I perdenti 49. Mafalda di Savoia

testo di Mario Bandera |


Mafalda di Savoia, (al secolo: Mafalda, Maria, Elisabetta, Anna, Romana) secondogenita del Re d’Italia Vittorio Emanuele III e della Regina Elena del Montenegro, nasce a Roma, il 19 novembre 1902. Tra i quattro figli della coppia regale, essa spicca per il suo temperamento brillante, inoltre possiede un’indole docile ed ubbidiente. Dalla madre eredita il senso più autentico della famiglia, i valori cristiani e la passione per l’arte e la musica. Crescendo rivela una passione per la musica classica, soprattutto per le opere di Giacomo Puccini, il quale incontrandola una volta le dice che a lei dedicherà quello che poi sarà uno dei suoi capolavori: l’opera lirica Turandot.

Trascorre infanzia e giovinezza fra Roma e le varie residenze della famiglia reale. Durante la Prima guerra mondiale segue, con le sorelle Jolanda e Giovanna, la madre nelle frequenti visite negli ospedali ai soldati feriti, collaborando agli innumerevoli atti di carità verso i poveri e i sofferenti.

Conosce in seguito Filippo d’Assia (1896-1980), principe tedesco arrivato in Italia per completare gli studi di architettura. Dopo qualche anno di fidanzamento si sposano e le nozze si celebrano a Racconigi il 23 settembre 1925. Dalla loro unione nascono quattro figli: Maurizio, Enrico, Ottone ed Elisabetta.

Mafalda di Savoia è donna coraggiosa che non misura il rischio quando si tratta di intervenire per gli altri, così come avviene durante la Seconda guerra mondiale. A seguito dell’armistizio dell’8 settembre 1943, Hitler progetta la sua vendetta ai danni della famiglia reale italiana, giudicata inaffidabile e traditrice del Patto fra Italia e Germania e come vittima da sacrificare indica proprio la consorte del principe d’Assia. Dopo la scomparsa di Boris III re di Bulgaria, morto per avvelenamento il 28 agosto 1943, Mafalda parte per Sofia per stare accanto in quei giorni terribili a sua sorella Giovanna, sposa del re.

Nei giorni in cui ti trovavi in Bulgaria non ti misero al corrente dell’armistizio dell’otto settembre intercorso tra Italia e Alleati e fosti informata soltanto a cose fatte, mentre eri già in viaggio per rientrare in Italia.

Dopo i funerali del re, iniziai il viaggio per tornare a Roma. Stavo attraversando la Romania, quando il treno fu fermato in piena notte nella stazione ferroviaria di Sinaia. Lì c’era la regina Elena di Romania, che aveva fatto fermare il treno proprio per informarmi di quanto era successo in Italia e pregarmi di non tornare a casa. Ma io volevo rivedere i miei figli e non accettai il consiglio.

Decidesti quindi di tornare ugualmente a Roma per ricongiungerti con i tuoi figli e con la tua famiglia.

Ero convinta che i nazisti mi avrebbero rispettata in quanto moglie di un ufficiale tedesco, e delle SS per di più. Raggiunsi Roma dopo un viaggio avventuroso, in treno fino a Bucarest e poi in aereo fino a Pescara. Nella capitale scoprii che il re, mio padre, insieme a mia mamma, la regina, e ai miei fratelli, si erano sottratti alla cattura da parte dei tedeschi dopo il patto di Badoglio con gli Alleati, cosa che si erano ben guardati dal dirmi, benché fossero mesi che erano in trattative. Grazie a Dio, riuscii a rivedere, per l’ultima volta, i miei figli: Enrico, Ottone ed Elisabetta (Maurizio era con il padre in Germania), accolti e protetti da monsignor Giovanni Battista Montini, futuro Paolo VI, nel proprio appartamento in Vaticano.

Ma i tedeschi, sentendosi traditi, non avevano intenzione di mollare la presa.

Per niente! La Gestapo, sotto la regia del colonnello Herbert Kappler, per compiacere il desiderio di vendetta di Hitler, aveva organizzato l’«Operazione Abeba» per catturami e deportarmi. Ingenuamente io caddi nella trappola da loro predisposta. Fui invitata a presentarmi a Villa Wolkonski, sede dell’ambasciata tedesca a Roma, con la scusa di una telefonata da parte di mio marito dalla Germania. Ero ansiosa di parlare con lui e non sapevo che invece era già stato arrestato ed era chiuso nel campo di concentramento di Flossemburg perché sospettato di aver aiutato il suocero, mio padre, il re d’Italia, a sbarazzarsi di Mussolini. Era il 22 settembre 1943 quando mi presero, e fui subito imbarcata su un aereo con destinazione Monaco di Baviera, da dove poi fui trasferita a Berlino, città in cui mi sottoposero a estenuanti interrogatori. Infine, fui deportata nel lager di Buchenwald, dove arrivai il 18 ottobre.

Come ti hanno trattata?

Non hanno avuto riguardi per me. Quando arrivai nel campo di concentramento, possedevo solo i vestiti che avevo addosso al momento dell’arresto. Le mie richieste per avere indumenti e biancheria pulita furono sempre respinte.

Non ti permisero neppure di rivelare la tua vera identità.

Non solo, per scherno i nazisti mi chiamavano Frau Abeba. Fui rinchiusa in una baracca riservata a prigionieri particolari che non lavoravano e ricevevano il vitto delle SS, poco migliore di quello dei prigionieri comuni. Con noi c’era anche Rudolf Breitscheid, membro di spicco del partito socialdemocratico e delegato al Reichstag durante l’era della Repubblica di Weimar, e sua moglie. A me venne assegnata come compagna di stanza la signora Maria Ruhnau alla quale in segno di riconoscenza, regalai l’orologio che portavo al polso. Per caso fui notata da un prigioniero italiano che mi riconobbe, così la voce della mia presenza si diffuse tra gli altri internati.

Per una persona abituata agli agi, la realtà del campo di concentramento deve essere stata traumatica.

Era una realtà squallida e avvilente, dappertutto c’era dolore e sofferenza. Anche se il nostro era un campo di lavoro e non di sterminio, eravamo trattati con brutalità, senza pietà per nessuno, nemmeno per le numerose donne e bambini che vi erano detenuti. La dura vita del campo, il poco cibo (che dividevo con coloro che reputavo ne avessero più bisogno di me) e il glaciale freddo invernale, fecero deperire ulteriormente il mio fisico già gracile e provato.

Quali sono le cause della tua morte?

Il 24 agosto del 1944 gli anglo-americani bombardarono il lager – non si è mai capito il perché di tale azione assurda contro chi era già vittima dei nazisti – e la baracca dove ero fu distrutta. In quell’occasione riportai gravissimi danni al braccio sinistro che fu ustionato fino all’osso.

Venni ricoverata nell’infermeria improvvisata nella casa di tolleranza usata dai guardiani del lager, ma là fui intenzionalmente abbandonata per molto tempo senza assistenza, poi fui finalmente operata per fermare la cancrena dovuta alle ustioni e mi amputarono il braccio.


Ancora sotto l’effetto dei pesanti sedativi, Mafalda venne riportata nel postribolo e abbandonata, senza assistenza. Morì dissanguata il 28 agosto 1944, a 42 anni. Il dottor Fausto Pecorari, radiologo italiano anch’esso internato a Buchenwald, dichiarò che Mafalda era stata intenzionalmente operata in ritardo e la sua morte era stata il risultato di un assassinio sanitario premeditato. La salma di Mafalda di Savoia, grazie al padre boemo Joseph Tyl, monaco cattolico dell’ordine degli Agostiniani Premostratensi, non venne cremata, ma fu messa in una cassa di legno, sepolta con la dicitura: 262 eine unbekannte Frau (donna sconosciuta). Dopo alcuni mesi dei marinai italiani, reduci dai lager nazisti, trovarono la bara della principessa martire e posero una lapide identificativa.

Dallo studio della vita della principessa e della sua personalità, emerge la figura di una donna briosa e mite, intelligente e colta, sempre dedita agli altri; una sposa e una madre esemplare, di grandissima fede cattolica, sempre pronta alla carità per i più bisognosi e disagiati. Persona semplice, indulgente, benevola e amabile.

Il suo sacrificio è l’ultimo atto di una vita occupata prioritariamente dalla presenza del Vangelo. Anche nel campo di concentramento di Buchenwald non badò a se stessa, in cima ai suoi pensieri c’erano i figli, il marito, i genitori, gli internati del campo e in particolare agli italiani del lager, ai quali fece sentire tutta la sua vicinanza. Le sue ultime parole furono proprio dirette a loro: «Italiani, io muoio, ricordatemi non come una principessa ma come una vostra sorella italiana».

Il marito Federico sopravvisse all’internamento prima nel lager di Flossenburg, poi in quello di Dachau e infine a Villabassa in Val Pusteria dove fu liberato dagli Alleati.

Mafalda di Savoia riposa oggi in terra tedesca nel piccolo cimitero degli Assia a Francoforte-Höchst, frazione di Francoforte sul Meno. Innumerevoli sono vie, piazze, giardini pubblici intitolati a lei, esiste persino un comune che porta il suo nome (in provincia di Campobasso), cippi e monumenti eretti in suo onore in diverse scuole e realtà italiane sono dedicati alla sua memoria.

Figlia, madre e moglie ideale, principessa dai connotati straordinariamente umani e cristiani, Mafalda di Savoia rappresenta una vittima innocente giustiziata in una guerra dove l’odio espresse la sua faccia più turpe e la violenza il suo volto più feroce. Grazie alla sua testimonianza possiamo sperare in un futuro più giusto e fraterno.

Don Mario Bandera




I perdenti 47.

I martiri d’Algeria

Testo di Don Mario Bandera


L’8 dicembre 2018, in Algeria a Orano nel santuario di Notre Dame di Santa Cruz,  avvenne la cerimonia di beatificazione di mons. Pierre Claverie. Con il Vescovo di Orano. Con lui venne ricordato anche Mohamed Bouchikhi, musulmano, suo autista e amico, entrambi uccisi in un agguato ordito dagli estremisti musulmani. Unitamente a loro vennero beatificati i sette monaci trappisti di Tibhirine e altri undici religiosi, tra i quali sei suore, uccisi in Algeria tra il 1994 e il 1996. Quello fu un evento straordinario nella storia della Chiesa Universale, infatti, fu la prima volta che dei martiri cristiani vennero elevati alla gloria degli altari in un paese musulmano con una celebrazione eucaristica presieduta dal cardinale Angelo Becciu, prefetto della Congregazione delle cause dei santi. Profondamente amati dal popolo algerino, è ancora oggi molto viva la memoria dei diciannove martiri cristiani uccisi negli anni tragici che insanguinarono il paese africano, in cui furono massacrati anche giornalisti, attivisti per i diritti umani, intellettuali e imam propensi al dialogo interreligioso. Della loro vicenda parliamo con mons. Pierre Lucien Claverie, nato ad Algeri nel 1938, frate domenicano e vescovo di Orano, ucciso il 1° agosto 1996.

Mons. Pierre, quale messaggio lasciano i martiri di Tibhirine?

Uno dei significati della loro vita e di conseguenza della loro beatificazione è che – come credenti – siamo chiamati ad accogliere le differenze: sociali, culturali e religiose, che gli altri portano in sé, anche se non condividono la nostra fede.

Però troppo spesso l’altro ci fa paura e si preferisce vivere tra quelli che ci assomigliano.

Penso che nel mondo di oggi la differenza ci sia donata per arricchirci, perché ci fa crescere nella nostra identità. Non ce la fa perdere ma ci permette di andare a fondo alle nostre radici, sia umane, sia culturali che religiose.

Chi erano i martiri di Tibhirine? C’è un filo rosso che li accomuna?

Erano religiosi che davano una profonda testimonianza di fede e svolgevano bene il loro compito nella società algerina, facendo parte integrante della Chiesa locale che è piccola, di sole tremila persone, e immersa in un paese al 99% musulmano. C’era da parte di tutti loro una dedizione al popolo algerino. Molti erano un punto di riferimento per il territorio in cui vivevano.

Erano rimasti presenti durante gli anni tragici in Algeria per tenere viva una flebile fiammella di speranza e di umanità. E per testimoniare fino alla fine la loro amicizia anzitutto con Gesù e quindi con la gente che viveva loro accanto.

Non erano però i soli in quel frangente a dare una vivida testimonianza di fede cristiana.

No, tra i martiri algerini di quegli anni ci sono anche sei religiose, sicuramente meno conosciute dei monaci di Tibhirine. C’erano sorelle che si dedicavano all’educazione delle ragazze con un centro di ricamo in una zona povera di Algeri, altre impegnate nel campo delle cure ai bambini disabili e altre ancora venivano incontro ai bisogni delle famiglie. Erano persone molto semplici che hanno vissuto nella quotidianità un rapporto con l’altro, l’altro musulmano, per tessere un dialogo che non era solo dialogo teologico, ma dialogo della vita, e così facendo, ci hanno dimostrano che vivere insieme, pur praticando fedi diverse, è una meta possibile.

Per questo erano amati anche dai musulmani. Come visse la comunità algerina la loro beatificazione?

Sicuramente erano costruttori di pace, persone che hanno avuto il coraggio e anche il desiderio di rimanere accanto al popolo algerino proprio quando questi attraversava una violenta tragedia. La beatificazione che si è tenuta ad Orano in Algeria, l’anno scorso, fu un evento unico nella storia della Chiesa sia per la Chiesa Universale che per quella algerina.

Questo evento dice molto della memoria ancora oggi ben viva di voi martiri d’Algeria.

Teniamo conto che circa il 65% della popolazione odierna algerina non era nato negli anni Novanta, però la loro storia è conosciuta. Per esempio, ad Orano dove io sono stato vescovo per 15 anni, è ancora molto forte la traccia che ho lasciato in città, perché cercavo di entrare in dialogo non solo con i cristiani, ma con tutti, con il mondo della cultura, dell’educazione, con i politici e con loro ho intrecciato legami di amicizia fortissimi.

E poi va detto che i monaci di Tibhirine erano una significativa presenza di dialogo, anche se vissuto in maniera silenziosa nelle montagne dell’Atlante algerino.

Oggi il loro monastero è diventato meta di pellegrinaggio per centinaia di persone e – cosa particolarmente significativa da segnalare – il 95% dei pellegrini che va a visitare il convento è musulmano.

La testimonianza di voi martiri dei nostri tempi fu e resta una provocazione alla società algerina e alla Chiesa Universale.

Oggi si vive in un clima di individualismo sfrenato che porta a mettersi sempre in mostra e a cercare innanzitutto il riconoscimento di se stessi nel rapporto con l’altro. I martiri, invece, provocano le coscienze proprio per la gratuità del servizio che prestavano dando interamente la loro vita agli altri, come un dono, coscienti dei rischi che correvano.

E se interrogano tutti con la loro morte, lo fanno ancora di più con il perdono che hanno donato.

Come si può perdonare qualcuno che ti vuole morto?

Il testamento di Christian de Chergé, superiore della comunità dei monaci di Tibhirine, è una pagina oggi molto sentita, uno dei testi più belli, densi e importanti della spiritualità del XX secolo. E in questo testo egli dà il perdono a chi lo avrebbe ucciso. Questi martiri hanno scelto di condividere fino alla morte la sorte del popolo algerino.

Nella vostra scelta di rimanere c’era anche la volontà di vivere il perdono nei confronti di chi vi avrebbe uccisi.

Siamo spesso chiamati testimoni della speranza, perché in mezzo a una guerra fratricida e a un mare di sangue che travolse l’Algeria, siamo stati una piccola fiamma di speranza, la speranza di una umanità migliore e di un futuro più giusto e fraterno.

 

Centocinquantamila morti ammazzati tra il 1992 e il 2001. L’Algeria, stretta nella morsa di una guerra civile tra islamisti ed esercito, ha visto cadere anche 19 religiosi cattolici, suore, consacrati, monaci, un vescovo. Vite innocenti stroncate dalla furia omicida che bollava umili religiose e uomini di preghiera con l’epiteto di «crociati». Niente di più falso: la vicenda della chiesa in Algeria è una delle pagine più evangeliche del Novecento. Una presenza semplice, spoglia, libera e fedele a Cristo, soprattutto durante il dramma del terrorismo islamista. Papa Francesco ha riconosciuto il martirio di questi «oscuri testimoni della speranza» elevandoli agli altari. Uomini e donne che, mentre intorno a loro migliaia di persone venivano massacrate, non sono fuggiti né si sono messi in salvo, ma hanno deciso di restare a fianco dei propri fratelli e sorelle a costo della vita. In questa scelta di libertà, raccontata anche nel celebre film «Uomini di Dio», si staglia la grandezza di questi religiosi, che avevano già donato la vita nel quotidiano. E perciò hanno accettato serenamente il rischio di una fine violenta, come testimonia il testamento spirituale di Christian de Chergé, superiore della comunità di Tibhirine. Questa stupefacente storia di fede e umanità continua a parlarci e a interrogarci ancora oggi con la forza inesauribile dei martiri di ogni epoca.

Mario Bandera


Per un approfondimento vedi


I martiri d’Algeria

L’8 maggio del 1994, nella biblioteca della diocesi di Algeri, nella casbah, vengono assassinati fratel Henri Vergès, fratello Marista, e suor Paul-Hélène Saint-Raymond delle Piccole Sorelle dell’Assunzione. Nel quartiere di Bab el-Oued, ad Algeri, suor Caridad Álvarez Martín e suor Ester Paniagua, agostiniane missionarie, spagnole, si stanno recando a messa quando sono uccise il 23 ottobre 1994.

Il 27 dicembre dello stesso anno a Tizi Ouzou, nella Cabilia, nella piccola comunità di Missionari d’Africa (meglio conosciuti come «Padri Bianchi») irrompe un gruppo di uomini armati. Immersi nelle loro attività quotidiane, muoiono i francesi padre Jean Chevillard, padre Alain Dieulangard, padre Christian Chessel e il belga padre Charles Deckers.

Stanno rientrando dopo essere state a messa suor Bibiane Leclerq e suor Angèle-Marie Littlejohn, missionarie di Nostra Signora degli Apostoli, quando il 3 settembre 1995, ad Algeri, vengono trucidate.

Poco più di due mesi dopo, il 10 novembre, ad Algeri, un terrorista spara a suor Odette Prévost, piccola sorella del Sacro Cuore.

Rapiti la notte del 26 marzo 1996 nel loro monastero di Notre Dame de l’Atlas a Tibhirine, a una sessantina di km da Algeri, il 25 maggio, dopo due mesi di ricerche, vengono ritrovate solo le loro teste nei pressi di Medea. Sono: fratel Paul Favre-Miville, fratel Luc Dochier, p. Christophe Lebreton, fratel Michel Fleury, p. Bruno Lemarchand, p. Célestin Ringeard e p. Christian de Chergé. Vengono sepolti nel cimitero del loro monastero il 4 giugno.

L’ultimo dei martiri cristiani in Algeria è il vescovo di Orano mons. Pierre Claverie, religioso domenicano. Viene ucciso il 1° agosto 1996 da un’autobomba, insieme al suo autista e amico musulmano Mohammed Bouchikhi, davanti alla Curia della diocesi.

(adattato da www.vaticannews.va)

 




I Perdenti 46. Santa Tecla, isoapostola e protomartire

testo di Don Mario Bandera


Santa Tecla sin dall’antichità viene considerata la protomartire delle donne cristiane, il corrispettivo femminile di santo Stefano. La sua storia è giunta sino a noi attraverso antichi manoscritti come gli «Atti di Paolo e Tecla», il «Martirio della santa e isoapostola Tecla protomartire delle donne», la «Passione di santa Tecla vergine», e altri. Questi antichi codici riportano, seppur con qualche variante, testi e tradizioni antecedenti all’anno 200 d.C., secondo le quali Tecla fu una giovane di Iconio, città oggi conosciuta come Konya in Anatolia (Turchia), vissuta tra l’anno 30 e il 120 d.C. La sua città fu evangelizzata da Paolo nel suo primo viaggio. Tecla divenne discepola dell’apostolo dopo averlo sentito predicare sullo sconvolgente mistero della resurrezione di Cristo e la vita nuova del cristiano.

L’incontro con Gesù le cambiò completamente la vita esponendola all’odio dei potenti e anche della sua famiglia. Da quel momento il suo cammino di fede come «sposa di Cristo» non fu facile.

La tua vita ha affascinato le prime comunità cristiane dell’Asia Minore, tanto che sono
fiorite tante memorie in tuo onore.

Sono riconoscente a tutti coloro che nel terzo e quarto secolo redassero gli antichi testi che, basandosi su un testo antecedente all’anno 200 d.C., raccontano che fui una cristiana di Iconio (in Asia minore), una vergine al tempo della venuta dell’apostolo Paolo nella mia città. Quei codici mi hanno dato quattro titoli molto impegnativi: santa, isoapostola, martire e vergine. Santa, sai cosa significa. Isoapostola vuole dire «pari agli apostoli», un titolo che, a ragione, avevano già dato a Maria Maddalena, che è stata la prima testimone della risurrezione di Gesù. Questo forse perché poi sono diventata discepola di Paolo e l’ho accompagnato nei suoi viaggi. Poi ci sono i due titoli «vergine e martire». Sono due titoli importanti per me. Come sai, il primo significato di «vergine» è che ero una ragazza da sposare di circa 15-16 anni, ma poi è diventato molto di più. «Martire» vuol dire che sono stata una testimone di Gesù uccisa violentemente. In realtà tante volte hanno cercato di uccidermi, senza riuscirci, e ho vissuto fino a oltre 90 anni.

Andiamo con ordine. Se non sbaglio la tua città ricevette l’annuncio del Vangelo dallo stesso San Paolo.

Proprio così! Venne da noi durante il suo primo viaggio. Ho avuto occasione di ascoltarlo quasi per caso. Paolo era stato accolto a Iconio da Onesiforo, un nostro vicino di casa. Lì si erano radunati un po’ di amici e Paolo aveva parlato a lungo di Gesù, della sua risurrezione e della vita nuova del cristiano. Aveva anche sottolineato che accettare Gesù significava essere come una sposa casta che vive solo per il suo sposo. Io, incuriosita, lo ascoltavo dalla finestra di casa mia ed ero rimasta affascinata da quei discorsi che presentavano un modo di amare così diverso da quello a cui eravamo abituati.

Cioè?

Immagina la bellezza di donarsi a qualcuno solo per amore e in piena libertà. Tutto il contrario di quello che noi vivevamo: per noi ragazze il matrimonio era combinato dalle famiglie, senza tener conto dei nostri sentimenti. Eravamo quasi un oggetto che serviva a rafforzare i rapporti e gli affari. In più, una volta sposate, avevamo il dovere di fare figli, possibilmente maschi, perché un giorno potessero servire nell’esercito dell’imperatore. Rifiutarsi di sposarsi, come poi feci io, e scegliere una vita di castità era considerato disobbedienza civile, un reato di lesa maestà.

Anche tu eri già promessa sposa?

Sì, e il mio fidanzato Tamiri e la sua famiglia non presero bene il mio «innamoramento» per il Cristo di Paolo. Andarono dal governatore della città e accusarono Paolo di avermi plagiata e di aver interferito negli affari di famiglia. Per questo Paolo fu fustigato.

La tua famiglia ti sostenne nelle tue scelte?

Tutt’altro. Anzi, mia madre prese le parti della famiglia di Tamiri che si sentiva offesa nel suo onore e minacciata nei suoi interessi dal mio rifiuto di sposarlo. Si lasciò addirittura convincere da Teoclia, la mamma di lui, ad andare dal governatore perché mi desse una punizione esemplare che servisse da deterrente a qualsiasi ragazza con idee strane in testa. E il governatore decise che dovevo essere bruciata sul rogo, quasi come un sacrificio riparatore agli dei.

Condannata al rogo?

Proprio così. Il rogo fu preparato in piazza davanti a tutti, ma venne un’improvvisa tempesta che spense il fuoco. La gente si spaventò davanti a quello che ritenevano un segno dal cielo e io fui liberata. Così tornai da Paolo chiedendo di essere battezzata. Ma l’apostolo temporeggiò, probabilmente perché non voleva che decidessi per l’emozione degli ultimi avvenimenti.

Tornasti allora a casa tua?

Non proprio. Paolo mi invitò ad accompagnarlo nei suoi viaggi e a pazientare per fare insieme un percorso di catechesi allo scopo di conoscere e approfondire il Vangelo di Gesù. Colsi così la palla al balzo, diventando sua discepola.

Quali itinerari hai percorso con l’apostolo delle genti?

Dopo essere stato a Listra e a Derbe, Paolo doveva tornare ad Antiochia di Pisidia, da dove era venuto e dove c’era già una comunità cristiana. Andai con lui e rimasi in quella comunità.

La mia bellezza fu notata da un ricco notabile che si invaghì di me. Forte della sua posizione nella città pensò di potermi avere senza grandi difficoltà e cercò a più riprese di abbracciarmi nella pubblica piazza. Ma io rifiutai con fermezza le sue avances e, reagendo ai suoi abbracci, gli strappai di dosso il mantello di fronte a tutti. Quel bel mantello che era il segno della sua alta posizione sociale, mettendolo così in ridicolo. Lui un potente, rifiutato da una giovane sconosciuta come me.

Però lui non si diede per vinto…

Per niente! L’umiliazione pubblica aveva ferito il suo orgoglio. Alessandro, questo era il nome dell’uomo, si diede molto da fare, brigando e intrallazzando con tutti i poteri forti della città, con cui ovviamente era legato. La sua parola contro la mia. Convinse il governatore a farmi dare una punizione esemplare: essere divorata dalle belve nei giochi del circo della città. Non poteva permettere che una giovinetta forestiera mettesse in ridicolo il suo prestigio.

Però non tutti erano d’accordo con lui.

Molte donne di Antiochia protestarono contro la sentenza. La più attiva di tutte fu una ricca vedova, Trifena, che aveva appena finito di piangere la morte di sua figlia che era più o meno della mia età. Aveva avuto anche un sogno nel quale la figlia le chiedeva di accogliermi nella sua casa perché potessi pregare per lei e aiutarla a entrare in cielo. Così rimasi nella sua casa tutti i giorni precedenti all’esecuzione e lei ottenne da Alessandro di potermi stare accanto fino all’ultimo. Nella pace di quella casa mi preparai a morire per unirmi al mio sposo Gesù.

Sei poi stata sbranata dalle belve?

Mi spogliarono completamente e mi misero nell’arena. Dovevo essere l’esca per lo spettacolo delle belve, ma le belve si fecero beffe degli uomini. Una leonessa mi si avvicinò e mi leccò i piedi, difendendomi poi dagli altri animali, così io mi sedetti sulla sua groppa. Le belve si rifiutarono di uccidermi, mentre dagli spalti molte donne, insieme a Trifena, continuavano a protestare per la mia ingiusta condanna.

In quel momento sentii la mano di Dio su di me. Capii che era venuto il momento del mio battesimo. C’era lì una grande vasca con dentro delle grandi foche grigie, molto feroci. Mi ci buttai pronunciando la formula del battesimo. Morire per risorgere con Cristo. Ma anche le foche non mi fecero nulla perché un fulmine improvviso le stordì.

I presenti interpretarono quel fatto straordinario come un segno degli dei. Anzi, il governatore, sconvolto e allo stesso tempo ammirato dalla mia forza d’animo e dall’evento straordinario a cui aveva assistito, mi fece rivestire con vesti nuove e mi fece liberare.

Rivedesti ancora Paolo?

Una volta libera e ormai cristiana battezzata in tutto e per tutto, andai da Paolo nella città di Myra. Per prudenza mi vestii da uomo e mi feci accompagnare da alcuni giovani cristiani. Rimasi con lui per un po’, ma poi Paolo stesso mi invitò a tornare alla mia città per annunciarvi la buona notizia di Gesù. Così tornai a Iconio dove rividi anche mia madre che ormai aveva accettato la mia nuova vita.

Oggi si pensa che santa Tecla non sia mai esistita. Verosimilmente le storie narrate su di lei negli antichi testi sintetizzano in una persona simbolica le vite di martirio e santità di diverse giovani cristiane che hanno avuto la loro vita completamente cambiata dall’incontro con Cristo e hanno avuto il coraggio di andare contro la mentalità dominante. Molte sono le ragazze cristiane che nei secoli hanno pagato con il martirio la loro verginità donata a Cristo.

Sopravvissuta al rogo e alle belve, che ne è stato poi di lei? I manoscritti presentano finali leggermente diversi. La versione più nota racconta che Tecla si ritirò in eremitaggio in una grotta, dove aveva radunato altre donne che condividevano la sua vita. Chi era malato fisicamente o spiritualmente, avvicinandosi a quel luogo, veniva guarito. Per questo i medici della regione avevano cominciato a odiarla, avendo perso i loro clienti. Però la temevano anche, perché pensavano fosse sotto la protezione della dea Artemide, la dea cacciatrice protettrice delle vergini. Così un giorno, Tecla era già novantenne, mandarono degli uomini per farle violenza, ma ancora una volta la santa sfuggì per intervento divino, scomparendo nella roccia della grotta.

Santuari in suo onore sono sorti in tutto il mondo antico. Dipinti, statue, lapidi e affreschi sono sparsi un po’ ovunque, specie in Spagna e Germania. Tutti raffigurano momenti e simboli del suo leggendario martirio. La si vede quasi sempre con un leone al suo fianco, o vicina a una colonna con il fuoco alla base a memoria del rogo.

Santa Tecla è la patrona dei malati di cancro alle ossa.

Don Mario Bandera




I Perdenti 45. Il comandante José Gervasio Artigas

Testo di don Mario Bandera


José Gervasio Artigas nacque a Montevideo in Uruguay il 19 giugno del 1764, a quel tempo territorio giuridicamente soggetto al Vice Reame spagnolo del Perù, e concluse la sua esistenza terrena a Quinta Ybyray località nei pressi di Asunción del Paraguay, il 23 settembre del 1850.

Fu un militare rioplatense e uno dei più importanti statisti nelle lotte per l’indipendenza dei paesi che si affacciano sul Rio de la Plata. In Uruguay è considerato il padre della patria, così come in Argentina è ricordato con stima e affetto per il contributo dato a quella nazione nella lotta per staccarsi dalla Spagna.

I suoi contemporanei lo onorarono con il prestigioso appellativo di «Protettore dei popoli liberi».

La sua formazione culturale e spirituale la ricevette presso il convento dei francescani di Montevideo. In gioventù fu tra i membri fondatori del corpo dei Blandengues, milizia armata che aveva il compito di difendere Montevideo. Successivamente, per non essere obbligato ad accettare la tutela spagnola sulla sua città, abbandonò con 1.500 famiglie (circa 16 mila persone) il territorio dell’Uruguay rifugiandosi nel Nord dell’Argentina, realizzando così un esodo impressionate che colpì l’opinione pubblica del tempo, sia in America Latina come in Europa.

Nel 1815 riprese la lotta per sottrarre la sua terra ai tentativi di annessione portati avanti questa volta da una coalizione militare tra portoghesi e brasiliani. Purtroppo, dopo diversi tentativi, i loro sforzi ebbero successo e nel 1820 in una battaglia campale le truppe fedeli ad Artigas vennero sconfitte, e lui, come Comandante Generale venne esiliato in Paraguay. Nel 1856 – a titolo postumo – il governo uruguayano lo dichiarò «Fundador de la nacionalidad uruguaya oriental».

Monumento a José Gervasio Artigas en el bosque, ciudad de La Plata.

Comandante Artigas se non sbaglio la tua famiglia era una delle più rinomate della città.
I tuoi avi furono tra i primi coloni europei a insediarsi in forma stabile a Montevideo.

Non ti sbagli affatto, la mia gente era emigrata dalla penisola iberica con il proposito di acquistare e coltivare la terra nel continente americano visto che in Spagna ciò era abbastanza difficile. In Uruguay i miei avi trovarono le condizioni favorevoli per realizzare i loro desideri, ciò che a loro stava a cuore.

E con il passare degli anni la tua famiglia andò conquistando rispetto e autorevolezza tra la popolazione autoctona.

Mio padre come colono desideroso di acquisire terreni fertili (purtroppo tutti da dissodare, bonificare e coltivare) si mise subito all’opera, coadiuvato in questo da tutta la nostra famiglia, anche dai miei nonni, dando così una testimonianza di gente volenterosa e caparbia, con tanta voglia di lavorare.

Tu però preferivi svolgere altre mansioni.

Osservando i gauchos, i mandriani delle praterie che a cavallo riuscivano a dominare mandrie bovine ed ovine molto consistenti, incominciai anch’io a domare cavalli, a usare il lazo e le bolas e, inevitabilmente, le armi.

Iniziasti così una nuova attività che ti realizzava pienamente sul piano umano e sociale.

Cavalcare per la pampa, scambiare bestiame con altri proprietari terrieri, comprare dei puledri per poi passare la frontiera e venderli in Brasile, dove erano molto richiesti, era per me e per i miei compagni motivo di orgoglio e soddisfazione oltre che fonte non indifferente di guadagno.

In quel periodo venisti a contatto con i Blandengues, volontari creoli che sopraintendevano il mercato del bestiame e tramite loro avesti contatti con la tribù dei Charruas, l’etnia indigena che occupava da tempo immemorabile la sponda orientale del Rio de la Plata.

Grazie a loro andai a vivere per un certo tempo in un villaggio charrua dove negli anni trovai una compagna che mi diede anche un figlio che chiamai Manuel, anche se nella tribù tutti lo chiamavano Caciquillo.

Nel 1797, approfittando di una amnistia generale emessa dal Re di Spagna per coloro che nelle colonie non si erano macchiati di delitti di sangue, entrasti a far parte del corpo dei Blandengues.

Subito mi spedirono insieme ad altri compagni a sorvegliare e controllare la vasta frontiera con il Brasile.

Lì incontrasti una persona che ebbe un’influenza significativa sulla tua vita.

In quella terra di confine incontrai un afro-montevideano che era stato catturato dai portoghesi e ridotto in schiavitù. Ebbi pena per quel giovane e decisi di comprarlo per ridargli la libertà.

Da allora Joaquin Lenzina, più noto come el negro Ansina, grato per averlo tirato fuori dalla schiavitù, mi accompagnò per il resto della vita, diventando il mio miglior amico e nell’esilio paraguaiano biografo ufficiale della mia esistenza.

Intanto che voi in America Latina eravate impegnati nelle vostre faccende, Napoleone Bonaparte in Europa conquistava una nazione dietro l’altra, tra cui la Spagna, facendo inoltre prigioniero Re Ferdinando VII.

Quando si venne a conoscenza dei fatti che trasformavano radicalmente la situazione sociale e politica in Europa, le colonie iberiche, non avendo più una Corona Reale a cui far riferimento, si sentirono svincolate dalla sottomissione alla monarchia spagnola e i vari movimenti indipendentisti – sull’esempio degli Stati Uniti d’America – costituitesi nelle varie capitali latinoamericane promuovevano e alimentavano l’idea che era giunta anche per loro il momento tanto atteso dell’indipendenza.

Purtroppo le truppe spagnole di stanza nei paesi dell’America Latina, la vedevano in altro modo. Essi dicevano: «Adesso il nostro Re è prigioniero di Napoleone, ma quando sarà rilasciato tutto dovrà tornare come prima».

Ovviamente le popolazioni delle nascenti nazioni latinoamericane non accettavano questo modo di procedere per cui inevitabilmente sorsero dei conflitti tra le truppe spagnole e i patrioti dei diversi paesi dell’America del Sud.

Tu, intravedendo il caos che sarebbe sorto dopo la sconfitta della Spagna tra le diverse città desiderose di avere un ruolo da protagonista nella storia latinoamericana, elaborasti l’idea federalista come collante per tenere insieme le varie province latinoamericane.

La mia idea di federalismo era molto semplice: un governo centrale forte a cui doveva essere affidata la gestione economico finanziaria per ogni paese, nonché la difesa del territorio di fronte a un attacco esterno. Per il resto ogni realtà locale (Perù, Venezuela, Argentina, ecc.) potevano imbastire la loro vita sociale e politica secondo il volere dei propri cittadini.

Tutto ciò non fu possibile realizzarlo a causa dell’opposizione, neanche tanto nascosta, che fece la potenza imperiale di allora, cioè l’Inghilterra, che piano piano andava sostituendosi alla Spagna sulla scena internazionale.

Infatti una delle conseguenze di questa nuova fase fu il mio esilio in Paraguay voluto sia dalla Spagna che dall’Inghilterra. Con il mio fedele amico e servitore Ansina, fui confinato in una località vicina ad Asunciòn, in una forma che possiamo paragonare agli arresti domiciliari, in quella situazione passai oltre trent’anni.

Ma intanto le mie idee facevano sempre più presa tra le varie popolazioni sudamericane fino a diventare patrimonio culturale e universale di tutte le nazioni che allora premevano per trovare il loro posto sul nuovo scenario internazionale.

Nel 1814 organizzasti a Buenos Aires la Unión de los Pueblos Libres (Unione dei popoli liberi). Durante quella assemblea tutti i delegati presenti all’unanimità ti onorarono con il titolo di Protettore dei popoli liberi. Un bel riconoscimento per le tue idee e per il tuo modo di conquistare le nuove nazionalità ai principi che propugnavi da sempre di uguaglianza e di libertà.

Fu un momento molto gratificante per me in quanto stava a significare che tutta la mia vita era stata spesa per la libertà delle colonie spagnole che si affacciavano sul Rio de la Plata, per la dignità dei popoli indigeni e per l’uguaglianza di tutti gli emigranti che cominciavano a riversarsi in Uruguay e nelle province argentine.

Però le nuove autorità che si erano sostituite ai vecchi padroni spagnoli, pur dichiarandoti personaggio prestigioso ed eroe nazionale di tutta la storia latinoamericana, strinsero un accordo per mantenerti confinato ad Asunciòn nel Paraguay, impedendoti così di avere un ruolo di dirigente politico nella nuova società che tu avevi così generosamente aiutato a nascere e svilupparsi.

Ho sempre cercato di realizzare fino in fondo il compito che la Provvidenza mi aveva affidato, per cui anche il mio esilio forzato in Paraguay l’ho vissuto come parte importante della mia vita.

E per come si sono evolute le cose nei paesi latinoamericani, dove nonostante tutto è rimasta traccia del mio disegno federalista, penso che tutta la mia azione abbia inciso in maniera positiva sullo sviluppo successivo di quelle nazioni.

Confinato nella remota e inospitale Villa di San Isidro Labrador Curuguaty, visse gli ultimi anni della sua vita coltivando la terra. Fu in questa città che Artigas, nel 1825, sposò Clara Gómez Alonso, sua compagna fino alla morte. Da questa unione nacque nel 1827 Juan Simeón, l’ultimo della sua numerosa prole, che divenne tenente colonnello in Paraguay e confidente del maresciallo Francisco Solano López.

Artigas seppe conquistarsi la fiducia degli indios guaraní, che nella loro lingua lo chiamavano Caraì Marangatù (padre dei poveri). Dopo trent’anni di esilio in Paraguay, morì a 86 anni. Il 23 settembre 1855, i suoi resti mortali furono rimpatriati in Uruguay con una solenne cerimonia, e furono collocati in Plaza Indipendencia a Montevideo, in un imponente mausoleo meta ancora oggi di numerosi visitatori.

Don Mario Bandera




I Perdenti 44. Rosario Livatino, il «giudice ragazzino»

Testo di Don Mario Bandera


La mattina del 21 settembre 1990 il giudice Rosario Livatino venne ucciso lungo la strada statale 640 che da Agrigento porta a Caltanissetta. La sua auto venne speronata e spinta fuori strada. Il giovane giudice, già ferito a una spalla, tentò la fuga correndo per i campi, ma venne raggiunto e poi ucciso con un colpo di pistola in pieno viso.

Livatino aveva solo 38 anni, era nato a Canicattì il 3 ottobre 1952. Durante gli anni del liceo e poi dell’università era stato uno studente brillante, negli studi aveva seguito le orme del padre Vincenzo. Si era laureato con lode all’età di 22 anni, giovanissimo, presso la facoltà di Giurisprudenza all’università di Palermo. Poco tempo dopo vinse il concorso indetto dalla magistratura, pertanto divenne giudice a latere presso il tribunale di Agrigento.

Alcuni mesi dopo la morte del giovane giudice, l’allora presidente della Repubblica Francesco Cossiga definì «giudici ragazzini» una serie di giovani magistrati impegnati nella lotta alla mafia. Anni dopo, in una lettera alla famiglia, Cossiga provò a circostanziare quelle affermazioni, scrivendo che non intendeva riferirsi a Livatino, che descrisse come «eroe» e «santo». Papa Giovanni Paolo II lo definì «martire della giustizia e, indirettamente, della fede».

La sua esecuzione fu un’azione coordinata da un commando formato da quattro malviventi ventenni appartenenti alla cosiddetta «Stidda», ovvero l’associazione mafiosa che, secondo i magistrati, si contrapponeva a Cosa Nostra.

Il giudice Livatino fu ucciso perché «perseguiva le cosche mafiose impedendone l’attività criminale, laddove si sarebbero aspettate dalle istituzioni un trattamento più “morbido”, cioè una gestione giudiziaria se non compiacente, almeno debole, (atteggiamento) che ha consentito in molti casi la proliferazione, il rafforzamento e l’espansione della mafia».

Così è scritto nella sentenza che ha condannato i suoi assassini. Dell’omicidio del giudice, furono individuati dalle forze dell’ordine gli esecutori e i mandanti e condannati all’ergastolo. Il processo di beatificazione avviato dalla diocesi di Agrigento è stato aperto ufficialmente il 21 settembre 2011, nel 21° anniversario della sua morte.

Caro giudice Livatino, di fronte alla testimonianza di vita che tu hai offerto attraverso il tuo percorso umano e professionale esemplare, c’è da rimanere ammirati e stupiti.

Io mi muovevo sostenuto da alcuni principi fondamentali, acquisiti soprattutto nella mia famiglia, che stavano alla base del mio impegno in magistratura. Ero convinto che «rendere giustizia è preghiera» e che «per giudicare occorre la luce, e nessun uomo è luce assoluta».

Per te era chiaro che l’indipendenza del giudice stava sia in una coscienza rettamente formata che nella fedele interpretazione della legge.

Avevo ben chiaro che la funzione di un giudice doveva avere come base una cristallina libertà morale, una ferrea fedeltà ai principi della Costituzione, una grande capacità di sacrificio, buona conoscenza dell’immenso patrimonio legislativo, chiarezza e linearità nelle decisioni da prendere, oltre a un’autentica trasparenza di condotta anche fuori delle aule giudiziarie.

Vedevi la funzione del giudice quasi in ottica «francescana».

Soprattutto avevo ben chiaro che assumendo una funzione così importante nella vita pubblica e sociale dovevo rinunciare a ogni desiderio di incarichi e prebende. Specie in un settore che, per sua natura o per le sue implicazioni, può produrre il germe della contaminazione e il pericolo dell’interferenza. In fondo è nella sua indipendenza e onestà che un giudice guadagna la sua credibilità, che deve conquistare nel travaglio delle sue decisioni e in ogni momento della sua attività.

È risaputo che non facevi nulla per nascondere la tua fede religiosa. Il tuo essere cristiano cattolico, coerente e praticante, era visto come testimonianza di una persona che non aveva paura di mostrare in pubblico quello che era il tesoro prezioso che portava in cuore.

Il dono della fede che mi portavo in cuore mi aiutava a leggere la realtà con occhi diversi. Questo anche nella prassi quotidiana dove non mi accontentavo di risposte tradizionali o superficiali ai grandi problemi che la mia professione continuamente mi poneva davanti, ma cercavo incessantemente il senso sia dell’esistenza che dei valori insiti nella persona umana.

Non si spiegherebbe altrimenti la tua decisione di ricevere il sacramento della Confermazione nel 1988, a ben 36 anni.

Per compiere l’itinerario di preparazione al sacramento scelsi di inserirmi in un gruppo di ragazzi – futuri cresimandi – per ascoltare in assoluto anonimato, tutte le settimane, il catechismo che veniva dato per coloro che avrebbero ricevuto durante l’anno la Cresima.

In fondo non ti sei mai sentito un cristiano arrivato. Vivevi una continua ricerca di assoluto, eri un cristiano che voleva spingersi sempre
oltre, andare al di là dei confini spirituali, considerati «tranquillizzanti» per dei credenti «normali».

Il mio essere cristiano cattolico me lo sono conquistato pezzo per pezzo, perché a mano a mano che proseguivo la mia ricerca, mi rendevo conto che cattolici cristiani si diventa, non si nasce. L’essenza dell’esperienza di fede, che è conquista, lotta e cammino, può diventare un formidabile programma di vita per un vero credente.

Come magistrato hai dovuto prendere decisioni che influivano in maniera decisiva sulla vita delle persone che eri chiamato a giudicare, come ti orientavi in queste circostanze?

Decidere è scegliere e, a volte, scegliere tenendo presente le numerose strade o soluzioni che hai davanti. Scegliere è una delle cose più difficili che l’uomo sia chiamato a fare. Ed è proprio in questo scegliere per decidere che il magistrato credente può trovare un rapporto con Dio. Un rapporto diretto, perché il rendere giustizia è realizzazione di sé, è preghiera, è dedizione totale a Dio. Un rapporto indiretto con la trascendenza per il tramite dell’amore verso la persona giudicata.

«Amore per la persona giudicata», sono parole tue. Sono parole da leggere e rileggere, da pesare in tutta la loro dirompente forza rivoluzionaria.

L’unica forma di vero autentico amore possibile è quella cristiana, l’unica che rovescia i ruoli, come quello di chi giudica, e quindi ha il potere, e di chi deve essere giudicato. Il punto di vista da cui si guardano le cose e gli avvenimenti della cronaca quotidiana è, per un cristiano, quello da cui le guarda Dio. Quello di un padre, appunto, che tutto ha fatto e tutto ama.

In questa affermazione possiamo riscontrare il tuo rifiuto di avere una scorta fissa al tuo fianco nonostante le numerose minacce che ti erano arrivate dagli ambienti mafiosi?

Non mi sentivo per niente un eroe, facevo semplicemente il mio dovere. E lo facevo coniugando le ragioni della giustizia con quelle della fede cristiana. Il mio senso del dovere, messo al servizio della giustizia faceva di me una specie di missionario: il «missionario» del diritto, così mi chiamavano alcuni colleghi. Allo stesso tempo, per la profonda conoscenza che avevo del fenomeno mafioso e per la capacità di ricreare trame, di stabilire importanti nessi all’interno della complessa macchina investigativa, con il passare del tempo mi venivano affidate delle inchieste molto delicate.

Determinato a contrastare il fenomeno mafioso nella tua terra, firmavi sentenze su sentenze contro gli uomini di Cosa Nostra, in questo modo entravi sempre più nel loro mirino.

Sapevo molto bene i rischi che correvo, ma considerando che ero l’unico tra i sostituti procuratori di Agrigento a non avere famiglia, chiesi che mi fosse affidata una difficile inchiesta di mafia e con fiducia totale mi affidai – come sempre – nelle mani di Dio.

Il giudice Livatino nell’aula delle udienze aveva voluto un crocefisso, come richiamo di carità e rettitudine. Inoltre teneva un crocefisso anche sul suo tavolo, insieme a una copia del Vangelo, tutto annotato: segno che doveva frequentarlo piuttosto spesso, almeno quanto i codici, strumenti quotidiani del suo lavoro. Su ogni pagina della sua agenda, in alto, in un angolino scriveva «std» che stava a significare «sub tutela Dei» affidando così ogni giorno della sua vita alla protezione di Dio.

Il suo sincero senso del dovere messo al servizio della giustizia ne fa una specie di missionario: il «missionario del diritto».

Il giorno in cui fu ucciso il giudice era da solo, aveva rifiutato la scorta proprio perché voleva proteggere altre vite, e viaggiava a bordo della sua Ford Fiesta rossa. Stava andando al lavoro, al tribunale di Agrigento, quando fu affiancato dall’auto e dalla moto dei suoi assassini.

Rosario Livatino è diventato per tutti gli italiani un «faro ed esempio da seguire» per aver «scoperto e indagato sugli intrecci tra mafia, politica e imprenditoria». In uno dei suoi appunti aveva scritto: «Quando moriremo, nessuno ci verrà a chiedere quanto siamo stati credenti, ma credibili».

Don Mario Bandera




Cari missionari, lettere a MC


Messaggi alienanti?

Gent. direttore
riportare su una rivista missionaria ciò che il sito Raiawadunia, curato dal comunista Montanaro (che ho letto anch’io), gestito da gente che non ha mai fatto niente per gli internati veri dei gulag sovietici, non quelli fasulli girati da blogger nigeriani guarda caso, è alienante. Se fosse vero che Scaroni ha dato tanti milioni per sondare l’esplorazione di greggio in Nigeria, perché il governo non li ha impiegati per far lavorare i maschi nigeriani? In fondo gli africani reclamano tasse per far usare il loro territorio alle multinazionali e questa non è una tassa? Uno stato è libero di chiamare chi vuole o lo devono fare solo le multinazionali americane e olandesi? Che il franco Cfa sia una convenzione vecchia lo sapevano solo gli addetti ai lavori e non le brave persone del parlamento europeo che hanno sfruttato e sfruttano l’Africa senza pagare nulla vedi Belgio nel Congo, ecc. Che questo giornale riduca la sua missione a scagliarsi contro questo governo lo trovo per nulla cristiano. Ogni stato ha diritto di accogliere chi vuole, inoltre con tutto il denaro che viene dato ai governi africani e le ricchezze del loro territorio, dovrebbero essere gli europei ad andare in Africa e non viceversa. L’Italia ha sempre avuto una sola grande ricchezza: la volontà di lavorare. E non dimentichiamo che il cristianesimo ha fondato l’Europa diventata lurida per colpa di atei, protestanti, calvinisti e banche e di finti cattolici che cadono nelle trappole dei relativisti. Riguardate le visioni di Leone XIII e le parole di Pio IX. Saluti.

Emiliano Errico
20/03/2019

Caro sig. Emiliano,
questo direttore o qualche giornalista di MC a volte segnalano su MC(e sullla sua pagina FB) anche degli articoli di Raiawadunia perché trovano che sono ben fatti e documentati. Grazie di avermi dato l’occasione di approfondire chi è Silvestro Montanaro che non conoscevo. I gulag della Libia non sono frutto della fantasia di blogger nigeriani, ma realtà ben documentate da rapporti dell’Onu e aggravatesi ancor prima di questo governo dopo la sciagurata campagna euroamericana contro Gheddafi interessata più a mantenere i nostri privilegi che al bene di quella gente.

I soldi che le multinazionali (petrolifere e non) investono in Africa putroppo non vanno nelle casse di quei paesi, ma nelle tasche dei corrotti per poter portare via a prezzi irrisori le materie prime che interessano al nostro sistema industriale e produttivo. È grazie a questa corruzione che si mantengono dittatori e oligarchie che rimpinguano le proprie casse a spese della loro gente e chiudono gli occhi di fronte ad abusi come smaltimento di rifiuti tossici, estrazione del petrolio e altre risorse energetiche, del coltan e altri minerali strategici (vedi articolo a pag. 12) , disboscamento dissennato di foreste e land grabbing. Questo rende possibile il furto sistematico di risorse strategiche pagate all’Africa «noccioline» in confronto al loro reale valore di mercato. Un esempio: il coltan sul mercato vale almeno 100$ al chilo, mentre ai minatori vanno solo 18 centesimi.

Questa rivista non si scaglia contro il governo, che rispetta come istituzione legittima e necessaria della nostra nazione. L’essere critici di comportamenti, decisioni ed esternazioni di alcuni dei nostri governanti fa parte del nostro diritto di cittadini di questo paese che, grazie a Dio, non è una dittatura ma una democrazia.

Che poi un paese abbia il diritto e dovere di vegliare su chi entra e chi esce, non è in discussione. È anche vero però che un paese non è isolato e come tale accetta tradizioni, usanze e leggi di valore universale codificate da trattati e convenzioni internazionali che sono fatte per proteggere le persone, non per dividere il mondo in buoni e cattivi, amici e nemici.

Denaro dato ai governi africani. Questo riporta a quanto già detto sopra per le multinazionali. Le statistiche dicono impietosamente che quanto abbiamo preso e prendiamo
(italiani, europei, americani, russi e cinesi) dall’Africa è molto ma molto di più di quello che diamo come contributo allo sviluppo, che spesso è ben al di sotto dei parametri che noi stessi ci siamo dati (dovrebbe essere almeno lo 0,7% del Pil di ogni paese; l’Italia dà il 0,26%). Basterebbe che pagassimo all’Africa il prezzo giusto delle materie prime che là prediamo e non ci sarebbe bisogno di alcun aiuto. In realtà oggi è l’Africa che aiuta noi e ci permette di mantenere il nostro livello di vita, e non noi che aiutiamo l’Africa.

Italiani grandi lavoratori. Non metto in discussione questo mantra. Probabilmente è stata questa voglia di lavorare che ha portato milioni di italiani a emigrare nelle Americhe e nei paesi del Nord Europa. O forse sono state anche le guerre. Cinque milioni sono emigrati dal Sud Italia dopo la cosiddetta unificazione. Milioni sono partiti dopo la vittoria della prima guerra mondiale. Altri milioni dopo la seconda. Oggi se ne vanno a decine di migliaia a causa della crisi economica che attanaglia il paese.

Non entro nel merito delle cosiddette radici cristiane dell’Europa, ma dopo papa Leone XIII e papa Pio IX abbiamo avuto molti altri papi e perfino un Concilio ecumenico.

Forse anche leggere criticamente Raiawadunia (che in swahili vuol dire «cittadino del mondo») può aiutare a disintossicarci da un’informazione a senso unico che ci lava il cervello e non ci aiuta a pensare.


Qualche riflessione

Buongiorno padre Gigi,
MC di marzo, appena ricevuto, mi offre l’opportunità di alcune riflessioni, nonché l’invio di un paio di testimonianze raccolte nel mio lungo peregrinare per il mondo alla ricerca di usi, costumi, tradizioni diverse, ma soprattutto di nuovi contatti umani.

Rinnovi e cancellazioni. Condivido pienamente il suo consiglio al signore che preferisce destinare i suoi aiuti a una fra le più conosciute (forse la più conosciuta) e reclamizzate Onlus. Nessuno mette in dubbio quanto questa organizzazione e altre che occupano stabilmente larghi spazi pubblicitari, facciano in positivo. Ma quando le percentuali sotto la voce «spese di rappresentanza» superano a volte il 70% qualche dubbio resta. E quando, viste le mie ripetute esperienze in terre di missione, qualcuno mi chiede consigli, rispondo di controllare sempre i bilanci (normalmente pubblicati) prima di dare il proprio contributo. Le spese non destinate all’obbietivo principale non dovrebbero mai superare il 15-20%.

Migrazioni, Viaggio della speranza.

Ho raccolto la testimonianza che riporto sotto in pieno deserto del Niger nel gennaio 2000 (19 anni fa), quando Gheddafi era ancora saldamente in sella e il sogno di una vita migliore in Europa era già diffuso nei paesi del Nord Africa, mentre da noi se ne parlava pochissimo. Per i politici italiani ed europei era un fenomeno irrilevante destinato a scomparire nel giro di poco tempo viste le difficoltà.

Come sempre, «avevano visto giusto».

© Mario Betrami

«Arriviamo in Libia, faccio un po’ di soldi e poi… via in Italia». Mi guarda e sorride Mohamed. Nei suoi occhi l’entusiasmo di chi sta per aprire un importante capitolo della sua vita, lasciando alle spalle un mondo che gli ha dato la vita, ma che non gli sa offrire i mezzi per continuarla. Dice di avere 18 anni, ma ne dimostra 16. Con lui, una trentina di giovani; suoi coetanei o poco più. Nei pressi, un vecchio autocarro di fabbricazione libica. È il loro Concorde, il loro treno, il loro autobus di linea.

Mohamed è uno dei tanti che lasciano l’Africa per il «viaggio della speranza». Lui è di qui. È nigerino. Ma, sulla pista che da Agadez porta a Bilma e a Dirkou, ne abbiamo incrociati parecchi di questi autocarri, sempre stracarichi, con giovani provenienti da altri stati di questa zona africana. Paesi anche non confinanti direttamente col Niger. Autocarri che, come autotrasportatori, fanno regolarmente la spola con la Libia. Mezzi già carichi di merce, su cui trovano posto 20-30 persone. In equilibrio precario. Appollaiate a grappoli. Aggrappate alle corde che reggono la merce, per non essere sbalzate fuori ogni 10 metri dalle enormi buche. In quelle condizioni viaggiano giorni e giorni. Allegramente. Senza lamentarsi. Tutto è accettato con filosofia africana, che non significa necessariamente rasse-
gnazione.

È solo un modo di vivere di chi, da generazioni, deve aspramente lottare per sopravvivere. Di chi ha la sofferenza come inseparabile compagna di viaggio. E non è che questa scomodissima tradotta venga regalata. È pagata profumatamente. La sola tratta Agadez-Libia costa circa 200mila lire (ca. 100 euro, ndr). E, per chi viene da altri paesi, la cifra è ben maggiore. Cifre spropositate per chi non ha di che vivere.

Arrivati in Libia, dicono, possono trovare qualcosa da fare. Ben pochi, però, hanno intenzione di fermarsi lì. La Libia sembra conceda una sorta di lasciapassare, di salvacondotto, per tentare poi il gran balzo verso l’Europa. L’Italia in particolare. Il paese dei loro sogni. La realizzazione dei loro progetti. La fine dei loro problemi.

È convinto Mohamed nel ribadirmelo in un più che accettabile francese. È l’unico del gruppo a parlarlo, anche se è la lingua ufficiale del Niger.

Stanno per ripartire. Non ho il coraggio di dirgli che, in Italia, le cose non stanno proprio così. Che non è così facile. Soprattutto per chi entra come clandestino. Sarebbe inutile. Sicuramente, non mi crederebbe. E, in ogni caso, il peggio che troverà da noi, potrebbe essere molto meglio di ciò che lascia qui.

Mario Beltrami
19/03/2019


Populismo?

Carissimo padre
ho letto il suo editoriale (agosto-settembre 2018) e sono molto perplesso sul suo contenuto.

Sono Veneto, faccio l’imprenditore, sono sposato con due figli. La nostra terra è sempre stata generosa, qui accogliamo tutti, non c’è alcun populismo, nessuna violenza o traccia di razzismo nei confronti delle persone di colore o verso altri extracomunitari. Anzi loro stessi si sono inseriti nella nostra cultura e sono sul libro paga di molti imprenditori come me che li pagano per il lavoro che fanno. Certo, ci sarà qualcuno che li sfrutta, spero pochissimi. Come facciamo a essere sicuri che tutti i nostri conterranei siano onesti? Se non lo sono non sarà certo per il colore della pelle, la disonestà non guarda al colore della pelle.

Il Veneto è una terra amministrata bene, che insieme alla Lombardia e al Piemonte ha contribuito a fare dell’Italia quella che è, un paese moderno per cui rammarica sentir parlare di populismo perché sappiamo che si parla di partiti politici fortemente radicati qui.

Ma le ripeto, il Veneto è amministrato bene, la sanità funziona, i trasporti funzionano, non è questo quello per cui aleggiano i politici? Venga qui da noi, a parte certe zone di degrado a Padova zona stazione, gli immigrati sono accolti, lavorano, pagano le tasse.

Detto questo, di cosa stiamo parlando quando si parla di populismo? Scandire con fermezza diritti e doveri non è il dovere di ogni buon padrone di casa? A presto

Carraro Francesco
08/03/2019

Caro sig. Carraro,
sono andato a rileggermi l’editoriale che lei cita.

    • Non ho accusato nessuna regione italiana né in particolare né in generale, anche se mi dispiace che proprio nelle regioni in cui sono nato e vissuto, oggi la voce più grossa la faccia una minoranza xenofoba nel silenzio di una maggioranza sana e generosa, ma confusa e un po’ impaurita.
    • Ho un grande rispetto e stima per chi si guadagna il pane col sudore della fronte e pratica la giustizia tirando avanti la carretta con fedeltà, amore e compassione nonostante le difficoltà. Sono queste le persone che rendono bella l’Italia.
    • Quanto alla maggiore o minore simpatia per questo governo, è chiaro che non condivido un modo di governare che si legittima con l’uso smodato di social, che è perennemente in campagna elettorale e usa un linguaggio perlomeno discutibile se non incitatore di odio e discriminazioni. Plaudo a quegli amministratori – come il sindaco di Riace – che davvero hanno a cuore il bene comune, sono attenti all’ambiente, a ogni persona e in particolare ai gruppi più deboli.
    • Scandire con fermezza diritti e doveri è più che giusto. Ma è sicuro che tutti i doveri siano davvero rispettati, anche quelli più onerosi, o invece si applicano solo quelli che fanno più comodo?
    • È vero che la disonestà non guarda il colore della pelle, ma spesso nei media questo è dimenticato e le persone vengono trattate con pesi e misure diverse. Prostituzione, caporalato, consumo di droga, abusi edilizi, evasione delle tasse, inquinamento dell’ambiente, corruzione… sono tutte «cose nostre», non ce le hanno portate i migranti che piuttosto ne sono diventati vittime o capri espiatori.

Non solo perdenti

Carissimo direttore,
ho letto con molto piacere su MC di marzo 2019, «4 chiacchiere con i perdenti» che mi ha stimolato ad inviare questi pensieri per richiamare il valore della memoria storica. Da sempre ne sono un cultore, non tanto per essere diventato «vecchio», ma perché nella memoria, come ricorda papa Francesco, ci sono le radici della nostra fede. Detto questo, voglio sottolineare perché mi ha molto colpito il suddetto articolo. Nel rileggere in questo periodo quaresimale un vecchio libro, «Vivere in Cristo» di Mario Corti S.J. (Edizioni La Civiltà Cattolica, 31/12/1951) nel capitolo «La preghiera è infallibile», a pag. 193 si legge: «Il 17 marzo 1649 tra torture inaudite, S. Gabriele Lallemant S.J., a trentanove anni, consumava l’olocausto della sua vita col martirio nel Canada. Appena caduto in terra, sfigurato con il capo spezzato dall’ultimo colpo di scure, un selvaggio gli spaccò il petto, ne estrasse il cuore palpitante, ne sorbì il sangue e lo divorò, certo di appropriarsi così dell’eroico coraggio del martire». Segue poi la descrizione del martirio così come è riportato fedelmente in MC da don Mario Bandera. Ecco, ho pensato «queste sono più di 4 chiacchiere con i perdenti», e non è solo pura coincidenza se ritroviamo, dopo quasi 70 anni, in un libro pur datato in molte parti per ragioni storiche (in quanto scritto prima del Concilio Vaticano II) dove viene richiamato il valore della preghiera. In questo senso richiamo il valore della memoria storica che ritrovo con piacere in «4 chiacchiere con i perdenti». Chiudo con un augurio a tutti i missionari ed un ringraziamento per don Paolo Farinella.

Pino Cadiani
28/03/2019


Mozambico: Ricardo

Il signor Ricardo è seduto in un angolo all’ombra, nella «Scuola industriale» di Tete, dove con sua moglie e i suoi 5 figli è alloggiato alla meglio con le altre 656 famiglie dopo la grave alluvione che ha colpito la nostra città di Tete, e i comuni di Doa, Mutarara, Angonia, Ikondezi. Ricardo aspetta che i funzionari della protezione civile distribuiscano il pranzo. Dopo una timida presentazione mi parla di sé e della sua storia.

Il suo terreno è lontano dal letto del fiume. Lo ha comprato e il comune lo ha autorizzato a costruire. La sua casa in mattoni aveva tre stanze e una sala grande, costruita con sudore e amore. Lui se la cava come falegname e idraulico. I bambini sono piccoli, il più grande frequenta la 6ª elementare, e la più piccola ha appena 5 giorni: è riuscito a portarli via dalla furia delle acque uno per uno, addormentati. Mezz’ora dopo ha visto la casa cadere, muro per muro, e le sue cose sparire sott’acqua. Letti, vestiti, cucina, frigorifero, sedie… tutto. «Non so come farò nel futuro».

Il caso di Ricardo è simile a quelli di centinaia di famiglie nella nostra diocesi di Tete, che ancora non sanno come e cosa faranno per alzarsi da questa tremenda disgrazia. Alcuni sono tornati alle loro terre, alloggiati in tende, altri ancora nella Scuola industriale; tutti aspettano che il governo assegni loro un terreno in un luogo più sicuro, ma con il timore si essere portati lontano da scuole e ambulatori.

Tutto è iniziato nella notte tra il 7 l’8 di marzo scorso. Le abbondanti piogge cadute nei comuni dell’altopiano di Tsangano e Angónia, dove hanno distrutto campi, villaggi, scuole e sei chiese, si sono riversate sul fiume Rowubwe, a marzo normalmente secco e senza un filo d’acqua. Il Rowubwe, non riuscendo a defluire nel fiume Zambesi già in piena, ha invaso  in poco tempo villaggi e campi, in un crescendo violento e drammatico.

Si parla di una trentina di morti accertati, ma anche di decine di dispersi. Resta ancora da sapere con esattezza la situazione dei comuni di Doa e Mutarara ancora coperti dalle acque, e dove l’accesso per strada è impossibile.

Dopo appena una settimana, le regioni del centro del Mozambico hanno vissuto un dramma ancora peggiore.

Il ciclone Idai (Idai è un nome di ragazza in Hindi, significa svegliarsi o amore, ndr) formatosi nel Canale del Mozambico, con una velocità fino a 220 Km/h ha raso al suolo la grande città di Beira, la città di Dondo, e centinaia di paesi e villaggi, e tutto ciò che incontrava sul suo cammino. Pioggia e venti hanno devastato il centro del paese. Una vera catastrofe per ambiente, persone e strutture.
Una intera regione sommersa dall’acqua. Manca energia elettrica, comunicazioni telefoniche, acqua potabile. Strade interrotte. Villaggi isolati e sommersi. Scuole, ospedali, chiese, fabbriche, università… nulla è rimasto in piedi. Morti? Più di mille. Il colera ne sta mietendo altri.

In mezzo a tanta sofferenza, il paese intero, dal presidente all’ultimo cittadino, vive un momento di bellissima solidarietà. Aiuti da tutte le parti stanno arrivando a Beira perché non manchino cibo, acqua  e il necessario finché le cose possano tornare se non come prima, almeno vivibili e dignitose.

Padre Sandro Faedi,
amministratore apostolico di Tete

 




I Perdenti 42. I «Niños mártires de Tlaxcala»: Cristóbal, Antonio e Juan

Testo di don Mario Bandera |


Tre adolescenti indigeni del popolo Azteco sono considerati i primi martiri cristiani del Messico e dell’intero continente americano. Essi sono: Cristóbal (nato nel 1514 o nel 1515 e ucciso nel 1527), Antonio e Juan (nati nel 1516 o nel 1517 e martirizzati nel 1529).

Cristóbal e Antonio erano di ascendenze nobili, appartenevano alle famiglie di due «cacicchi» (capi indigeni tradizionali), mentre Juan era di una famiglia di servitori nella casa del padre di Antonio. I tre ragazzi si erano avvicinati alla fede cristiana frequentando la scuola dei missionari e staccandosi gradualmente dalle tradizioni dei loro avi. Essi accolsero con gioia la nuova fede e aiutarono anche i missionari a distruggere le statue degli idoli locali, ai quali venivano offerti cruenti sacrifici umani. Per questo furono puniti e perseguitati a morte dai componenti della loro comunità, aizzati dai sacerdoti della religione tradizionale che non accettavano la presenza di una fede diversa da quella praticata dalle popolazioni precolombiane. Cristóbal morì nel 1527, mentre Antonio e Juan vennero uccisi due anni dopo.

Tutti e tre sono considerati i protomartiri del continente americano. Papa Giovanni Paolo II li ha beatificati il 6 maggio 1990; mentre papa Francesco li ha canonizzati il 15 ottobre 2017. A questi intrepidi adolescenti abbiamo rivolto alcune domande, a nome loro risponde Cristóbal.

Che cosa vi ha attratto così visceralmente alla fede in Cristo Gesù, tanto da abbandonare quasi subito la fede dei vostri avi?

La cosa che più ci colpì della nuova fede religiosa arrivata nei nostri villaggi, proclamata dai missionari francescani, fu il constatare che il cardine del loro annuncio, Gesù Cristo il figlio di Dio, aveva offerto la sua vita per la salvezza di tutti gli uomini di qualunque popolo, tramite la sua morte in croce. Invece le nostre divinità erano assetate di sangue, tanto da spingere i nostri sacerdoti a offrire loro in sacrificio un certo numero di giovani e fanciulle come gesto di sottomissione da compiersi in alcuni periodi dell’anno.

Tlaxcala city. Palacio de Gobierno, murale dedicato ai protomartiri

Se ben capisco, voi siete rimasti impressionati dal fatto che nella verità della fede cristiana è il Figlio di Dio che versa il suo sangue per salvare l’umanità, mentre per le divinità degli Aztechi sono le persone del popolo che devono offrire il loro per rendere un culto veritiero.

I nostri sacerdoti passavano di villaggio in villaggio cercando giovinetti di bella presenza e fanciulle di ottimo aspetto da offrire in sacrificio. Voi capite che nella nostra cultura millenaria, non obbedire a questi comandi che ci venivano rivolti dalla classe sacerdotale, significava attirare la maledizione degli dei su tutta la comunità. Pertanto, anche se questo stato di cose era per la nostra gente un enorme sacrificio, offrire un componente della propria famiglia per le divinità era considerato un grande onore.

Voi però, dopo l’incontro con Cristo, non la pensavate più così.

Essendo io figlio ed erede del principale “cacico” della nostra zona, insieme ai miei fratelli e amici cominciai a frequentare la scuola dei missionari francescani. Mi si aprirono orizzonti nuovi e fui anche istruito nella fede cattolica.

Fu allora che prendesti la decisione di chiedere il battesimo e di ricevere nel contempo il nuovo nome di Cristóbal (portatore di Cristo)?

Proprio così, gradualmente il mio modo di pensare e di agire come quello dei miei amici – a mano a mano che ci addentravamo nella conoscenza della nuova fede – cominciava a trasformarsi. Volevamo far capire alla nostra gente che era necessario distruggere i templi pagani e le statuette dei vari idoli e abbracciare la nuova fede portata nelle nostre terre dai missionari francescani e domenicani.

La vostra testimonianza si colloca tra il 1527 e il 1529, quindi pochi decenni dopo la cosiddetta scoperta (in realtà «conquista») del Nuovo Mondo e il conseguente inizio dell’evangelizzazione di quel continente.

L’inizio dell’evangelizzazione nella nostra realtà bisogna inquadrarlo nel contesto storico e nello stile adottato da quei primi missionari, i quali avanzando di pari passo con i conquistatori spagnoli, raccoglievano conversioni per la capacità che avevano nel presentare un Dio la cui caratteristica principale era l’amore per tutti gli uomini e verso il quale non bisognava offrire nessun tipo di sacrificio umano cruento. È vero che in alcuni casi ci furono delle forzature, ma in generale l’adesione alla nuova fede fu rapida e spontanea.

Bisogna dare atto che i missionari provenienti in gran parte dalla Spagna seppero agire con duttilità e intelligenza di fronte alla nuova realtà con la quale erano venuti in contatto.

I Francescani e i Domenicani incominciarono da subito ad impegnarsi con passione e costanza per la promozione umana dei più poveri della nostra gente, degli “Indios” (come preferivano chiamarli loro, convinti com’erano di essere sbarcati in India).

Soprattutto colpì la nostra immaginazione, il fatto che in nome di Cristo difendevano la vita degli appartenenti al nostro popolo (specialmente dei più poveri) dalla casta dei sacerdoti aztechi che erano incessantemente alla ricerca di ragazzi e fanciulle da sacrificare ai loro dei.

Allo stesso tempo non avevano paura di utilizzare mezzi drastici, come la distruzione dei templi, delle statue e raffigurazioni degli idoli pagani, per sradicare una religione ritenuta ottusa e sanguinaria?

Vero, questo loro modo di fare influì anche su di noi, io stesso volendo convertire mio padre, distrussi tutte le statuette degli idoli che tenevamo in casa.

Questo atteggiamento segnò così la tua fine, ovvero il tuo martirio.

Per quel fatto mio padre mi bastonò senza pietà tanto da rompermi braccia e gambe, e poi mi gettò nel fuoco e mi bruciò vivo, quasi come un sacrificio riparatore ai suoi idoli.

Alcuni giorni dopo la stessa fine toccò a mia mamma che aveva tentato di difendermi da tanta violenza.

Per concludere il nostro colloquio dicci due parole sui tuoi amici Antonio e Juan.

Essi nacquero tra il 1516 e il 1517 a Tizatlán (oggi Tlaxcala), Antonio era nipote ed erede del cacicco locale, mentre Juan, suo coetaneo e compagno di giochi, era il figlio di una famiglia di servi della casa. Ambedue frequentavano la scuola dei Francescani. Quando nel 1529 i missionari Domenicani decisero di fondare una missione ad Oaxaca, chiesero al direttore della scuola, di indicare loro alcuni ragazzi che potessero accompagnarli come interpreti presso gli Indios. Riuniti i ragazzi della scuola, venne fatta loro la richiesta avvisando che si trattava di un compito pericoloso. Subito si fecero avanti i tredicenni Antonio e Juan. Quando il gruppo arrivò a Tepeaca presso Puebla, i ragazzi aiutarono i missionari a raccogliere le statuette degli idoli pagani per distruggerli. Antonio era entrato in una casa e Juan era rimasto di guardia alla porta. Alcuni abitanti del villaggio, armati di bastoni, si avvicinarono e picchiarono Juan talmente forte da ucciderlo sul colpo. Antonio, accorso in suo aiuto, si rivolse agli aggressori: «Perché battete il mio compagno che non ha nessuna colpa? Sono io che raccolgo gli idoli, perché sono diabolici e non divini». Gli indigeni, nonostante avessero visto il lui il figlio di un nobile, percossero anche lui con i bastoni, finché morì. I corpi di Antonio e Juan furono poi gettati in una scarpata.

Il domenicano padre Bernardino li recuperò e li trasferì a Tepeaca, dove vennero sepolti in una cappella.

Niños Mártires de Tlaxcala

I primi martiri del Messico

Il sangue dei tre ragazzi messicani fu il primo seme della grandissima fioritura del cattolicesimo nel loro paese. Gli storici della Chiesa messicana li considerano protomartiri non solo del Messico, ma dell’intero continente americano; costituiscono quindi le primizie dell’evangelizzazione del Nuovo Mondo.

L’opera dei missionari si allargò: aprirono scuole, stamparono i primi testi catechistici in lingua locale, condivisero la vita e la povertà degli Indios, lavorando per la loro promozione umana.

Li difesero anche dai soprusi degli «encomenderos», ossia dai coloni spagnoli, perlopiù militari, autorizzati a riscuotere dagli indigeni tributi o in natura, o sotto forma di lavoro obbligatorio.

Il 7 dicembre 1982, la Congregazione delle Cause dei Santi diede il nulla osta per l’inizio del processo per la beatificazione di Cristóbal, Antonio e Juan. Il 21 giugno 1988 si riunirono i consultori storici della Congregazione delle cause dei Santi, mentre la «Positio super martyrio» fu consegnata nel 1989. La riunione dei consultori teologi, svolta il 24 novembre 1989, ebbe esito positivo, confermato dai cardinali e vescovi membri della Congregazione, il 6 febbraio 1990.

Il 3 marzo 1990 san Giovanni Paolo II autorizzò la promulgazione del decreto con cui i tre ragazzi venivano ufficialmente dichiarati martiri. Lo stesso Pontefice li beatificò il 6 maggio 1990 nella Basilica di Nostra Signora di Guadalupe a Città del Messico, fissando la loro memoria liturgica al 23 settembre. Insieme a loro fu elevato agli onori degli altari Juan Diego, il messaggero della Madonna di Guadalupe, loro contemporaneo.

Il 23 marzo 2017, ricevendo in udienza il cardinal Angelo Amato, prefetto della Congregazione delle cause dei Santi, papa Francesco accolse i voti della Congregazione favorevoli alla canonizzazione dei tre martiri, senza bisogno di un ulteriore miracolo per loro intercessione. La loro canonizzazione fu celebrata e presieduta da lui domenica 15 ottobre 2017.

Don Mario Bandera

Clicca qui per vedere il video preparato in occasione della beatificazione




I Perdenti 41. I Santi Martiri Canadesi


Con il titolo «Santi Martiri Canadesi» veneriamo un gruppo di otto missionari francesi (sei sacerdoti e due religiosi professi) della Compagnia di Gesù, uccisi nelle aree a cavallo dell’attuale confine tra Canada e Usa dagli indigeni Irochesi mentre svolgevano il loro ministero presso gli Uroni tra il 1642 e il 1649.

Questi i nomi dei martiri:

  • fratel René Goupil (1608-1642);
  • padre Isaac Jogues (1607-1646);
  • fratel Jean de La Lande (1615-1646);
  • padre Antoine Daniel (1601-1648);
  • padre Jean de Brébeuf (1593-1649);
  • padre Gabriel Lalemant (1610-1649);
  • padre Charles Garnier (1605-1649);
  • padre Noel Chabanel (1613-1649).

Furono proclamati beati da papa Pio XI il 21 giugno 1925 e dichiarati santi dallo stesso pontefice il 29 giugno 1930. La loro memoria liturgica è il 19 ottobre.

Fu la devozione popolare a riunire in un unico gruppo gli otto missionari gesuiti martirizzati in quella che allora era chiamata la Nuova Francia (un territorio allora ancora largamente inesplorato) e a coniare per loro il nome di «martiri canadesi». La chiesa rispettò tale indicazione beatificandoli e canonizzandoli tutti insieme.

Tuttavia, questa denominazione non sarebbe la più esatta dal momento che i confini fra Stati Uniti e Canada non corrispondono più a quelli del XVII secolo. René Goupil, Isaac Jogues e Jean de La Lande, infatti, subirono il martirio nell’attuale territorio statunitense mentre gli altri cinque in quello canadese. Di conseguenza, negli Stati Uniti la denominazione più diffusa è quella di «martiri nordamericani» e talvolta addirittura «martiri americani». Del resto, gli stessi testi liturgici della loro commemorazione parlano di «borealibus Americae regionibus» (regioni boreali dell’America).

Per conoscere meglio la loro storia abbiamo parlato con padre Jean de Brébeuf, nato in Normandia, Francia, nel 1593 e ucciso presso il Lago Huron in Canada nel 1649.

Come mai tu e i tuoi giovani compagni gesuiti sceglieste di svolgere la vostra azione evangelizzatrice proprio in Canada?

Da seminaristi eravamo affascinati dai primi missionari che dopo aver vissuto per anni negli immensi territori del Nord America, ritornando in Europa, ci entusiasmavano con i loro racconti. Posti di fronte alla responsabilità del primo annuncio del Vangelo in terre sconosciute, pregando molto e facendoci coraggio l’un l’altro, chiedemmo ai nostri superiori di poter essere inviati nel continente americano. In quel territorio, che ai miei tempi era chiamato «Nuova Francia», come ardenti neofiti missionari volevamo portare la Buona Notizia del Vangelo ai popoli nativi.

Eravate coscienti dei pericoli ai quali andavate incontro, stabilendovi fra tribù indigene spesso in lotta fra di loro? È vero che alcuni di voi avevano lucidamente previsto, e in coscienza accettato, la probabile prospettiva del martirio?

È vero. Io stesso avevo fatto voto di non tirarmi indietro davanti al martirio. Fin dall’inizio eravamo preparati e attenti per annunziare il Vangelo nel pieno rispetto della cultura delle tribù locali: Algonchini, Uroni, Irochesi e altre.

Una volta stabiliti in Nordamerica, incominciammo a vivere con loro, imparando le loro lingue, i loro usi e costumi, dando testimonianza del vivere cristiano nella quotidianità di ogni giorno. Non esitammo un solo momento a mettere a rischio la nostra stessa vita per portare avanti questo compito che ci era stato assegnato. Era mio desiderio «farmi tutto a tutti per guadagnarli a Gesù Cristo», come dice san Paolo, conquistando il loro cuore.

Ero più che mai convinto che Gesù Cristo fosse la nostra vera grandezza. Perciò nel seguire quei popoli, dovevamo cercare solo Lui e la Sua Croce. Perché se avessimo cercato qualcos’altro, avremmo trovato solo afflizioni fisiche e spirituali. Ma se hai trovato Gesù Cristo e la Sua Croce, allora hai trovato le rose nelle spine, la dolcezza nell’amarezza, il tutto nel nulla.

Ma la tua prima esperienza in quelle terre fu breve.

Arrivai in quello che oggi è il Canada, nel 1625. Avevo 32 anni. Dopo un breve periodo di «apprendistato» con gli Algonchini, mi mandarono tra gli Uroni, che da tempo avevano buone relazioni con i francesi con i quali avevano intensi scambi commerciali.

Rimasi con loro fino al 1629 imparando la loro lingua e costumi. Fu un periodo di grande impegno. Imparai bene la loro lingua tanto da scrivere un dizionario per aiutare gli altri missionari. Scrissi anche un catechismo. Quei due testi sono diventati una delle poche testimonianze rimaste della lingua e cultura degli Uroni dopo il loro annientamento avvenuto qualche decennio più tardi.

Fui poi richiamato a Québec per un nuovo incarico.

Proprio quando la città di Québec e la colonia francese furono occupate dagli inglesi e i missionari cattolici a malincuore dovettero lasciare il Canada e ritornare in patria.

Infatti. Anch’io fui rispedito in Francia quando, nel 1629, gli inglesi conquistarono la città con un colpo di mano. Però, dopo un accordo di pace con l’Inghilterra (nel 1632), la Francia riebbe quella parte del Canada e anche i Gesuiti ritornarono nelle loro missioni. Rientrai nel 1633 e fui mandato fra gli Uroni per condividere la loro esistenza molto semplice e continuare così l’opera di evangelizzazione appena abbozzata.

Se non vado errato tra il 1634 e il 1639 ci furono violente epidemie di vaiolo, dissenteria e influenza che colpirono voi e decimarono la popolazione locale.

Noi missionari fummo i primi a essere colpiti da quelle malattie portate dall’Europa. Anche se privi di forze, debilitati e convalescenti, ci demmo da fare in ogni modo per aiutare tutti, nonostante l’avversità degli stregoni, che ci ritenevano responsabili dell’epidemia e aizzavano la gente contro di noi.

Va detto che avevano tutte le ragioni per accusarci, ma in quel tempo nessuno sapeva che eravamo noi stessi i portatori di quelle malattie che erano completamente sconosciute agli indigeni, malattie che si diffusero rapidamente tra gli Uroni causando moltissimi morti e decimando la popolazione.

E tu come vivesti quegli eventi?

Quello fu uno dei momenti più difficili della mia vita missionaria. Da parte mia sopportavo con infinita pazienza, e sempre con il sorriso sulle labbra, gli insulti, le offese, le botte e le ferite che gli Uroni mi infliggevano, aizzati dai loro stregoni. Lungo le giornate cercavo di essere sempre il primo per svolgere i compiti più gravosi, mi alzavo la mattina presto per accendere il fuoco che sarebbe poi stato utilizzato dalle diverse famiglie nelle loro tende, così come alla fine della giornata mi coricavo per ultimo dopo essermi assicurato che nel villaggio tutto fosse in ordine. Ma fu molto duro, e più volte corremmo il rischio che la missione fosse distrutta.

Nonostante l’ostilità degli stregoni e le calunnie nei vostri confronti, voi continuaste la vostra presenza nella confederazione delle tribù degli Uroni.

Dopo le epidemie noi continuammo e intensificammo la nostra presenza tra gli Uroni e fondammo nuove missioni, intraprendendo viaggi avventurosi e rischiosi sia per l’ostilità degli «uomini medicina» (che noi spesso liquidiamo come stregoni) che per le razzie degli Irochesi. Durante uno di questi viaggi ebbi una brutta caduta sul ghiaccio e così fui costretto a restare nella missione centrale a Québec dove mi diedero il compito di coordinare i rifornimenti. Impegno non facile perché spesso i nostri convogli venivano attaccati e depredati da razziatori Irochesi, sempre più aggressivi, che rubavano i rifornimenti e le pellicce raccolte dagli Uroni. Sono nel 1644 potei tornare nelle terre degli Uroni a tempo pieno.

Ma quando le razzie degli Irochesi si trasformarono in una vera guerra contro gli Uroni, per voi cambiò tutto.

Negli anni 1647-48 tra le due popolazioni indigene scoppiò una vera e propria guerra «di sterminio», che terminò con l’annientamento quasi totale degli Uroni e di conseguenza con l’apparente annullamento della nostra opera missionaria.

Le guerre tribali non erano una novità tra i popoli di quelle regioni, ma quest’ultima fu particolarmente feroce per varie ragioni. Le tribù Irochesi (Mohawk, Cayuga, Oneida, Onondaga e Seneca) avevano stretti rapporti commerciali con gli Olandesi a cui vendevano soprattutto pellicce. Ma l’uccisione sconsiderata dei castori aveva portato alla loro quasi totale estinzione nei loro territori. Gli Irochesi, quindi, avevano bisogno di conquistare nuove aree per continuare i loro commerci. In più gli Olandesi, al contrario dei Francesi, non si facevano scrupolo a vendere armi da fuoco agli Irochesi, per cui questi, meglio armati e istigati dagli Olandesi e Inglesi (alleati e protestanti, che volevano mandare via i Francesi, competitori nella colonizzazione e per di più cattolici), ebbero facilmente la meglio sugli Uroni, con poche armi da fuoco e già decimati dalle epidemie che avevano dimezzato la popolazione.

Fu proprio nel contesto di questa sanguinosa guerra fra i due gruppi di tribù che si collocò la nostra storia con il conseguente sacrificio di noi Gesuiti francesi che, fatti prigionieri, fummo sottoposti ad prolungate e feroci sevizie, secondo l’uso degli Irochesi di torturare i loro nemici per ore e ore, a volte addirittura per giorni interi sino alla morte.

Il vostro eroismo nel sopportare le torture e nell’andare incontro alla morte pregando per i vostri torturatori, impressionò gli Irochesi, tanto che vi strapparono il cuore per mangiarlo e diventare partecipi del vostro coraggio.

Per voi questo è certo un risvolto macabro e disgustoso, ma se lo guardiamo dal punto di vista della storia della Missione possiamo dire che un po’ del cuore dei martiri restò davvero nell’anima degli Irochesi. Infatti, l’esperienza cristiana non si estinse completamente, anzi, nei decenni successivi, riprese vigore e fiorì di nuove opere, che dal sangue dei martiri traevano insostituibile linfa.

Il 16 marzo 1649 la nascente missione di sant’Ignazio fu assalita da oltre mille Irochesi che uccisero moltissimi Uroni, altri furono torturati senza pietà e un gran numero di donne e bambini furono rapiti per essere assimilati e schiavizzati nella tribù dei vincitori. Catturarono i padri De Brébeuf e Gabriel Lalemant. Strapparono loro le unghie e li legarono a un palo, con delle scuri incandescenti legate al collo che bruciarono loro il dorso e il petto, mentre una cintura di corteccia con pece e resina incendiate cingeva i loro fianchi. Li «battezzarono» con acqua bollente e trafissero con aste arroventate, strappando loro brandelli di carne e divorandola davanti ai loro occhi. I torturatori, infuriati perché padre Jean invece di gridare dal dolore continuava a pregare Dio, gli strapparono le labbra e la lingua, gli ruppero le mascelle, ficcandogli in gola tizzoni ardenti; poi finalmente sazi di tanta crudeltà, gli aprirono il petto e gli strapparono il cuore, lo mangiarono e ne bevvero il sangue, convinti – secondo le loro credenze – di assimilarne così il coraggio.

Con il passare degli anni l’evangelizzazione seminata da padre Jean de Brébeuf e dai suoi compagni, cominciò a dare i primi frutti, al punto che nel 1649, anno in cui egli fu ucciso, gli Uroni battezzati erano quasi settemila.

Come dicevano i cristiani dei primi secoli: «Il sangue dei martiri è seme di nuovi cristiani», così il sacrificio dei martiri canadesi non fu inutile, perché nei decenni successivi, la comunità cattolica riprese vigore e si affermò saldamente in quei vasti territori, donando alla Chiesa altri santi come Kateri (Caterina) Tekakwitha (+1680).

Don Mario Bandera

 




I Perdenti 40.

Luz Long e Jesse Owens campioni nello sport e nella vita

Quel
che accadde in un caldo e afoso pomeriggio del 4 agosto 1936 all’Olympiastadion
di Berlino fu una cosa inimmaginabile per quei tempi in Germania, uno schiaffo
dato in pieno volto al regime nazista all’apice del suo potere: la conquista di
una medaglia d’oro da parte di un uomo di colore alle Olimpiadi che si tenevano
nella capitale dell’ideologia della supremazia della razza ariana su tutte le
altre, non solo in ambito sportivo, ma bensì in ogni aspetto del vivere sociale
e civile.

L’aspetto
più luminoso legato a quella data è la sincera amicizia fra l’atleta tedesco Luz
Long e il suo più forte avversario, lo statunitense afroamericano Jesse Owens,
nata sui campi di gara e consolidatasi nel tempo, a dimostrare che la rivalità
sportiva non si traduce sempre in feroce antagonismo, e che il valore di
un’amicizia si misura dalla sua capacità di sopravvivere al passare degli anni.
Tutto ciò trova valida conferma in una lettera di Long – ultima di una fitta
corrispondenza – spedita dal fronte della Seconda Guerra Mondiale al rivale
sportivo nonché amico fraterno: «Dopo la guerra, va’ in Germania, ritrova mio
figlio e parlagli di suo padre. Parlagli dell’epoca in cui la guerra non ci
separava e digli che le cose possono essere diverse fra gli uomini su questa
terra. Tuo fratello, Luz». Così scriveva Long, divenuto ufficiale della
Luftwaffe tedesca, a Owens che aveva appreso da poco la notizia della nascita
del suo primogenito.

Proprio
con il campione sportivo tedesco Luz Long vogliamo scambiare quattro
chiacchiere sulla loro straordinaria amicizia.

Jesse Owens in piena corsa alle Olimpiadi del 1936 a Berlino (Collection MNS)
Caro Luz, nonostante i tuoi meriti sportivi, anche tu sei stato reclutato
per l’esercito tedesco e mandato in prima linea a combattere…

Devo dire
che il mio status di atleta internazionale mi aveva risparmiato di prendere
parte al conflitto iniziato nel 1939, ma il capovolgimento delle sorti della
guerra richiamava al servizio del Reich tutti gli uomini validi, quindi anche
gli atleti sportivi di ogni disciplina.

Cosa accadde all’Olympiastadion di Berlino in quel lontano 4 agosto 1936?

Cominciamo
col dire che uno spettatore che prendeva posto nelle strutture sportive,
pianificate e costruite in quegli anni in Germania dall’architetto del regime
Albert Speer, rimaneva stupefatto per la loro imponenza ed eleganza. Era un
modo per infondere negli spettatori una forma di ammirazione e rispetto per il
potere nazista.

L’Olympiastadion era veramente così imponente?

Con
chiari richiami ai modelli architettonici dell’Antica Grecia, l’Olympiastadion,
poteva contenere oltre centodiecimila spettatori. Maestoso e immenso,
costituiva un’autentica «macchina di propaganda» messa in azione dal regime
nazista per ottenere un sempre più vasto consenso dal popolo tedesco attraverso
gli avvenimenti sportivi.

Possiamo dire quindi che una manifestazione sportiva come le Olimpiadi era
usata dal potere nazista come uno strumento di battaglia ideologica?

Hitler
intendeva servirsi delle Olimpiadi per dimostrare al mondo intero la supremazia
della razza ariana, di conseguenza l’atleta tedesco doveva corrispondere
all’immagine stereotipata: alto, biondo, prestante, carnagione chiara e occhi
azzurri.

Quindi tu rientravi pienamente nei canoni estetici voluti dal Fuhrer.

Sì.
Appartenevo fin dalla nascita alla patria tedesca, a quel tempo avevo ventitré
anni ed ero studente di legge all’Università di Lipsia. Dal punto di vista
sportivo, in precedenti gare avevo già superato per due volte consecutive nel
salto in lungo il record olimpico di 7,73 metri stabilito nel 1928 ad Amsterdam
dallo statunitense Edward Hamm.

Eri diventato anche il beniamino della nazione tedesca dopo esserti
classificato terzo ai campionati europei di atletica leggera, nel 1934.

Mi
rendevo conto che ero una pedina importante, nella scacchiera preparata da
Hitler per affermare il dominio sportivo germanico sul resto del mondo. Agli
occhi del Fuhrer le mie possibili affermazioni in campo atletico apparivano
quasi scontate e il dittatore si preparava a gustarle di fronte agli ospiti
provenienti da tutto il mondo.

Quante nazioni erano presenti a quelle Olimpiadi?

Parteciparono
ben quarantanove paesi, un numero record rispetto alle edizioni precedenti, che
tuttavia non teneva conto della forte discriminazione insita nell’evento
berlinese. Gli atleti ebrei tedeschi furono espulsi da tutte le discipline
sportive, mentre un destino già più felice toccò agli afroamericani, ai quali
fu concesso di gareggiare, anche se in numero ridotto. La squadra olimpica
americana presentava diciotto atleti di colore su 312 partecipanti, una
percentuale bassissima. Tra l’altro, quei diciotto subivano una pesante
discriminazione perfino in patria. Erano pochi, ma abituati alle privazioni,
forse per questo motivo ancor più desiderosi di riscattarsi. Tra loro spiccava
James Cleveland Owens, da tutti conosciuto come Jesse Owens.

Hitler come vedeva questi atleti di colore?

La
presenza degli afroamericani alle Olimpiadi di Berlino venne giustificata da
Hitler con sordido disprezzo: diceva che essendo loro dei «primitivi» potevano
vantare una costituzione robusta, perciò più adatta alla corsa. A rincarare
l’acredine fu il quotidiano della propaganda nazionalsocialista, diretto da
Joseph Goebbels, che definiva i neri come cittadini di seconda categoria degli
Stati Uniti.

In effetti, a ben guardare, anche nel loro paese non erano trattati molto
bene.

Basti
pensare che in quegli anni gli afroamericani erano costretti a sedere nella
parte posteriore dei bus pubblici e dovevano utilizzare gli ascensori di
servizio negli alberghi: la loro condanna era di essere confinati ai margini
della società. Il diritto di vivere non era loro precluso, eppure,
silenziosamente, veniva negata loro quella possibilità che si trova alla base
della libertà stessa: vivere come loro desideravano.

Nonostante ciò, il desiderio di affermarsi, di emergere nella società
civile come nello sport da parte degli afroamericani era molto sentito.

Proprio
così, e Jesse Owens, figlio di un povero agricoltore dell’Alabama, che a otto
anni lavorava già come inserviente per conquistare un posto un po’ più
dignitoso in quel mondo che lo voleva escludere, era deciso a tutto pur di
farcela.

Quale fu l’occasione che gli permise di «sfondare»?

Furono le
sue doti e le sue capacità atletiche a consentirgli di ottenere una borsa di
studio per la Ohio State University, dove incontrò Larry Snyder, uno dei
migliori coach in circolazione.

Con lui, Jesse cominciò ad affermarsi e a stabilire nuovi record.

Qualche tempo prima in Michigan, partecipando ad un
evento sportivo, vinse ben quattro gare in diverse discipline in un’ora e un
quarto. L’eccezionalità delle sue imprese sportive impressionò la Federazione
americana di Atletica Leggera che lo incluse nel gruppo di atleti da portare
alle Olimpiadi di Berlino.

Dove il nome di Jesse Owens divenne leggenda.

Il tre
agosto del 1936 conquistò la sua prima medaglia d’oro, quella della corsa dei
cento metri. Bisogna dire che i giudici tedeschi durante le gare lo presero
particolarmente di mira, infatti non esitarono a sollevare la bandierina rossa
per delle inezie durante le qualificazioni per il salto in lungo. Dopo due
salti nulli incombeva su di lui lo spettro dell’eliminazione. Jesse era dotato
di grande velocità, ma il suo stile rivelava imperfezioni, soprattutto se
confrontato con l’impeccabile hang style (sospensione nel salto) di altri
atleti.

Per Owens sembrava ormai preannunciarsi una sconfitta inevitabile.

Senza
contare che su di lui pesava duramente la fatica degli sforzi precedenti.
Rimaneva l’ultima possibilità nel salto in lungo, ma la giuria internazionale,
influenzata pesantemente dalle autorità naziste, era pronta a dichiararlo fuori
gioco senza troppi complimenti.

Jesse perciò si trovava di fronte all’ultimo salto valido per accedere alla
finale, quando qualcuno si avvicinò alle sue spalle. Eri proprio tu Luz,
l’atleta tedesco da cui tutti si attendevano una vittoria.

Mi
avvicinai a lui e gli sussurrai all’orecchio: «Uno come te dovrebbe essere in
grado di qualificarsi ad occhi chiusi», poi gli consigliai il punto di stacco
ideale per effettuare un salto valido indicandolo con un fazzoletto bianco
posato accanto alla pedana. Jesse non solo si qualificò per la finale, ma mi
superò ampiamente saltando ben 8,06 metri contro i miei 7 metri e 87
centimetri.

Jesse Owens saluta mentre riceve la medaglia d’oro per il salto in lungo.

Owens quel giorno vinse il suo secondo titolo olimpico, ricordiamo che tra tutti gli atleti di colore della squadra americana il migliore fu proprio lui, che il 3 agosto vinse la medaglia d’oro nei cento metri, il 4 agosto nel salto in lungo e il 5 agosto nei 200 metri e infine, il 9 agosto vinse la sua quarta medaglia d’oro nella staffetta 4×100 metri; questa era una gara a cui Owens non era nemmeno iscritto, ma partecipò dopo che la squadra americana decise di non far partecipare due atleti ebrei a causa delle pressioni dei nazisti. Il trionfo di Jesse Owens fu un vero scacco per Hitler che riponeva ogni speranza nei campioni di casa per una robusta affermazione tedesca nelle discipline sportive di atletica leggera. Si vociferò anche a lungo sulla reazione di Hitler alla mancata vittoria tedesca, gli attribuirono i comportamenti più disparati: come il fatto di essersi rifiutato di stringere la mano a Owens. Jesse, da perfetto galantuomo, smentì le versioni non veritiere, affermando di essere stato salutato, sebbene a distanza, dal Fuhrer. La vittoria alle Olimpiadi non procurò inizialmente molti benefici economici a Owens, quando tornò negli Stati Uniti dovette adattarsi a fare parecchi lavori umili per procurarsi da vivere, tra cui l’inserviente a una pompa di benzina.

Ignorato e snobbato (non si sa per quale ragione) dal presidente Franklin Delano Roosevelt, e dal suo successore Harry Truman, il primo vero riconoscimento per i suoi trionfi sportivi arrivò quarant’anni dopo, nel 1976 dal presidente Gerald Ford, che gli assegnò la Medaglia per la libertà, il più alto riconoscimento civile degli Stati Uniti. Jesse Owens si spense a 77 anni nella sua casa a Tucson, in Arizona, il 31 marzo 1980.

Don Mario Bandera




I Perdenti 39.

Le beate Carmelitane di Compiègne


Testo di Don Mario Bandera


Con la rivoluzione francese del 1789, e con i principi a essa connessi di «Libertà, uguaglianza, fraternità», si affermarono quei valori che, secondo i «lumi» della ragione, avrebbero dovuto cambiare la realtà delle cose non solo in Francia, ma nel mondo intero.

L’incidenza di questi valori, nella considerazione generale del popolo francese era fuori discussione ed era recepita con molta simpatia. Peccato che questi valori fossero affermati senza Dio e contro Dio, come se l’uomo fosse dio di se stesso. La «Dichiarazione dei diritti dell’uomo», promulgata a Parigi il 26 agosto 1789, si sarebbe rapidamente imposta nel mondo, ed ebbe come tragica conseguenza – fin dal suo inizio – la soppressione di tutti gli Ordini monastici e contemplativi (13 febbraio 1790) e la proibizione su tutto il territorio nazionale di ogni forma di vita consacrata. Infatti, secondo i rivoluzionari, non poteva essere un libero cittadino chi si consacrava a Dio con dei voti religiosi, perché sicuramente vi era stato costretto. Compito della nazione era quindi quello di liberarlo, e se, per caso, non voleva essere liberato, doveva essere eliminato. La nuova società doveva essere formata da uomini e donne liberi e uguali non soggetti a vincoli di nessun genere, a quelli religiosi in modo particolare. Come risposta, le priore di tre monasteri carmelitani francesi, a nome di tutti gli altri, inviarono all’Assemblea Nazionale il loro proclama: «Alla base dei nostri voti religiosi c’è la libertà più grande; nelle nostre case regna la più perfetta uguaglianza; noi confessiamo davanti a Dio che siamo davvero felici». Le autorità reagirono mandando nei loro conventi uno stuolo di ufficiali come liberatori.

Gli ufficiali della rivoluzione giunsero nel 1790 anche al Carmelo dell’Annunciazione di Compiègne, un paese a circa novanta km da Parigi, dove vivevano sedici monache guidate dalla priora Madre Teresa di Sant’Agostino, nata Madeleine-Claudine Ledoine. Messe con la forza nella condizione di non poter comunicare tra loro, furono convocate una a una per dichiarare liberamente di voler uscire dal monastero.

Un segretario verbalizzò le loro risposte, per cui la loro singolare avventura venne documentata con scrupolo dagli stessi persecutori. Ed è proprio in questo frangente che inizia il nostro colloquio con la superiora del Carmelo di Compiègne.

Madre Teresa, dopo il decreto di soppressione degli ordini contemplativi del 13 febbraio 1790 gli emissari della Rivoluzione arrivarono anche al Carmelo di Compiègne, dove la vostra comunità contava 16 monache…

Già, ci isolarono rinchiudendoci nelle nostre celle davanti alle quali posero delle guardie e ci misero nella condizione di non poter comunicare tra noi, poi fummo convocate una a una davanti a un ufficiale per farci dichiarare che volevamo lasciare il monastero di nostra spontanea volontà. Nessuna di noi, ovviamente, accettò una proposta simile.

È vero che le risposte che voi davate agli emissari della Rivoluzione lasciavano stupiti e allibiti i vostri interlocutori?

Io stessa dichiarai di «voler morire e morire in quella santa casa». La più anziana delle mie consorelle disse: «Sono suora da 56 anni e vorrei averne ancora altrettanti per consacrarli tutti al Signore». Un’altra con più determinazione spiegò loro: «Mi sono fatta religiosa con mio pieno gradimento e conserverò il mio abito anche a costo del sangue». Così, con parole simili, ripeterono tutte, fino alla più giovane, suora professa da pochi mesi: «Nulla mi indurrà ad abbandonare il mio sposo Gesù».

Allora vi lasciarono nel vostro monastero, ma la situazione era tesa e piena di incognite. Eravate preparate al peggio?

Certo. A Pasqua del 1792 ci siamo radunate e insieme abbiamo deciso di offrirci in «olocausto» al Signore per chiedere la pace per la Chiesa e per lo stato. L’offerta era rinovata ogni giorno durante la celebrazione della santa Messa.

Nel settembre 1792, dopo tre giorni di massacri che fecero 1.600 vittime, tra cui 250 preti massacrati solo a Parigi, il 12 arrivò per voi l’ordine di lasciare il monastero, che venne subito requisito.

Andammo a vivere in piccoli gruppi, in quattro case nello stesso quartiere. Rriuscivamo a comunicare tra noi per mezzo del cortile interno e osservavamo il più possibile la nostra «Santa Regola» di preghiera e di lavoro, in intimità con il Signore Gesù, pronte a ogni evenienza. La gente del quartiere sapeva della nostra presenza e spesso si univa a noi pregando per ciò che si stava vivendo nella Chiesa e in Francia.

Madre Teresa, la Rivoluzione francese, che era incominciata contando su un grande appoggio popolare – anche cattolico – per le istanze che portava avanti, in poco tempo dilapidò tutta la sua carica innovativa per mostrare un volto brutale e violento come pochi nella storia delle nazioni. Com’è potuto avvenire questo cambiamento?

Mano a mano che fra i dirigenti della rivoluzione guadagnavano posizioni di comando esponenti dell’ala più radicale e oltranzista, si affermava sempre più il concetto che se si vuole abbattere l’Ancièn Regime è necessario annichilire l’avversario, visto come un nemico da sconfiggere e abbattere ad ogni costo.

Tra il luglio 1793 e l’estate 1794, i sanculotti giacobini (i rivoluzionari più estremisti) scatenarono il periodo così detto del «grande Terrore», che nelle loro intenzioni doveva portare alla scristianizzazione totale della Francia. La ghigliottina funzionava a pieno regime, le vittime più numerose furono, sacerdoti, religiosi, suore e semplici credenti, accusati di «fanatismo».

Proprio di fanatismo fummo accusate noi Carmelitane di Compiègne, le nostre abitazioni furono perquisite, tutte noi arrestate, i nostri arredi sacri profanati e infranti. Guardando in faccia la realtà di quei mesi, ci stavamo preparando da tempo con la preghiera incessante al nostro martirio, proprio secondo quanto aveva profetizzato la nostra Fondatrice, Santa Teresa d’Avila, la quale aveva detto: «In avvenire quest’Ordine fiorirà e avrà molti martiri».

E così avvenne anche per voi…

Il 13 luglio 1794, io e le mie consorelle fummo tradotte a Parigi e gettate nella Conciergerie, il carcere della morte. In quei giorni, il tribunale rivoluzionario comminava decine di condanne alla ghigliottina. Il 16 luglio 1794, festa della Madonna del Carmelo, componemmo un nuovo canto, come eravamo abituate a fare nel nostro monastero per la nostra Patrona. In quell’ambiente riscrivemmo la Marsigliese, mantenendo identico il testo musicale ma cambiando le parole dell’inno della rivoluzione in un inno di totale dedizione a Cristo:

«È arrivato il giorno della gloria
Or che la spada sanguinante è già levata
prepariamoci alla vittoria.

Sotto il vessillo del Cristo agonizzante
avanzi ognuno come vincitore.

Corriamo, voliamo alla gloria,
che noi tutte siamo del Signore!».

Il 17 luglio fummo processate e condannate per «fanatismo», l’attaccamento cioè a quelle che il nostro accusatore definiva «credenze puerili» e «sciocche pratiche di religione».

Andammo al patibolo il pomeriggio dello stesso giorno con il nostro canto sulle labbra, tenendoci per mano, con la convinzione che il nostro sacrificio fosse la migliore testimonianza che potevamo offrire a Cristo Signore per la nostra patria.

 

Dopo essere state ghigliottinate, i corpi delle sedici martiri furono gettati in una fossa comune, insieme ad altri corpi di condannati, in un posto che divenne poi l’attuale cimitero di Picpus, dove ancora oggi una lapide ricorda il loro martirio. Di esse rimasero alcuni indumenti che le Carmelitane scalze stavano lavando alla Conciergerie quando furono portate in giudizio e che, due o tre giorni dopo, vennero dati alle benedettine inglesi di Cambrai, pure incarcerate, ma poi rimesse in libertà. Tali indumenti preziosi sono oggi all’abbazia delle benedettine di Staribrook, in Inghilterra.

Reliquie preziose sono inoltre gli scritti delle martiri: lettere, poesie, biglietti, giunte sino a noi perché furono conservati da persone pie molto toccate dal loro sacrificio. Le martiri furono beatificate da San Pio X il 13 maggio 1906, mentre già il 10 dicembre precedente era stato pubblicato il decreto per procedere alla dichiarazione del martirio delle sedici carmelitane scalze.

La loro festa è celebrata il 17 luglio dall’Ordine dei Carmelitani Scalzi e dall’arcidiocesi di Parigi.

La vicenda delle carmelitane francesi ha avuto una risonanza mondiale inaspettata grazie a opere letterarie di valore indiscutibile. Nel 1931 Geltrude von Le Fort ricavò dal racconto storico della vita e del martirio delle suore di Compiègne, il romanzo «Die letzte am Schafott» dal quale il padre R. Bruckberger ebbe l’ispirazione di realizzare un film, dei cui dialoghi affidò la redazione nel 1937 a Georges Bernanos. Questi, dieci anni dopo, scrisse un lavoro che la morte gli impedì di condurre a termine. Pubblicato nel 1949 come opera letteraria a sé stante, «Les dialogues des Carmélites» ebbe un successo enorme in tutta Europa, e subito fu ridotto per il teatro e, portato sulle scene, ebbe grande fortuna. Nel gennaio del 1957 «Les dialogues des Carmélites», musicato da Francis Poulenc, presentato alla Scala di Milano, estese la fama dell’opera di Bernanos. Finalmente, nel 1959, con regia di Philippe Agostini, il padre Bruckberger riuscì ad attuare il suo sogno portando sullo schermo «Les dialogues des Carmélites». Grazie a queste opere la vicenda storica delle sedici martiri discepole di Santa Teresa d’Avila, uscì dall’anonimato per essere fatta conoscere a tutto il mondo.

Don Mario Bandera