I perdenti 49. Mafalda di Savoia
testo di Mario Bandera |
Mafalda di Savoia, (al secolo: Mafalda, Maria, Elisabetta, Anna, Romana) secondogenita del Re d’Italia Vittorio Emanuele III e della Regina Elena del Montenegro, nasce a Roma, il 19 novembre 1902. Tra i quattro figli della coppia regale, essa spicca per il suo temperamento brillante, inoltre possiede un’indole docile ed ubbidiente. Dalla madre eredita il senso più autentico della famiglia, i valori cristiani e la passione per l’arte e la musica. Crescendo rivela una passione per la musica classica, soprattutto per le opere di Giacomo Puccini, il quale incontrandola una volta le dice che a lei dedicherà quello che poi sarà uno dei suoi capolavori: l’opera lirica Turandot.
Trascorre infanzia e giovinezza fra Roma e le varie residenze della famiglia reale. Durante la Prima guerra mondiale segue, con le sorelle Jolanda e Giovanna, la madre nelle frequenti visite negli ospedali ai soldati feriti, collaborando agli innumerevoli atti di carità verso i poveri e i sofferenti.
Conosce in seguito Filippo d’Assia (1896-1980), principe tedesco arrivato in Italia per completare gli studi di architettura. Dopo qualche anno di fidanzamento si sposano e le nozze si celebrano a Racconigi il 23 settembre 1925. Dalla loro unione nascono quattro figli: Maurizio, Enrico, Ottone ed Elisabetta.
Mafalda di Savoia è donna coraggiosa che non misura il rischio quando si tratta di intervenire per gli altri, così come avviene durante la Seconda guerra mondiale. A seguito dell’armistizio dell’8 settembre 1943, Hitler progetta la sua vendetta ai danni della famiglia reale italiana, giudicata inaffidabile e traditrice del Patto fra Italia e Germania e come vittima da sacrificare indica proprio la consorte del principe d’Assia. Dopo la scomparsa di Boris III re di Bulgaria, morto per avvelenamento il 28 agosto 1943, Mafalda parte per Sofia per stare accanto in quei giorni terribili a sua sorella Giovanna, sposa del re.
Nei giorni in cui ti trovavi in Bulgaria non ti misero al corrente dell’armistizio dell’otto settembre intercorso tra Italia e Alleati e fosti informata soltanto a cose fatte, mentre eri già in viaggio per rientrare in Italia.
Dopo i funerali del re, iniziai il viaggio per tornare a Roma. Stavo attraversando la Romania, quando il treno fu fermato in piena notte nella stazione ferroviaria di Sinaia. Lì c’era la regina Elena di Romania, che aveva fatto fermare il treno proprio per informarmi di quanto era successo in Italia e pregarmi di non tornare a casa. Ma io volevo rivedere i miei figli e non accettai il consiglio.
Decidesti quindi di tornare ugualmente a Roma per ricongiungerti con i tuoi figli e con la tua famiglia.
Ero convinta che i nazisti mi avrebbero rispettata in quanto moglie di un ufficiale tedesco, e delle SS per di più. Raggiunsi Roma dopo un viaggio avventuroso, in treno fino a Bucarest e poi in aereo fino a Pescara. Nella capitale scoprii che il re, mio padre, insieme a mia mamma, la regina, e ai miei fratelli, si erano sottratti alla cattura da parte dei tedeschi dopo il patto di Badoglio con gli Alleati, cosa che si erano ben guardati dal dirmi, benché fossero mesi che erano in trattative. Grazie a Dio, riuscii a rivedere, per l’ultima volta, i miei figli: Enrico, Ottone ed Elisabetta (Maurizio era con il padre in Germania), accolti e protetti da monsignor Giovanni Battista Montini, futuro Paolo VI, nel proprio appartamento in Vaticano.
Ma i tedeschi, sentendosi traditi, non avevano intenzione di mollare la presa.
Per niente! La Gestapo, sotto la regia del colonnello Herbert Kappler, per compiacere il desiderio di vendetta di Hitler, aveva organizzato l’«Operazione Abeba» per catturami e deportarmi. Ingenuamente io caddi nella trappola da loro predisposta. Fui invitata a presentarmi a Villa Wolkonski, sede dell’ambasciata tedesca a Roma, con la scusa di una telefonata da parte di mio marito dalla Germania. Ero ansiosa di parlare con lui e non sapevo che invece era già stato arrestato ed era chiuso nel campo di concentramento di Flossemburg perché sospettato di aver aiutato il suocero, mio padre, il re d’Italia, a sbarazzarsi di Mussolini. Era il 22 settembre 1943 quando mi presero, e fui subito imbarcata su un aereo con destinazione Monaco di Baviera, da dove poi fui trasferita a Berlino, città in cui mi sottoposero a estenuanti interrogatori. Infine, fui deportata nel lager di Buchenwald, dove arrivai il 18 ottobre.
Come ti hanno trattata?
Non hanno avuto riguardi per me. Quando arrivai nel campo di concentramento, possedevo solo i vestiti che avevo addosso al momento dell’arresto. Le mie richieste per avere indumenti e biancheria pulita furono sempre respinte.
Non ti permisero neppure di rivelare la tua vera identità.
Non solo, per scherno i nazisti mi chiamavano Frau Abeba. Fui rinchiusa in una baracca riservata a prigionieri particolari che non lavoravano e ricevevano il vitto delle SS, poco migliore di quello dei prigionieri comuni. Con noi c’era anche Rudolf Breitscheid, membro di spicco del partito socialdemocratico e delegato al Reichstag durante l’era della Repubblica di Weimar, e sua moglie. A me venne assegnata come compagna di stanza la signora Maria Ruhnau alla quale in segno di riconoscenza, regalai l’orologio che portavo al polso. Per caso fui notata da un prigioniero italiano che mi riconobbe, così la voce della mia presenza si diffuse tra gli altri internati.
Per una persona abituata agli agi, la realtà del campo di concentramento deve essere stata traumatica.
Era una realtà squallida e avvilente, dappertutto c’era dolore e sofferenza. Anche se il nostro era un campo di lavoro e non di sterminio, eravamo trattati con brutalità, senza pietà per nessuno, nemmeno per le numerose donne e bambini che vi erano detenuti. La dura vita del campo, il poco cibo (che dividevo con coloro che reputavo ne avessero più bisogno di me) e il glaciale freddo invernale, fecero deperire ulteriormente il mio fisico già gracile e provato.
Quali sono le cause della tua morte?
Il 24 agosto del 1944 gli anglo-americani bombardarono il lager – non si è mai capito il perché di tale azione assurda contro chi era già vittima dei nazisti – e la baracca dove ero fu distrutta. In quell’occasione riportai gravissimi danni al braccio sinistro che fu ustionato fino all’osso.
Venni ricoverata nell’infermeria improvvisata nella casa di tolleranza usata dai guardiani del lager, ma là fui intenzionalmente abbandonata per molto tempo senza assistenza, poi fui finalmente operata per fermare la cancrena dovuta alle ustioni e mi amputarono il braccio.
Ancora sotto l’effetto dei pesanti sedativi, Mafalda venne riportata nel postribolo e abbandonata, senza assistenza. Morì dissanguata il 28 agosto 1944, a 42 anni. Il dottor Fausto Pecorari, radiologo italiano anch’esso internato a Buchenwald, dichiarò che Mafalda era stata intenzionalmente operata in ritardo e la sua morte era stata il risultato di un assassinio sanitario premeditato. La salma di Mafalda di Savoia, grazie al padre boemo Joseph Tyl, monaco cattolico dell’ordine degli Agostiniani Premostratensi, non venne cremata, ma fu messa in una cassa di legno, sepolta con la dicitura: 262 eine unbekannte Frau (donna sconosciuta). Dopo alcuni mesi dei marinai italiani, reduci dai lager nazisti, trovarono la bara della principessa martire e posero una lapide identificativa.
Dallo studio della vita della principessa e della sua personalità, emerge la figura di una donna briosa e mite, intelligente e colta, sempre dedita agli altri; una sposa e una madre esemplare, di grandissima fede cattolica, sempre pronta alla carità per i più bisognosi e disagiati. Persona semplice, indulgente, benevola e amabile.
Il suo sacrificio è l’ultimo atto di una vita occupata prioritariamente dalla presenza del Vangelo. Anche nel campo di concentramento di Buchenwald non badò a se stessa, in cima ai suoi pensieri c’erano i figli, il marito, i genitori, gli internati del campo e in particolare agli italiani del lager, ai quali fece sentire tutta la sua vicinanza. Le sue ultime parole furono proprio dirette a loro: «Italiani, io muoio, ricordatemi non come una principessa ma come una vostra sorella italiana».
Il marito Federico sopravvisse all’internamento prima nel lager di Flossenburg, poi in quello di Dachau e infine a Villabassa in Val Pusteria dove fu liberato dagli Alleati.
Mafalda di Savoia riposa oggi in terra tedesca nel piccolo cimitero degli Assia a Francoforte-Höchst, frazione di Francoforte sul Meno. Innumerevoli sono vie, piazze, giardini pubblici intitolati a lei, esiste persino un comune che porta il suo nome (in provincia di Campobasso), cippi e monumenti eretti in suo onore in diverse scuole e realtà italiane sono dedicati alla sua memoria.
Figlia, madre e moglie ideale, principessa dai connotati straordinariamente umani e cristiani, Mafalda di Savoia rappresenta una vittima innocente giustiziata in una guerra dove l’odio espresse la sua faccia più turpe e la violenza il suo volto più feroce. Grazie alla sua testimonianza possiamo sperare in un futuro più giusto e fraterno.
Don Mario Bandera