Il papà è stato e ancora rimane un’icona globale. Lei, medico pediatra, ha girato il mondo per ricordare la sua figura. Lo scorso marzo Aleida è tornata in Italia. A pochi giorni dall’approvazione definitiva della nuova Costituzione cubana.
Testo di Gianni Minà
Essere figlia di un mito della storia del ventesimo secolo è un impegno che può schiacciarti o, al contrario, esaltarti. Ho conosciuto e frequentato, negli anni, Aleida Guevara March, figlia di Ernesto Che Guevara, e posso dire di ammirarla per la sua capacità di sostenere questo peso nel tempo con assoluta leggerezza umana.
Aleida, che gli amici chiamano Aliucha, è oggi un medico pediatra all’ospedale William Soler di La Habana, ma il destino ha voluto che venisse scelta anche come rappresentante della famiglia e della rivoluzione nel difficile compito di continuare a portare, in giro per il mondo, la parola di suo padre, il Che, in decine di avvenimenti dove si narrano le gesta e spesso anche l’epopea di Ernesto Guevara.
La storia ha voluto così, disegnando per lui un ruolo di esempio indiscutibile a fianco di Fidel Castro e per lei un compito importante all’interno della rivoluzione stessa.
Aliucha è stata ed è la portavoce dell’utopia di suo padre e ancora adesso, a 58 anni, è capace di rinverdire, con le sue conferenze e le interviste, una testimonianza che sfiora la leggenda in Africa come in Australia, nella scettica Europa o nel Sud del mondo e nel cuore dell’America Latina.
«Il fatto è che ho dovuto supplire a volte alla timidezza dei miei fratelli. Di Hilda, figlia del primo matrimonio di mio padre, di Camilo, responsabile del Centro culturale Che Guevara, e di Celia, che è veterinaria all’acquario nazionale di Cuba, e di Ernesto, che lavora nel settore turistico. Il merito è stato di mia madre, un’antica combattente della rivoluzione che pure seppe conciliare i suoi doveri di madre con quelli da militante (è stata per anni deputata e guidava la delegazione della commissione esteri del parlamento cubano, ndr)».
Aleida nel tempo si è preparata con puntiglio, conscia del dovere di essere pronta per questa incombenza e fornendo un esempio tangibile pure alle figlie Celia, anch’essa medico, come tradizione famigliare, specializzata in chirurgia cardiovascolare, ed Estefania, studentessa di economia.
Nel 1996 accompagnai Aleida a un ricevimento che le sorelle Fendi, le signore della moda italiana, offrivano per festeggiare l’uscita italiana della rivista «George», fondata da John John Kennedy, che era ospite dell’evento. Nell’occasione colpiva il contrasto tra lo sguardo affascinante, ma discreto del giovane Kennedy e quello sbarazzino della figlia del Che.
John evitava di guardare negli schermi dove passavano le immagini della presidenza tragica di suo padre, Aleida invece raccontava le sue esperienze fatte in Angola e in Nicaragua nell’impegno di alleviare le difficoltà di quei popoli. I due simpatizzarono. Purtroppo, tre anni dopo il giovane Kennedy sarebbe perito in un incidente accaduto su un aereo che lui stesso pilotava.
Aleida l’ho rivista l’11 marzo scorso in un incontro ad Assisi per una conferenza sulla mediocrità della vita che attualmente viviamo, in una sala della Pro Civitate Christiana che straripava di persone. Nella circostanza la figlia del Che, in due ore, ha chiarito molti degli interrogativi, che la nuova Costituzione, recentemente varata a Cuba, aveva posto, avendo come obiettivo una migliore qualità della vita.
L’iter di questo rinnovamento, dopo la scomparsa di Fidel Castro, era stato avviato dal Parlamento cubano con un progetto costituzionale discusso poi in tutti i Cdr (Comitati di difesa della Rivoluzione). I cittadini cubani avevano presentato a loro volta un milione di modifiche al progetto iniziale e il Parlamento, grazie a queste proposte, aveva rettificato il progetto iniziale del 60%. Il 24 febbraio 2019 si è poi svolto un referendum per rendere ufficiale il cambiamento. L’85% degli aventi diritto al voto si sono recati ai seggi e l’83% di questi ha votato sì.
Cuba ha mantenuto così la prerogativa di nazione latinoamericana più equa e più sicura del continente malgrado un vergognoso embargo degli Stati Uniti che dura da più di mezzo secolo. Credo che questa caratteristica, al di là di qualunque sbaglio, sia il frutto di una nazione ancora unita che si riflette nella serenità del suo popolo.
Non è un caso che quando finalmente, nel 1997, il corpo dell’eroe più splendido di tutta l’America Latina era stato restituito a Cuba dalla Bolivia, Aleida, la figlia che non si arrende, aveva salutato la salma del padre con queste parole:
«Più di trenta anni fa i nostri padri
si congedarono da noi.
Partirono per tenere alti gli ideali di Bolivar, di Martì:
un continente unito e indipendente, ma nemmeno
loro sono riusciti in questo intento
Erano coscienti che i grandi sogni si avverano
solo a costo di immensi sacrifici.
Non li abbiamo più visti.
Allora quasi tutti noi eravamo molto piccoli,
adesso siamo uomini e donne
e abbiamo visto e vissuto,
forse per la prima volta, momenti
di grande dolore, di pena intensa.
Sappiamo come si sono svolti i fatti
e ancora ne soffriamo.
Oggi tornano a noi le loro spoglie,
ma non tornano sconfitti. Tornano da eroi,
eternamente giovani, coraggiosi, forti, audaci.
Nessuno può toglierci questo.
Saranno sempre vivi, insieme ai loro figli,
nel loro popolo».
Gianni Minà
I Perdenti 42. I «Niños mártires de Tlaxcala»: Cristóbal, Antonio e Juan
Testo di don Mario Bandera |
Tre adolescenti indigeni del popolo Azteco sono considerati i primi martiri cristiani del Messico e dell’intero continente americano. Essi sono: Cristóbal (nato nel 1514 o nel 1515 e ucciso nel 1527), Antonio e Juan (nati nel 1516 o nel 1517 e martirizzati nel 1529).
Cristóbal e Antonio erano di ascendenze nobili, appartenevano alle famiglie di due «cacicchi» (capi indigeni tradizionali), mentre Juan era di una famiglia di servitori nella casa del padre di Antonio. I tre ragazzi si erano avvicinati alla fede cristiana frequentando la scuola dei missionari e staccandosi gradualmente dalle tradizioni dei loro avi. Essi accolsero con gioia la nuova fede e aiutarono anche i missionari a distruggere le statue degli idoli locali, ai quali venivano offerti cruenti sacrifici umani. Per questo furono puniti e perseguitati a morte dai componenti della loro comunità, aizzati dai sacerdoti della religione tradizionale che non accettavano la presenza di una fede diversa da quella praticata dalle popolazioni precolombiane. Cristóbal morì nel 1527, mentre Antonio e Juan vennero uccisi due anni dopo.
Tutti e tre sono considerati i protomartiri del continente americano. Papa Giovanni Paolo II li ha beatificati il 6 maggio 1990; mentre papa Francesco li ha canonizzati il 15 ottobre 2017. A questi intrepidi adolescenti abbiamo rivolto alcune domande, a nome loro risponde Cristóbal.
Che cosa vi ha attratto così visceralmente alla fede in Cristo Gesù, tanto da abbandonare quasi subito la fede dei vostri avi?
La cosa che più ci colpì della nuova fede religiosa arrivata nei nostri villaggi, proclamata dai missionari francescani, fu il constatare che il cardine del loro annuncio, Gesù Cristo il figlio di Dio, aveva offerto la sua vita per la salvezza di tutti gli uomini di qualunque popolo, tramite la sua morte in croce. Invece le nostre divinità erano assetate di sangue, tanto da spingere i nostri sacerdoti a offrire loro in sacrificio un certo numero di giovani e fanciulle come gesto di sottomissione da compiersi in alcuni periodi dell’anno.
Se ben capisco, voi siete rimasti impressionati dal fatto che nella verità della fede cristiana è il Figlio di Dio che versa il suo sangue per salvare l’umanità, mentre per le divinità degli Aztechi sono le persone del popolo che devono offrire il loro per rendere un culto veritiero.
I nostri sacerdoti passavano di villaggio in villaggio cercando giovinetti di bella presenza e fanciulle di ottimo aspetto da offrire in sacrificio. Voi capite che nella nostra cultura millenaria, non obbedire a questi comandi che ci venivano rivolti dalla classe sacerdotale, significava attirare la maledizione degli dei su tutta la comunità. Pertanto, anche se questo stato di cose era per la nostra gente un enorme sacrificio, offrire un componente della propria famiglia per le divinità era considerato un grande onore.
Voi però, dopo l’incontro con Cristo, non la pensavate più così.
Essendo io figlio ed erede del principale “cacico” della nostra zona, insieme ai miei fratelli e amici cominciai a frequentare la scuola dei missionari francescani. Mi si aprirono orizzonti nuovi e fui anche istruito nella fede cattolica.
Fu allora che prendesti la decisione di chiedere il battesimo e di ricevere nel contempo il nuovo nome di Cristóbal (portatore di Cristo)?
Proprio così, gradualmente il mio modo di pensare e di agire come quello dei miei amici – a mano a mano che ci addentravamo nella conoscenza della nuova fede – cominciava a trasformarsi. Volevamo far capire alla nostra gente che era necessario distruggere i templi pagani e le statuette dei vari idoli e abbracciare la nuova fede portata nelle nostre terre dai missionari francescani e domenicani.
La vostra testimonianza si colloca tra il 1527 e il 1529, quindi pochi decenni dopo la cosiddetta scoperta (in realtà «conquista») del Nuovo Mondo e il conseguente inizio dell’evangelizzazione di quel continente.
L’inizio dell’evangelizzazione nella nostra realtà bisogna inquadrarlo nel contesto storico e nello stile adottato da quei primi missionari, i quali avanzando di pari passo con i conquistatori spagnoli, raccoglievano conversioni per la capacità che avevano nel presentare un Dio la cui caratteristica principale era l’amore per tutti gli uomini e verso il quale non bisognava offrire nessun tipo di sacrificio umano cruento. È vero che in alcuni casi ci furono delle forzature, ma in generale l’adesione alla nuova fede fu rapida e spontanea.
Bisogna dare atto che i missionari provenienti in gran parte dalla Spagna seppero agire con duttilità e intelligenza di fronte alla nuova realtà con la quale erano venuti in contatto.
I Francescani e i Domenicani incominciarono da subito ad impegnarsi con passione e costanza per la promozione umana dei più poveri della nostra gente, degli “Indios” (come preferivano chiamarli loro, convinti com’erano di essere sbarcati in India).
Soprattutto colpì la nostra immaginazione, il fatto che in nome di Cristo difendevano la vita degli appartenenti al nostro popolo (specialmente dei più poveri) dalla casta dei sacerdoti aztechi che erano incessantemente alla ricerca di ragazzi e fanciulle da sacrificare ai loro dei.
Allo stesso tempo non avevano paura di utilizzare mezzi drastici, come la distruzione dei templi, delle statue e raffigurazioni degli idoli pagani, per sradicare una religione ritenuta ottusa e sanguinaria?
Vero, questo loro modo di fare influì anche su di noi, io stesso volendo convertire mio padre, distrussi tutte le statuette degli idoli che tenevamo in casa.
Questo atteggiamento segnò così la tua fine, ovvero il tuo martirio.
Per quel fatto mio padre mi bastonò senza pietà tanto da rompermi braccia e gambe, e poi mi gettò nel fuoco e mi bruciò vivo, quasi come un sacrificio riparatore ai suoi idoli.
Alcuni giorni dopo la stessa fine toccò a mia mamma che aveva tentato di difendermi da tanta violenza.
Per concludere il nostro colloquio dicci due parole sui tuoi amici Antonio e Juan.
Essi nacquero tra il 1516 e il 1517 a Tizatlán (oggi Tlaxcala), Antonio era nipote ed erede del cacicco locale, mentre Juan, suo coetaneo e compagno di giochi, era il figlio di una famiglia di servi della casa. Ambedue frequentavano la scuola dei Francescani. Quando nel 1529 i missionari Domenicani decisero di fondare una missione ad Oaxaca, chiesero al direttore della scuola, di indicare loro alcuni ragazzi che potessero accompagnarli come interpreti presso gli Indios. Riuniti i ragazzi della scuola, venne fatta loro la richiesta avvisando che si trattava di un compito pericoloso. Subito si fecero avanti i tredicenni Antonio e Juan. Quando il gruppo arrivò a Tepeaca presso Puebla, i ragazzi aiutarono i missionari a raccogliere le statuette degli idoli pagani per distruggerli. Antonio era entrato in una casa e Juan era rimasto di guardia alla porta. Alcuni abitanti del villaggio, armati di bastoni, si avvicinarono e picchiarono Juan talmente forte da ucciderlo sul colpo. Antonio, accorso in suo aiuto, si rivolse agli aggressori: «Perché battete il mio compagno che non ha nessuna colpa? Sono io che raccolgo gli idoli, perché sono diabolici e non divini». Gli indigeni, nonostante avessero visto il lui il figlio di un nobile, percossero anche lui con i bastoni, finché morì. I corpi di Antonio e Juan furono poi gettati in una scarpata.
Il domenicano padre Bernardino li recuperò e li trasferì a Tepeaca, dove vennero sepolti in una cappella.
I primi martiri del Messico
Il sangue dei tre ragazzi messicani fu il primo seme della grandissima fioritura del cattolicesimo nel loro paese. Gli storici della Chiesa messicana li considerano protomartiri non solo del Messico, ma dell’intero continente americano; costituiscono quindi le primizie dell’evangelizzazione del Nuovo Mondo.
L’opera dei missionari si allargò: aprirono scuole, stamparono i primi testi catechistici in lingua locale, condivisero la vita e la povertà degli Indios, lavorando per la loro promozione umana.
Li difesero anche dai soprusi degli «encomenderos», ossia dai coloni spagnoli, perlopiù militari, autorizzati a riscuotere dagli indigeni tributi o in natura, o sotto forma di lavoro obbligatorio.
Il 7 dicembre 1982, la Congregazione delle Cause dei Santi diede il nulla osta per l’inizio del processo per la beatificazione di Cristóbal, Antonio e Juan. Il 21 giugno 1988 si riunirono i consultori storici della Congregazione delle cause dei Santi, mentre la «Positio super martyrio» fu consegnata nel 1989. La riunione dei consultori teologi, svolta il 24 novembre 1989, ebbe esito positivo, confermato dai cardinali e vescovi membri della Congregazione, il 6 febbraio 1990.
Il 3 marzo 1990 san Giovanni Paolo II autorizzò la promulgazione del decreto con cui i tre ragazzi venivano ufficialmente dichiarati martiri. Lo stesso Pontefice li beatificò il 6 maggio 1990 nella Basilica di Nostra Signora di Guadalupe a Città del Messico, fissando la loro memoria liturgica al 23 settembre. Insieme a loro fu elevato agli onori degli altari Juan Diego, il messaggero della Madonna di Guadalupe, loro contemporaneo.
Il 23 marzo 2017, ricevendo in udienza il cardinal Angelo Amato, prefetto della Congregazione delle cause dei Santi, papa Francesco accolse i voti della Congregazione favorevoli alla canonizzazione dei tre martiri, senza bisogno di un ulteriore miracolo per loro intercessione. La loro canonizzazione fu celebrata e presieduta da lui domenica 15 ottobre 2017.
Assassinato il 24 marzo 1980, beatificato il 23 maggio 2015, santificato il
14 ottobre 2018. Sono queste le tre date che ricordano monsignor Oscar Romero,
il vescovo del Salvador ucciso per essersi schierato con gli ultimi. Eppure, il
riconoscimento del suo ruolo e del suo martirio sono stati a lungo contrastati,
anche all’interno della Chiesa. Per uscire dall’impasse è stato necessario
l’intervento di Francesco, il primo papa latinoamericano.
Roma, 31 ottobre 2015: un gruppo di salvadoregni s’incontra con papa Francesco. Lo scopo della riunione è quello di ringraziare il pontefice per la beatificazione di monsignor Oscar Arnulfo Romero martire che ha avuto luogo a San Salvador il 23 maggio dello stesso anno. In quell’evento Francesco dice che Romero è stato martirizzato non soltanto in occasione del suo omicidio avvenuto – era il 24 marzo 1980 – per mano di un cecchino, quasi certamente assoldato dal maggiore Roberto d’Aubuisson. Il papa racconta: «Allora io ero un giovane prete e sono stato testimone di ciò che avvenne. Lui è stato diffamato, calunniato e il suo nome è stato macchiato. Il suo martirio è continuato anche per mano dei suoi fratelli nel sacerdozio e nell’episcopato». Si è trattato, secondo lo stesso Francesco, di una lapidazione con la pietra più dura che esista: «la parola».
Dopo
la morte di Romero, qualcosa di molto simile è stato scritto da dom Pedro
Casaldáliga, allora vescovo di Sao Félix, Brasile, in una poesia (San Romero de América, Pastor y Mártir
Nuestro) molto nota a tutti i suoi simpatizzanti: «Povero pastore glorioso,
abbandonato dai tuoi fratelli di bacolo e tavola».
Quel discorso di papa
Francesco, pronunciato con forza ed empatia, ha aperto la speranza di una
canonizzazione precoce del «monsignore», come lo chiamava la gente del suo
villaggio.
La conversione di Romero: da timido a profeta
Romero si era guadagnato l’ostilità e gli
attacchi dell’oligarchia e dei settori più conservatori della Chiesa a causa
della sua crescente scelta per i più poveri e vulnerabili tra la popolazione
salvadoregna. In questo suo cammino di conversione, un momento fondamentale fu
l’assassinio (12 marzo 1977) di padre Rutilio Grande.
Romero, arcivescovo di San Salvador, che fino
ad allora era stato un uomo timido, conservatore e devoto, lasciò da parte le
sue debolezze e prese una decisione coraggiosa e profetica che nessuno avrebbe
potuto immaginare: per il funerale del prete assassinato, suo amico e
confidente, ordinò di sopprimere tutte le celebrazioni eucaristiche per
celebrarne una sola.
Lasciata alle spalle la sua timidezza e la
spiritualità tradizionale e pietistica, si trasformò nel pastore dei poveri, di
tutte le vittime della violenza. Lasciò la sacrestia per camminare con la sua
gente della quale ascoltava e osservava il dolore con attenzione e rispetto.
Cambiò anche il tono delle sue omelie che, a
poco a poco, andarono acquisendo toni profetici e drammatici. La gente semplice
che non poteva assistere alle sue messe domenicali nella cattedrale seguiva con
attenzione (attraverso la radio) le sue predicazioni che, senza timore di
esagerare, potevano essere paragonate a ciò che è stato detto e scritto dai
grandi profeti biblici. Le sue prediche erano lunghe; a volte drammatiche, ma
mai noiose o ideologiche. Egli seppe leggere e discernere gli eventi dolorosi
del suo popolo, dando conto tempestivo e certo dei tanti morti e scomparsi. Per
questa ragione esse si trasformarono in un punto di riferimento non solo per i
salvadoregni, ma anche per molti centroamericani.
Il caso più noto è quello della sua ultima
omelia, su cui ha scritto nella citata poesia dom Pedro Casaldáliga: «San
Romero d’America, nostro pastore e martire: nessuno potrà zittire la tua ultima
omelia». Come sappiamo, essa firmò la sua condanna a morte perché ebbe
l’audacia di dire ai militari: «Nel nome di Dio e in nome di questo popolo
sofferente i cui lamenti salgono al cielo ogni giorno più tumultuosi, vi
supplico, vi prego, vi ordino nel nome di Dio: termini la repressione».
A essi Romero chiese anche di obbedire prima
che ai loro capi alla voce della coscienza e alla legge di Dio che dice «Non
uccidere». Il monsignore a quel punto era andato troppo oltre e per questo
doveva essere messo a tacere.
Per capire questo cammino di Romero, occorre
prendere in considerazione il ruolo che giocarono i gesuiti della Uca,
soprattutto i padri Ignacio Ellacuría e Jon Sobrino, teologi ben preparati e
apprezzati a livello internazionale. Anche in questo caso si tentò di
screditarlo dicendo che era un «utile tonto e burattino dei gesuiti».
Il poco che ho raccontato del nuovo santo
serve soltanto per capire il percorso che lo ha portato a diventare un simbolo
di molte delle lotte che sono state fatte in America Latina e in molte altre
parti del mondo dove la povertà e la violenza continuano a mietere vittime.
Quelle che padre Gustavo
Guitiérrez definisce «i morti prima del
tempo».
Tutti a Roma
Roma, 12 ottobre 2018. Allo scopo di
partecipare alla cerimonia di canonizzazione di monsignor Romero, viaggiamo
alla volta di Roma io e il padre Gabriel Estrada, comboniano come me. Arriviamo
nel pomeriggio. Il giorno successivo, nei pressi di piazza San Pietro,
partecipiamo alla Conferenza internazionale di giornalismo per la pace nella
sala San Pio X di Città del Vaticano.
Nella sala c’è un’interessante mostra di
fotografie, immagini e testi riferiti alla figura e al messaggio di mons.
Romero mentre sulla facciata della Basilica di San Pietro già luccicano i
tappeti con le immagini dei nuovi santi. Paolo VI al centro, mons. Romero alla
sua destra e Francesco Spinelli alla sua sinistra. Gli altri sono collocati in
luoghi strategici senza che la loro posizione ne sminuisse l’importanza.
Il giorno dopo, molto presto, al cancello
d’ingresso arrivano pellegrini dall’Italia e da molte altre parti del mondo. La
celebrazione dell’eucaristia è prevista per le 10 del mattino. Dopo aver letto
una breve biografia dei 7 «candidati», il papa viene invitato a scriverli nella
lista dei santi. E così succede.
L’assemblea approva la decisione con applausi
ed esclamazioni entusiastiche. A causa del modo in cui fu assassinato, del suo
insegnamento e del suo radicale impegno per i poveri, i sofferenti e i più
abbandonati, Romero è il santo che riceve più consensi.
Nella sua omelia, il papa sottolinea come
Paolo VI, Romero e gli altri santi abbiano speso la vita per il Vangelo e per i
loro fratelli.
Sono colpito dalla differenza abissale tra la
cerimonia di beatificazione (a San?Salvador) e quella di canonizzazione (a
Roma). Nel primo caso, i primi posti erano occupati da alti rappresentanti
della Chiesa, su entrambi i lati c’erano i politici e le famiglie ricche,
davanti i sacerdoti concelebranti e dietro di loro, separati da una transenna,
i membri delle «famiglie bene» e, infine, i poveri (quelli per cui il martire
aveva dato la propria vita), molti dei quali avevano dovuto accontentarsi di
seguire la messa attraverso i maxischermi.
Nella cerimonia di canonizzazione non è così,
non tanto per un’opzione, ma perché i criteri di accoglienza nella piazza San
Pietro sono altri. Non per questo si può evitare la stratificazione che assegna
sempre i posti privilegiati alla gerarchia della Chiesa e al mondo sociale e
politico.
San Romero d’America
Il giorno successivo, lunedì 15 ottobre,
migliaia di pellegrini si ritrovano nell’aula Paolo VI (aula Nervi) per la
celebrazione della messa di ringraziamento per la canonizzazione del martire
salvadoregno. Il cardinale Gregorio Rosa Chávez presiede l’eucaristia. Ogni
volta che, nella sua omelia, evidenzia alcune delle qualità dell’arcivescovo,
l’assemblea esprime la sua approvazione con lunghi applausi.
Alla fine della messa, mentre i tecnici
preparano la proiezione di un video su Romero, nell’aula inizia a crescere il
vocio. La gente grida, applaude e corre verso il corridoio centrale. Francesco
sta entrando nell’aula e, come se avesse a disposizione tutto il tempo del
mondo, saluta con strette di mano da un lato e l’altro, ricevendo doni e
abbracci. «Francesco, Buon Pastore, El Salvador ti ama», grida la folla.
Una volta raggiunto il palco, monsignor José
Luis Escobar, arcivescovo di San Salvador, legge un messaggio emozionante in
cui ringrazia il Santo Padre per aver canonizzato il «martire del magistero
della Chiesa», e chiede, tra l’altro, di dichiarare monsignor Romero dottore
della Chiesa, di visitare El Salvador e di beatificare padre Rutilio Grande.
Due giorni di festa, due giorni in cui San
Romero d’America è stato protagonista di una celebrazione che ha raggiunto
livelli molto elevati a casa sua e in altre parti del mondo, dove è amato,
rispettato e considerato come un vero profeta che teneramente amava Dio e i
poveri.
Jorge García Castillo* (traduzione e adattamento di Paolo Moiola) * Padre Jorge García Castillo, collaboratore di MC, lavora a Città del Messico dove dirige le riviste Esquila Misional e Aguiluchos.
I Perdenti 40.
Luz Long e Jesse Owens campioni nello sport e nella vita
Quel
che accadde in un caldo e afoso pomeriggio del 4 agosto 1936 all’Olympiastadion
di Berlino fu una cosa inimmaginabile per quei tempi in Germania, uno schiaffo
dato in pieno volto al regime nazista all’apice del suo potere: la conquista di
una medaglia d’oro da parte di un uomo di colore alle Olimpiadi che si tenevano
nella capitale dell’ideologia della supremazia della razza ariana su tutte le
altre, non solo in ambito sportivo, ma bensì in ogni aspetto del vivere sociale
e civile.
L’aspetto
più luminoso legato a quella data è la sincera amicizia fra l’atleta tedesco Luz
Long e il suo più forte avversario, lo statunitense afroamericano Jesse Owens,
nata sui campi di gara e consolidatasi nel tempo, a dimostrare che la rivalità
sportiva non si traduce sempre in feroce antagonismo, e che il valore di
un’amicizia si misura dalla sua capacità di sopravvivere al passare degli anni.
Tutto ciò trova valida conferma in una lettera di Long – ultima di una fitta
corrispondenza – spedita dal fronte della Seconda Guerra Mondiale al rivale
sportivo nonché amico fraterno: «Dopo la guerra, va’ in Germania, ritrova mio
figlio e parlagli di suo padre. Parlagli dell’epoca in cui la guerra non ci
separava e digli che le cose possono essere diverse fra gli uomini su questa
terra. Tuo fratello, Luz». Così scriveva Long, divenuto ufficiale della
Luftwaffe tedesca, a Owens che aveva appreso da poco la notizia della nascita
del suo primogenito.
Proprio
con il campione sportivo tedesco Luz Long vogliamo scambiare quattro
chiacchiere sulla loro straordinaria amicizia.
Caro Luz, nonostante i tuoi meriti sportivi, anche tu sei stato reclutato
per l’esercito tedesco e mandato in prima linea a combattere…
Devo dire
che il mio status di atleta internazionale mi aveva risparmiato di prendere
parte al conflitto iniziato nel 1939, ma il capovolgimento delle sorti della
guerra richiamava al servizio del Reich tutti gli uomini validi, quindi anche
gli atleti sportivi di ogni disciplina.
Cosa accadde all’Olympiastadion di Berlino in quel lontano 4 agosto 1936?
Cominciamo
col dire che uno spettatore che prendeva posto nelle strutture sportive,
pianificate e costruite in quegli anni in Germania dall’architetto del regime
Albert Speer, rimaneva stupefatto per la loro imponenza ed eleganza. Era un
modo per infondere negli spettatori una forma di ammirazione e rispetto per il
potere nazista.
L’Olympiastadion era veramente così imponente?
Con
chiari richiami ai modelli architettonici dell’Antica Grecia, l’Olympiastadion,
poteva contenere oltre centodiecimila spettatori. Maestoso e immenso,
costituiva un’autentica «macchina di propaganda» messa in azione dal regime
nazista per ottenere un sempre più vasto consenso dal popolo tedesco attraverso
gli avvenimenti sportivi.
Possiamo dire quindi che una manifestazione sportiva come le Olimpiadi era
usata dal potere nazista come uno strumento di battaglia ideologica?
Hitler
intendeva servirsi delle Olimpiadi per dimostrare al mondo intero la supremazia
della razza ariana, di conseguenza l’atleta tedesco doveva corrispondere
all’immagine stereotipata: alto, biondo, prestante, carnagione chiara e occhi
azzurri.
Quindi tu rientravi pienamente nei canoni estetici voluti dal Fuhrer.
Sì.
Appartenevo fin dalla nascita alla patria tedesca, a quel tempo avevo ventitré
anni ed ero studente di legge all’Università di Lipsia. Dal punto di vista
sportivo, in precedenti gare avevo già superato per due volte consecutive nel
salto in lungo il record olimpico di 7,73 metri stabilito nel 1928 ad Amsterdam
dallo statunitense Edward Hamm.
Eri diventato anche il beniamino della nazione tedesca dopo esserti
classificato terzo ai campionati europei di atletica leggera, nel 1934.
Mi
rendevo conto che ero una pedina importante, nella scacchiera preparata da
Hitler per affermare il dominio sportivo germanico sul resto del mondo. Agli
occhi del Fuhrer le mie possibili affermazioni in campo atletico apparivano
quasi scontate e il dittatore si preparava a gustarle di fronte agli ospiti
provenienti da tutto il mondo.
Quante nazioni erano presenti a quelle Olimpiadi?
Parteciparono
ben quarantanove paesi, un numero record rispetto alle edizioni precedenti, che
tuttavia non teneva conto della forte discriminazione insita nell’evento
berlinese. Gli atleti ebrei tedeschi furono espulsi da tutte le discipline
sportive, mentre un destino già più felice toccò agli afroamericani, ai quali
fu concesso di gareggiare, anche se in numero ridotto. La squadra olimpica
americana presentava diciotto atleti di colore su 312 partecipanti, una
percentuale bassissima. Tra l’altro, quei diciotto subivano una pesante
discriminazione perfino in patria. Erano pochi, ma abituati alle privazioni,
forse per questo motivo ancor più desiderosi di riscattarsi. Tra loro spiccava
James Cleveland Owens, da tutti conosciuto come Jesse Owens.
Hitler come vedeva questi atleti di colore?
La
presenza degli afroamericani alle Olimpiadi di Berlino venne giustificata da
Hitler con sordido disprezzo: diceva che essendo loro dei «primitivi» potevano
vantare una costituzione robusta, perciò più adatta alla corsa. A rincarare
l’acredine fu il quotidiano della propaganda nazionalsocialista, diretto da
Joseph Goebbels, che definiva i neri come cittadini di seconda categoria degli
Stati Uniti.
In effetti, a ben guardare, anche nel loro paese non erano trattati molto
bene.
Basti
pensare che in quegli anni gli afroamericani erano costretti a sedere nella
parte posteriore dei bus pubblici e dovevano utilizzare gli ascensori di
servizio negli alberghi: la loro condanna era di essere confinati ai margini
della società. Il diritto di vivere non era loro precluso, eppure,
silenziosamente, veniva negata loro quella possibilità che si trova alla base
della libertà stessa: vivere come loro desideravano.
Nonostante ciò, il desiderio di affermarsi, di emergere nella società
civile come nello sport da parte degli afroamericani era molto sentito.
Proprio
così, e Jesse Owens, figlio di un povero agricoltore dell’Alabama, che a otto
anni lavorava già come inserviente per conquistare un posto un po’ più
dignitoso in quel mondo che lo voleva escludere, era deciso a tutto pur di
farcela.
Quale fu l’occasione che gli permise di «sfondare»?
Furono le
sue doti e le sue capacità atletiche a consentirgli di ottenere una borsa di
studio per la Ohio State University, dove incontrò Larry Snyder, uno dei
migliori coach in circolazione.
Con lui, Jesse cominciò ad affermarsi e a stabilire nuovi record.
Qualche tempo prima in Michigan, partecipando ad un
evento sportivo, vinse ben quattro gare in diverse discipline in un’ora e un
quarto. L’eccezionalità delle sue imprese sportive impressionò la Federazione
americana di Atletica Leggera che lo incluse nel gruppo di atleti da portare
alle Olimpiadi di Berlino.
Dove il nome di Jesse Owens divenne leggenda.
Il tre
agosto del 1936 conquistò la sua prima medaglia d’oro, quella della corsa dei
cento metri. Bisogna dire che i giudici tedeschi durante le gare lo presero
particolarmente di mira, infatti non esitarono a sollevare la bandierina rossa
per delle inezie durante le qualificazioni per il salto in lungo. Dopo due
salti nulli incombeva su di lui lo spettro dell’eliminazione. Jesse era dotato
di grande velocità, ma il suo stile rivelava imperfezioni, soprattutto se
confrontato con l’impeccabile hang style (sospensione nel salto) di altri
atleti.
Per Owens sembrava ormai preannunciarsi una sconfitta inevitabile.
Senza
contare che su di lui pesava duramente la fatica degli sforzi precedenti.
Rimaneva l’ultima possibilità nel salto in lungo, ma la giuria internazionale,
influenzata pesantemente dalle autorità naziste, era pronta a dichiararlo fuori
gioco senza troppi complimenti.
Jesse perciò si trovava di fronte all’ultimo salto valido per accedere alla
finale, quando qualcuno si avvicinò alle sue spalle. Eri proprio tu Luz,
l’atleta tedesco da cui tutti si attendevano una vittoria.
Mi
avvicinai a lui e gli sussurrai all’orecchio: «Uno come te dovrebbe essere in
grado di qualificarsi ad occhi chiusi», poi gli consigliai il punto di stacco
ideale per effettuare un salto valido indicandolo con un fazzoletto bianco
posato accanto alla pedana. Jesse non solo si qualificò per la finale, ma mi
superò ampiamente saltando ben 8,06 metri contro i miei 7 metri e 87
centimetri.
Owens quel giorno vinse il suo secondo titolo olimpico, ricordiamo che tra tutti gli atleti di colore della squadra americana il migliore fu proprio lui, che il 3 agosto vinse la medaglia d’oro nei cento metri, il 4 agosto nel salto in lungo e il 5 agosto nei 200 metri e infine, il 9 agosto vinse la sua quarta medaglia d’oro nella staffetta 4×100 metri; questa era una gara a cui Owens non era nemmeno iscritto, ma partecipò dopo che la squadra americana decise di non far partecipare due atleti ebrei a causa delle pressioni dei nazisti. Il trionfo di Jesse Owens fu un vero scacco per Hitler che riponeva ogni speranza nei campioni di casa per una robusta affermazione tedesca nelle discipline sportive di atletica leggera. Si vociferò anche a lungo sulla reazione di Hitler alla mancata vittoria tedesca, gli attribuirono i comportamenti più disparati: come il fatto di essersi rifiutato di stringere la mano a Owens. Jesse, da perfetto galantuomo, smentì le versioni non veritiere, affermando di essere stato salutato, sebbene a distanza, dal Fuhrer. La vittoria alle Olimpiadi non procurò inizialmente molti benefici economici a Owens, quando tornò negli Stati Uniti dovette adattarsi a fare parecchi lavori umili per procurarsi da vivere, tra cui l’inserviente a una pompa di benzina.
Ignorato e snobbato (non si sa per quale ragione) dal presidente Franklin Delano Roosevelt, e dal suo successore Harry Truman, il primo vero riconoscimento per i suoi trionfi sportivi arrivò quarant’anni dopo, nel 1976 dal presidente Gerald Ford, che gli assegnò la Medaglia per la libertà, il più alto riconoscimento civile degli Stati Uniti. Jesse Owens si spense a 77 anni nella sua casa a Tucson, in Arizona, il 31 marzo 1980.
Don Mario Bandera
I Perdenti 39.
Le beate Carmelitane di Compiègne
Testo di Don Mario Bandera
Con la rivoluzione francese del 1789, e con i principi a essa connessi di «Libertà, uguaglianza, fraternità», si affermarono quei valori che, secondo i «lumi» della ragione, avrebbero dovuto cambiare la realtà delle cose non solo in Francia, ma nel mondo intero.
L’incidenza di questi valori, nella considerazione generale del popolo francese era fuori discussione ed era recepita con molta simpatia. Peccato che questi valori fossero affermati senza Dio e contro Dio, come se l’uomo fosse dio di se stesso. La «Dichiarazione dei diritti dell’uomo», promulgata a Parigi il 26 agosto 1789, si sarebbe rapidamente imposta nel mondo, ed ebbe come tragica conseguenza – fin dal suo inizio – la soppressione di tutti gli Ordini monastici e contemplativi (13 febbraio 1790) e la proibizione su tutto il territorio nazionale di ogni forma di vita consacrata. Infatti, secondo i rivoluzionari, non poteva essere un libero cittadino chi si consacrava a Dio con dei voti religiosi, perché sicuramente vi era stato costretto. Compito della nazione era quindi quello di liberarlo, e se, per caso, non voleva essere liberato, doveva essere eliminato. La nuova società doveva essere formata da uomini e donne liberi e uguali non soggetti a vincoli di nessun genere, a quelli religiosi in modo particolare. Come risposta, le priore di tre monasteri carmelitani francesi, a nome di tutti gli altri, inviarono all’Assemblea Nazionale il loro proclama: «Alla base dei nostri voti religiosi c’è la libertà più grande; nelle nostre case regna la più perfetta uguaglianza; noi confessiamo davanti a Dio che siamo davvero felici». Le autorità reagirono mandando nei loro conventi uno stuolo di ufficiali come liberatori.
Gli ufficiali della rivoluzione giunsero nel 1790 anche al Carmelo dell’Annunciazione di Compiègne, un paese a circa novanta km da Parigi, dove vivevano sedici monache guidate dalla priora Madre Teresa di Sant’Agostino, nata Madeleine-Claudine Ledoine. Messe con la forza nella condizione di non poter comunicare tra loro, furono convocate una a una per dichiarare liberamente di voler uscire dal monastero.
Un segretario verbalizzò le loro risposte, per cui la loro singolare avventura venne documentata con scrupolo dagli stessi persecutori. Ed è proprio in questo frangente che inizia il nostro colloquio con la superiora del Carmelo di Compiègne.
Madre Teresa, dopo il decreto di soppressione degli ordini contemplativi del 13 febbraio 1790 gli emissari della Rivoluzione arrivarono anche al Carmelo di Compiègne, dove la vostra comunità contava 16 monache…
Già, ci isolarono rinchiudendoci nelle nostre celle davanti alle quali posero delle guardie e ci misero nella condizione di non poter comunicare tra noi, poi fummo convocate una a una davanti a un ufficiale per farci dichiarare che volevamo lasciare il monastero di nostra spontanea volontà. Nessuna di noi, ovviamente, accettò una proposta simile.
È vero che le risposte che voi davate agli emissari della Rivoluzione lasciavano stupiti e allibiti i vostri interlocutori?
Io stessa dichiarai di «voler morire e morire in quella santa casa». La più anziana delle mie consorelle disse: «Sono suora da 56 anni e vorrei averne ancora altrettanti per consacrarli tutti al Signore». Un’altra con più determinazione spiegò loro: «Mi sono fatta religiosa con mio pieno gradimento e conserverò il mio abito anche a costo del sangue». Così, con parole simili, ripeterono tutte, fino alla più giovane, suora professa da pochi mesi: «Nulla mi indurrà ad abbandonare il mio sposo Gesù».
Allora vi lasciarono nel vostro monastero, ma la situazione era tesa e piena di incognite. Eravate preparate al peggio?
Certo. A Pasqua del 1792 ci siamo radunate e insieme abbiamo deciso di offrirci in «olocausto» al Signore per chiedere la pace per la Chiesa e per lo stato. L’offerta era rinovata ogni giorno durante la celebrazione della santa Messa.
Nel settembre 1792, dopo tre giorni di massacri che fecero 1.600 vittime, tra cui 250 preti massacrati solo a Parigi, il 12 arrivò per voi l’ordine di lasciare il monastero, che venne subito requisito.
Andammo a vivere in piccoli gruppi, in quattro case nello stesso quartiere. Rriuscivamo a comunicare tra noi per mezzo del cortile interno e osservavamo il più possibile la nostra «Santa Regola» di preghiera e di lavoro, in intimità con il Signore Gesù, pronte a ogni evenienza. La gente del quartiere sapeva della nostra presenza e spesso si univa a noi pregando per ciò che si stava vivendo nella Chiesa e in Francia.
Madre Teresa, la Rivoluzione francese, che era incominciata contando su un grande appoggio popolare – anche cattolico – per le istanze che portava avanti, in poco tempo dilapidò tutta la sua carica innovativa per mostrare un volto brutale e violento come pochi nella storia delle nazioni. Com’è potuto avvenire questo cambiamento?
Mano a mano che fra i dirigenti della rivoluzione guadagnavano posizioni di comando esponenti dell’ala più radicale e oltranzista, si affermava sempre più il concetto che se si vuole abbattere l’Ancièn Regime è necessario annichilire l’avversario, visto come un nemico da sconfiggere e abbattere ad ogni costo.
Tra il luglio 1793 e l’estate 1794, i sanculotti giacobini (i rivoluzionari più estremisti) scatenarono il periodo così detto del «grande Terrore», che nelle loro intenzioni doveva portare alla scristianizzazione totale della Francia. La ghigliottina funzionava a pieno regime, le vittime più numerose furono, sacerdoti, religiosi, suore e semplici credenti, accusati di «fanatismo».
Proprio di fanatismo fummo accusate noi Carmelitane di Compiègne, le nostre abitazioni furono perquisite, tutte noi arrestate, i nostri arredi sacri profanati e infranti. Guardando in faccia la realtà di quei mesi, ci stavamo preparando da tempo con la preghiera incessante al nostro martirio, proprio secondo quanto aveva profetizzato la nostra Fondatrice, Santa Teresa d’Avila, la quale aveva detto: «In avvenire quest’Ordine fiorirà e avrà molti martiri».
E così avvenne anche per voi…
Il 13 luglio 1794, io e le mie consorelle fummo tradotte a Parigi e gettate nella Conciergerie, il carcere della morte. In quei giorni, il tribunale rivoluzionario comminava decine di condanne alla ghigliottina. Il 16 luglio 1794, festa della Madonna del Carmelo, componemmo un nuovo canto, come eravamo abituate a fare nel nostro monastero per la nostra Patrona. In quell’ambiente riscrivemmo la Marsigliese, mantenendo identico il testo musicale ma cambiando le parole dell’inno della rivoluzione in un inno di totale dedizione a Cristo:
«È arrivato il giorno della gloria
Or che la spada sanguinante è già levata
prepariamoci alla vittoria.
Sotto il vessillo del Cristo agonizzante
avanzi ognuno come vincitore.
Corriamo, voliamo alla gloria,
che noi tutte siamo del Signore!».
Il 17 luglio fummo processate e condannate per «fanatismo», l’attaccamento cioè a quelle che il nostro accusatore definiva «credenze puerili» e «sciocche pratiche di religione».
Andammo al patibolo il pomeriggio dello stesso giorno con il nostro canto sulle labbra, tenendoci per mano, con la convinzione che il nostro sacrificio fosse la migliore testimonianza che potevamo offrire a Cristo Signore per la nostra patria.
Dopo essere state ghigliottinate, i corpi delle sedici martiri furono gettati in una fossa comune, insieme ad altri corpi di condannati, in un posto che divenne poi l’attuale cimitero di Picpus, dove ancora oggi una lapide ricorda il loro martirio. Di esse rimasero alcuni indumenti che le Carmelitane scalze stavano lavando alla Conciergerie quando furono portate in giudizio e che, due o tre giorni dopo, vennero dati alle benedettine inglesi di Cambrai, pure incarcerate, ma poi rimesse in libertà. Tali indumenti preziosi sono oggi all’abbazia delle benedettine di Staribrook, in Inghilterra.
Reliquie preziose sono inoltre gli scritti delle martiri: lettere, poesie, biglietti, giunte sino a noi perché furono conservati da persone pie molto toccate dal loro sacrificio. Le martiri furono beatificate da San Pio X il 13 maggio 1906, mentre già il 10 dicembre precedente era stato pubblicato il decreto per procedere alla dichiarazione del martirio delle sedici carmelitane scalze.
La loro festa è celebrata il 17 luglio dall’Ordine dei Carmelitani Scalzi e dall’arcidiocesi di Parigi.
La vicenda delle carmelitane francesi ha avuto una risonanza mondiale inaspettata grazie a opere letterarie di valore indiscutibile. Nel 1931 Geltrude von Le Fort ricavò dal racconto storico della vita e del martirio delle suore di Compiègne, il romanzo «Die letzte am Schafott» dal quale il padre R. Bruckberger ebbe l’ispirazione di realizzare un film, dei cui dialoghi affidò la redazione nel 1937 a Georges Bernanos. Questi, dieci anni dopo, scrisse un lavoro che la morte gli impedì di condurre a termine. Pubblicato nel 1949 come opera letteraria a sé stante, «Les dialogues des Carmélites» ebbe un successo enorme in tutta Europa, e subito fu ridotto per il teatro e, portato sulle scene, ebbe grande fortuna. Nel gennaio del 1957 «Les dialogues des Carmélites», musicato da Francis Poulenc, presentato alla Scala di Milano, estese la fama dell’opera di Bernanos. Finalmente, nel 1959, con regia di Philippe Agostini, il padre Bruckberger riuscì ad attuare il suo sogno portando sullo schermo «Les dialogues des Carmélites». Grazie a queste opere la vicenda storica delle sedici martiri discepole di Santa Teresa d’Avila, uscì dall’anonimato per essere fatta conoscere a tutto il mondo.
Don Mario Bandera
I Perdenti 38. «T2OS»: Chiquitunga, Maria Felicia Guggiari Echeverría
Grande gioia in tutto il Paraguay sabato 23 giugno 2018 per la proclamazione di Chiquitunga come la prima beata nata in terra Guaranì. La solenne celebrazione, presieduta dal cardinale Angelo Amato, prefetto della Congregazione delle cause dei Santi, come delegato di papa Francesco, si è svolta nella capitale Asunción, nello stadio Pablo Rojas del Barrio Obrero.
La nuova beata è María Felicia de Jesús Sacramentado, al secolo María Felicia Guggiari Echeverría, suora dell’Ordine dei Carmelitani scalzi, nata a Villarica (Paraguay) il 12 gennaio 1925 e morta ad Asunción il 28 aprile 1959. Nella sua terra tutti la conoscono con il simpatico soprannome in lingua guaranì di Chiquitunga, che il suo papà le diede fin da piccola a motivo del suo fisico minuto.
Chiquitunga è diventata, così, la prima donna paraguayana a essere annoverata tra la schiera dei beati della Chiesa. Commentando tale evento, mons. Edmundo Valenzuela, arcivescovo della capitale, ha affermato che María Felicia Guggiari Echeverría è ascesa «alla gloria degli altari» in quanto tutta la sua vita fu interamente dedicata al Signore e ai poveri della sua terra. Mons. Valenzuela ha poi proseguito dicendo che: «Chiquitunga ha avuto una vita ricca di apostolato e contemplazione, sapendo mettere insieme questi suoi doni dentro una militanza molto intensa nell’Azione Cattolica (ricordiamo che prima di entrare nel Carmelo ella fece parte per diversi anni dell’A.C. paraguayana) dove si distinse come brillante catechista di bambini, ragazzi e giovani, oltre ad essere costantemente vicina ai poveri, agli emarginati e ai bisognosi».
Il 14 agosto 1955, all’età di 30 anni, abbracciò la vita contemplativa entrando nel ramo femminile dell’Ordine dei Carmelitani scalzi, dove assunse il nome di María Felicia de Jesús Sacramentado. A causa di una malattia fulminante, si spense il 28 marzo 1959.
María Felicia, parlaci un po’ di te, della tua storia, della tua famiglia, in poche parole presentati a noi che conosciamo ben poco della tua vita e del tuo meraviglioso paese.
In famiglia eravamo sette fratelli ed io ero la primogenita, mio papà si chiamava Ramón Guggiari mentre la mamma Arminda Echeverría. Fui battezzata a tre anni, a cinque anni fui accettata nel Collegio Maria Ausiliatrice e a dodici anni feci la Prima Comunione.
Un evento che ebbe una particolare rilevanza nella tua vita, o sbaglio?
Da quel momento mi accordai con Gesù per migliorarmi giorno dopo giorno, per essere sempre più buona, più attenta ai bisogni e alle esigenze di chi mi stava attorno.
Già ma le turbolenze politico-militari del tuo paese, cominciarono a condizionare molto presto la tua esistenza.
Mio padre era noto in città come fervente oppositore a una visione politica e ideologica molto affine al fascismo che andava insinuandosi in quel periodo nella società paraguayana. Le sue ferme prese di posizione per una democratizzazione del nostro paese gli costarono l’esilio. Di conseguenza anche la nostra famiglia subì tutta una serie di angherie che turbarono non poco il clima di casa nostra.
Ovviamente tu non potevi sottrarti a quello che accadeva, sia nel tuo paese come nella tua famiglia.
Infatti, solo con molte difficoltà potei terminare la scuola primaria. Nel 1940 iniziai gli studi secondari fino ad ottenere il diploma di maestra elementare.
In quegli anni oltre alla scuola ci furono altre circostanze che ti portarono ad assumere ruoli molto importanti che incisero non poco nella tua vita. Se non sbaglio sei stata una delle prime ragazze del tuo paese ad aderire all’Azione Cattolica.
Un anno fondamentale nella mia vita giovanile fu il 1941, quando entrai a far parte dell’Azione Cattolica che proprio in quell’anno veniva istituita in Paraguay. E con l’entusiasmo dei neofiti, insieme ad alcuni amici, iniziammo ad organizzare riunioni e momenti di preghiera cui partecipavo con assiduità. Appresi così a conoscere e ad amare Gesù, che dal quel momento in poi fu per me l’ideale di vita del quale mi innamorai appassionatamente. A 17 anni decisi di consacrarmi all’apostolato dell’AC offrendo a Cristo tutta la mia esistenza.
Anche la tua pratica quotidiana di fede si perfezionò tantissimo.
In questa fase della mia gioventù mi dedicai interamente al Signore, che ricevevo quotidianamente, anche se ciò comportava alzarmi di buon’ora e recarmi alla messa a digiuno (da mezzanotte), per poter ricevere la santa comunione.
Non ti limitavi però a partecipare solo alle celebrazioni liturgiche.
È vero, il resto della giornata lo trascorrevo visitando gli ammalati e gli anziani. Mentre all’interno della vita associativa dell’Azione Cattolica, mi venne affidato un compito speciale e delicatissimo, ovvero seguire le «Piccolissime», cioè le bambine più piccole della mia parrocchia, un compito al quale ero preparata da tempo per l’impegno che avevo assunto in famiglia nel servizio verso i miei fratellini.
Sei davvero di una umiltà disarmante, infatti noi sappiamo che facevi molto altro.
Oltre che seguire le attività delle «Piccolissime» di AC, cercavo di avere una certa attenzione agli umili, ai malati, agli abbandonati, ai carcerati di qualunque tendenza politica o religiosa fossero. Quando li visitavo mi proponevo di dare loro sempre un pizzico di gioia e di allegria.
Una volta ritornato tuo papà dall’esilio, la tua famiglia si trasferì da Villarica ad Asunción per avere più tranquillità grazie all’anonimato della capitale e ritrovare così un po’ di pace.
Ad Asunción decisi di iscrivermi alla Scuola Normale per diventare maestra di scuola e una volta diplomata trovarmi un lavoro. In quel tempo cercavo di modellare la mia vita interiore su un permanente cammino di fede, fatto di speranza e amore, tutto ciò per essere più fedele a Gesù e vivere con maggiore coerenza il suo messaggio di tenerezza infinita, quindi invitando tutti al perdono reciproco e alla riconciliazione specialmente con gli avversari politici dopo anni di incomprensione.
In quel periodo conoscesti un giovane di cui t’innamorasti perdutamente.
Proprio così. Durante un’assemblea di AC, conobbi Ángel Sauá Llanes, un giovane studente di medicina, membro del comitato direttivo dell’opera, con il quale simpatizzai subito e dopo poco tempo iniziammo a uscire insieme per svolgere il nostro apostolato fra la gente.
La frequentazione di un giovane fu ben accettato dai tuoi, inoltre facilitava il tuo uscire di casa per i numerosi impegni – legati all’Azione Cattolica – che avevi avviato in diversi quartieri della città.
Sì e oltre tutto lavorare gomito a gomito con Ángel, mi diede l’opportunità di entrare in quei quartieri periferici nei quali per una ragazza sola sarebbe stato pericoloso avventurarsi. Con il tempo la simpatia tra noi si approfondì, fino a trasformarsi in un vero sentimento di amore reciproco. A quel punto cominciai a interrogarmi: «Cosa vorrà dirmi il Signore con questo amore che non ho cercato e che Egli ha suscitato nel mio cuore?».
Dopo intensi momenti di preghiera e lunghe riflessioni fu chiaro che il disegno che Dio aveva preparato per voi era piuttosto originale.
Difatti una sera egli mi confidò che avvertiva nel profondo della sua coscienza in maniera molto chiara la chiamata a diventare sacerdote. Allora compresi che con il mio sentimento genuino di amore, Dio mi chiedeva di amarlo come «sacerdote» e «santo».
Per cui il primo ottobre 1951, di comune accordo realizzammo quello che si chiama «sposalizio mistico», insieme ci consacrammo a Maria Immacolata perché presentasse questa nostra «piccola offerta» a suo figlio Gesù: Ángel sarebbe diventato sacerdote ed io mi sarei consacrata a Dio nel mondo o dove il Signore mi avrebbe indicato.
E cosa avvenne dopo?
Il primo aprile 1952 prendemmo l’impegno di separarci «a causa di Dio e per Dio» e il dieci dello stesso mese lui partì per l’Europa dove avrebbe terminato i suoi studi di medicina e iniziato quelli di teologia per il sacerdozio. Nei mesi seguenti gli scrissi una gran quantità di lettere incoraggiandolo ad andare avanti sulla strada intrapresa per seguire la sua vocazione.
Immagino che anche per te nella nuova situazione venutasi a creare cambiarono molte cose.
Partecipando agli Esercizi spirituali dell’AC nel gennaio del 1954, anch’io giunsi a prendere una decisione fondamentale per la mia vita, decisi di consacrarmi completamente a Dio nel Carmelo, realizzando quello che era un po’ il ritornello della mia vita fin dall’adolescenza, quando espressi il mio ideale di vita cristiana in una formula: «T20S», ad imitazione delle formule chimiche che vedevo nei miei libri e che stava a significare «Tutto Ti Offro Signore». E con un’autentica grande gioia nel cuore, donai a Gesù tutta me stessa: la mia giovinezza, il mio amore, l’impegno del mio apostolato.
E così il 2 febbraio del 1954, festa della Presentazione di Gesù al tempio, varcasti la porta della clausura e, con il sorriso sulle labbra, attorniata da tutta la tua famiglia che tanto amavi, entrasti nel Carmelo di Asunción.
Alcuni giorni dopo il Signore iniziò il suo lavoro di purificazione della mia persona facendomi attraversare quella che i mistici chiamano «la notte dello spirito». L’incertezza sulla scelta fatta si impossessò di me. Pensavo che forse era stato un errore lasciare il mondo, dove svolgevo tanto bene i miei molteplici impegni; che chiudermi in clausura era come mettere la lampada sotto il moggio.
Del resto, è abbastanza scontato che in questa fase della tua nuova vita potessi avere qualche momento di timore e apprensione.
Devo dire che l’apice dell’oscurità lo raggiunsi durante gli Esercizi Spirituali prima della vestizione solenne, ma a poco a poco queste paure si dileguarono. Nella nuova vita al Carmelo cominciavo a sperimentare la vicinanza dell’Amato a cui chiedevo insistentemente una cosa sola: «Amore per amare». Finalmente il 14 agosto del 1955 ricevetti l’abito claustrale del Carmelo.
Ti sentivi pienamente realizzata come donna, come religiosa e come monaca.
La mia vita nel Carmelo non poteva essere più semplice e gratificante, infatti non facevo altro che amare, amare e amare di più Gesù e i suoi fratelli, ovvero gli esseri umani di tutto il mondo, a qualunque continente o popolo appartenessero, soprattutto i più poveri ed emarginati. Un sentimento speciale lo coltivavo per le mie consorelle di comunità, per i sacerdoti, che avevo sempre presenti nelle mie preghiere, a cominciare dal mio «amico» che si preparava al sacerdozio, per i poveri e gli umili.
Il 15 agosto 1959 avrebbe dovuto essere il giorno del suo impegno definitivo di amore con il Signore, con la professione perpetua solenne. Ma María Felicia «sentiva» che Lui voleva incontrarla prima, e lei come sempre era pronta. Nel gennaio del 1959, le fu diagnosticata una epatite infettiva. Fu portata alla Croce Rossa per essere debitamente curata. In effetti, durante la Quaresima, poté essere dimessa. Ritornò al suo amato piccolo monastero. Si dedicò alla vita monastica con tutta la sua generosità unita al desiderio sempre più vivo d’immolazione. Giunse la Settimana Santa e si unì spiritualmente alla Passione di Gesù, mettendo a disposizione tutta la sua creatività piena di fantasia ed amore.
Il Venerdì Santo, il cappellano, dandole la comunione, notò un livido nella lingua. Il sabato cominciarono a manifestarsi macchie di sangue che la domenica ed il lunedì di Pasqua si moltiplicarono. Il martedì una grave emorragia allarmò la Madre priora che fece venire immediatamente Freddy Guggiari, il fratello medico. La diagnosi fu immediata: «Porpora trombotica».
Il giovane dottore uscì singhiozzando dalla stanza dell’inferma: «Essere medico e non poter salvare mia sorella!». Ricoverata di nuovo nell’Ospedale della Croce Rossa, cominciò il suo Calvario, la sua unione definitiva con la Croce, con una pazienza e un’allegria incredibili. Chi la vedeva anche solo per pochi istanti diceva: «È un’altra Teresina di Lisieux». Lei però desiderava tornare presto al Carmelo e il Signore la accompagnò al Carmelo del Cielo.
Ogni giorno era circondata dai suoi familiari a cui María Felicia ripeteva: «Sono felice di morire nel Carmelo!», anche in quei momenti non si spense mai il sorriso sulle sue labbra. Alle quattro del mattino del 28 aprile, la si udì bisbigliare: «Gesù, che dolce incontro! Vergine Maria!». Furono le sue ultime parole prima di entrare nel Regno dei Cieli.
Don Mario Bandera
Perdenti 37. Teresio Olivelli, ribelle per Amore
Don Mario Bandera “intervista” Teresio Olivelli |
Teresio Olivelli nasce a Bellagio (Co) il 7 gennaio 1916. Dopo le scuole elementari e medie, frequenta il ginnasio a Mortara (Pv) e il liceo a Vigevano.
Nel tempo degli studi ginnasiali e liceali si mostra studente modello, ardente di carità verso i compagni, specie i più bisognosi. Partecipa intensamente anche alle attività dell’Azione Cattolica e della San Vincenzo, poiché avverte l’impellente richiamo di portare i valori evangelici nei diversi ambienti sociali che frequenta. Una volta conseguita la maturità si iscrive alla facoltà di giurisprudenza dell’Università di Pavia e viene accolto nel prestigioso ed esclusivo Collegio Ghislieri.
Nel periodo universitario, pur accettando il fascismo dominante, lavora soprattutto a costruire e rafforzare la sua vita spirituale. Convinto che «il cristianesimo vuole ascetica, che è esigenza d’ordine e di organizzazione delle proprie azioni», si impegna intensamente su due dimensioni: il crescere nella fede in Dio e il rafforzare la sua volontà di bene e di impegno concreto. Con il supporto di una fede intensamente vissuta, egli opera là dove il bisogno dei più poveri lo chiama per lenire sofferenze materiali e spirituali. È questo il periodo in cui diventa più concreta la sua vocazione alla carità, che egli testimonia con crescente ardore.
Dopo la laurea viene chiamato a Roma a lavorare come segretario dell’Istituto nazionale di cultura fascista, dove può intrattenere rapporti con personaggi autorevoli del panorama culturale e politico italiano, e compiere dei viaggi in Germania che lo aiutano ad aprire gli occhi sul nazismo. A Roma, dal maggio 1940 a febbraio 1941, vive intensamente la sua vita di fede, con messa e meditazione quotidiana, ed espletando il suo lavoro con fedeltà alla sua coscienza cristiana.
Allo scoppio la II Guerra mondiale, non accetta il vantaggio dell’esonero dal servizio militare che la sua posizione comporta ma vuole condividere la condizione dei suoi coetanei arruolati in massa e mandati poi a migliaia a morire nella Campagna di Russia.
Teresio, nel 1941 ti arruolano nominandoti sottotenente della Divisione tridentina degli alpini. Potresti avere l’esonero grazie alla tua posizione, ma chiedi di partire volontario per il fronte russo.
Voglio stare accanto ai giovani militari e condividere la loro stessa sorte. Non ho eroici furori. Solo desidero fondermi nella massa, in solidarietà col popolo che, senza averlo deciso, combatte e soffre. Sono pervaso da un’idea fissa: essere presente fra quanti sono gettati nella folle avventura della sofferenza, del dolore e della morte. Ed è proprio in quel periodo che si frantuma dentro di me l’idea che mi ero fatta del fascismo. In cuor mio divento sempre più critico nei confronti del sistema, vedendo e costatando con i miei occhi le violenze e le aberrazioni attuate dalla brutale logica della guerra.
Dopo la sconfitta sul fronte russo partecipi alla disastrosa ritirata con la sua scia di morte. Sei attento ai tuoi soldati e molti dei tuoi alpini ti devono la vita.
Durante la campagna cerco di sostenere i miei compagni, non solo condividendo il mio cibo con loro, ma anche aiutandoli spiritualmente. Tutte le sere ci raduniamo a dire il rosario. Poi, durante la ritirata, in condizioni di freddo polare, sto attento ai più deboli. Una sera, vedo che mancano due dei miei uomini che erano feriti. Torno indietro a cercarli pur sapendo di correre il rischio del congelamento restando fuori a quasi -30°, ma in coscienza non me la sento di lasciare indietro nessuno.
Rientrato a Pavia nella primavera del 1943, trovi una piacevole sorpresa.
Sì. Con mia grande sorpresa scopro di aver vinto il concorso al quale mi ero presentato prima di partire per il fronte russo: diventare rettore del Collegio Ghisleri, dove avevo studiato. Ho solo 27 anni, e in quel momento sono formalmente il più giovane rettore di un collegio universitario in Italia.
Un bel sogno che dura poco. Con l’armistizio dell’8 settembre 1943 la tua vita cambia di nuovo radicalmente.
L’8 settembre mi trova ancora nella caserma di Vipiteno, con i miei Alpini. Non accetto di schierarmi con la Repubblica di Salò. I soldati tedeschi mi arrestano e mi mandano in un campo di prigionia vicino a Innsbruck, in Austria, e poi in un altro. Da lì riesco a fuggire il 10 ottobre e a raggiungere fortunosamente Udine e da lì Brescia, dove collaboro alla nascita delle «Fiamme Verdi», le formazioni partigiane di orientamento cattolico. La mia è una scelta fatta seguendo la mia coscienza, secondo i principi della fede e della carità cristiana.
La tua scelta di unirti alla Resistenza è dovuta a motivi politici?
Ovviamente la mia presa di posizione avrà conseguenze politiche, perché devo decidere se stare con il Re d’Italia o con la Repubblica di Salò. Ma la ragione di fondo è la mia coscienza illuminata dal Vangelo. Non posso accettare la logica della violenza nazifascista e sogno un mondo nuovo più cristiano, basato sulla logica dell’amore. Divento un ribelle per amore.
Partecipo attivamente alla Resistenza, ma il mio contributo fondamentale è la fondazione, nel febbraio 1944, del giornale clandestino «Il Ribelle», un foglio di collegamento e di sensibilizzazione per diffondere gli ideali della Resistenza di ispirazione cattolica.
In quei fogli esprimi il tuo concetto di Resistenza intesa come una «rivolta dello spirito» alla tirannide, alla violenza, all’odio.
Per me resistere è una rivolta morale, diretta a suscitare nelle coscienze il senso della dignità umana e il gusto della libertà personale e a promuovere un ordine di valori sui quali primeggia la carità cristiana, volta a costruire la civiltà dell’amore contrapposta a quella dell’odio propugnata dai nazifascisti.
Sulle pagine del «Ribelle» pubblichi quello che può essere considerato il tuo «manifesto», la «preghiera del ribelle». In quel testo definisci te stesso e i tuoi compagni «ribelli per amore».
Pubblichiamo «Il Ribelle» a Milano e riusciamo a diffonderne ben 26 numeri, ognuno in almeno 15mila copie. La diffusione è possibile soprattutto grazie all’impegno di tante donne che lo distribuiscono a loro rischio e pericolo. Il giornale, con questa preghiera e tutte le nostre prese di posizione ricche di umanità e fedeli al Vangelo, è visto come una pubblicazione sovversiva. Per questo sia i nazisti che i fascisti danno la caccia a me, ai miei collaboratori e al tipografo, fino al mio arresto che avviene a Milano il 27 aprile 1944.
Teresio Olivelli viene dapprima torturato a San Vittore e poi deportato al campo di Fossoli, dove riesce a salvarsi dalla fucilazione nascondendosi. Riesce anche a fuggire, come aveva già fatto dall’Austria, ma lo catturano dopo pochi giorni e lo mandano prima a Bolzano-Gries e poi a Flossenbœrg in Baviera, e da ultimo al campo di Hersbrœck, dove non solo è marchiato col triangolo rosso dei politici ma anche col disco rosso dei sorvegliati speciali perché tentano la fuga. Teresio comprende che è giunto il momento del dono totale e irrevocabile della propria vita per la salvezza degli altri. In questi luoghi aberranti il senso del dovere della carità cristiana portato fino all’eroismo, diventa per lui norma di vita. Infatti, interviene sempre in difesa dei compagni percossi, rinuncia spesso alla sua razione di cibo in favore dei più deboli e malati. Resiste con fede, fortezza e carità alla repressione nazista, difendendo la dignità e la libertà di tanti fratelli sventurati come lui. Questo atteggiamento suscita nei suoi confronti l’odio dei capi baracca, i cosiddetti kapò, che di conseguenza gli infliggono dure e continue percosse. Tutto ciò non ferma il suo slancio di carità, a motivo del quale è consapevole di poter morire. Ormai deperito, si protende in un estremo gesto d’amore verso un giovane prigioniero ucraino brutalmente pestato, facendo da scudo con il proprio corpo. Viene colpito con un violento calcio al ventre, in conseguenza del quale muore il 17 gennaio 1945, a soli 29 anni. La definizione più efficace di Teresio Olivelli l’ha data don Primo Mazzolari, qualificandolo come «lo spirito più cristiano del nostro secondo Risorgimento». Il 4 febbraio 2018, nella Cattedrale di Vigevano, il cardinale Angelo Amato, prefetto della Congregazione delle cause dei santi, alla presenza di una nutrita partecipazione del Corpo degli alpini, lo ha proclamato Beato, definendolo un autentico «combattente» della carità.
Don Mario Bandera
PREGHIERA DEL RIBELLE
Signore
che fra gli uomini drizzasti la Tua croce,
segno di contraddizione,
che predicasti e soffristi la rivolta dello spirito contro
le perfidie e gli interessi dominanti,
la sordità inerte della massa, a noi oppressi
da un giogo oneroso e crudele che in noi
e prima di noi ha calpestato Te fonte di libere vite,
dà la forza della ribellione.
DIO
che sei Verità e Libertà, facci liberi e intensi,
alita nel nostro proposito, tendi la nostra volontà,
moltiplica le nostre forze, vestici della Tua
armatura, noi ti preghiamo, Signore.
TU
che fosti respinto, vituperato, tradito, perseguitato, crocefisso,
nell’ora delle tenebre ci sostenti la Tua vittoria;
sii nell’indulgenza viatico, nel pericolo sostegno,
conforto nell’amarezza.
Quanto più si addensa e incupisce l’avversario,
facci limpidi e diritti.
Nella tortura, serra le nostre labbra.
Spezzaci, non lasciarci piegare.
Se cadremo fa che il nostro sangue si unisca
al Tuo innocente e a quello dei nostri Morti,
a crescere al mondo giustizia e carità.
TU
che dicesti: «Io sono la Resurrezione e la Vita»,
rendi nel dolore all’Italia una vita generosa e severa.
Liberaci dalla tentazione degli affetti:
veglia Tu sulle nostre famiglie.
Sui monti ventosi e nelle catacombe della città,
dal fondo delle prigioni, noi Ti preghiamo:
sia in noi la pace che Tu solo sai dare.
DIO
della pace e degli eserciti,
Signore che porti la spada e la gioia,
ascolta la preghiera di noi,
ribelli per amore.
Teresio Olivelli
I Perdenti 36: Annalena Tonelli
Testo «intervista» di Mario Bandera a Annalena Tonelli |
Annalena Tonelli nasce a Forlì il 2 aprile 1943, terza di cinque figli. Sin dall’infanzia si sente chiamata a donarsi per gli altri, come racconta nel dicembre 2001, durante un convegno al quale è stata invitata, svolto presso l’Aula Nervi in Vaticano: «Scelsi che ero una bambina di essere per gli altri, i poveri, i sofferenti, gli abbandonati, i non amati, e così sono stata e confido di continuare fino alla fine della mia vita. Volevo seguire solo Gesù Cristo, null’altro mi interessava così fortemente: Lui e i poveri attraverso Lui».
Dopo aver frequentato il liceo classico e un anno di stage a Boston in America, si iscrive alla facoltà di giurisprudenza dell’Università di Bologna. Si forma nell’Azione Cattolica forlivese, nella sua parrocchia e nella Fuci (Federazione Universitaria Cattolica Italiana), della cui sezione femminile locale diviene presidente. Nel tempo libero dagli studi, organizza convegni e incontri. Grande trascinatrice, porta le amiche al brefotrofio, trasformandole in mamme di tanti bambini. Nel 1963 contribuisce in modo determinante a far nascere a Forlì il «Comitato contro la fame nel mondo». Dopo la laurea, conseguita nel 1969, desidera partire per l’India, che ha imparato a conoscere attraverso la lettura dei libri di Gandhi.
I familiari non vogliono che parta né per l’India né per altri paesi, ma lei coglie la prima occasione possibile e, dietro consiglio di un’amica, parte per Nairobi, capitale del Kenya. Proprio in terra d’Africa comincia così la sua straordinaria avventura come missionaria laica, da cui scaturisce il nostro colloquio.
Annalena come è stato il tuo primo impatto con la realtà africana?
Padre Giovanni De Marchi, missionario della Consolata nella diocesi di Nyeri, mi accoglie a Nairobi e con lui vado come insegnante di inglese nella Chinga Boys, una scuola secondaria fondata nel 1964 vicino a Othaya nella missione di Karema. Lì comincio a farmi le ossa, a conoscere l’ambiente e ad allargare il mio interesse verso il Nord desertico del Kenya. Più passano i mesi, più mi convinco che il mio futuro è in Africa. A un amico sacerdote scrivo: «Sono certa che alla fine scoprirò che anche la vita qui è grazia, perché tutto è grazia, se io dovunque mi trovo, vivo semplicemente, nello sforzo umile ma potente e continuamente rinnovato di imitare il Cristo».
Come si caratterizza la tua permanenza in Africa?
Nel 1970 mi faccio trasferire nella scuola governativa di Wajir, nel Nord Est del Kenya, dove padre Salvatore Baldazzi, sempre missionario della Consolata e romagnolo come me, ha appena aperto una Girls’ Town. Lì mi raggiunge la mia amica Maria Teresa Battistini e poi altre compagne. Insieme diamo vita a una piccola comunità di laiche missionarie. Ci dedichiamo in particolare ai nomadi – prevalentemente somali – del deserto, dei quali ammiro la fede semplice e l’abbandono totale in Dio.
La vostra presenza in quell’ambiente non è certamente priva di rischi.
Siamo ostacolate in diversi modi. Ci prendono a sassate e una notte i ladri non solo ci derubano ma anche ci malmenano pesantemente. Non molliamo però. Con gli aiuti che riceviamo da Forlì, fondiamo un centro di riabilitazione per disabili – non esisteva niente del genere in quel vasto territorio – e inizio anche a occuparmi dei malati di tubercolosi, tanto che riesco a mettere a punto un nuovo metodo efficace di cura (la TB manyatta) che si adatta perfettamente alla vita dei nomadi.
La situazione nel Nord del Kenya è tesa a causa della guerriglia degli Shifta e voi vi trovate coinvolte in un fatto molto grave.
Nel febbraio 1984 miliziani filogovernativi bruciano alcuni quartieri di Wajir accusando i residenti di essere sostenitori dei guerriglieri Shifta. Radunano poi migliaia di uomini nell’aeroporto di Wagalla, picchiano e torturano e il giorno 10 li cospargono di benzina e danno loro fuoco. È un massacro, anche se la maggioranza si salva togliendosi i vestiti. Alla notizia, dipingo una croce rossa sulla nostra Toyota e vado a curare i feriti, recuperare i morti e dare loro sepoltura. Per questo sono minacciata e anche picchiata. Mi salvo perché un vecchio capo musulmano locale mi difende.
Con l’aiuto di amici, mandi alle ambasciate a Nairobi le fotografie di mucchi di cadaveri e feriti per fermare l’eccidio che rischiava di estendersi.
Per tutti questi motivi veniamo espulse dal paese come «persone non gradite» e la nostra comunità di laiche missionarie deve sciogliersi.
Di fronte alla nuova situazione venutasi a creare, come reagisci?
Decido di trasferirmi in Somalia, prima a Merca e poi, nel 1996, a Borama. Lì fondo un ospedale con 250 letti, per i tubercolotici e gli ammalati di Aids, e una scuola per bambini sordi e disabili. Sono più che mai convinta che con l’istruzione si possa far evolvere la situazione economica e sociale di quella che ormai considero la mia gente.
Un bel progetto non c’è che dire.
Mi oppongo anche alla pratica delle mutilazioni genitali femminili, in questo molto appoggiata dalle donne somale. Aggiornandomi continuamente, riesco a ottenere dei diplomi a Londra e in Spagna per la cura delle malattie tropicali e della lebbra. Pur non essendo laureata in medicina, investo tutti i miei sforzi in favore dei malati e perfeziono anche la profilassi per la tubercolosi già sperimentata con la TB manyatta a Wajir. Il metodo verrà utilizzato in seguito su larga scala dall’Organizzazione mondiale della sanità.
Da dove ricavi la forza per andare avanti?
Se devo proprio essere sincera la radice che sostiene tutta la mia attività sta nella preghiera contemplativa, nella meditazione del Vangelo e nell’adorazione eucaristica, quando questa è possibile. Nei miei ritorni in Italia frequento l’eremo di Cerbaiolo, tra Toscana e Romagna, o quello di Spello, o ancora a Campello sul Clitunno. In tutta la mia vita ho sentito costantemente la tensione verso una vita più contemplativa, ma il pensiero dei miei amati somali mi spinge sempre a tornare da loro.
Con questa forza interiore impari a far fronte alle difficoltà dell’ambiente e ai rischi e pericoli quotidiani.
Anche se sono continuamente minacciata, perché bianca, donna, cristiana e non sposata, non ho mai avuto paura, e anche questa è una cosa che ho imparato giorno dopo giorno vivendo con fede la mia situazione.
Alcune volte sono stata in pericolo di vita, mi hanno sparato, picchiata, sono stata anche imprigionata, ma non ho mai avuto paura. Quando poi quel vecchio e rispettabile capo di Wajir decretò che sarei andata ugualmente in Paradiso, anche se ero un’infedele, tutti hanno accettato che io fossi l’unica cristiana residente in quel luogo.
Nella condizione singolarissima come quella da te vissuta in terra d’Africa, avrai messo a fuoco una visione più approfondita del messaggio di Gesù di Nazareth.
L’esperienza maturata vivendo in mezzo ai poveri mi ha dato la convinzione incrollabile che ciò che conta nella vita è amare, solo amare! Quando si ama, la nostra vita diventa degna di essere vissuta. Io perdo la testa per i brandelli di una umanità ferita; più gli esseri umani sono feriti, più sono maltrattati, disprezzati, senza voce, di nessun conto agli occhi del mondo, più io sento di amarli. E questo amore è tenerezza, comprensione, tolleranza, assenza di paura, audacia.
Praticamente sei sempre vissuta con i somali, in un mondo rigidamente musulmano.
Dove ho lavorato in Africa non c’era nessun cristiano con cui poter condividere un cammino di fede. All’inizio tutto mi era contro. Ero giovane, dunque non degna né di ascolto né di rispetto. Ero bianca, dunque disprezzata da quella gente che si considerano superiori a tutti. Ero cristiana, dunque oltraggiata, rifiutata, temuta. E poi non ero sposata, un assurdo in quel mondo in cui il celibato non esiste e non è un valore, anzi è un disvalore. Solo chi mi conosce bene dice e ripete senza stancarsi che io sono somala come loro. Io mi sento madre autentica di tutti quelli che ho salvato.
Questa è certamente un’esigenza fondamentale della tua natura.
Certo io in loro vedo Lui, Gesù il Cristo, l’agnello di Dio che patisce nella sua carne i peccati del mondo. Ma il dono più straordinario, il dono per cui ringrazierò Dio e loro per sempre, è il dono dei miei nomadi del deserto. Loro musulmani mi hanno insegnato la fede, l’abbandono incondizionato, la resa a Dio, una resa che non ha nulla di fatalistico, una resa rocciosa e arroccata in Dio, una resa che è fiducia e amore. I miei nomadi del deserto mi hanno insegnato che devo fare tutto, tutto incominciare, tutto operare, tutto sperare, sempre nel nome di Dio.
Sei mai stata aiutata da altri volontari nel tuo lavoro?
Dall’Italia e da altri paesi europei arrivavano in periodi diversi dei volontari per aiutarmi: c’era chi rimaneva qualche mese, chi trascorreva un determinato periodo, come le ferie estive, ma nessuno ha mai deciso di fermarsi per qualche anno. Economicamente le opere che avevamo avviate erano sostenute da un Comitato di aiuto sorto nella mia città a Forlì, e da altre organizzazioni internazionali. Del resto, io non appartenevo a nessuna congregazione od organismo religioso o laico, mi bastava la scelta fatta nella gioia della mia gioventù, di dedicarmi a Dio e al prossimo senza etichette o simboli esteriori.
Si può dire che tu donna di poche parole, eri impegnata più ad agire che a parlare, tanto meno di te stessa.
In compenso se in Italia, al di fuori della mia città, potevo essere poco conosciuta, le somale emigrate nel nostro paese, i nomadi del Kenya, i tubercolotici della manyatta, i malati di Aids di Borama e i rifugiati del Nord Somalia, cioè gli ultimi e più sconsolati della Terra, mi facevano buona pubblicità parlando delle nostre attività non appena se ne presentava l’occasione.
Inoltre, tu credevi fermamente nel dialogo: tra le persone, le culture, tra fedi diverse.
Si, ma senza indietreggiare di un millimetro, senza dimenticare l’assoluta originalità del Vangelo. Ogni giorno noi ci adoperavamo per la pace, per la comprensione reciproca, per imparare insieme a perdonare. Sapessi come è difficile il perdono! I miei musulmani facevano tanta fatica ad apprezzarlo, ma lo chiedevano per la loro vita, riconoscevano in questo l’originalità della nostra presenza in mezzo a loro.
Il 25 giugno del 2003 Annalena Tonelli riceve dall’Alto Commissariato dell’Onu per i rifugiati, il prestigioso premio «Nansen Refugee Award», per la sua opera a favore dei rifugiati e dei perseguitati. La sua tenace dimostrazione di amore gratuito – capace di perdonare anche chi tenta di ammazzarla – fa breccia in tante delle innumerevoli persone che Annalena accosta durante la sua avventura africana. Solo alla luce di questo si capisce come mai donne musulmane accettino che una straniera (per di più cristiana) insegni loro – ben prima che la lotta alle mutilazioni genitali diventi una bandiera delle femministe occidentali – come liberarsi da una pratica tanto antica quanto devastante per le donne. Il paradosso è che a capire in profondità il segreto di quella donna umile e tenace è proprio il vecchio capo musulmano di Wajir: «Noi musulmani abbiamo la fede – confidò una volta alla missionaria italiana -, voi l’amore».
Il 5 ottobre 2003, mentre compie l’ultimo giro tra gli ammalati del suo ospedale a Borama, Annalena viene uccisa con un colpo alla nuca, sparato da un fanatico. Ha 60 anni, dei quali 34 trascorsi in Africa tra i poveri più poveri. Per suo espresso desiderio, è sepolta a Wajir, in Kenya, dove c’è il suo primo ospedale.
Don Mario Bandera
Documentario dall’Alto Commissariato dell’Onu per i rifugiati su Annalena in inglese.
«L’UNHCR Somalia ha girato un documentario di 26 minuti, prodotto e diretto da Matt Erickson della Poet Nation Media, per celebrare il suo incredibile lavoro. É stato girato a Nairobi, Borama e Wajir. Il filmato è stato doppiato in italiano dalle ragazze e dai ragazzi della A.C.R. di Vecchiazzano Forlì».
I Perdenti 35. Ernesto Che Guevara
più mito che mai
Testo su il Che Guevara di Mario Bandera |
Ernesto Che Guevara de la Serna nasce a Rosario, città situata sul fiume Paraná in Argentina, il 14 giugno 1928, da una famiglia della media borghesia latinoamericana. Il soprannome «Che» gli viene dato negli anni trascorsi a Cuba per la sua abitudine, tipica di tutti gli abitanti nati su quel fiume e in modo particolare di quelli della baia del Rio de la Plata dove c’è Buenos Aires in Argentina e Montevideo in Uruguay, di parlare intercalando l’espressione «che» (pron. cé), paragonabile al nostro diffuso «cioè» o al tipico «né» piemontese.
Il padre, Ernesto Rafael Guevara Lynch, è un ingegnere civile, mentre la madre, Celia de la Serna, è una donna intelligente e colta, grande lettrice, appassionata soprattutto alla letteratura francese. Poiché il piccolo è sofferente d’asma, i genitori, su consiglio dei medici, si trasferiscono nei pressi di Cordoba, dove c’è un clima più mite, più adatto alla sua salute. Dopo gli studi liceali, si iscrive alla facoltà di Medicina di Buenos Aires, dove nel frattempo la sua famiglia si è trasferita. Durante il periodo universitario, con l’amico Alberto Granado compie un lungo viaggio con la moto (da lui orgogliosamente chiamata «la Poderosa») in diversi paesi dell’America Latina. Nel 1953 si laurea e due anni dopo sposa la peruviana Hilda Gadea.
Nel 1955 mentre si trova in Messico incontra una persona decisiva per il suo futuro: Fidel Castro. Dopo una notte passata a discutere animatamente della situazione sociopolitica del subcontinente latinoamericano, Castro gli propone di unirsi a lui per liberare Cuba dal dittatore Fulgencio Batista. Guevara accetta e nel novembre del 1956 organizza con Fidel e altri compagni uno sbarco a Cuba, dove negli scontri con l’esercito di Batista si rivela un coraggioso combattente e un abile stratega.
Nell’impenetrabile Sierra Maestra, grazie alla sua sapiente tattica di guerriglia, Guevara si guadagna sul campo i galloni di «Comandante». Nel 1959 una volta liberata l’isola caraibica dal regime di Batista, entra a far parte del nuovo Governo rivoluzionario, presieduto da Fidel Castro, assumendo l’incarico della ricostruzione economica di Cuba in qualità di direttore del Banco Nacional e di ministro dell’Industria.
Con molta titubanza di fronte a un personaggio così illustre e controverso, iniziamo il nostro colloquio.
Preferisci che ti chiami Ernesto, tuo nome di battesimo, oppure devo usare Che, l’appellativo con cui sei diventato famoso?
Ormai mi conoscono tutti come il Che. Pertanto, anche per me è più congeniale rispondere a questo soprannome, piuttosto che ad altri, nome personale compreso.
Allora Che, parlaci un poco della tua infanzia e della tua famiglia.
Mio papà, uomo retto e tutto di un pezzo, era completamente preso dal suo lavoro che lo teneva parecchio tempo occupato fuori casa, lontano dalla famiglia. Il suo atteggiamento mi spianò la strada affinché fin da piccolo mi affezionassi sempre più a mia mamma, la quale, ne convengo, ebbe un ruolo fondamentale nella mia formazione.
Parlaci un po’ dell’influenza che ebbe tua mamma nella tua vita.
Nel periodo che va dal 1936 al 1939, anni in cui si consumava la guerra civile di Spagna, con gli inevitabili strascichi di dolore e sofferenza sulla popolazione, mia mamma, un’attivista politica e femminista militante, atea e anticlericale, con molta pazienza mi aiutò a capire quale era la posta in gioco e quali erano le forze autoritarie che usavano le armi per negare al popolo spagnolo democrazia e libertà.
È vero che eri un lettore accanito, praticamente «onnivoro»?
Sì, è vero, leggevo di tutto. In modo particolare i saggi relativi alle problematiche dell’America Latina, di quella «Patria grande» sognata da tutti i padri della patria del sub continente latinoamericano, come Simon Bolivar, José de San Martin, Bernardo O’Higgins, Gervasio Artigas e da tutti i libertadores dei nostri popoli.
Tu sei famoso anche per un mitico viaggio che hai fatto in moto, risalendo dall’Argentina attraverso tutti i paesi dell’America Latina fino ad arrivare in Messico.
In realtà ho fatto diversi viaggi attraverso il continente. Il primo, nel 1950, insieme al mio amico Alberto Granados, visitammo il Cile, il Perù, l’Ecuador, la Colombia e il Venezuela. Ero ancora studente. Nel viaggio fummo colpiti dalla situazione di povertà degli indigeni e dei minatori in molti paesi. Venimmo anche a contatto con la realtà della lebbra e questo stimolò la nostra volontà di terminare gli studi e diventare medici. Così tornai a casa e mi laureai nel 1953 specializzandomi in allergologia.
E cominciasti a lavorare come medico.
No. Mi rimisi in viaggio e nella mia irrequieta ricerca, mentre maturavo un’avversione sempre più grande verso l’ingerenza nordamericana nell’America Latina, visitai Bolivia e Perù, e poi su, verso i paesi dell’America Centale, fino in Guatemala dove venni a contatto con diversi esuli cubani e con colei che anni dopo divenne mia moglie, Hilda Gadea. Fu anche grazie a lei che fui stimolato a leggere e studiare molto per approfondire le mie idee filo marxiste. Abbandonato il Guatemala dopo il colpo di stato militare del giugno 1954, mi recai in Messico, dove sopravvissi facendo il cronista per i Giochi panamericani del 1955. A Città del Messico tornai a frequentare i molti esuli cubani che là avevano trovato rifugio.
Se non vado errato fu proprio in quella città che conoscesti Fidel Castro.
Fu una notte memorabile quella che passai con lui. Ovviamente ne avevo sentito molto parlare. Però non avevo una grande opinione di lui. Ma quella notte mi conquistò. E decisi di entrare a far parte del suo movimento, anche solo come medico.
Quale movimento?
L’M-26-7. Ma lascia che ti spieghi. Castro era un giovane avvocato cubano, diventato uno dei leader dell’opposizione nel suo paese. Dopo che, nel marzo del 1952, Fulgenzio Batista aveva assunto il potere con un colpo di stato, Fidel aveva cercato dapprima le vie legali per farlo condannare e ritornare alla democrazia, poi, fallite quelle, aveva fondato con diversi dissidenti un movimento per farlo cadere usando tutti i mezzi, anche la violenza.
Avevano ottenuto risultati?
Nessuno. Con gli amici del movimento aveva quindi organizzato un’azione dimostrativa cercando di coinvolgere gli universitari nell’assalto di una delle caserme simbolo del potere di Batista, la Caserma Moncada. L’attacco avvenne il 26 luglio 1953. Quello fu l’evento che segnò l’inizio della rivoluzione cubana, tanto che la data dell’episodio fu poi adottata da Castro come nome del movimento che prese il potere nel 1959, M-26-7 o Movimento 26 de Julio. Ma sul piano militare fu un fallimento totale per l’improvvisazione, la faciloneria e la mancanza di armi adeguate. Il risultato fu la morte di oltre sessanta compagni, l’imprigionamento di molti altri e l’arresto dello stesso Fidel Castro.
Ma Fidel non restò in prigione a lungo.
Fidel fu condannato a morte, nonostante la sua brillante arringa nella quale disse la famosa frase: «La storia mi assolverà». Nel frattempo il dittatore Batista, su richiesta della Chiesa, aveva abolito la pena di morte, e la condanna fu commutata in 15 anni di reclusione nel penitenziario dell’Isola dei Pini.
Nel 1955, su pressione di madri di prigionieri politici e di politici, editori e intellettuali, il Congresso cubano approvò un provvedimento di amnistia. I ribelli e il loro leader furono rilasciati.
Visto però che rischiava di essere di nuovo arrestato, andò in esilio volontario in Messico, dove l’ho incontrato e mi sono appassionato alla sua causa.
Qual era il vostro piano per liberare Cuba?
Con Fidel prendemmo la decisione di sbarcare sulle spiagge di Cuba usando una vecchia nave, la Granma (la nonna). Era il 2 dicembre 1956 e noi, 82 guerriglieri ben addestrati, ci inoltrammo nel territorio montagnoso della Sierra Maestra, difficile da attraversare ma molto adatto per la lotta di guerriglia che volevamo fare contro il dittatore Batista.
La liberazione di Cuba vi tenne impegnati su diversi fronti.
Il movimento rivoluzionario messo in piedi da Fidel Castro si diffuse sempre più all’interno dell’isola coinvolgendo in maniera massiccia la popolazione rurale anche grazie all’impiego di una campagna radiofonica da me diretta. Guadagnammo sempre più consenso, sia nel contesto latinoamericano che sul piano internazionale.
Nel 1958, Batista scatenò la sua offesiva, ma il terreno montagnoso non favoriva l’esercito regolare, minato da disorganizzazione e basso morale.
Dopo molte battaglie, nell’agosto la colonna da me comandata sbaragliò gli attaccanti. Da lì in avanti, fu tutta una serie di successi, fino a quando il 2 gennaio 1959 entrai all’Avana, seguito da Castro l’8.
Liberata Cuba, nel governo che si costituì sotto la presidenza di Fidel Castro, ti furono poi assegnate responsabilità molto importanti.
Il primo incarico fu «sporco»: responsabile della prigione dove erano tenuti i fedelissimi di Batista, quelli che si erano macchiati delle colpe più gravi. Poi, dopo essere stato direttore dell’Istituto Nazionale per la Riforma Agraria e della Banca Nazionale di Cuba, fui nominato ministro dell’Industria.
Nella mia posizione girai mezzo mondo e cercai di aiutare movimenti rivoluzionari in diversi paesi. Poi, nel marzo 1965, di ritorno da un congresso ad Algeri, mi ritirai completamente, rinunciando a tutti i miei incarichi. Mandai una lettera a Castro per spiegare la mia decisione.
Il motivo di questo suo allontanarsi da Cuba rimane misterioso. Si parla di pressioni dei sovietici per liberarsi di uno che ha troppe simpatie per i Cinesi, del fatto che Castro sia geloso della sua rampante popolarità, di irrequietezza insita nel Che e tanto altro. Nel 1965 lo troviamo nell’ex Congo Belga con una spedizione cubana fallimentare a sostegno dei ribelli Simba. Dopo quella, vaga in diversi paesi e scrive libri. Nel 1967, coerente con i suoi ideali, il Che riparte per un’altra rivoluzione, quella boliviana, dove, in quell’impossibile terreno, viene tratto in agguato e ucciso dalle forze governative. Si è speculato sulla data esatta della sua morte, ma sembra certo che il Che fu assassinato l’otto ottobre di quell’anno.
Diventato in seguito un vero e proprio mito laico, un martire dei «giusti ideali», Guevara ha indubbiamente rappresentato per i giovani di tutto il mondo, un simbolo dell’impegno politico rivoluzionario, purtroppo oggi sovente svilito a semplice gadget o icona da stampare sulle magliette.
Cosa resta del mito del «Che» cinquant’anni dopo la sua morte? Perché questa icona del secolo Novecento resiste ancora?
Forse perché il «Che» rappresentò ideali di coerenza, di purezza e di coraggio disinteressato, un eroe senza macchia per l’Olimpo dei «Miti», quelli che seppero offrire la loro vita per un ideale di giustizia e di uguaglianza. E poi perché gli eroi nel nostro immaginario restano sempre giovani e belli, perché gli anni passano ma i sogni di coloro che lottano per un mondo più fraterno sono senza tempo e non tramontano mai.
Don Mario Bandera
L’Odissea di Lula
Lula, il primo presidente di sinistra (e democratico) del gigante sudamericano, confermato per un secondo mandato, è oggi agli arresti. Contro di lui intrighi legati al petrolio, alla Confindustria brasiliana e ai vicini Usa. Lui aveva tentato di rompere la logica di dominazione e aveva varato il piano «Fame zero».
Quale sarà la conclusione della vicenda umana e politica di Luiz Inácio da Silva detto Lula, due volte presidente del Brasile (dal 2003 al 2010), a gennaio 2018 condannato senza prove a 12 anni di prigione (vedi articolo pag. 22) per un presunto affaire con Petrobras, la compagnia petrolifera di stato? Non si può negare che questo intrigo abbia tutte le fattezze del golpe. Una trama orchestrata da pezzi della Confindustria brasiliana, con la collaborazione delle famigerate multinazionali nordamericane e con l’appoggio vitale di Rede Globo, il più poderoso network radiotelevisivo del continente.
Questi potentati economici sempre al limite dell’onestà non avevano gradito il fatto che l’ex presidente brasiliano, dopo che la Petrobras aveva scoperto e messo le mani nella propria costa atlantica, sul più grande giacimento sottomarino del mondo, il Pre-Salt, avesse rifiutato di condividere la scoperta con gli Stati Uniti. Uno spettacolo già visto e messo in atto molte volte specie dal governo di Washington che, quando si tratta di petrolio, mette in cantiere guerre insulse e feroci come quella attuale in Siria, che va avanti, tra stragi, equivoci e menzogne, da più di 7 anni (vedi articolo pag. 58). Lula ha provato a rompere questa logica ed è stato punito.
D’altronde quel mondo che si autodefinisce civile e democratico, il mondo del Fondo monetario internazionale e della Banca mondiale, aveva un conto da saldare con lui e Dilma Rousseff, che gli era succeduta nella presidenza.
Lula era stato il primo presidente progressista eletto, e anche confermato, dopo gli anni lugubri della dittatura militare, in quello che, con 207 milioni di abitanti, è lo stato più popoloso dell’America Latina.
Agli occhi del governo di Washington, Lula era stato il complice dell’ex presidente venezuelano Hugo Chávez nel ricambio progressista che il continente a Sud del Texas aveva avuto negli ultimi vent’anni. Anni in cui alcune nazioni si erano consociate in scelte libertarie arrivando a fondare, sull’esempio della Comunità europea, perfino una banca e una televisione continentale, la Telesur, per controbattere l’informazione scorretta della Cnn e di altri network privati normalmente proprietà di caciques abituati a dire sempre sì agli yankee.
Ho conosciuto Lula, prima che diventasse presidente, grazie ad Antonio Vermigli, un generoso ex postino di Quarrata (Pistornia) che tiene in mano la Rete Radié Resch (una rete della sinistra cattolica).
Lula veniva in Italia invitato dai vari sindacati e avevo imparato ad apprezzarlo proprio per essere riuscito nel miracolo di fondare il Pt (Partido dos Trabalhadores, partito dei lavoratori) che, insieme ai cattolici progressisti e al movimento dei Sem Terra (senza terra, ndr), lo avrebbe portato al governo del paese, smentendo chi aveva tentato di sostenere «che i comunisti stavano per prendere il potere in Brasile». Questo perché il Pt era diventato l’esempio del più efficiente movimento progressista in quella che all’epoca (dai primi anni 2000) è stata una vera e propria primavera dell’America Latina.
L’entusiasmo e la sincerità di questo ex operaio della Volkswagen, che al suo mestiere di tornitore aveva sacrificato perfino due dita, aveva permesso ai brasiliani di sognare anche per iniziative come il piano «Fame zero», messo in piedi dal teologo della liberazione Frei Betto che, su incarico di Lula, era riuscito nell’impresa di assicurare a 50 milioni di abitanti, i più poveri, tre pasti al giorno.
Era un nuovo mondo che si scrollava di dosso la dittatura militare e incominciava a diventare un esempio politico, mettendo in crisi perfino pezzi di socialismo occidentale.
Non potrò mai dimenticare una sera in cui, per presentare un libro di Rigoberta Menchù sulle stragi in Guatemala, alla festa dell’Unità di Modena, ero riuscito a riunire con Lula, lo scrittore guatemalteco Dante Liano, scampato ai massacri previsti dal Plan Condor benedetto da Nixon e Kissinger (piano Usa di destabilizzazione delle democrazie in America Latina, ndr), insieme a Frei Betto, frate domenicano e teologo della liberazione, carcerato e torturato dalla dittatura brasiliana, ed Eduardo Galeano, il più acuto saggista del continente latinoamericano.
Tutti avevano toccato le corde dell’emozione, ma il più appassionato era stato proprio Lula che, qualche anno dopo, sarebbe diventato per la prima volta presidente del Brasile. Ci avevano invitato i ragazzi della Fgc (Federazione giovani comunisti) felici di ricevere così tante figure profetiche del continente, oltretutto scampate all’estinzione. Non avevano però lo stesso entusiasmo i militanti più avanti nell’età e gli organizzatori della festa.
«Minà questa sera nella sala grande abbiamo il confronto tra Vitali e Guazzaloca, forse sarebbe meglio che con i suoi ospiti andasse in un ambiente più raccolto» (Giorgio Guazzaloca fu il primo sindaco di Bologna non di area centrosinistra nel dopoguerra e succedette a Walter Vitali nel 1999, ndr). Era il dibattito tra il sindaco della tradizione progressista della città e quello conservatore che gli sarebbe succeduto. Ricordo che mi scappò una frase sarcastica: «Non solo rischiate di far vincere ai vostri avversari le elezioni amministrative a Bologna, città rossa, ma gli preparate anche il terreno adatto». Quella sera rimanendo nel nostro spazio concerti, assegnatoci dai ragazzi della Fgc, spaccammo in due la festa. Un migliaio di spettatori per la sfida Vitali-Guazzaloca, e altrettanti per noi. Rigoberta firmò 500 libri in poco più di mezz’ora.
Qualche mese dopo Massimo D’Alema invitò a Firenze quasi tutti i leader socialisti delle nazioni più importanti. A sorpresa, però, per il Brasile, non si ricordò di invitare Lula Da Silva, il leader di 50 milioni di brasiliani che votavano a sinistra. Preferì trasmettere l’invito a Fernando Henrique Cardoso, leader della coalizione di centro destra che governava in quel momento. La giustificazione? Cardoso in gioventù era stato un sociologo progressista che D’Alema probabilmente aveva letto. Lula che con bonomia mi ha raccontato questa gaffe, ha ricordato che, quando era già succeduto a Cardoso, D’Alema era volato a Rio con Piero Fassino per il summit dell’Internazionale socialista e la prima cosa che aveva fatto era stato chiedere una mozione di censura per Cuba. È stato lo stesso Lula, che pure è un moderato, a ricordare alla delegazione italiana che «per la maggior parte dei latinoamericani la Revolución è un esempio indiscutibile».
Ora io non so perché, dopo il successo, il Pt si sia disfatto in un pugno di anni. So però che se Lula potesse, rispettando le regole, presentarsi come candidato per le prossime elezioni del paese (a ottobre, ndr), vincerebbe, secondo i sondaggi, senza discussione. Per equità ricordo anche che, l’ex vice di Dilma Rousseff, il presidente sostituto Michel Temer ha venduto l’anima ed è attualmente uno degli uomini più indagati e discussi della storia moderna del Brasile.
Basta leggere il suo curriculum dal quale, per esempio, apprendiamo che nell’inchiesta Operaçao Castelo de Areia, sulla corruzione all’interno dell’impresa di costruzioni Camargo Correa, il suo nome è citato ventuno volte nella lista desunta dalla contabilità parallela dell’impresa. È dunque grottesco che Dilma sia stata sospesa e invece Temer possa governare in sua vece.
Quello che più intristisce è che, ancora una volta, un qualunque Temer, pronto a qualsiasi intrigo, possa, con un colpo di stato moderno (rappresentato da compagnie subdole d’informazione di dubbia provenienza o da trame di servizi segreti o da logge massoniche) impedire a un popolo di vedere trionfare le proprie idee, le proprie scelte e i propri diritti e che tutto questo avvenga con la benedizione di istituti come la Banca mondiale, il Fondo monetario internazionale e le sette sorelle multinazionali del petrolio. Golpe che noi, farisei occidentali, spesso definiamo grottescamente come «atti di democrazia».