardito Vega, professore all’Università Pontificia di Lima, esperto di diritti umani e scrittore. Ecco cosa ci ha raccontato.
«È difficile capire cosa ha vissuto il Perù in questo ultimo anno e mezzo», esordisce Wilfredo Ardito Vega, da noi raggiunto via WhatsApp nella sua casa di Lima. Noto professore universitario e scrittore, il nostro interlocutore non vuole iniziare a rispondere su elezioni e politica senza prima aver ricordato i 200 mila morti causati dal virus nel suo paese, cifre che portano il Perù ad avere il record del più alto tasso di mortalità per Covid-19 al mondo.
Sono 44.176 voti in più
Professore, andiamo alla situazione politica. Secondo l’organismo elettorale (Onpe), tra i due candidati alla presidenza ci sono stati 44.176 voti di differenza. Pochi, ma questa è la democrazia. Perché Keiko Fujimori e i suoi alleati stanno facendo di tutto per sovvertire il risultato elettorale? È una mossa disperata o un preciso disegno politico?
«Perché Keiko e i suoi alleati non vogliono la democrazia: vogliono il potere. Per questo hanno usato e stanno usando tutti i mezzi a loro disposizione, dalle campagne di destabilizzazione sui social network all’incitamento al golpe. Gestiscono diversi scenari contemporaneamente: annullare i voti, annullare tutte le elezioni, generare terrore nella popolazione. Bisogna però distinguere diversi settori: il partito di Fujimori, chiamato Fuerza popular, in pratica una mafia legata a gruppi malavitosi; i settori della destra conservatrice, dove sono presenti uomini d’affari, militari e alcuni leader religiosi; infine, c’è un settore, formato principalmente da gente di classe media e alta, fortemente influenzato dai media come la televisione (America, Willax) e il gruppo de El Comercio (si veda tabella a pag.43, ndr), che crede davvero che il Perù debba essere salvato dal comunismo. Va notato che costoro identificano il comunismo con Sendero Luminoso, il gruppo maoista assetato di sangue che causò molte morti negli anni Ottanta».
Lei non parla di «lotta politica», ma di «maccartismo» (sviluppatosi negli Usa negli anni Cinquanta, fu un’avversione esasperata verso persone ritenute comuniste, ndr). Come spiega l’utilizzo di un termine tanto pesante?
«Lotta politica vuol dire usare mezzi legali per arrivare al potere, significa dibattito e idee. In Perù, si è aperta una scena violenta in cui molte persone che hanno votato per Keiko non solo attaccano in modo razzista e classista coloro che hanno preferito Castillo, ma anche quelli della propria classe sociale, se essi hanno votato per il maestro, se hanno votato in bianco, nullo o non votato. Tutti sono accusati di essere comunisti, terroristi e nemici del paese. C’è una violenza molto grande nelle reti sociali e in altri spazi con insulti e attacchi a familiari, amici di scuola, colleghi di Università e di lavoro. Hanno anche stilato liste per non comprare in negozi tenuti da “comunisti” o “traditori di classe”. Sui social network viene chiesto esplicitamente di protestare davanti alle case di artisti, giornalisti, politici che non hanno votato per Keiko fino a quando loro e le famiglie non lascino il paese. Il linguaggio dell’intolleranza è tipico dei peggiori momenti della Guerra fredda, ma la cosa patetica è che nessuna delle persone vessate è comunista, ma gli aggressori sono convinti che lo siano».
Giustizia: carcere sì, carcere no
La magistratura ha chiesto che la signora Fujimori torni in carcere. Prima di queste elezioni, lei ha affermato che la pratica giudiziaria della «carcerazione preventiva» verso Keiko e verso altri era una misura esagerata. La sua critica dipende dal fatto che lei è un difensore dei diritti umani e un garantista?
«Sì, è così. Come difensore dei diritti umani, mi sembra che l’applicazione della carcerazione preventiva nel nostro paese sia attuata in modo sproporzionato. Anche nel caso di Keiko Fujimori, all’inizio la misura mi sembrava esagerata, ma ora, dopo tutte le azioni golpiste che il suo gruppo sta promuovendo, penso che sarebbe stata una misura giustificata.
Il pubblico ministero, infatti, aveva già chiesto un intervento sul partito di Fuerza popular per aver costituito un’organizzazione criminale sotto la facciata di un’organizzazione politica. Il provvedimento non era però stato accolto dai giudici in quanto alcuni avevano ritenuto che potesse essere percepito come una persecuzione politica. Tuttavia, i fatti di oggi evidenziano che sarebbe stato un provvedimento necessario e che questo gruppo non avrebbe mai dovuto partecipare alle elezioni».
(Ad aprile 2020, la signora Keiko è stata messa in libertà condizionata; a giugno 2021, il pubblico ministero ha chiesto il suo ritorno in carcere per violazione della stessa, ma la misura non è stata concessa, ndr).
Il Perù è un paese con grandi potenzialità, ma con grandi o enormi diseguaglianze. Le diversità programmatiche tra Castillo e Keiko sono proprio sull’economia: il primo è per un cambio importante (che fa paura all’oligarchia), la seconda è per la continuità con l’attuale sistema di libero mercato. È così?
«In verità, il principale cambiamento che Castillo propone si riferisce a una nuova Costituzione che sostituisca quella approvata nel 1993 da Fujimori (Alberto, padre di Keiko Fujimori,ndr). Sul piano economico, vuole che le società estrattive paghino per i loro profitti e vuole anche porre fine all’interferenza dei gruppi del potere economico nelle decisioni della politica. Tuttavia, mi sembra che la sua forza più grande sia rendere visibili i discriminati e gli esclusi, la cui miseria è stata accresciuta dalle decisioni prese da Vizcarra (presidente da marzo 2018 a novembre 2020, seguito da Merino per soli cinque giorni e, infine, da Sagasti, ndr) per cercare di combattere la pandemia. Provvedimenti sproporzionati e disastrosi, ma accettati con calma dai settori medio e alto. Per i poveri si è invece evidenziata la lontananza dello stato dai loro problemi».
Quel «comunista» di Pedro Castillo
Quasi nove milioni di voti a testa. Lima (11 milioni di abitanti) ha però votato in larga misura per Keiko Fujimori, mentre il Perù rurale e andino ha votato per Castillo. Si può dire che esistano due paesi diversi?
«Il Perù è una società molto complessa. Nelle proteste avvenute a Lima in favore di Keiko, alcuni giovani avevano magliette con scritte in inglese (Better dead than red, No commies) che mostravano la loro assoluta distanza dagli altri peruviani, ma erano convinti che fosse un modo efficace di esprimersi. Gli abitanti di Lima sono più suscettibili alle campagne mediatiche dei gruppi di potere. Sono stati terrorizzati da settimane di immagini nei media che mostravano la crudeltà della vita in Venezuela e Cuba. I mega cartelloni stradali pro Keiko non facevano riferimento direttamente a lei, ma alla democrazia versus il comunismo. Se a questo si aggiungono razzismo, classismo e centralismo, Castillo non era più visto come un uomo di sinistra, ma come un mostro. Va aggiunto che, sebbene la popolazione di Lima abbia sofferto molto per la pandemia, l’impatto economico sul resto del paese è stato atroce. Le persone che sentono di aver perso tutto (letteralmente) sono più aperte al cambiamento. Allo stesso modo, non l’intero Perù sostiene Castillo. Come successo a Lima, anche sulla costa Nord, dove ci sono le città più sviluppate (Piura, Chiclayo, Trujillo), ha vinto Keiko».
La religione e la famiglia peruviana
Lei sostiene che la sinistra moderata di Veronika Mendoza ha perso perché ha insistito troppo su temi (aborto, unioni omosessuali, eccetera) che ai peruviani non interessano per nulla. È così?
«In realtà, pochi considerano Mendoza come moderata o più moderata. I media l’hanno presentata ugualmente vicina al chavismo e al comunismo. La differenza principale con Castillo è che lei era una candidata più vicina ai settori urbani, ma ha commesso troppi errori. In un contesto di pandemia, disoccupazione e crisi economica, la sua insistenza sui diritti sessuali e riproduttivi è sembrata del tutto fuori luogo. Inoltre, ha ignorato i sentimenti religiosi della maggior parte della popolazione, duramente colpita dalla chiusura dei luoghi di culto. Le persone di fede ritengono che, nei governi di Vizcarra e
Sagasti, siano stati presenti gruppi ideologici per imporre l’ideologia di genere e osteggiare la religione. Questa convinzione sarebbe confermata, secondo costoro, dal fatto che i centri commerciali hanno aperto i battenti sette mesi prima delle chiese e per entrare in un luogo di culto sono stati stabiliti requisiti di biosicurezza molto più severi che per entrare in un mercato o in una banca. A ciò va aggiunto il grande rifiuto che esiste tra i peruviani all’aborto e la presenza di forti movimenti di ricusazione dell’ideologia di genere, soprattutto nei settori evangelici. Mendoza era associata a tutte queste idee ed è per questo che è stata vista, al primo turno, come una candidata contro il cristianesimo. Castillo invece si è presentato con una prospettiva più vicina alla maggioranza dei peruviani sostenendo la famiglia tradizionale. Ecco perché, sui temi (fondamentali) della famiglia e della religione, lui è stato visto da molti peruviani come un moderato. A tal punto che molti peruviani bianchi hanno persino giustificato il loro voto per Keiko dicendo che Castillo è un candidato contro i diritti civili. Un pretesto per nascondere il loro pregiudizio nei suoi confronti».
Un paese razzista
Lei è anche un esperto di razzismo. Castillo è stato chiamato non soltanto «terruco», ma anche con il termine offensivo di «serrano». Il Perù è ancora un paese razzista?
«Il Perù è un paese estremamente razzista nei confronti della popolazione indigena e degli afro-peruviani. Per i bianchi dell’alta borghesia è un affronto totale che Castillo possa essere presidente. Sono disgustati nel vederlo indossare un cappello, nel sentire come parla, nel vedere il colore della sua pelle. Per questo lo paragonano a un animale, insistono che è ignorante e il loro disprezzo è rivolto anche ai suoi elettori.
È vero che ci sono stati altri presidenti con tratti andini come Alejandro Toledo, Ollanta Humala e Martín Vizcarra, ma la differenza sociale è abissale: Toledo era insegnante negli Stati Uniti, Humala ha studiato alla costosa scuola francese di Lima, Vizcarra vive nel quartiere più ricco di Lima. In Perù, al razzismo si affiancano classismo e centralismo, motivo per cui Castillo è molto più andino degli altri presidenti».
La Chiesa cattolica e la «minaccia» del comunismo
La Chiesa cattolica è un soggetto ancora importante in Perù? Come si è schierata in questa contesa tra Castillo e Keiko?
«La Chiesa cattolica ha molto peso nel nostro paese e tradizionalmente ha parlato molto contro la corruzione. Purtroppo, negli ultimi mesi, ha emesso pronunciamenti in cui non accenna a questo problema e, invece, pensa a condannare il comunismo come se questa minaccia fosse reale (il riferimento è al comunicato del 24 maggio, ndr). In questo modo, molti cattolici hanno creduto che il voto per Keiko fosse il voto cattolico. Ci sono diversi sacerdoti e vescovi che hanno seguito questa linea in modo abbastanza esplicito e la signora Fujimori di solito cita Giovanni Paolo II e Dio nei suoi comizi. Pochi altri sacerdoti religiosi, molti meno in verità, hanno messo in guardia sui problemi della povertà e dell’ingiustizia sociale. Le dichiarazioni anticomuniste della Chiesa sono state ampiamente respinte dagli elettori di Castillo, per i quali è stato deplorevole che un’istituzione così credibile abbia preso sul serio un argomento assurdo. Insomma, secondo me, la Chiesa ha perso molta credibilità da quando ha firmato quel pronunciamento. Peggio ancora, i vescovi hanno accolto Keiko Fujimori e hanno fatto una sessione fotografica amichevole (lo scorso 24 maggio, ndr), come se il suo ruolo negli scandali della corruzione fosse sconosciuto. Non c’è stato un incontro simile con Castillo, ufficialmente perché non si è presentato. D’altra parte, Castillo ha incontrato diversi leader evangelici e in vari eventi ha invitato i pastori a predicare durante il raduno».
Quindi, Castillo è legato a qualche Chiesa evangelica?
«Non mi piace molto mettere etichette. Comunque, la sua appartenenza religiosa non si sa con certezza, mentre la moglie e le figlie dovrebbero essere evangeliche».
Il machete, il crocifisso e l’arroganza di Vargas Llosa
A Lima sono arrivati dalla sierra gruppi di ronderos per difendere la vittoria di Castillo. Da parte sua, tra un reclamo e l’altro, Keiko ha esibito il crocifisso alla folla dei suoi sostenitori. Cosa ne pensa?
«Personalmente non ho visto alcun rondero con machete e non capisco perché qualcuno dovrebbe preoccuparsi. Il crocifisso è una nuova dimostrazione che Keiko ha perso tutto il pudore e vuole il supporto della gente a qualsiasi costo. Penso che quel gesto sia stato troppo anche per i cattolici».
Il premio Nobel Mario Vargas Llosa, neo fujimorista, però non demorde. Sui giornali di mezzo mondo continua a ripetere che c’è stata una frode elettorale e che il Perù è in pericolo.
«Vargas Llosa non è stato mai un buon politico. Non capisce il Perù né lo vuole capire. E si circonda solamente di un’élite arrogante come lui».
Il futuro sarà complicato
Nell’ultimo anno e mezzo, il suo paese ha vissuto prima la crisi pandemica e ora anche la crisi politica. Come vede il futuro?
«Il Perù che conoscevo nel 2019, prima della pandemia, è in frantumi. Miseria, fame, malnutrizione, disuguaglianza sono avanzate come mai prima in pochi mesi. Ci sono molte persone che hanno perso tutti i contatti con gli altri, perché vivono in isolamento. Per i bambini, gli adolescenti e gli anziani sono stati tempi particolarmente duri. Sarà molto difficile per la società peruviana rialzarsi, anche in quelle aree personali o familiari, dopo tanti danni. Molti paesi hanno affrontato situazioni drammatiche nel corso della loro storia, ma sono andati avanti, perché avevano chiaro in mente che la società doveva essere ricostruita. In Perù, la situazione è più complicata: ci sono mafie che vogliono assumere il potere e che potrebbero frenare qualsiasi tipo di ricostruzione».
Lei insegna all’Università Pontificia di Lima, una delle più prestigiose del paese. Se i suoi alunni le domandassero qualche commento sulla situazione del Perù, cosa risponderebbe?
«Direi loro che hanno dovuto vivere momenti molto difficili ma che debbono metterli da parte per non essere sopraffatti dallo scoramento. Sopravvivere in Perù è un compito difficile e ogni giorno ci sono nuove sfide. Direi loro di lasciare gli schermi dei computer, di uscire dalle loro stanze, di parlare con altre persone, di allenarsi e combattere per recuperare una condizione umana. Molti ragazzi, che nella pandemia hanno perso i loro familiari o che dovranno lasciare il college, hanno necessità di un trattamento psicologico. Come ho già detto, non sappiamo se il paese potrà essere ricostruito. Però, è importante lottare per preservare la propria integrità psicologica, fisica e morale».
Paolo Moiola
I padroni delle notizie
NOTE:
(1) Il gruppo, appartenente alla famiglia Miró Quesada, è egemonico, detenendo il 78% della stampa peruviana. E, elemento fondamentale, raccoglie la quasi totalità della pubblicità per la stampa, le televisioni e il web (anche attraverso il sito perured.pe). A fine giugno, Juan Ricardo Macedo Cuenca, giudice costituzionale, ha dichiarato che la concentrazione dei media nelle mani del Grupo El Comercio viola la Costituzione. (2) Per ricordare la vicinanza a Keiko Fujimori, è popolare la trasformazione di alcuni nomi: El Komercio, Keiko21, ecc. (3) A giugno una decina di giornalisti peruviani sono stati licenziati o si sono dimessi per aver contestato la linea editoriale pro-Keiko delle televisioni appartenenti al Grupo El Comercio. (4) América Televisión è la più importante rete televisiva commerciale del Perù. L’alleanza con la messicana Televisa le consente di trasmettere telenovelas, molto seguite nel paese. (5) Emittente televisiva di estrema destra di proprietà della famiglia Wong, che deve la sua fortuna ai supermercati. In Perù, vige un capitalismo dominato da una ventina di famiglie guidate dai Brescia e dai Romero.
(6) Secondo il Digital News Report 2021, in Perù il sito del quotidiano El Comercio è il più visitato.
(7) Il quotidiano ospita le opinioni di Mario Vargas Llosa. Il premio Nobel è uomo di destra. Si è schierato apertamente con Keiko Fujimori e ha sostenuto l’ipotesi della frode elettorale.
(8) È la rivista dell’«Instituto de defensa legal» (Idl), editore anche dell’emittente Ideele Radio e del sito investigativo idl-reporteros.pe.
FONTI:
Reuters Institute, «Digital News Report 2021»; OjoPublico-Reporteros sin fronteras, «Media ownership monitor, Perù»; Pedro Maldonado, «Un pulpo de los medios de comunicación», Ideele Revista, n. 234.
A cura di Paolo Moiola (Luglio 2021)
Il nuovo colonialismo e l’arte di arrangiarsi
Il fenomeno delle «invasioni»
Le «invasioni» di terre sono una caratteristica del Perù, soprattutto a Lima. È l’arte di arrangiarsi del popolo dimenticato e impoverito. È la risposta all’ingiustizia storica perpetrata da un’élite che si comporta esattamente come i colonialisti scacciati 200 anni fa.
Il Perù ha raggiunto l’indipendenza 200 anni fa, ufficialmente il 28 luglio del 1821. Tuttavia, almeno fino a oggi, il paese è stato costruito sulla base della (ristretta) visione del mondo che aveva e ha il piccolo gruppo dell’oligarchia peruviana, quell’élite criolla (i criollos sono i creoli, persone di origine europea nate nelle colonie dell’America Latina) discendente dei bianchi che hanno sempre gestito il potere.
Un potere che prima, al tempo della colonia spagnola, questa élite esercitava attraverso la corte dei viceré e poi, a partire dall’inizio della repubblica, si è ritrovata a gestire in proprio. Ancora oggi, il Perù è nelle mani di un gruppo ristretto (una dozzina di famiglie, conosciute come i «12 apostoli»), erede dell’élite originaria, che detiene il potere economico, sociale e culturale e definisce pertanto come deve essere il paese.
La Lima bianca e l’altra Lima
Questa élite bianca, urbana, installata principalmente a Lima (capitale per quasi 300 anni del più prestigioso viceregno dell’America Latina), ha guardato sempre al mondo occidentale come modello, dando però le spalle al resto del paese. Questo storicamente spiega come le grandi necessità della popolazione delle periferie e dell’interno del paese siano state sempre ignorate se non addirittura criminalizzate, alla luce dell’accusa di perturbare l’ordine e la pace.
Alla fine degli anni Cinquanta, questo modello ha causato le prime migrazioni dalle zone rurali alle città e soprattutto a Lima. Migrazioni definite «invasiones» dall’élite aristocratica, i cui antenati, per ironia della storia, secoli prima avevano invaso il Perù.
Fiumi di persone che scappavano dal sistema feudale del latifondismo si sono dovute conquistare uno spazio vitale per iniziare una nuova vita, occupando i terreni della desertica costa peruviana, fuori della capitale, adeguandosi a costruire ripari che avessero la parvenza di quattro pareti e un tetto. Si iniziavano così a costituire quei cinturoni di baraccopoli (asentamientos humanos, pueblos jóvenes, barriadas) abitate da esclusi e impoveriti. Esclusi e impoveriti che ancora oggi sono ignorati o criminalizzati dalla Lima bianca.
La mancanza di una vera e propria politica di stato, dovuta all’assenza di una visione realistica del paese, ha fatto sì che Lima (come tutte le maggiori città) crescesse inglobando le baraccopoli, legalizzando con successivi titoli di proprietà l’informalità delle «invasiones». Di conseguenza, oggi queste costituiscono la maggior parte del territorio di Lima metropolitana.
La particolare storia demografica della città lo dimostra: dalla fine degli anni cinquanta, Lima è passata da poco piú di un milione di abitanti ai quasi 11 milioni di oggi. Il tutto su un paese che, con una superficie quattro volte l’Italia, ha una popolazione totale di circa 31 milioni di persone. Pertanto, un terzo della popolazione del Perù vive a Lima: al centralismo politico, economico e finanziario ha fatto seguito il centralismo demografico.
Questo fenomeno di «invasiones» dalle regioni andine ed amazzoniche del Perù alle città e soprattutto alla capitale, non si è mai fermato del tutto, ma ha solo alternato periodi di maggiore o minore flusso. Ultimamente alla migrazione interna, si è aggiunta anche la necessità di case per i discendenti dei primi migranti e, in parte, anche dei migranti venezuelani, che in Perù sono più di un milione di persone.
Le invasioni, come e perché
Le ultime occupazioni, in ordine di tempo, di terreni desertici liberi avvengono proprio in concomitanza con il primo turno delle elezioni politiche generali.
Domenica 11 aprile, circa tremila persone, spinte dalla necessità di un tetto sotto cui vivere, occupano un’area nella zona conosciuta come Lomo de Corvina a Villa El Salvador, uno dei 43 distretti di Lima metropolitana, anch’esso fondato e auto costruito dal nulla sulle terre sabbiose a Sud della capitale nel maggio del 1971.
Si tratta di intere famiglie, provenienti questa volta non dall’interno del paese, ma da altre zone popolari di Lima che, disperate per non poter più pagare l’affitto per la perdita del lavoro (informale, di solito la vendita ambulante di qualsiasi oggetto commerciabile) a causa della pandemia, hanno approfittato del contesto elettorale, quando gran parte della polizia era occupata a garantire la regolare realizzazione della consultazione.
In questi giorni, di notte, centinaia di persone arrivano per occupare un terreno che appartiene all’impresa mineraria Luren. Il direttore generale dell’’azienda, Alejandro Garland, chiede alle autorità di intervenire e sgombrare subito gli invasori, avvertendo anche che l’area non è edificabile e che si tratta di una zona sismica.
Dopo quattro giorni, gli «invasori» hanno già diviso la zona occupata e ciascuno di loro ha già separato e delimitato il proprio spazio, dormendo sulle stuoie sistemate sul suolo sabbioso della collina, in tende o baracche montate alla meno peggio, scavando buche da adattare a latrine per le necessità immediate, organizzando una olla común («pentola comune»), cucinando comunitariamente il poco cibo che hanno potuto portare con sé e illuminando la notte con candele e lumi a petrolio.
La maggior parte di loro sostiene che questo gesto disperato è stato fatto per la necessità di un luogo dove vivere con la propria famiglia. «Sono venuto qui perché non potendo più lavorare, non ho più i soldi per pagare l’affitto. Se c’è un proprietario, perché non si è mai occupato di questa zona abbandonata?». Una donna assicura di avere il sostegno degli abitanti della zona, perché si ridurrebbero i casi di rapina o aggressione. Pertanto, chiede al proprietario di venire a parlare con tutti per trovare insieme una soluzione. «Vogliamo un posto dove vivere. Siamo disposti a lottare affinché ci lascino questo spazio. Non abbiamo denaro perché abbiamo perso tutto a causa della pandemia. Supplichiamo la polizia di non attaccarci».
«Non siamo trafficanti di terreno, siamo soltanto persone con grandi necessità», aggiunge un’altra persona per rispondere alle accuse di essersi messi nelle mani della delinquenza organizzata.
Attorno alla zona occupata ci sono circa 150 soldati che sorvegliano il terreno, oltre alla polizia nazionale del Perù. Questa ha assicurato che il ritiro avverrà in maniera pacifica, mentre il ministro dell’Interno, José Elice Navarro, ha detto che stanno cercando il dialogo pacifico con tutti.
Neppure il tempo di affrontare questa situazione che alcuni giorni dopo, la mattina del 13 aprile, nel Morro Solar, appartenente al distretto di Chorrillos, un altro dei 43 di Lima metropolitana, quasi 1.500 agenti di polizia arrivano per sfrattare migliaia di persone (si parla di oltre novemila). Molti occupanti si ritirano, ma un gruppo di cittadini continuano a scontrarsi con la polizia per tutta la giornata.
Secondo il reportage di Tv Perù, la televisione pubblica del paese, la polizia è entrata con i lacrimogeni per cercare di obbligare gli occupanti ad abbandonare la zona. Alcuni di loro, però, hanno iniziato a lanciare pietre e altri oggetti contundenti, per impedire alla polizia di sfrattarli dai terreni che già avevano lottizzato per costruire le proprie abitazioni. Alla fine, la polizia è riuscita a prevalere evacuando gli occupanti e impedendo un ulteriore accesso al luogo.
«Al fondo hay sitio»
Va detto che le invasiones avvenute in questo periodo elettorale sono solo alcune delle centinaia che accadono ogni anno fin dagli anni Cinquanta. Prima per sfuggire al latifondismo, poi – a partire dagli anni Ottanta – alla violenza del conflitto armato interno tra Sendero Luminoso (e, in minor parte, Mrta) e le forze armate e la polizia del Perù. E, ultimamente, anche per la migrazione climatica e come conseguenza delle concessioni di varie zone del paese alle grandi imprese multinazionali impegnate nell’estrazione di minerali, gas e petrolio.
Storicamente, in Perù non c’è mai stata una vera e propria politica di urbanizzazione e di uso del territorio. Le invasiones, la pratica dell’occupazione dei terreni, rimangono quindi come l’unica strada della popolazione disperata che, per altro, molte volte diventa vittima della mafia dei trafficanti di terreni.
Costoro occupano i terreni liberi, li lottizzano e garantiscono agli interessati che, in cambio di una certa somma di denaro, presto avranno un regolare titolo di proprietà. Normalmente questa mafia agisce in collaborazione con funzionari dei municipi dove avvengono le invasiones. Se l’occupazione ha buon esito, questi signori possono guadagnare migliaia di dollari in poche ore.
Le invasioni sono però l’unica maniera per ottenere uno spazio in cui vivere, presentandosi davanti alle autorità a occupazione compiuta. E molte volte esse, quando i terreni non hanno un particolare valore, tollerano la situazione, frenando così le tensioni sociali. Questa prassi ribadisce semplicemente la cosiddetta politica a doppio standard: lotti per autocostruzione senza alcun tipo di assistenza e servizio (acqua, elettricità, fognature, strade) per i più poveri, mentre si garantisce un’autentica formalità, crediti e zone urbanistiche di alto livello per i settori medio-alti della popolazione.
Un solo esempio basta per capire il paradosso: su una collina a Sud di Lima c’è un muro lungo circa dieci chilometri che divide vari insediamenti umani della zona d’invasione di Pamplona Alta (nel distretto di San Juan de Miraflores) dal quartiere Las Casuarinas (appartenente al distretto di Santiago de Surco), una delle zone più esclusive del Perù. È universalmente conosciuto come il «muro de la vergüenza» (della vergogna).
Secondo un recente rapporto pubblicato da Periferia (un’organizzazione peruviana specializzata in soluzioni urbane con un approccio ecologico) e Wwf Perù, quasi la metà della popolazione urbana del Perù (45,9%) vive in baraccopoli, in alloggi scadenti o con servizi idrici e igienico-sanitari assenti o inadeguati.
La gente povera afferma che l’unica politica abitativa in Perù è l’«arte dell’arrangiarsi» e, con amara ironia, ripete uno slogan ormai famoso: «Al fondo c’è spazio. Chi arriva prima se lo prende».
Giovanni (Gianni) Vaccaro
Hanno firmato questo dossier
Paolo Moiola – giornalista, redazione MC.
Wilfredo Ardito Vega – giurista, professore presso la Pontificia Universidad Católica del Perú (Pucp) di Lima, è esperto in diritti umani. Scrittore, è autore di vari libri, tra cui anche tre romanzi.
Giovanni (Gianni) Vaccaro – nato in Sicilia, vive a Lima dall’agosto del 1992. Con la moglie Nancy e i quattro figli ha deciso di vivere a Tablada de Lurín, periferia Sud della capitale peruviana, dove è responsabile dell’«Asociación de desarrollo solidario “Yachay Wasi de Tablada”». È rappresentante in Perù per la Focsiv.
Perú, mons. Baretto, la storia del vescovo ambientalista
Testo dell’incontro col vescovo cardinal Pedro Baretto e Mauricio López Oropeza di Paolo Moiola |
In Perú sono in corso centinaia di conflitti ambientali. Sia in Amazzonia (la selva) che nelle Ande (la sierra). La salvaguardia dell’ambiente e la salute delle persone costituiscono elemento centrale della missione pastorale di mons. Pedro Barreto?Jimeno, arcivescovo di Huancayo (Junín), vicepresidente della Conferenza episcopale peruviana e neocardinale (dal 29 giugno). Da pochi mesi, in qualità di socio fondatore della «Red Eclesial Panamazónica» (Repam), il prelato è stato anche nominato membro della commissione vaticana che sta preparando il Sinodo amazzonico del 2019. Lo abbiamo incontrato nella sua Lima poco prima della sua nomina a cardinale.
Miraflores (Lima). Nelle giornate di sole da Miraflores, noto distretto di Lima, si può ammirare un magnifico panorama sull’Oceano Pacifico. Arriviamo al centro ignaziano della locale parrocchia di Fátima per approfittare della presenza di mons. Pedro Barreto Jimeno, gesuita e arcivescovo di Huancayo, capoluogo del dipartimento di Junín, regione andina nel centro Ovest del paese. In Perú il prelato è molto conosciuto per le sue battaglie in favore dell’ambiente (el obispo ecológico).
Dal 2004 presta servizio tra le Ande, ma ci confessa quasi subito che il suo cuore «è amazzonico». Un sentimento nato durante i tre anni da vicario apostolico a Jaén, capoluogo dell’omonima provincia amazzonica (selva alta) del dipartimento di Cajamarca.
In quello stesso periodo entra nel consiglio permanente della «Conferenza episcopale peruviana» e nella «Conferenza episcopale latinoamericana» (Celam).
Jaén è la porta d’ingresso dell’Amazzonia Nord orientale del Perú. «L’Amazzonia – spiega mons. Barreto – comprende quasi otto milioni di chilometri quadrati e nove paesi, con il Brasile in testa (65% della superficie totale) seguito dal Perú. Come uomini di chiesa ci rendevamo conto che il lavoro da fare era tanto e disperso su un territorio immenso. Nell’aprile del 2013, a un mese dall’elezione del papa Francesco, il Celam si riunì in Ecuador per dibattere la questione. Nel settembre 2014 ci ritrovammo – vescovi, religiosi e religiose – a Brasilia e decidemmo di creare la “Rete ecclesiale panamazzonica”, la Repam. Che non è una vera istituzione, né una struttura, ma – come dice il suo nome – una rete che cerca di unire con il dialogo e l’aiuto reciproco popoli indigeni e non indigeni che vivono in Amazzonia. Ciò che ci sorprese fu l’immediato messaggio di felicitazioni del papa. Questo ci spinse a considerarne lui il fondatore».
A partire da quel momento la crescita della Rete panamazzonica è molto rapida.
«Il papa ci chiese di presentare al mondo la Repam. Lo facemmo il 4 marzo del 2015 a Roma, nell’aula Giovanni Paolo II. Poco dopo, il 19 marzo, tenemmo un’udienza tematica sulle attività minerarie in Amazzonia davanti alla Commissione interamericana per i diritti umani (Cidh) a Washington».
Il ruolo e la visibilità della Repam prendono in seguito grande impulso da due eventi importanti: l’uscita, nel maggio 2015, dell’enciclica Laudato si’, interamente dedicata all’ambiente e, nell’ottobre 2017, l’annuncio del papa di un Sinodo panamazzonico per l’ottobre 2019.
Dall’Amazzonia alle Ande
Dopo l’esperienza a Jaén, mons. Barreto deve lasciare l’Amazzonia per le Ande: regione di Junín, nella cosiddetta sierra. «Fui nominato – racconta – arcivescovo di Huancayo, una città posta in una valle dentro alle Ande, la valle del rio Mantaro. È la valle interandina più grande del Perú: 77 chilometri di lunghezza e una media di 22 di larghezza».
Luoghi molto diversi dall’Amazzonia, ma afflitti da problematiche identiche: il difficile rapporto tra l’ambiente naturale e le attività umane e tra il diritto al lavoro e quello alla salute.
Nel dipartimento di Junín, le concessioni minerarie riguardano circa il 20% del territorio totale. Si estraggono rame, piombo, zinco, molibdeno, argento. Vi operano diverse imprese tra cui la cinese Chinalco, la canadese Pan American Silver, la peruviana Volcan, la brasiliana Milpo. La più famosa, per i disastri provocati, è la statunitense Doe Run, da anni in liquidazione. Queste attività minerarie danno un po’ di lavoro (sottopagato) alla popolazione locale, ma portano soprattutto tanti danni, all’ambiente e alla salute delle persone.
«Da secoli – racconta il vescovo (cardinale dal 29 giugno, ndr) – è una zona eminentemente mineraria. C’è una città che si chiama La Oroya, a 3.700 metri d’altezza, che è considerata una delle cinque città più inquinate al mondo. Da alcuni anni non vengono più emessi gas tossici perché il complesso metallurgico della Doe Run è fermo, ma se si vedono le foto dall’alto – su internet è possibile – si nota una massa bianca. Non è neve, sono particelle di piombo, rame, zinco, tutti metalli pesanti che in questi 90 anni di produzione (l’attività iniziò nel 1922, ndr) si sono accumulati sulle montagne». E nel sangue degli abitanti, soprattutto bambini e anziani. Acqua, aria e suolo presentano livelli di contaminazione decine di volte superiori ai limiti consentiti.
Venuto a conoscenza dei gravi problemi ambientali, mons. Barreto si dà subito da fare. Nel marzo 2005, a pochi mesi dal suo insediamento come arcivescovo, istituisce un tavolo di dialogo (Mesa de diálogo) con l’ambizioso obiettivo di trovare una «soluzione integrale e sostenibile al problema ambientale e lavorativo a La Oroya e il recupero della conca del fiume Mantaro».
Il dialogo è però lungo e complicato. In gioco ci sono gli interessi della multinazionale statunitense e il lavoro di ben 2.000 persone. A mons. Barreto arrivano minacce di morte e intimidazioni.
Il complesso metallurgico di La Oroya passa attraverso fasi di insolvenza economica (2009), contenziosi con lo stato per i mancati investimenti di adeguamento ambientale (Programa de Adecuación Medio Ambiental, Pama) e, infine, nel 2017-2018 alcuni tentativi di vendita, finora falliti.
I cinesi di Morococha
Il problema – ancora irrisolto – di La Oroya non è il solo. A circa 40 chilometri di distanza sorge Morococha, cittadina cresciuta sopra un enorme giacimento di rame a cielo aperto. Dal 2008 il giacimento – noto come progetto Toromocho – è di proprietà della Chinalco, impresa appartenente al governo cinese. «Il primo problema da affrontare – racconta mons. Barreto – fu quello di spostare la popolazione. La Chinalco costruì una nuova città: Nueva Morococha. Il trasferimento delle 1.200 famiglie iniziò nel 2012 e ancora non si è concluso».
Nel frattempo, tra gennaio e luglio 2017, l’impresa ha estratto 106mila tonnellate di rame. «Anche nel caso di Toromocho – precisa mons. Barreto -, c’è un danno ambientale perché un’attività mineraria, per quanto si possa essere attenti, contamina sempre. Il problema è che nella regione non ci sono molte alternative lavorative. Anche se, come chiesa, abbiamo iniziato un piccolo progetto di produzione tessile che impiega soprattutto donne ma che comunque non basta».
Secondo l’Istituto peruviano di economia, l’attività mineraria genera circa l’11% del Prodotto interno lordo (Pil) del paese, la metà della valuta straniera che entra in Perú, il 20% delle entrate fiscali, oltre a migliaia di posti di lavoro diretti e indiretti.
«Il Perú – racconta mons. Barreto – è sempre stato un paese minerario. Però è anche un paese agricolo. Nella valle del Mantaro le miniere inquinano e, allo stesso tempo, in agricoltura si stanno utilizzando fertilizzanti che nel resto del mondo sono proibiti. Dovrebbe essere trovato un equilibrio tra un’attività mineraria responsabile e un’agricoltura egualmente responsabile».
Mons. Barreto, il vescovo (cardinale) ambientalista, non è a priori contro le miniere. «Io – precisa – direi che l’attività mineraria è necessaria. Non possiamo cioè dire “no” alle miniere. Quello che dobbiamo dire è: in questa riserva, in questo biotopo, in questo parco non può esserci attività mineraria. Un esempio: in questo momento un’impresa mineraria sta esplorando la laguna di Marcapomacocha. Qui occorre rispondere con un secco “no”».
Di certo, guardando al territorio peruviano, sembrerebbe che tutto il paese sia stato dato in concessione. «È vero – conferma il prelato -. Si parla della stessa piazza d’Armi di Cuzco. Un’assurdità. L’attività mineraria dovrebbe essere responsabile e con chiare restrizioni. Non possiamo opporci, ma dobbiamo dire: prima delle miniere sta la responsabilità per la vita e la salute delle persone».
Amazzonia, bioma universale
Dall’Amazzonia alle Ande l’impegno di mons. Barreto in difesa dell’ambiente non è mai cambiato. «A volte mi chiedono come mai un arcivescovo che vive in mezzo alle Ande sia entusiasta dell’Amazzonia. Il fatto è che qui si parla di un bioma che dà vita non solamente a noi ma a tutta l’umanità. Nella Laudato si’ – al numero 38 – il papa descrive l’Amazzonia come uno dei polmoni del mondo assieme alla conca fluviale del Congo».
In generale, però, la consapevolezza della sua importanza vitale è molto scarsa. Anche per questo gli attacchi alla sua integrità si fanno ogni giorno più numerosi. Come ammette anche mons. Barreto:?«Se si chiede a un peruviano della costa se il suo paese è amazzonico, questi risponderà che abbiamo la selva. In realtà, il 63 per cento del territorio peruviano è amazzonico. Abbiamo ancora zone intatte ma abbiamo anche zone infernali come a Puerto Maldonado (visitata dal papa a gennaio 2018, ndr), dove le attività minerarie illegali e informali hanno prodotto disastri. Quando si arriva in aereo si vedono nella foresta grandi fette di territorio dove ormai non cresce un solo filo di vegetazione, distrutta da mercenari che utilizzano il mercurio per cercare l’oro».
Da pochi mesi mons. Barreto, vicepresidente della Repam, è stato nominato membro della commissione (riquadro) istituita per preparare un’assemblea straordinaria sulla Panamazzonia.
«Quella di convocare un sinodo sulla regione amazzonica – chiosa il prelato – è stata una decisione sorprendente di papa Francesco. La prima volta nella storia della Chiesa. In precedenza e in più occasioni, il papa aveva detto che la Chiesa deve avere un volto amazzonico e indigeno (un rostro amazónico y indígena). Come va interpretata questa affermazione? Significa spingere per una conversione ecologica, un nuovo stile di vita, basato non su un paradigma tecnocratico ma su un nuovo paradigma che porti a soluzione il problema socioambientale e offra a tutti una vita degna e solidale».
Paolo Moiola
Il segretario esecutivo della Repam
«Vogliamo “amazzonizzare” il mondo»
In tanti parlano di Amazzonia, ma in pochi agiscono per contrastare la sua distruzione. Nata meno di quattro anni fa, la «Rete ecclesiale panamazzonica» (Repam) sta operando nei nove paesi amazzonici e tentando di coscientizzare il resto del mondo sul problema. Ne abbiamo parlato con Mauricio López Oropeza, segretario della Repam.
Puerto Leguízamo (Colombia). «Da quando sono entrato in questo territorio, mi è stato rubato il cuore». Mauricio López Oropeza, 40 anni, è messicano e l’Amazzonia l’ha conosciuta in Ecuador dove arrivò dieci anni fa per completare gli studi. Oggi è sposato con Ana Lucía, cittadina ecuadoriana, lavora con la Caritas nazionale ed è segretario esecutivo della Rete ecclesiale panamazzonica (Repam) dalla sua fondazione.
Mauricio, come si può descrivere l’Amazzonia in poche parole?
«L’Amazzonia non è soltanto un territorio. È un bioma unico. Un sistema vivo in cui i fiumi rappresentano il sangue e le vene. Un sistema diverso e complesso di cui ancora oggi conosciamo pochissimo. I popoli originari che vi vivono rappresentano un modello distinto da quello occidentale».
Negli ultimi cinquant’anni è cambiato il modo di guardare all’Amazzonia.
«È vero. Prima l’Amazzonia era il patio trasero (cortile di casa) del pianeta. Era vista come una terra praticamente disabitata che occorreva dominare, controllare, colonizzare. Le sue popolazioni erano considerate composte da indios selvaggi da civilizzare. Oggi l’Amazzonia si è trasformata in plaza central (piazza centrale) su cui tutti si riversano a causa degli enormi interessi che su di essa si sono scatenati».
Quali sono le minacce principali che gravano sull’Amazzonia?
«La prima minaccia è il modello di sviluppo seguito. È un modello neoliberista che ha nell’estrattivismo la propria manifestazione più devastante. Essendo ricca di petrolio e di risorse minerarie, l’Amazzonia è colpita dalla “maledizione dell’abbondanza”. Ciò produce una pressione enorme a favore dell’estrazione. In questo modo è come bruciare un archivio naturale: non sappiamo quanta ricchezza genetica potrebbe perdersi.
La seconda minaccia è l’espansione della frontiera agricola (con la soia in prima fila) e dell’allevamento bovino in un territorio inadatto a queste attività. La capacità organica dell’Amazzonia è molto più bassa rispetto ad altri territori. Tuttavia, essendo considerata uno spazio disponibile (a dispetto di eventuali territori indigeni), il disboscamento è incessante (siamo ormai al 25% del totale) e questo sta mettendo a rischio tutto il sistema, in primis quello del ciclo dell’acqua».
Distruggere l’ambiente amazzonico significa implicitamente distruggere coloro che lo abitano.
«La terza minaccia riguarda infatti la sopravvivenza stessa dei popoli amazzonici. I più minacciati sono quelli in isolamento volontario (popoli non contattati). Sarebbero 140 nel mondo, 130 di essi nella Panamazzonia e 110-120 nella sola Amazzonia del Brasile. È una sfida enorme. Come salvare queste sorelle e fratelli che vivono in modo completamente distinto da quello occidentale? I popoli indigeni hanno tutto il diritto di entrare, qualora lo vogliano, nelle dinamiche del nostro mondo, ma debbono anche avere la possibilità di preservare il proprio territorio e la propria cultura.
In questo hanno fallito i governi – di destra e di sinistra – che sono andati contro le proprie costituzioni e accordi internazionali sottoscritti».
Qual è la situazione attuale nei paesi amazzonici?
«In tutti i nove paesi abbiamo situazioni problematiche. Il Brasile – sia con Temer che con Dilma – certamente ha fatto passi indietro rispetto al passato. Per esempio, rispetto alla demarcazione delle terre indigene. Il modello neoliberale e accaparratore sta dominando le decisioni politiche brasiliane. Anche in Bolivia, dove si parlava dei diritti della madre terra, si è fatta marcia indietro come nel caso del Tipnis. Qui si è tolta la intangibilità e una strada taglierà in due la riserva. Pare per favorire gli interessi dei produttori di coca con i quali il governo ha una relazione molto diretta. Infatti, il tracciato della strada non favorisce le comunità, ma segue proprio il percorso della coca.
Anche in Ecuador abbiamo fatto tanti bei discorsi, ma oggi – con il paese dipendente dal petrolio – si sta parlando sempre e soltanto di permettere l’esplorazione petrolifera in zone intangibili, naturali, ancestrali. Quando è uscito il primo barile di petrolio dal parco Yasuní hanno festeggiato. Dicono che ci siano standard elevatissimi per la sicurezza, ma sappiamo tutti che non esiste un impatto ambientale nullo.
Nel Perú ci sono continue perdite di petrolio nei territori delle comunità indigene. I popoli Awajún e Wampis sono stati criminalizzati per avere richiesto la consultazione preventiva, anche se essa è un diritto riconosciuto come costituzionale. E poi c’è la terribile situazione di Madre de Dios (vedere MC, giugno 2012).
In Colombia, come in Perú e in Brasile, c’è molta attività mineraria illegale che usa metalli pesanti che contaminano i fiumi. Già ci sono casi di popolazioni indigene malate a causa del pesce contaminato da mercurio. La condizione di postconflitto ha inoltre determinato dinamiche nuove e una situazione paradossale. Riserve naturali che ricadevano nei territori in mano alla guerriglia erano rimaste integre, ora sono esplorate e date in concessione anche per finanziare il processo di pace e dare alternative agli ex guerriglieri.
In Venezuela, c’è la questione legata al cosiddetto arco minero del fiume Orinoco (negli stati Bolivar, Amazonas e Delta Amacuro, ndr). Qui c’è il più grande progetto di estrazione mineraria del paese, proprio in un luogo di alta biodiversità e di presenza indigena. L’impatto sarà molto grave, come dimostrano varie ricerche. Infine, anche nei paesi amazzonici più piccoli – Guyana, Suriname e Guyana francese – ci sono gravi problemi a causa delle miniere. Insomma, il modello estrattivista si sta approfondendo praticamente ovunque».
I governi dei paesi amazzonici sostengono che non ci sia un’alternativa all’estrattivismo.
«Ma neppure si sforzano di trovare strade alternative. Questo modello ha generato un grande debito con le popolazioni originarie e soprattutto il costo della distruzione dell’Amazzonia è assai maggiore dei benefici e mette a rischio il futuro delle prossime generazioni».
Cos’è la «Red eclesial panamazónica»?
«La Repam è uno sforzo di articolazione di distinte istanze della Chiesa cattolica nel gran territorio amazzonico. Anche se è stata fondata soltanto tre anni fa, essa è il risultato di decenni, per non dire secoli, di presenza sul territorio. Una presenza che ha avuto matrici positive ma anche negative. Come dice papa Francesco, dobbiamo iniziare chiedendo perdono per gli errori storici, i peccati e i crimini commessi nel processo di colonizzazione. Oggi però esiste anche una Chiesa profetica con uomini che hanno dato la propria vita per l’Amazzonia. Approfittando della sua presenza capillare su tutto il territorio, la Repam si è posta al servizio della realtà amazzonica e dei suoi problemi».
In quanto «rete», quali modalità di comunicazione privilegiate?
«Come Repam abbiamo relazioni con varie istituzioni del territorio, tra cui anche quelle che si occupano di comunicazione. O meglio di comunicazione per la trasformazione. Come l’Asociación Latinoamericana de Educación Radiofónica (Aler) o Radialistas Apasionadas y Apasionados».
Con Radialistas (vedere MC, aprile 2016) avete collaborato per un lavoro sulla Laudato Si’.
«Vero. Con José Ignacio López Vigil e i suoi collaboratori abbiamo pensato come far arrivare la Laudato Si’, una delle encicliche più potenti in tema ambientale, al cuore della gente e delle comunità. L’enciclica è scritta in un linguaggio diverso, ma rimane anche un’impronta teologica, scientifica e politica. Il nostro obiettivo era di abbassare il tono per renderla comprensibile alle persone semplici. Per questo abbiamo creato una serie radiofonica di 20 puntate in cui San Francesco d’Assisi ritorna sulla terra e scopre i disastri prodotti dall’uomo. Sfruttando la sua abilità nel parlare con tutti, lo facciamo dialogare con il fratello petrolio, con la sorella soia transgenica, con il fratello mais e via dicendo, percorrendo tutta l’America Latina per far intendere l’impatto del cambio climatico e la gravità della situazione».
Mauricio, come avete accolto l’annuncio del Sinodo panamazzonico dell’ottobre 2019?
«Come una grande opportunità. Il nostro slogan è “amazonizar el mundo” (amazzonizzare il mondo). Che significa rendere cosciente il mondo intero dell’importanza vitale di questo territorio unico. Bellissimo, fragile e profondamente minacciato».
Il volto indio di Iquitos. Nella capitale amazzonica peruviana
Testo e foto di Paolo Moiola |
Si ipotizza che l’80 per cento degli abitanti di Iquitos, la più grande città dell’Amazzonia peruviana, siano indigeni urbani: Huitoto, Kukama, Kichwa. Non esistono numeri certi perché la maggior parte di loro preferisce tacere sulla propria origine. Quando non è l’aspetto fisico a tradirne la provenienza, lo è quello culturale. Vivono nelle periferie di Iquitos, dove manca di tutto e vivere dignitosamente è un’impresa. Accompagnati da due amici missionari abbiamo visitato il barrio di Masusa e quello delle Malvinas.
Iquitos. Accanto alla pulsantiera dell’ascensore c’è, ben visibile, un adesivo: «No allo sfruttamento sessuale di bambini, bambine e adolescenti. Il nostro hotel protegge il futuro di Loreto». A Iquitos, capitale del dipartimento peruviano di Loreto, la gran parte dei visitatori arriva per le meraviglie della natura (la riserva di Pacaya Samiria, quella di Allpahuayo Mishana, la laguna di Quistococha) e – non si può tacerlo – per il turismo de la pobreza, il turismo della povertà, tale è infatti la visita alla comunità di Belén (definita, con rozzo cinismo, la «Venezia amazzonica»). Altri ancora giungono a Iquitos per provare l’esperienza dell’ayahuasca, la bevanda indigena dagli effetti allucinogeni. Ci sono, infine, i visitatori che arrivano fin qui allo scopo di adescare minori.
La pedofilia non è che uno dei tanti problemi che affliggono la capitale dell’Amazzonia peruviana. È proprio per vedere e capire la città reale che prendo contatto con due vecchi amici missionari: padre Miguel Ángel Cadenas e padre Manolo Berjón, da tre anni tornati nel capoluogo loretano dopo aver vissuto per venti tra le comunità dei Kukama lungo il rio Marañón.
Masusa e gli indigeni urbani
Con un mototaxi – il tipico mezzo di trasporto di Iquitos (le auto sono una rarità, i bus sono pochissimi e scalcinati) – mi reco alla parrocchia della Immacolata Concezione dove i due missionari spagnoli prestano servizio. La loro parrocchia serve il vasto territorio di Punchana, uno dei quattro distretti municipali di Iquitos.
La chiesa della Inmaculada si nota subito, non tanto per i suoi due tozzi campanili, quanto per il suo colore blu elettrico. Miguel Angel e Manolo sono già in strada. Un abbraccio e, su due mototaxi, partiamo subito alla volta del barrio di Masusa. Questo è il quartiere cresciuto attorno al principale porto fluviale di Iquitos, quello sul rio Amazonas.
Scesi dai veicoli, a piedi ci addentriamo nel barrio e nei suoi vari asentamientos humanos (insediamenti umani). Man mano che proseguiamo il contesto urbano si degrada e con esso peggiora a vista d’occhio la situazione di chi vi abita. Dopo qualche minuto di cammino arriviamo in una specie di piazzetta il cui pavimento è fango mischiato con detriti legnosi (scopriremo più in là il motivo). Tutt’attorno abitazioni su palafitte costruite con legno di recupero e dalla struttura visibilmente precaria.
In un angolo sorge la cappella Sagrado Corazón de Jesús, dove una ventina di fedeli e una decina di bambini attendono i padri per la messa domenicale. Dopo la celebrazione, padre Miguel Ángel sollecita le persone presenti a prendere il microfono e a raccontarsi davanti alla telecamera. Si alternano in molti, donne e uomini, probabilmente attratti da quella piccola ma inaspettata opportunità di uscire dall’anonimato, di far sentire la propria voce. Con grande dignità raccontano da dove vengono, cosa fanno, dei problemi quotidiani. Che sono tanti, dalla mancanza di un lavoro a una situazione abitativa subumana.
«Nessuno ha confessato di essere indigeno per timore della discriminazione – commenta poco dopo padre Miguel -. Ma è importante sapere che questa gente proviene da comunità native. Si tratta di indigeni urbani. Secondo noi, arrivano all’80 per cento della popolazione, in particolare qui, nelle periferie. Ci sono persone con tratti somatici indigeni, in altre si notano meno. Però i tratti culturali sono evidenti, soprattutto con riferimento alla cosmologia (la visione del mondo) e allo sciamanesimo». Gli chiedo di farmi qualche esempio. «Una città come Iquitos è piena di “piante che proteggono contro gli spiriti maligni”. Non ci sono cifre precise, ma sappiamo che il numero di sciamani è altissimo. Quando muore qualcuno si cerca un colpevole, anche se il referto medico parla di cancro. Ci sono persone che dicono di “fotografare gli spiriti” con il cellulare. Si lascia che i bambini prendano le proprie decisioni fin da piccoli, frutto di una concezione indigena della persona».
Accanto alla cappella c’è una piccola e tristissima struttura che funge da asilo e i missionari scrollano la testa sconsolati. Pochi passi più in là, un signore attorniato da un nugolo di bambini sta caricando su un motocarro delle taniche di acqua. «Siamo a 300 metri dal rio Amazonas, ma qui non c’è acqua da bere, per lavarsi, per cucinare o per lavare. Non c’è acqua per nulla. Come, d’altro canto, in gran parte della città di Iquitos».
Le «madereras»
Dall’asentamiento humano Alejandro Toledo ci incamminiamo verso quello chiamato Santa Rosa del Amazonas.
Le stradine sterrate su cui camminiamo sono piene di trucioli e segatura di legno.
«Il municipio – spiega padre Miguel – invece di riempire con terra ha permesso alle segherie di usare i loro scarti di lavorazione per rialzare il terreno. Quando arriva la creciente (termine che indica i periodi – normalmente da marzo a maggio – di massima portata del rio Amazonas e dei suoi affluenti, quando le acque esondano, ndr), l’acqua continua a inondare le case, anche se si nota meno perché non compaiono ponteggi e passerelle. Sotto le case a palafitta sono però rimasti grandi vuoti dove si accumulano acqua putrida e rifiuti. Senza dimenticare che gli scarti del legno hanno fatto aumentare la popolazione di topi e di zanzare. Ancora una volta ha vinto l’opportunismo di politici e affaristi a scapito dei diritti dei cittadini». Eccole, le madereras, le segherie, le imprese del legname. Sono state costruite in questa zona per la vicinanza con il porto di Masusa. Il problema è che oggi sono circondate da insediamenti umani densamente abitati. Questo significa che la gente vive in mezzo ai residui della lavorazione del legno, tra cui particelle minuscole che vengono respirate. Allo stesso tempo molti abitanti traggono vantaggio dalla vicinanza delle madereras per recuperare materiale per le loro abitazioni o per costruire esteras (stuoie di legno) da vendere al mercato.
Le segherie hanno barriere d’alluminio che impediscono di vedere all’interno e torrette di guardia agli angoli. Ma per una cinquantina di metri lungo il perimetro c’è ancora una semplice staccionata (probabilmente in attesa di essere sostituita), che consente la visione. Al di là, cumuli di pezzi di tronchi dal diametro enorme. Un bulldozer sta spostando materiale di ogni dimensione.
Attività legale o illegale?, chiedo a padre Manolo. «Sicuro che è illegale – risponde il missionario -. O meglio: può essere che formalmente siano imprese legali, ma quasi sempre estraggono il legno illegalmente. Mi spiego: hanno una concessione per una data zona, ma poi lavorano in un’altra». In cerca di legno prezioso?, insisto io. «Dipende. La verità è che adesso di legno prezioso ne è rimasto veramente poco».
Mentre faccio foto e filmati noto che ci stanno osservando da una baracca che funge da ufficio. Probabilmente la loro è soltanto curiosità.
In ogni caso, a pochi metri di distanza, sull’angolo, un container color verde pallido è stato adibito a stazione di polizia. Lo hanno messo su ruote, in modo che sia a mezzo metro dal terreno sconnesso. Ci hanno ricavato alcune finestrelle e una porta. Dipinto due stemmi: quello del governo di Loreto e quello della polizia. E una scritta rassicurante: Juntos por la Seguridad Ciudadana! (Uniti per la sicurezza cittadina!).
La porta è aperta e così ne approfitto per entrare.
C’è una piccola scrivania, due sedie, un vecchio televisore e due brandine a castello. E soprattutto ci sono due giovanissimi poliziotti che stanno ascoltando musica dal cellulare. Appena mi vedono, abbassano il volume e si mettono in testa il cappellino d’ordinanza. I due mi accolgono calorosamente, nonostante abbia una telecamera in mano.
Mi dicono che sono aperti 24 ore e che intervengono principalmente per casi di violenza familiare e furti. Chiedo della droga di cui tutta l’Amazzonia peruviana è grande produttrice. «Sì – confermano i poliziotti -, c’è spaccio di pasta basica di cocaina. Sono coinvolti molti minori. Una dose costa un sol (25 centesimi di euro, ndr)».
Li ringrazio e raggiungo di nuovo le mie guide. Uno dei due poliziotti ci raggiunge però dopo pochi secondi per chiederci se vogliamo essere accompagnati nel nostro percorso. «No, grazie. Non c’è bisogno», rispondono i missionari. Questa non è una zona frequentata da stranieri, ma i due padri sono conosciuti anche perché qui c’è una delle quattro cappelle della loro parrocchia.
L’insediamento di Santa Rosa è triste e squallido come il precedente con la differenza che è tagliato in due da una via sterrata, usata da qualche veicolo delle segherie. La strada prosegue per qualche centinaio di metri fino a raggiungere il punto dove il rio Itaya sbocca nell’Amazonas. Sulla spiaggia che guarda i due fiumi da una parte c’è una catasta di enormi tronchi d’albero, dall’altra una montagna illegale di rifiuti e davanti a questa, tra l’acqua e la terraferma, un cimitero di vecchi battelli arrugginiti. Giriamo a destra seguendo l’Amazonas e, dopo poche decine di metri, giungiamo al porto di Masusa, conosciuto anche con il nome di puerto Silfo Alvan del Castillo.
I battelli amazzonici
I cancelli sono aperti e non c’è alcun controllo. Sulla riva sono ormeggiati una serie di battelli di medie dimensioni (50-100 tonnellate), all’apparenza tutti piuttosto scalcinati, ma che raggiungono quasi ogni angolo dell’Amazzonia peruviana. Il porto di Masusa funziona per merci e passeggeri.
Oggi c’è poca gente perché è domenica. Tuttavia, ci sono alcuni camion che caricano o scaricano mercanzia.
«Arriva soprattutto frutta e viene imbarcato soprattutto riso per le comunità dell’interno. E naturalmente arriva la droga. Da qui partono anche le persone vittime di tratta per andare verso Lima o la costa dove saranno impiegate nella prostituzione o in lavori illegali. Ci sono sia maschi che femmine e moltissimi di loro sono minorenni. È facile cadere nella tratta di persone. Se sei un ragazzo che vive in una famiglia povera e ti offrono un lavoro in un altro posto, alla fine decidi di partire».
Lasciamo il porto per entrare nell’adiacente mercato di Masusa. È una struttura riparata da una tettornia dove si vendono prodotti alimentari. Sui tavolacci in legno è rimasto poco o nulla perché l’ora è tarda. Su uno ci sono mucchi di zampe di gallina, su un altro razzolano alcuni pulcini.
Usciamo da una porta laterale del mercato per trovarci in un vicolo di sassi e rifiuti. I due missionari debbono fare visita a un’anziana malata. Abita sotto una palafitta, una sorta di pianoterra aperto, senza pareti circostanti, senza porte e finestre. Un tugurio con un pavimento di nuda terra e un soffitto di assi la cui altezza non permette a una persona di stare in piedi. Su un lato di questa stanza improbabile c’è un gruppetto di bambini con gli occhi fissi su un piccolo televisore, dall’altra una signora sdraiata su un vecchio letto circondato da indumenti e medicine. Alla vista dei missionari lei si mette seduta e scambia qualche parola. È anziana e malata, ma il suo viso conserva i segni di un’antica bellezza. Marta, questo il nome, non ha famiglia e sopravvive con l’aiuto dei vicini di casa. Prima dei saluti, chiede a padre Miguel Ángel di ricevere la comunione. Una visita, quella alla signora Marta, che ti prende lo stomaco e che ti lascia senza parole.
Abitare alle Malvinas
Con i consueti mototaxi lasciamo il quartiere del porto. La prossima destinazione è il barrio delle Malvinas. Anche qui, come a Masusa, le condizioni abitative peggiorano man mano che ci addentriamo, in particolare verso l’asentamiento Iván Vásquez.
Percorriamo una calle pavimentata con cemento, tanto stretta che a stento ci passa un mototaxi. Poi la viuzza termina e il luogo si allarga in maniera inaspettata, ma anche poco piacevole. La stradina nascondeva la rete fognaria (acantarillado), che ora invece esce allo scoperto in forma di un fiumiciattolo di acque putride e puzzolenti (desagüe).
È riduttivo definirla una fogna a cielo aperto perché è larga alcuni metri. L’acqua ha un colore grigio, impenetrabile dallo sguardo. È stagnante tanto che i sacchetti di rifiuti gettati sul fondo non si muovono e sono oggetto di attenzione da parte di vari gallinazos – grandi uccelli dalla testa nera appartenenti alla famiglia degli avvoltorni – che vi cercano cibo.
Sulle due sponde della fogna è cresciuta una ininterrotta serie di abitazioni con le persone che all’aperto cucinano, lavano i panni o vendono mercanzie (dal pesce alle banane agli spiedini).
Non è strano che la gente accetti tutto questo?, chiedo alle mie guide. «No, non è strano. Sono venuti da fuori per cercare migliori condizioni di vita ma hanno trovato questo».
Camminiamo lungo il canale finché arriviamo a una curva, dove una conduttura in cemento sbuca dal greto della cloaca. «Ecco questo è il punto più incredibile. Qui fuoriescono i rifiuti dell’ospedale Essalud, che sta a cento metri di distanza», mi spiega padre Miguel Ángel. Vista la situazione, non stupisce che, oltre alla malaria e al dengue, diffuse in tutta Iquitos, qui siano endemiche anche le infezioni respiratorie acute e le malattie diarroiche acute.
Dopo la curva, il fiume-fogna torna diritto proseguendo per alcuni chilometri fino a terminare nel rio Nanay, molto vicino alla confluenza di questo con l’Amazonas. Sulle due sponde sono state poste barriere in legno e sacchi di sabbia per frenare l’acqua nei periodi della creciente, la piena dei fiumi. Per passare da una sponda all’altra gli abitanti hanno costruito passerelle di assi. Ne attraversiamo una per andare a camminare sul lato esterno.
L’insediamento è molto esteso. Tutte le abitazioni sono su palafitte e costruite con assi di legno e tetti in lamiera. I bambini sono ovunque e, come in ogni parte del mondo, trovano il modo di giocare e divertirsi. C’è anche un ampio spazio libero dove in molti stanno seguendo una partita di calcio. Più avanti, nello spazio tra alcune abitazioni, un gruppo di giovani sta giocando a pallavolo.
Dato che non esiste alcun sistema di distribuzione idrica, incrociamo varie persone che, a mano, trasportano secchi d’acqua. «A dispetto di tutto questo – chiosa padre Miguel Ángel -, da qui non vogliono andarsene. Il barrio è vicino al porto. E Masusa è il solo luogo dove molti di loro possono trovare un lavoro: o come scaricatori o come rivenditori dei prodotti più vari. Questa città non offre altro».
Tra invisibilità e indifferenza
Ormai è quasi buio. È ora di tornare indietro. Oggi abbiamo conosciuto due barrios di Iquitos, dove la gente – quasi sempre indigena – vive in condizioni di povertà o di estrema povertà. La maggior parte degli abitanti della più importante città dell’Amazzonia peruviana vive così. Ma rimane invisibile agli occhi dei più. O indifferente, che forse è anche peggio.
Paolo Moiola
Colombia-Perù. La forma della felicità
Testo e foto di Paolo Moiola |
Non ci sono né acquedotto né acqua potabile. Non ci sono fognature e strade. L’elettricità arriva per quattro ore al giorno. La malaria è la norma. Eppure, a Soplín Vargas, piccolo villaggio di 700 persone (tra indigeni e meticci) sulla riva peruviana del rio Putumayo, si può essere felici. È il sumak kawsay, la forma indigena della felicità. Confermata dai missionari.
Verso Soplín Vargas. Ci imbarchiamo al porticciolo di Puerto Leguízamo. Qui non esiste un servizio di trasporto pubblico. I passaggi sul rio Putumayo dipendono dall’intraprendenza dei singoli. Come fa la signora Teresa, una donna imprenditrice che ha coinvolto nell’attività anche i propri figli. Due volte a settimana la sua vecchia lancia in legno percorre il tragitto tra Puerto Leguízamo e Soplín Vargas, in terra peruviana. Ci accomodiamo tra sacchi di cemento marca San Marcos, scatole e borse della spesa. È stato imbarcato pure un mobile di medie dimensioni. I passeggeri – uomini e donne con bambini – sono tutti peruviani che vengono a fare acquisti sul lato colombiano del fiume, dove i prodotti si trovano più facilmente e più a buon mercato. «Teresa, come va il business?», chiedo mentre lei è ancora sul molo in attesa di altre persone. «Più o meno», risponde lei con una risata. Non esistono orari. L’unica regola è evitare di muoversi con il buio. Raggiunti i 14 passeggeri, Teresa molla la cima e Angelo, uno dei suoi figli, accende il motore. «Ci vorranno poco più di due ore», spiega padre Fernando Flórez, che a Soplín Vargas ha la sua missione.
A pochi minuti dalla partenza passiamo davanti alla base della «Forza navale del Sud» dell’Armada colombiana, che qui ha una presenza di rilievo vista la zona di confine (con Perú ed Ecuador) e la situazione di conflitto armato con le Farc che vigeva fino agli accordi di pace del novembre 2016.
La navigazione procede tranquilla. L’acqua del fiume ha un colore opaco, tra il verde e il marrone, come si notava dall’aereo. Sulle rive la vegetazione è continua ma quasi non ci sono alberi ad alto fusto. Ogni tanto, seminascosta dalla boscaglia, s’intravvede qualche abitazione su palafitte. Le rare imbarcazioni che s’incontrano sono soprattutto peke-peke (il nome deriva dal tipico rumore del motore) appartenenti a pescatori o a famiglie che si spostano lungo il fiume.
Dopo un paio di ore di viaggio, sulla riva peruviana compare un grande cartellone della Marina da guerra del Perú – sul Putumayo ha alcune guarnigioni stabili (come la controparte colombiana) – che annuncia l’arrivo a Soplín Vargas. «Sia Puerto Leguizamo che Soplín Vargas debbono i loro nomi a soldati caduti durante la guerra tra Colombia e Perú che ebbe luogo tra il 1932 e il 1933», mi spiega padre Fernando.
La lancia di Teresa riduce la velocità e si dirige verso un piccolo molo sul quale sono indaffarate parecchie persone. Man mano che ci avviciniamo capisco il motivo di tanto trambusto. Qualcuno sta squartando una vacca e vari dei presenti se ne portano via un pezzo, chi più grande, chi più piccolo. La maggior parte di loro se lo carica sulle spalle per fare più comodamente la ripida scalinata in legno che dal fiume conduce al promontorio dove sta Soplín Vargas. Per questa sua posizione il villaggio è considerato in «altura», che significa non inondabile dal Putumayo.
Noi scendiamo poco più avanti in un posto più scomodo e sconnesso. Gli stivali sono indispensabili per muoversi su un terreno reso fangoso e viscido dalle piogge.
Dopo una camminata in leggera salita su sentieri in terra battuta, arriviamo alla missione. Ad accoglierci è il volto sornione di padre Moonjoung Kim, missionario della Consolata coreano che con padre Fernando opera a Soplín Vargas.
La missione è una piccola casa in muratura posta su un unico piano.
L’entrata dà su un salone dove si svolgono tutte le attività (incontri, messe, feste, celebrazioni). Al fondo dello stesso ci sono quattro porte corrispondenti alle stanze da letto dei due padri, al cucinino e al piccolo bagno.
«Sumak kawsay»
Padre Fernando e padre Kim operano su tutto il distretto denominato Teniente Manuel Clavero, che si estende su un territorio amazzonico molto vasto (circa 9.107 km2). C’è Soplín Vargas, il capoluogo con circa 700 abitanti e una comunità mista di meticci e indigeni. Ci sono due altre comunità meticce e poi 28 comunità indigene: Kichwa soprattutto (21), ma anche Secoya (6) e Huitoto (1). La più piccola, Peneyta, conta soltanto 36 abitanti.
Vista l’ampiezza del territorio, i due missionari sono sempre in viaggio, muovendosi in barca e a piedi. Però, a dispetto di fatica e difficoltà, sembrano in totale armonia con l’ambiente naturale, umano e culturale in cui sono immersi. «La chiesa cattolica – spiega padre Fernando – dovrebbe evangelizzare e il vangelo – anche dal punto di vista etimologico – significa “buona notizia”. In questo pezzetto di Amazzonia noi dovremmo portare buone notizie. Ciò si traduce nel sumak kawsay, tradotto come buen vivir. Tutto ciò che sta a favore della vita è Vangelo, tutto ciò che sta contro la vita va denunciato. Anche per questo io e padre Kim stiamo percorrendo il Putumayo in lungo e in largo: per formare líderes e líderesas che possano essere gestori del buen vivir».
Il sumak kawsay-buen vivir è un concetto affascinante: vivere privilegiando la comunità in un contesto di rispetto dell’ambiente naturale. Affascinante ma difficile, soprattutto per un bianco che, per capirlo ed eventualmente attuarlo, deve spogliarsi di molti preconcetti, di strutture mentali sedimentate, di comodità date per acquisite. Ad esempio, vivere nella foresta amazzonica è un’esistenza unica in ogni aspetto della quotidianità.
«Di acqua ne abbiamo molta – racconta padre Fernando -. Il problema è che spesso non è potabile. È un paradosso, lo so. Siamo sulle sponde del fiume Putumayo, ma il fiume è inquinato. In primis, dall’immondizia: tutto ciò che le comunità producono come immondizia, viene buttato nel fiume. Va detto che l’indigeno è passato in poco tempo da uno scarto naturale (gusci, cortecce, legno) alla plastica. Con la differenza che il primo non inquina, il secondo sì. A Soplín Vargas parte dell’immondizia si raccoglie, ma si butta in un terreno senza alcun trattamento. Non esiste il concetto di riciclaggio. E poi ci sono i reflui umani che anch’essi vanno a finire nel fiume. Qui in pochissimi hanno un gabinetto con una fossa biologica».
Dunque, come ci si procura l’acqua?, chiedo da straniero abituato alle comodità dei bianchi. «Normalmente la gente raccoglie l’acqua piovana in un contenitore, ma altrettanta prende l’acqua da bere direttamente dal fiume. Noi portiamo l’acqua (trattata) in bottiglioni dalla Colombia e, quando la gente sulla barca ci vede, ride di noi. “Fernando, l’acqua del Putumayo non si prosciuga, perché vai a comprarla?”».
Domando della vita quotidiana. «Se non lavorano nella municipalità – spiega padre Fernando -, le persone al mattino vanno a collocare le loro reti nel rio Putumayo per pescare. Durante la notte possono andare a caccia per procurarsi la carne, che poi salano dato che qui non c’è possibilità di congelare i prodotti». Dunque, pesca, caccia, ma anche un’agricoltura di tipo familiare.
«Nelle chagras (o chacras, piccoli appezzamenti di terra) si coltivano – spiega padre Kim – riso, frutta amazzonica e yuca. Quest’ultima è molto usata dagli indigeni, anche per produrre bevande tipiche come la chicha e il masato». Chiedo della coca. «E tristemente si coltiva anche coca – conferma il missionario -. Però, la si coltiverebbe meno, se in altre parti del mondo non si consumasse. Senza dimenticare che gli indigeni la utilizzano anche in alcuni loro rituali tradizionali».
Dopo la cena, nel salone multiuso rimontiamo la tenda sotto la quale dormirò. Occorre approfittare della luce: a Soplín Vargas la corrente elettrica viene erogata per 4 ore giornaliere, dalle 18,00 alle 22,00. La missione non ha un generatore autonomo. Non c’è televisione né collegamento internet. «Però – dicono quasi all’unisono i due missionari – abbiamo vegetazione, tranquillità, persone con le quali si può parlare faccia a faccia senza un telefono che suoni».
Amazzonia, cuore del mondo
Ogni mattino mi alzo anchilosato, ma senza punture. Anche la scorsa notte le zanzare (zancudos o mosquitos) non sono passate dalla mia tenda. Esco subito per approfittare della temperatura sopportabile. Percorro il sentiero – sono poche centinaia di metri – che porta verso il centro del villaggio. Passo davanti alla scuola primaria e secondaria e a un piccolo campo da gioco in cemento. Ancora pochi passi e sono sulla Plaza de Armas di Soplín Vargas. È uno spazio erboso circondato da una stradina pavimentata con lastroni di cemento. Tutt’attorno ci sono il posto di polizia (una baracca in legno di colore verde pallido), il municipio e anche un ufficio del Banco de la Nación.
Incrocio il direttore del collegio. La scuola di Soplín Vargas – chiamata Teniente Luis García Ruiz – conta 108 alunni in primaria e 78 in secondaria. Secondo il direttore, i problemi principali sono quelli della mobilità (degli insegnanti e degli studenti) e i bassi salari. «Non stiamo tanto bene, però stiamo migliorando», conclude. In piazza incontro anche il medico, il dottor Francisco José Rosas Pro, che mi invita a casa sua. Sposato con Rina, infermiera, hanno una bambina. Sono qui dal 2012, ma in attesa di trasferimento.
«Manca molto – racconta il medico – l’appoggio dello stato, soprattutto per quanto concerne i medicinali. Non danno neppure quelli di base come amoxicillina e paracetamolo. Non rispondono alle nostre richieste. Oppure inviano medicinali non richiesti in quantità quando vedono che stanno per scadere».
Gli chiedo delle patologie più diffuse. «A parte la diarrea e problemi respiratori tipici, c’è la malaria, sempre presente. Ogni giorno ci sono pazienti. Spesso scelgo di dare loro i medicamenti anche se l’analisi del sangue è negativa, perché vengono da molto lontano. Qui a Soplín Vargas si tratta principalmente di malaria vivax, ma nei caserios (i villaggi più piccoli) c’è una prevalenza del falciparum» (sulla malaria vedi MC ottobre 2018 pag. 62).
Siamo interrotti per un’emergenza. Lo seguo al puesto de salud (consultorio medico) che dista un centinaio di metri. È una struttura in muratura relativamente grande ma triste e spoglia. Pare abbandonata. Le stanze non mancano, ma sono quasi tutte chiuse e vuote. L’unica aperta e attrezzata è quella sulla cui porta c’è il cartello «Tópico de emergencia». All’interno un paziente, sdraiato sul lettino, lamenta forti dolori al basso ventre. Francisco lo visita. Esce poco dopo. «Probabili calcoli renali. Ho dato dei medicinali e ordinato (all’unica addetta, ndr) una fleboclisi».
Al puesto de salud di Soplín Vargas l’umidità percorre muri e scalini, ma non c’è l’acqua per gli usi normali. «Una delle tante ragioni per cui ho chiesto di essere trasferito», chiosa il medico.
Alla sera racconto della mia visita all’ambulatorio. «Sì, è vero. Qui ci sono molte necessità – ammette padre Fernando -. I governi non si preoccupano della gente di questi territori. Sono interessati soltanto ad accaparrarsi le ricchezze della regione: per queste persone l’Amazzonia è sinonimo di denaro. Per me invece è il cuore del mondo».
Paolo Moiola
Nella comunità kichwa di Nueva Angusilla
«Sì, io sono il cacique»
Sul fiume Putumayo, come su tanti altri fiumi amazzonici, vivono varie comunità indigene. Spesso dimenticate dallo stato centrale.
Verso Nueva Angusilla. Da Soplín Vargas navighiamo lungo il rio Putumayo verso Sud per 140 chilometri. Quando il fiume incontra il rio Angusilla, suo affluente, siamo arrivati alla comunità kichwa di Nueva Angusilla.
L’avamposto militare – qualche casupola dipinta di verde e un’insegna posta sul terreno antistante – sta su un promontorio senza alberi. Ma la posizione è perfetta: all’intersezione tra i due fiumi. Poco più avanti, sul pontile un gruppo di adulti e bambini sono in attesa della nostra lancia. I cartelli di benvenuto tenuti dai piccoli sono per mons. José Javier Travieso Martín: è un’occasione unica perché il vescovo risiede a San Antonio del Estrecho, molto lontano da Nueva Angusilla.
Il villaggio è stato costruito con una struttura rettangolare: il lato libero guarda verso il fiume, sugli altri tre sono sorte le abitazioni. Le case – fatte di assi di legno e tetto di lamiera o di frasche – sono rialzate dal terreno di circa mezzo metro. Al centro, sproporzionata rispetto al resto, c’è la costruzione più moderna, chiamata Centro de Servicio de Apoyo al Hábitat Rural, ma da tutti conosciuta come «tambo». È un progetto del governo peruviano per ospitare – nei luoghi più disagiati – i principali servizi pubblici: registro civile, credito e appoggio tecnico ai contadini, consultorio medico, asilo nido per bambini, consulenza giuridica e altro ancora. Però, a Nueva Angusilla come altrove, c’è solo il contenitore fisico, mentre i servizi mancano o sono molto carenti.
«Qui ci sono circa 120 abitanti. Si vive di agricoltura e pesca. E poi lavoriamo con il legno con cui facciamo assi vendute in Colombia», mi dice gentile ma forse un po’ a disagio Eliseo, un abitante che si sta dirigendo verso il locale comunale – una struttura in legno aperta e con un tetto di frasche – dove il vescovo impartirà battesimi e comunioni.
Cerco il capo, il responsabile della comunità: il cacique, ma meglio sarebbe dire apu o curaca. Eccolo. Statura piccola e volto da giovanissimo, risponde volentieri alle domande anche se con visibile timidezza. «Sì, sono il cacique. Mi chiamo Jackson Kenide Mashacuri Andi e ho 24 anni. La popolazione mi ha eletto come autorità di qui. Mi piace molto stare con la gente per aiutarla a organizzarsi». E con orgoglio aggiunge: «Ho fatto il quinto grado della scuola secondaria e dunque sono capace di difendermi». Precisa che gli abitanti sono 117 che vivono coltivando yuca e platano (banane da cuocere, ndr) e pescando per il proprio consumo. Spiega che, come cacique, fa parte di una organizzazione chiamata Fikapir – Federación Indígena Kichwa Alto Putumayo Inti Runa -, la quale funge da intermediario con le autorità statali.
Chiedo dei problemi che ci sono. «Per la salute non c’è quasi appoggio. Per l’educazione stiamo cercando di avere professori bilingue. Adesso abbiamo soltanto insegnanti meticci che non parlano la nostra lingua. Qui la popolazione parla kichwa». Anche i giovani?, chiedo. «Sì, anche loro. Lo parlano in casa ma non a scuola».
Ci sono problemi di malaria? Fa una smorfia prima di rispondere: «Eh, sì. Soltanto un mese fa c’erano 20-25 persone contemporaneamente con la malaria. Malaria vivax». E c’è la posta medica?, intervengo. «Sì, ma non abbiamo il tecnico».
Oggi è una giornata di festa. Bisogna andare a mangiare. Pollo, riso, platano fritto. Prima di risalire sulla lancia, Jackson mi presenta la sua famiglia per un’ultima foto.
Paolo Moiola
Indigeni e bianchi
Una ciotola di «masato» (per un ipocondriaco)
Tra un indigeno e un bianco le diversità sono evidenti. Soprattutto quelle culturali. L’importante è accettarle, magari con un arricchimento reciproco. Racconto di un piccolo episodio di vita quotidiana.
Nueva Angusilla. Una semplicissima casa in legno rialzata da terra di circa un metro. Nessun mobile, un paio di secchielli (di plastica) con dell’acqua, qualche indumento appeso a fili volanti. Una famiglia numerosa e allargata (genitori, figli, nipoti) accoglie padre Fernando. In quanto amico del missionario, io sono un ospite da onorare come meglio si possa. E il meglio per una famiglia kichwa è offrire una ciotola colma di masato. È – lo confesso – un momento che temevo e che inevitabilmente si presenta. Tremo all’idea di dover ingerire quella bevanda tanto gradita dagli indigeni quanto indigesta per i non-indigeni, soprattutto se occidentali. Bere è un atto dovuto, segno di rispetto, riconoscenza, amicizia. Bere è però anche un rischio certo di avere conseguenze fisiche immediate e sicuramente poco piacevoli. Anni di esperienze negative mi vengono immediatamente alla memoria. Non c’è speranza di farla franca. È quasi matematico.
Il masato (aswa, in kichwa) è il nome di una bevanda molto comune in tutto il bacino amazzonico. È ottenuta a partire dalla yuca dolce (o manioca), una pianta con una radice a forma di tubero, commestibile e ricca di amidi. La sua preparazione è compito delle donne indigene. I tuberi vengono prima pestati e poi bolliti. La pasta ottenuta è quindi masticata dalle donne per provocarne la fermentazione. Da ultimo si diluisce la massa in acqua (quasi sempre di dubbia potabilità) e il masato è pronto per essere bevuto.
Prendo la ciotola di… plastica tra le mani. Appoggio le mie labbra incerte sul bordo. È come se quella bevanda biancastra e veramente poco attraente quasi mi guardasse e mi dicesse: «Bevimi!».
La decisione è repentina ed improvvisa. In un decimo di secondo passo la ciotola nelle mani compassionevoli di padre Fernando. Labbra appena inumidite, ma no, non ce l’ho fatta a bere. Però almeno sono arrivato lì, lì a pochissimo dalla temuta meta.
Cerco nella mia testa due paroline in lingua kichwa: «Yapa alli» (muy bueno, molto buono), dico con un sorriso tanto largo quanto bugiardo a tutti i presenti che sono lì davanti, con gli sguardi fissi su di me. E subito cerco di sviare l’attenzione. Una foto, una foto di tutti con padre Fernando. Sì, mi vergogno, ma il mio stomaco e probabilmente la mia salute sono salvi. Spero sia salva anche la mia reputazione presso quella famiglia kichwa di Nueva Angusilla. Sentendomi come colpevole di un reato, prometto loro che farò arrivare le foto cartacee di quella visita. Temo però che il masato tornerà ancora a materializzarsi davanti a me. Negli incubi notturni o nella realtà.
Paolo Moiola
Perù. La verità difficile
Dal 1980 al 2000 il conflitto interno peruviano ha fatto quasi 70mila vittime tra morti e desaparecidos, soprattutto tra poveri e indigeni delle zone rurali presi tra i due fuochi di Sendero Luminoso e delle forze statali. La Commissione per la Verità e la Riconciliazione istituita nel 2001 ha affrontato il problema della memoria e della giustizia. Ma molto rimane ancora da fare.
Domenica, 10 del mattino. Ho appuntamento con i miei studenti dell’Università cattolica per visitare il «Lugar de la Memoria». Il grande edificio non è visibile dalla strada e si raggiunge con difficoltà scendendo scale piuttosto scomode. Quando arrivo trovo il posto pieno di visitatori, quasi tutti studenti, ma anche famiglie, suore e turisti stranieri.
Mentre spiego ai giovani la strage di Putis1 del 1984, l’assassinio di otto giornalisti a Uchuraccay2 del 1983 e il lavoro svolto dalle organizzazioni per i diritti umani, penso che senza il lavoro della Commissione Verità tutto ciò che stiamo visitando non esisterebbe.
Il contesto peruviano
Ci sono molte differenze fra la realtà peruviana e quelle di altri paesi dell’America Latina come il Cile, l’Argentina, il Brasile o l’Uruguay in cui furono istituite Commissioni per la verità.
Un primo fattore particolare è la proporzione della violenza: quanto accadde in Perù tra il 1980 e il 1993 non può essere ridotto alla categoria di incidenti di terrorismo o guerriglia urbana e repressione. In molte zone si raggiunse il livello di una guerra, con attacchi alle caserme, battaglie, stragi. Sendero Luminoso riuscì a operare su un territorio grande quasi come l’Italia (il Perù ha una superficie di circa quattro volte il nostro paese, ndr).
È vero che molti peruviani preferiscono parlare di terrorismo e di eccessi delle forze di sicurezza, ma questo succede perché è difficile accettare che sia stata una vera e propria guerra.
Una seconda particolarità del conflitto peruviano riguarda i due gruppi insorgenti, Sendero Luminoso e il Movimiento Rivoluzionario Túpac Amaru (Mrta), i quali furono molto violenti contro la popolazione civile, specialmente i contadini più poveri. I senderistas ammazzavano villaggi interi, compresi i bambini. Disprezzavano le comunità più fedeli alle proprie tradizioni come se fossero state composte da primitivi. Per questo motivo anche tra gli indigeni asháninka dell’Amazzonia soffrirono in tantissimi. Il Mrta assassinava omosessuali e tossicodipendenti in diverse città dell’Amazzonia.
Un terzo elemento specifico del caso peruviano è il fatto che, sul versante delle istituzioni, il maggior responsabile delle desapariciones, degli stupri di massa, delle esecuzioni extragiudiziali e delle torture non fu una dittatura militare ma un governo democratico, quello di Fernando Belaúnde (1980-1985). Belaúnde lasciò ai militari la responsabilità di lottare contro i sovversivi e, quando essi compirono le atrocità poi documentate dalla Commissione Verità, ne diventò complice proteggendoli tramite leggi ad hoc.
Infine, un’altra differenza sta nel fatto che negli altri paesi del Sud America molte delle vittime dei militari furono persone residenti in città, normalmente gente di sinistra appartenente alla classe media, in Perù, invece, le principali vittime furono indigeni poveri che abitavano in campagna e non parlavano spagnolo. I senderisti li uccidevano per rappresaglia e i militari seguivano la politica della tierra arrasada, «terra bruciata» (la repressione indiscriminata contro la popolazione sospetta di appartenere o fiancheggiare la guerriglia, ndr), uccidendo contadini innocenti.
I crimini commessi contro le comunità indigene avvennero in un contesto di forte odio razziale: i militari erano convinti dell’inferiorità degli indigeni ed erano sicuri di rimanere impuniti. Un razzismo, comunque, presente non solo tra i militari, ma diffuso tra la popolazione ancora oggi: un’eredità coloniale che continua a essere forte e viva due secoli dopo l’indipendenza (in un paese nel quale si stima che la popolazione indigena raggiunga il 45% dei quasi 31 milioni di abitanti; un altro 31% sarebbe composto da meticci, ndr). Molti peruviani di ascendenza europea, ad esempio, considerano gli indigeni i responsabili dell’arretratezza del paese. L’indifferenza è l’attitudine più comune nei confronti dei loro problemi: la povertà, lo sfruttamento e l’inquinamento dei loro territori.
Sconfitta e memoria
La violenza del governo di Belaúnde contro i contadini contribuì a fare crescere Sendero Luminoso. Il successore di Belaúnde, Alan García (presidente del Perù dal 1985 al 1990, e poi nuovamente dal 2006 al 2011, ndr) fermò la politica della «terra bruciata», ma le sparizioni e le violenze continuarono. Le stragi nei villaggi di Accomarca3 e Cayara4, o nelle carceri di Lima5, in cui ci furono più di duecento morti tra i detenuti, avvennero durante il suo governo. I seguenti governi di Alberto Fujimori (dal 1990 al 2000) furono caratterizzati da uno stile autoritario di cui è un esempio l’auto-golpe del 1992 tramite il quale il presidente fece sciogliere il parlamento e proclamò la legge marziale. Poco dopo, quando il leader di Sendero Luminoso, Abimael Guzmán, fu arrestato e imprigionato Fujimori, fu considerato il grande pacificatore. Il movimento terrorista andò in crisi e il governo riuscì a sbaragliarlo. Oggi resiste in alcuni luoghi isolati ed è molto vicino ai narcotrafficanti.
La sconfitta di Sendero Luminoso permise ai peruviani di recuperare la fiducia nella possibilità di continuare a vivere nel loro paese e di progettare il loro futuro: farsi una famiglia, studiare, costruire una casa. La gente cercò di dimenticare gli anni della violenza.
Il Perù incominciò a ricevere grandi investimenti. Aprirono nuovi negozi, grandi shopping center, ditte straniere. Si potrebbe dire che il lusso e il consumismo accecarono chi voleva essere abbagliato per dimenticare la violenza e le sue cause. I più poveri non potevano permettersi di acquistare nuove macchine o vestiti ma ricevevano dal governo fujimorista cibo e altre donazioni. E loro, cioè la parte di popolazione che maggiormente aveva sofferto nel conflitto, ringraziavano Fujimori per la pace.
Convocando la Commissione nel mezzo di una crisi
Otto anni dopo la cattura di Guzmán, nel 2000, pochi ricordavano il tempo della violenza e Fujimori, al suo terzo, contestato, mandato, era stato travolto da molti scandali di corruzione che lo avevano costretto a scappare in Giappone. Quando nel governo provvisorio di Valentín Paniagua si volle fare un’inchiesta sulla corruzione al tempo di Fujimori, gli organismi per i diritti umani ne approfittarono per proporre l’istituzione di una commissione sulle violazioni dei diritti umani.
Non solo convinsero Paniagua, ma riuscirono a fare in modo che l’inchiesta riguardasse un lasso di tempo che andava indietro fino al governo di Belaúnde durante il quale Paniagua era stato presidente della Camera di Deputati.
Ufficialmente Paniagua e poi il suo successore Alejandro Toledo*, volevano una commissione il più possibile plurale, e scelsero i commissari per il loro valore morale: un vescovo, un pastore evangelico, un militare, una imprenditrice. Fra i dodici membri c’erano anche Sofía Macher che era stata Segretaria esecutiva della Coordinadora Nacional de Derechos Humanos, il sacerdote Gastón Garatea*, il sociologo Rolando Ames che nel primo governo di García aveva partecipato come senatore di sinistra all’inchiesta sul massacro delle carceri, e Carlos Iván Degregori, antropologo che aveva lavorato ad Ayacucho ed era uno dei più grandi ricercatori su Sendero Luminoso. Come osservatore per la Chiesa Cattolica c’era il vescovo Luis Bambarén*. Questi cinque personaggi avevano lavorato molto per i diritti umani al tempo del conflitto, denunziando i crimini dei senderisti e dei militari.
Mi causò una certa sorpresa il fatto che, all’interno di questa pluralità, non si fosse nominato nessun rappresentante delle vittime. E la situazione più curiosa fu che, pur essendo il razzismo il fattore che causò strage tra molti innocenti, non si pensò di includere persone dai tratti indigeni fra i commissari: quasi tutti erano uomini bianchi che abitavano a Lima, nessuno parlava quechua, la lingua indigena predominante in Perù. La stessa Commissione avrebbe poi scoperto che il 75% delle vittime della violenza parlava quechua. In una società con tante divisioni etniche e sociali non fu la partenza migliore.
Un altro punto problematico fu il fatto che la Commissione, inizialmente, non capì che il suo lavoro non era nato da una domanda della società: per i crimini commessi da Sendero Luminoso e Mrta, i responsabili erano già in prigione e la gente non sentiva il bisogno di fare nuove ricerche. Nel caso dei crimini delle forze di sicurezza statali, era molto diffusa l’idea che fossero stati il prezzo da pagare per la pace.
Anche i contadini sentivano molto lontana la Commissione. Quando essa organizzò udienze pubbliche – ad esempio ad Ayacucho, uno dei posti in cui più aveva sofferto la popolazione indigena – nelle quali le vittime raccontavano le violenze subite, la gente pensò che i commissari volessero ascoltare i testimoni per semplice sadismo, perché ai bianchi piaceva vedere soffrire gli indigeni.
In più, alcune decisioni importanti della Commissione erano state prese senza valutarne le conseguenze sociali.
Informe final e conseguenze politiche
Nonostante i problemi menzionati, dopo mesi di lavoro intenso in tutto il Perù, sistemando e ordinando centinaia di testimonianze, la Cvr produsse un documento molto corposo e completo: l’«Informe Final», in nove volumi, un lavoro di ricerca che approfondiva molti aspetti della violenza e del suo contesto.
La difficoltà maggiore per la Commissione durante il suo lavoro non era stata tanto quella di scoprire i crimini del tempo de Belaúnde, quanto piuttosto quella di mostrare come la gente avesse accettato la situazione. Più difficile che mostrare l’orrore commesso da terroristi e militari, era stato mostrare la sua accettazione nell’opinione pubblica.
L’Informe Final ricevette quasi unanime rifiuto da parte della classe politica: i partiti di Belaúnde, García e Fujimori e i loro alleati non volevano nessuna responsabilità: dicevano che nel lavoro della commissione aveva pesato un preconcetto antimilitarista. Soltanto la sinistra riconobbe il valore del documento.
Anche il capo della Chiesa peruviana del tempo, il cardinale Cipriani*, fu contro l’Informe, specialmente perché si era sentito chiamato in causa nei passaggi in cui esso parlava di un ruolo negativo della Chiesa nella zona del conflitto. Va notato che nel periodo più cruento, Cipriani non era ancora vescovo ad Ayacucho.
Data la resistenza nell’accoglienza del documento, alcuni settori numericamente piccoli della società civile (i cattolici legati alla teologia della liberazione e le Ong che si occupavano dei diritti umani) lavorarono per promuoverne la diffusione e la conoscenza. Al loro impegno si devono i risultati positivi di questi anni.
Giustizia. L’Informe final continua a essere uno strumento per tutti quelli che cercano giustizia. Le Ong per i diritti umani hanno avviato processi giudiziari per molti casi. Il più conosciuto è quello contro Fujimori, il quale, arrestato in Cile dopo gli anni di autoesilio in Giappone, ed estradato in Perù, è stato condannato al carcere per violazioni dei diritti umani, soprattutto per le vicende legate al Gruppo Colina6 che rapì e ammazzò gli studenti dell’università La Cantuta7 e fece stragi come quella di Barrios Altos8. Altra condanna importante è stata quella relativa alla strage di Accomarca9 accaduta nel 1985.
Purtroppo i processi sono molto lenti e diverse vittime muoiono senza ottenere giustizia. Migliaia di desaparecidos non sono ancora stati rintracciati e le famiglie probabilmente moriranno senza sapere dove si trovano.
Riparazioni. Molte vittime hanno ricevuto riparazioni individuali e collettive sotto forma di opere di sviluppo delle comunità più povere. C’è un Registro Central de Víctimas che ha funzionato con molta attenzione per consegnare la riparazione a chi veramente aveva sofferto nel conflitto.
Memoria. In questo ambito le difficoltà continuano a essere grandi. I militari e i fujimoristi sono stati molto abili nel manipolare il ricordo di quegli anni allo scopo di minare la credibilità della Commissione presentando ogni denuncia a carico loro come un attentato dei terroristi e dei loro alleati. Il presidente Belaúnde, ad esempio, continua a essere ricordato come un uomo gentile e innocuo: in pochi sanno che durante quegli anni migliaia di contadini furono assassinati.
Per coltivare la memoria, in un primo momento si è formato il gruppo «Para que no se repita», il quale però non legava la violenza dei decenni passati a problemi permanenti del paese come il razzismo, o ai crimini contro i diritti umani più recenti, come quelli contro molti contadini uccisi negli ultimi anni.
Nel 2005 è stato aperto il memoriale «El ojo que llora» (l’occhio che piange), opera di una scultrice olandese, Lika Mutal, fatta secondo la logica di uno spazio buddista di meditazione. Sarebbe stato meglio in Perù un memoriale più vicino alla tradizione cristiana, alla quale apparteneva la maggioranza delle vittime, o laica. Comunque, l’assenza di altri spazi ha motivato i famigliari delle vittime a andare lì.
Alla fine del 2015 è stato aperto il Lum «Lugar de la Memoria, la Tolerancia y la Inclusión Social», grazie al finanziamento del governo tedesco. Si trova in un quartiere benestante ed è difficile da raggiungere, come «El ojo que llora», ma è sempre pieno di gente. Sembra che molti abbiano capito che questo spazio è fondamentale per ricordare ciò che ha vissuto il Perù nel conflitto.
Ultimamente, pare che alcuni cambiamenti possano avvenire con il nuovo governo di Pedro Pablo Kuczynski. La ministra della Giustizia Marisol Pérez Tello pare intenzionata a fare in modo che lo stato accetti le sue responsabilità: è andata al «Ojo que llora» a chiedere perdono alle vittime della violenza. In più il governo sta per iniziare un programma per cercare i desaparecidos.
La via peruviana ha le sue caratteristiche e difficoltà, ma lo sforzo della Commissione e della gente impegnata nella costruzione di una società più giusta può lentamente ottenere risultati.
Wilfredo Ardito Vega
L’autore
Avvocato, insegnante universitario e scrittore. Ha conseguito il master in Diritto Internazionale dei diritti umani all’Università di Essex, in Inghilterra, il dottorato in Legge alla Pontificia Università Cattolica del Perù (Pucp). È docente alla Facoltà di Legge della Pucp, all’Università del Pacifico e all’Università Nazionale San Marco. Eletto a difensore universitario della Pucp. Ha pubblicato diversi volumi sui diritti umani, la discriminazione e i popoli indigeni, e tre romanzi di cui il primo tradotto in italiano nel 2011 per Emi con il titolo Cercando Almuneda.
Archivio MC
Sul Perù MC ha pubblicato numerosi articoli, ne segnaliamo solo alcuni:
Paolo Moiola, Le sbarre dell’ingiustizia, dossier MC, marzo 1999.
Gabriella Guarino, Le carceri-tomba del presidente, MC ott-nov 1999.
Paolo Moiola, La Chiesa tra potere e gente comune, dossier MC, maggio 2000.
Lorenzo De Ambrosis, I «terroristi» di San Tommaso, MC, giugno 2000.
1- Nel dicembre del 1984, 123 persone, tra cui 19 bambini e ragazzi, furono assassinate dai militari della base di Putis, provincia di Huanta, Ayacucho, zona con forte presenza di Sendero Luminoso. I militari, dopo aver violentato alcune donne, uccisero i contadini buttandone i corpi nelle fosse che le vittime stesse avevano scavato (ndr., cfr. Cvr, Informe Final, Tomo VII, cap 2, 14).
2- Nella località quechua di Uchuraccay, Ayacucho, il 26 gennaio 1983 furono assassinati otto giornalisti, la loro guida e un membro della comunità per mano dei membri della comunità di Uchuraccay stessa costituiti in un gruppo di autodifesa contro i Sendero Luminoso. Essi credevano che i giornalisti fossero parte della guerriglia. Uchuraccay si spopolò completamente nel giro di pochi mesi in seguito alle 135 morti provocate da Sendero Luminoso e dalla repressione dell’esercito (ndr., cfr. Cvr, Informe Final, Tomo V, cap 2, 14).
3 e 9- Il 14 agosto 1985 una pattuglia dell’esercito uccise 62 persone, tra cui donne, anziani e bambini, di Accomarca, provincia di Vilcashuamán, Ayacucho (ndr., cfr. Cvr, Informe Final, Tomo VII, cap 2, 15).
4- In seguito a un attacco di Sendero Luminoso contro l’esercito il 13 maggio 1988, ci fu una violenta risposta delle forze armate che nei giorni seguenti, nelle comunità di Cayara, Erusco e Mayopampa, dipartimento di Ayacucho, provocò la morte o la sparizione di 39 persone accusate di far parte della guerriglia (ndr., cfr. Cvr, Informe Final, Tomo VII, cap 2, 27).
5- Il 19 giugno 1986 più di 200 detenuti nel carcere di San Pedro (Lurigancho) e nell’ex carcere di San Juan Bautista sull’isola El Fronton, accusati di terrorismo o già condannati, furono assassinati da agenti dello stato nel contesto di alcuni disordini scoppiati nei penitenziari (ndr., cfr. Cvr, Informe Final, Tomo VII, cap 2, 67).
6- Il Grupo Colina era lo squadrone della morte, costola dei servizi segreti, che operò durante il periodo di governo di Fujimori, catturando, arrestando e assassinando chi fosse sospettato di sovversione (ndr., cfr. Cvr, Informe Final, Tomo III, cap 2, 3).
7- Per Sendero Luminoso, l’università La Cantuta fu la principale fonte di reclutamento e base per la trasmissione della sua ideologia. Nel luglio del 1992 furono sequestrati e uccisi 9 suoi studenti e il professore Hugo Muñoz (ndr., cfr. Cvr, Informe Final, Tomo VII, cap 2, 22).
8- Il 3 novembre 1991 il Grupo Colina assassinò 15 persone (compreso un bimbo di 8 anni) nella zona centrale di Lima, Barrios Altos (ndr., cfr. Cvr, Informe Final, Tomo VII, cap 2, 47).
[*] I personaggi segnati con l’asterisco sono stati tutti, in diversi momenti, intervistati da MC.
Italia/Perù: Torno laggiù e mi uccideranno
Ucciso il 25 agosto 1991 nei pressi di Santa, sulle montagne di Chimbote, in Perù, da due membri di Sendero Luminoso, don Alessandro Dordi verrà proclamato Beato il 5 dicembre prossimo.
Nato il 22 gennaio 1931 a Gromo San Marino, in alta Val Seriana, missionario fidei donum della diocesi di Bergamo, prima di partire per il Perù nel 1980 era stato al servizio della diocesi di Chioggia dal 1954, anno della sua ordinazione sacerdotale, quando andò ad aiutare le popolazioni del Polesine colpite dall’alluvione, al 1965, ed era stato prete operaio e cappellano dei migranti italiani in Svizzera dal 1965 al 1979. Nonostante le minacce esplicite ricevute da parte del movimento guerrigliero, decise di rimanere in Perù. Durante l’ultimo viaggio in Italia salutò i suoi famigliari dicendo loro: «Addio, adesso torno laggiù
e mi uccideranno».
Non ho conosciuto don Sandro, ma, considerando quello che è stato raccontato su di lui e i suoi scritti, mi piace pensare che, se fosse ancora tra noi, prendendo l’Evangelii Gaudium di papa Francesco tra le mani, avrebbe il volto luminoso di chi trova conferma a tutte le sue scelte, di chi, con meraviglia, scopre che da sempre è stato condotto dal Signore.
Quella domenica 25 agosto 1991 don Sandro aveva un appuntamento già fissato da tempo. Un pretesto per chi lo voleva uccidere, un segno per lui, prete contento di essere prete, pur con l’imbarazzo di non sentirsi all’altezza.
È stata questione di brevissimo tempo: l’impatto terribile con la durezza del cuore, lo smarrimento davanti alle armi, il desiderio di trovare una mediazione, «Per favore, non fatelo», la voce strozzata in gola davanti ai suoi aguzzini, e poi l’abbandono fiducioso.
Il silenzio che solitamente avvolge la morte, per don Sandro è rotto dall’intensità della sua testimonianza evangelica. Ucciso lungo la strada verso la parrocchia di Santa, ancora oggi continua il suo cammino nel sangue: sì, perché qualche ora più tardi, una suora bergamasca giunta sul luogo dell’assassinio, ha raccolto un pugno di terra impastato di sangue. Oggi è la reliquia più preziosa che portiamo con noi nella fedeltà al mandato missionario.
La missione nasce dalla dinamicità della fede.
Alessandro Dordi, figlio della terra bergamasca, nato il 22 gennaio 1931, respira da subito quel senso del dovere che scaturisce dall’essenzialità dell’esperienza cristiana e dalla sobrietà della vita di montagna. È il secondogenito di una famiglia che alla fine conterà 9 figli. La profondità di spirito che viene dall’ascolto della natura lo accompagnerà sempre, nell’austera vita del seminario e della formazione, nelle esperienze del Polesine, della Svizzera e poi del Perù, sicuramente tappa, quest’ultimo, in cui esprimerà tutta la maturità della sua adesione al progetto di Dio.
La comprensione della povertà come luogo teologico diventa sempre più concreta man mano che il servizio sacerdotale gli permette di immergersi nella storia degli uomini. I contesti in cui lavora sono davvero diversi: il Polesine segnato dall’alluvione del 1951 lo vede protagonista del quotidiano, capace di un ascolto che ricompone le contrapposizioni, pellegrino nelle case della parrocchia con il «cartoccetto» della cena, pedalatore instancabile per raggiungere un infermo o condividere un dramma familiare. Lo stupore sul volto di chi lo conosce sarà, anche dopo la sua morte, una prova di tutto questo. La Svizzera ridisegna i confini del ministero di don Sandro, ma non il suo cuore che vi farà l’esperienza del lavoro in fabbrica, della condivisione dei disagi dei migranti italiani, dell’ordinarietà della cura della fede. Anche le fratture dell’io, con le paure esistenziali dei momenti di fragilità, non risparmiano il respiro di don Sandro che, grazie alla paternità del vescovo, e all’affetto fermo della mamma, trova una risposta positiva alla sua ricerca di un servizio sempre più intenso.
In Svizzera, tra i migranti italiani si colloca il discernimento che lo spinge oltre oceano. È al termine di un viaggio di ricognizione con il confratello don Sergio, oggi arcivescovo di Santa Cruz de la Sierra in Bolivia, che una mano di grazia lo aiuta a trovare casa a Santa, nella diocesi di Chimbote in Perù. Adesso la missione assume le caratteristiche dell’ad gentes, proprio il paradigma dell’azione pastorale della Chiesa.
E la storia immerge volti e racconti nel cuore del missionario.
L’amicizia sincera e fraterna con Gustavo Gutierrez, padre della teologia della liberazione, è un po’ come lo scrigno da cui don Sandro attinge per impegnarsi senza limiti nelle opere e nella pastorale, nell’intento di proporre ai suoi fedeli una predicazione concreta, calata nella storia, capace di raggiungere il cuore e la vita della gente, dei poveri soprattutto. Camilla, sua fedele collaboratrice dai tempi della Svizzera, racconterà le sue liturgie quotidiane: dapprima cariche di silenzi, poi con poche parole che riconducono il Vangelo a una famiglia, un ammalato, un disoccupato, un senza Dio, un giovane e a chi può avere più bisogno di una Parola di Grazia. La liturgia non può che diventare storia, altrimenti si riduce ad archeologia. Ed è prendendosi cura dei piccoli e degli ultimi che la liturgia realizza la dimensione profetica che le è propria, e apre gli orizzonti della speranza. Sa bene don Sandro che non si tratta di trovare qualcosa di consolatorio davanti alle fatiche della vita, qualcosa come la promessa di un contentino finale se «farai il bravo». C’è di mezzo il Regno di Dio, una cosa talmente importante da disegnare la speranza di popoli interi, da segnare per sempre il cammino di ogni vita. Questa responsabilità lo accompagna nel pellegrinaggio del ministero lasciando emergere, di volta in volta, attenzioni e gentilezze proprie di un cuore grande. Infaticabile in Polesine, presente in Svizzera, libero in Perù.
La rivoluzione del Vangelo è portatrice di pace.
Don Sandro sperimenta l’odio sulla sua pelle. Anni dopo la sua uccisione, il suo esecutore, raggiunto in carcere dal Vescovo di Chimbote, ammetterà l’odio che correva nel sangue di quel Sendero luminoso che voleva far tesoro dei poveri a proprio beneficio e sentiva di dover combattere, fino al sangue, la verità del Vangelo.
Don Sandro rimane al suo posto, nonostante le minacce, la morte dei due frati polacchi all’inizio di quel suo ultimo mese di agosto del 1991, l’aria sempre più rarefatta, le scritte sul muro di cinta che recitano: «Straniero, il Perù sarà la tua tomba».
Emerge un tratto caratteristico di don Sandro, talmente disarmante da sembrare persino infantile: il cuore libero. Pronto a partire in un baleno per il Polesine dopo pochi giorni dall’ordinazione, ancora avvolto nella festa della rugiada del sacerdozio, capace di offrire agli emigrati italiani in Svizzera una disponibilità di attesa e fiducia, convinto di rimanere accanto al suo popolo peruviano con il sudore di sangue che solo la paura può generare ma che si terge con la fedeltà alla propria vocazione. L’obbedienza è per lui «croce e delizia»: un abbandonarsi alla fedeltà di Dio, un ritrovarsi inspiegabilmente protagonista di una storia più grande di quanto credesse. È il suo un protagonismo «umile», alla ricerca di quelle ragioni che appartengono al cuore e alle quali è impossibile ogni imposizione. Per questo il suo rapporto con i vescovi è sempre onesto, schietto, libero, persino «disobbediente» nella passione per la ricerca, quando si tratta di partire per il Perù. «Per essere utili a se stessi e agli altri – scrive a un amico – occorre avere dentro delle giuste motivazioni». E il suo cuore è capace di tanto che il Vescovo non ha timore di accompagnarlo con la sua benedizione.
Il missionario è una vita che annuncia.
Non ci piove, occorre buttarsi dentro a capofitto. «Per essere missionari – scrive in una lettera del 2 febbraio del 1982 – occorre essere umili, per questo si parla di scambio e servizio. È bene lavorare con molta discrezione, eliminando il comprensibile orgoglio di chi sa di più. Deve scomparire ciò che è proprio dell’italiano, dello spagnolo, del francese e dell’americano, per diventare solo membri del popolo che si serve… Noi missionari dobbiamo imparare a controllarci, a non fare confronti, a mostrare anche nelle critiche un grande amore per il popolo».
Segnato dalla vocazione missionaria, don Sandro chiede da subito di lasciare spazio a questo spirito universale negli anni degli studi teologici, quando nel 1952 viene accolto nel seminario del «Paradiso», la comunità sacerdotale missionaria nata nel 1949 dal cuore immenso di don Fortunato Benzoni e dalla sapiente profezia del vescovo Adriano Beareggi, presenza qualificante nella Chiesa di Bergamo. Preti «votati» alla missione a 360°, a servizio delle diocesi più povere di sacerdoti, presenti nei luoghi di migrazione, promotori della nuova evangelizzazione.
L’ordinazione, che avviene il 12 giugno del 1954 per don Sandro e per altri 26 giovani, tra i quali altri quattro, oltre a lui, della Comunità Missionaria del Paradiso, sigilla tutto questo anche grazie alle parole generose che il vescovo Giuseppe Piazzi consegna loro: «Il sacerdozio è il compimento dell’opera redentrice del Cristo, la quale si è operata sulla Croce… Il sacerdote che vuole fare del bene… che vuole convertire a Cristo… deve voler mettersi vicino alla Croce di Gesù, anzi salirvi sopra col suo sacrificio e con la sua sofferenza».
«È un martire», dice il vescovo Giulio Oggioni la mattina del 26 agosto 1991, giorno solenne per la Chiesa di Bergamo per il ricordo liturgico del suo patrono S. Alessandro, all’inizio della celebrazione di quel giorno, aggiungendo poi, il 1° settembre, nel momento in cui la salma di don Sandro viene adagiata davanti all’altare della cattedrale: «Don Sandro, sei tornato nella cattedrale dove hai ricevuto il ministero pastorale. Sei tornato quasi per dirci che come la chiesa cattedrale è la matrice di tutte le chiese diocesane, così essa è la matrice di tutto il nostro ministero in qualsiasi luogo lo si eserciti. Sei partito da qui, hai esercitato il tuo ministero in Italia e in Svizzera e ultimamente a Santa, in Perù, sempre però come presbitero della tua diocesi. Ho detto spesso che i presbiteri diocesani devono vedere nei loro missionari l’espressione più eccellente della loro missionarietà e tu, ora, sei tornato per dircelo non a parole, ma coi fatti. I due colpi mortali che ti hanno colpito al cuore e alla testa sono la testimonianza di amore e di fede, sono un insegnamento che difficilmente si cancellerà nel nostro cuore e nel nostro intelletto. Per questo sarai per noi una immagine e un modello di come si è ministri e servitori dei fratelli».
Oggi la Chiesa ci riconsegna don Sandro Beato: un uomo, un prete, un missionario, un martire, un impasto di testimonianza di fede, un invito. Sì, proprio l’invito rivolto a ciascuno di essere discepoli missionari, perché il seme dei martiri è fecondità di vita nuova, è la gioia del Vangelo, appunto un Vangelo di gioia.
don Giambattista Boffi
direttore del Cmd di Bergamo
Giambattista Boffi
PERU’ – La Teologia della liberazione: opinioni a confronto
Monsignor Bambaren: UN IMPEGNO PER I POVERI,
PER LE PROBLEMATICHE SOCIALI, PER LA DIGNITÀ UMANA
Monsignor Bambaren, qualcuno dice che la «teologia della liberazione» è morta?
«Morta? No, le idee non muoiono mai».
Nel 1998, abbiamo incontrato, qui a Lima, Gustavo Gutiérrez, considerato il padre della teologia della liberazione. A suo modo di vedere, cosa c’è di giusto e cosa di sbagliato nelle sue idee?
«Nei primi anni Ottanta il papa fece una distinzione tra una teologia della liberazione buona che si deve appoggiare e un’altra che devia e va corretta. Io credo che ogni fenomeno vada collocato nel suo momento storico. Quando nasce la teologia della liberazione, in tutta l’America Latina ci sono fermenti rivoluzionari: Cuba, Cile, Bolivia, Perù, Colombia, Panama hanno movimenti o governi che cercano il cambiamento. È comprensibile che la situazione del momento possa aver esasperato la preoccupazione sociale dei cristiani. Anche attraverso gli sbagli la teologia della liberazione è andata maturando, superando quello che c’era di eccessivo».
Cosa va salvaguardato di quella teologia tanto dibattuta?
«In generale, possiamo dire che la teologia della liberazione ha portato a un maggiore impegno per i poveri, le problematiche sociali, la dignità della persona. Io voglio ribadire il concetto da cui sono partito: le idee non muoiono mai».
Monsignor Cipriani: UN’IDEOLOGIA MARXISTA. PADRE GUTIERREZ DOVREBBE SCUSARSI
Monsignor Cipriani, cosa pensa della «teologia della liberazione»?
«Io ho studiato a fondo la teologia della liberazione. E posso dire che non è una teologia. È un’ideologia, che ha una struttura filosofica al 90% marxista. È un coagulo di idee al servizio di un obiettivo. L’obiettivo non è la redenzione, ma la liberazione messianica ad opera di un movimento politico. E ciò viene fatto con citazioni del vangelo e tutta una manipolazione dei testi».
Dunque, lei non vi scorge nulla di positivo…
«Se dobbiamo trovarvi qualcosa da salvare, possiamo dire che essa è riuscita a mettere sul tavolo una maggiore preoccupazione per le enormi differenze sociali, enfatizzando le gravi ingiustizie di questo mondo».
Quindi, qualcosa di buono c’è stato…
«Ma il prezzo pagato è stato altissimo. Essa ha creato un’enorme confusione dottrinale all’interno di moltissime congregazioni, conventi, sacerdoti… Ha generato uno scontro molto forte con l’insegnamento della chiesa. E da questo, purtroppo, non si è ancora usciti».
Non si è ancora usciti?
«Esattamente. Perché la teologia della liberazione ha invertito la missione della chiesa. Con essa i sacramenti furono posti molto in secondo piano. Al primo posto vennero messi gli aspetti politici ed economici dei differenti paesi. Per queste cose la chiesa ha sempre avuto una pastorale molto ben strutturata e armonizzata. La teologia della liberazione, in molte delle sue parti, fu una critica frontale alla dottrina sociale della chiesa e alla sua opera. Purtroppo alcuni dei suoi sostenitori divennero guerriglieri, altri finirono con lo sposarsi, altri uscirono dalla chiesa».
E cosa ci può dire di Gustavo Gutiérrez?
«L’ho incontrato. Non è mio compito valutare la sua coscienza, il suo mondo interiore. Credo però che egli abbia un obbligo di giustizia importante: scri-vere un libro per spiegare i concetti fraintesi nelle sue prime opere».