Con cuore grande, facendo del bene

a cura di Sergio Frassetto |


Vogliamo dedicare il nostro inserto al ricordo di padre Francesco Pavese, missionario della Consolata, scomparso il 3 maggio scorso; oltre che figlio devoto del fondatore, fu anche postulatore della sua causa di canonizzazione, ma, soprattutto, studioso e profondo conoscitore dell’Allamano, che fece conoscere attraverso i suoi numerosi scritti e la sua predicazione.

Come esempio, ecco alcuni pensieri di una sua omelia, tenuta a Castelnuovo Don Bosco, il 16 febbraio 2014.

Che cosa può dire a voi, oggi, il beato Allarmano? Almeno due cose. La prima è questa: siate cristiani tutti d’un pezzo, come erano quelli del suo tempo. Se questo paese ha offerto alla Chiesa e al mondo tanti santi, è perché le famiglie erano cristiane di prima qualità. Vi erano delle mamme di valore, come la mamma di don Bosco, come la mamma dell’Allamano, che hanno saputo indirizzare i figli sulla via della santità. Quando
l’Allamano ha manifestato il suo desiderio di essere missionario, la mamma, già ammalata, gli ha risposto: «Io non voglio ostacolarti, pensa solo se sei chiamato da Dio; quanto a me non pensarci!». Queste erano mamme!

L’Allamano ci insegna il metodo per vivere cristianamente nel modo migliore possibile, ad alto livello. È un metodo che ha ereditato dallo zio Giuseppe Cafasso, ed è questo: «Se volete essere cristiani di prima qualità, non pretendete di fare cose straordinarie, ma fate le cose bene, meglio che potete, nella vostra vita ordinaria di ogni giorno». Lui sintetizzava questo suo insegnamento così: «Il bene bisogna farlo bene, con costanza e senza rumore». È un metodo semplice, ma impegnativo e garantito.

Il secondo insegnamento che l’Allamano, oggi, ci offre, è questo: «Alzate il vostro sguardo e rendetevi conto che buona parte dell’umanità non conosce o non segue il vero Dio, cioè il Padre che Gesù è venuto a rivelare». L’Allamano era molto occupato nella sua diocesi. Un vescovo del suo tempo diceva: «Non c’era iniziativa di bene che non partisse dalla Consolata». Da quel santuario, l’Allamano creava un dinamismo apostolico di grande qualità. Eppure ha saputo alzare lo sguardo e interessarsi anche dei lontani, gente che lui non conosceva, ma che amava, perché era convinto che appartenessero all’unica famiglia di Dio. Ha fondato addirittura due Istituti missionari, uno per sacerdoti e fratelli coadiutori e uno per suore missionarie. Perché lo ha fatto? Perché aveva un cuore grande, che superava i confini del suo ambiente. L’Allamano è stato apostolo molto attivo in patria, nella sua diocesi, e apostolo molto attivo nel mondo,
attraverso i suoi figli e figlie. Come vostro concittadino, egli vi invita ad avere un cuore grande e a partecipare, come potete, a questa avventura missionaria della Chiesa, che dura da duemila anni.

padre Francesco Pavese

Devoto figlio di Giuseppe Allamano

Ricordo di padre Francesco Pavese

Nato il 2 aprile 1930 a Casorzo (Asti), padre Francesco Pavese divenne missionario della Consolata con la prima professione religiosa, alla Certosa di Pesio, l’8 dicembre 1951. Ordinato sacerdote, a Torino, il 19 giugno 1955, vi rimase come insegnante e direttore del seminario teologico dal 1960 al 1970, finché fu eletto superiore regionale dell’Italia, nel 1970.

Numerosi i chierici di teologia e filosofia: circa 130. Era evidente la sua capacità organizzativa. Sempre molto attese le sue conferenze settimanali, in cui univa insegnamento a fine diplomazia nel fare osservazioni disciplinari. Forse un po’ presuntuoso nell’affermare che non gli sfuggiva nulla. Ma, in realtà, con intelligenza e perspicacia, era attento e vigilante.

Nel 1976, iniziò il suo «soggiorno romano»: dapprima fu incaricato dell’ufficio generale Imc di formazione e studi; poi segretario del corso di teologia pastorale all’Università urbaniana e, dal 1985 al 2001, rettore prima del pontificio Collegio S. Paolo e, poi, del pontificio Collegio urbano; nel frattempo, venne anche nominato professore invitato della facoltà di Missiologia (Università urbaniana) e consultore a Propaganda fide.

Lo reincontrai a Roma nel 1980, membro della commissione che doveva stendere il testo delle Costituzioni Imc rinnovate, per accogliere l’insegnamento e spirito del Concilio Vaticano II. Lui un gigante in Diritto canonico e ricco di esperienza, io pivello ignorante. I suoi apporti erano mirati e convincenti. Lui era sempre il primo a farli presenti e suggerire soluzioni per gli inevitabili scogli. Non si imponeva. Lo ammiravo e imparavo.

Dal 2002 al 2011, divenne postulatore generale della causa di canonizzazione del beato Allamano; dal 2013, si ritirò a Torino in Casa Madre, dove, oltre i vari servizi pastorali, continuò nel suo lavoro di ricerca e pubblicazione di studi sul fondatore.

Per circa dieci anni fu postulatore della Causa di Canonizzazione del beato Giuseppe Allamano. Entrò nell’ufficio digiuno del fondatore. Divenne presto un postulatore convinto, operoso, amante del nuovo compito. Ne acquistò conoscenza approfondita, che per anni sbriciolò in tanti paesi, animando Esercizi spirituali e incontri. Conoscenza con amore, che non cessò con la consegna della postulazione al suo successore. Continuò a studiare e scrivere. Traeva da scritti conosciuti, ma aggiungendo interessanti dettagli inediti.

Accolto nella casa di Alpignano, si è spento all’ospedale di Rivoli il 3 maggio 2020, durante la drammatica emergenza del coronavirus.

(annotazioni di padre Giuseppe Inverardi)


Non voglio morire «sfaccendato»

Il 28 giugno 2015, celebrando i sessant’anni della sua ordinazione sacerdotale, p. Francesco Pavese ringraziò il Signore, la Consolata e l’Allamano per il suo sacerdozio e concluse con il proposito di continuare l’opera del Signore fino alla fine della sua vita. Ecco quanto disse.

Sono stato ordinato sacerdote sessant’anni fa proprio qui, in questa chiesa. Sono missionario della Consolata, e quindi formato nello spirito del beato Giuseppe Allamano.

Il primo sentimento è un grande grazie perché il Signore mi ha chiamato: è un grande dono e io stesso sono sorpreso di essere stato scelto e di essere stato aiutato a non fuggire, a non andare da un’altra parte.

E grazie, certamente per il sacerdozio. Per parlare del sacerdozio ci vorrebbe una vita intera, ma mi limito a sottolineare le sue due principali caratteristiche trasmesse a noi dal padre fondatore: è un sacerdozio eucaristico e mariano.

Voglio poi ringraziare il Signore perché il mio sacerdozio è missionario. Non mi lega alla diocesi dove sono nato, ma è un sacerdozio aperto, libero: sono stato disponibile di andare da qualsiasi parte dove l’Istituto mi avrebbe mandato.

Il nostro fondatore ci ha detto che dobbiamo essere degli apostoli zelanti, cioè avere l’ardore dentro. Le sue parole sono queste: «Ci vuole fuoco per essere apostoli», e io me le sono attaccate all’orecchio.

A coloro che partivano l’Allamano lasciava tre ricordi e anch’io li ho messi nel mio cuore:

  1. essere uomini di preghiera: se il missionario non prega non può convertire nessuno.
  2. essere uomini di bontà, di mansuetudine, di cortesia: il missionario vuole bene alla gente, la aiuta e condivide la sua vita con essa.
  3. essere uomini distaccati, liberi da se stessi, ma portatori di grandi ideali nel cuore.

E ringrazio il Signore ancora perché sono sacerdote, missionario e religioso, appartengo cioè a un istituto, a una comunità religiosa che ha come caratteristica la vita e l’opera in comune, e i consigli evangelici di povertà, castità e obbedienza.

E riguardo a questi ultimi il beato Allamano diceva: «Con i voti, non si dà al Signore solo il presente, ma il futuro», cioè tutta la vita, senza alcun limite.

Il Papa diceva ai giovani: «Non andate in pensione troppo presto», e io lo dico di me stesso: ho dato al Signore il mio futuro; non c’è per me un tempo di pensione, finché le forze mi aiuteranno io devo continuare.

Sessant’anni sono tanti, non sono più un giovanotto, ma finché avrò le forze cercherò di tirare avanti e voi aiutatemi con la vostra preghiera perché non voglio morire «sfaccendato», ma sempre impegnato nell’opera del Signore.

Questi sono gli ideali che ho coltivato e oggi lo dico al Signore, alla Consolata e al beato Allamano: «Ho passato la mia vita per voi, ho fatto meglio che ho potuto e quello che non ho fatto bene pensateci voi».

A cura di Sergio Frassetto


Il tesoro dello scriba

Padre Francesco Pavese è stato chiamato a ricoprire la carica di postulatore generale dell’Istituto nel 2002 ed è rimasto in tale incarico fino a raggiungere gli ottant’anni, quando, secondo le norme della Congregazione dei santi, un postulatore deve cedere il posto a una persona più giovane.

Padre Pavese si era dedicato, dunque, al compito di postulatore con entusiasmo, svolgendolo con molta efficacia e creatività e prestandosi volentieri, dovunque venisse richiesto, per Esercizi spirituali, ritiri mensili e conferenze sul beato Allamano. Non si contano i viaggi fatti, anche all’estero, allo scopo di animare, soprattutto i missionari e le missionarie della Consolata, sul fondatore. I suoi articoli, pubblicati sulle riviste italiane dei nostri Istituti, venivano poi tradotti in più lingue, per renderli accessibili a più persone possibili.

E qui, l’immagine che mi viene in mente è quella presentata da Gesù, dopo il racconto di alcune sue parabole: «Ogni scriba, divenuto discepolo del regno dei cieli, è simile a un padrone di casa che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche» (Mt 13,52).

Con la passione e la competenza che lo caratterizzavano, il nostro postulatore si mise, dunque, ad «estrarre dal tesoro» nascosto dell’Istituto, informazioni e notizie antiche, dando loro vita e rendendole nuove e attraenti, soprattutto alle giovani generazioni di missionari e missionarie.

Messa festa della Consolata a Casa Madre, Torino, presieduta da p. Stefano Camerlengo superiore generale

Degni di menzione particolare sono due pubblicazioni fatte durante il decennio in cui fu postulatore. La prima è l’accurato e minuzioso lavoro, fatto con suor Angeles Mantineo, sulle conferenze del fondatore per rispondere alla richiesta del Capitolo generale di rendere più «comprensibile» (soprattutto nel linguaggio), la «Vita Spirituale» del fondatore. Il libro usciva alle stampe nel 2007, con il titolo «Così vi voglio», tradotto, poi, in cinque lingue diverse.

Altra opera divulgativa fu la pubblicazione di «Giuseppe Allamano, uomo per la missione», (sempre in collaborazione con suor Angeles), un lavoro geniale, che rispondeva almeno a tre esigenze: fare conoscere tutto il materiale fotografico relativo all’Allamano e ai luoghi da lui frequentati; fare emergere episodi, luoghi e persone che raramente venivano evidenziati nelle biografie e che avevano giocato un ruolo importante nella sua vita; e, infine, usare uno stile giornalistico, così da attirare alla lettura anche persone meno abituate a opere impegnative. Il risultato? Un volume di quasi 300 pagine, scorrevole e tipograficamente accattivante, molto ben curato.

Ma penso che il lavoro a cui p. Pavese ha dedicato più tempo sia stata la lettura, attenta e costante, di tutto il materiale presente nell’Archivio generale dell’Istituto. Manoscritti e libri sono veramente tanti, particolarmente in ciò che concerne le deposizioni dei testimoni al processo di beatificazione, gli studi sul fondatore (biografie e monografie), le commemorazioni fatte nel corso di 60 anni, le testimonianze dei primi missionari e missionarie che conobbero il fondatore, i diari di missione…

Le «scoperte» delle lunghe ricerche, venivano poi inserite nel sito web (https://giuseppeallamano.consolata.org/), che costituisce una vera miniera on line di studi, pubblicazioni, testimonianze, conferenze e sussidi di impronta «allamaniana».

Nel 2013, p. Pavese lasciò Roma per trasferirsi a Torino. Raggiunta la veneranda età di 82 anni e vicino alla tomba del Fondatore, continuò a progettare e realizzare pubblicazioni, divulgando la sua impareggiabile conoscenza dell’Allamano attraverso articoli su varie riviste, con il tema d’obbligo, sempre lui: il beato Allamano!

Ultima sua fatica stampata fu il libro «Scegliendo fior da fiore: i 51 Santi di Giuseppe Allamano»: un grappolo di santi e sante (i più conosciuti e da lui amati) scelti, appunto, e presentati come «modelli garantiti», adatti a tutti e alle diverse situazioni.

Negli ultimi tre anni, p. Pavese aveva anche raccolto, in monografie (non ancora pubblicate), temi e argomenti vari, concernenti la spiritualità e la vita del fondatore. Ne ricordiamo alcuni, più caratteristici:

  • – Parole quotidiane del beato Giuseppe Allamano nel racconto dei testimoni;
  • – Quarant’anni di consolazione: la mariologia di Giuseppe Allamano;
  • – L’Allamano uomo: episodi di umanità vera;
  • – Giuseppe Allamano, l’uomo segregato nel silenzio;
  • – Che bello!: l’intensità spirituale dell’Allamano, nelle sue parole.

Al di là di quanto scritto e prodotto, p. Francesco Pavese ha lasciato all’Istituto, soprattutto un’eredità indelebile, un tesoro prezioso: il suo amore per il fondatore, la passione di farlo conoscere, con il desiderio pungente di vedere riconosciuta ufficialmente dalla Chiesa la sua santità.

Molti anni fa, a un missionario partente, che gli confidava il timore di non rivederlo più, l’Allamano rispose: «Ci rivedremo in Paradiso. Io, quando sarò lassù, vi benedirò ancora di più. Sarò sempre dal pugiol (balconcino)». Mi piace immaginare, ora, il nostro p. Pavese, accanto all’amato fondatore che, dal pugiol, ci guarda e, incitandoci col suo sorriso un po’ sornione, ci aiuta a camminare sulle strade della missione con coraggio, tanta fiducia e… in santità di vita.

padre Piero Trabucco

 




Noi e Voi, dialogo lettori e missionari

Omaggio al «nonno vigile»

Un salone della scuola materna della missione della Consolata di Modjo, in Etiopia, è stata intitolata l’11 febbraio 2020 al trentino Giovanni De Marchi (nella foto qui sotto tra padre Angheben e il vescovo di Meki).

Dopo aver lasciato la divisa di maresciallo dei carabinieri, ha indossato quella di «nonno vigile», per oltre 20 anni, per i bambini delle scuole medie ed elementari di Borgo Valsugana; ma i suoi impegni non gli hanno impedito di dedicarsi alla raccolta di fondi pro Etiopia con la collaborazione di amici, associazioni ed istituzioni locali.

Grande amico del missionario padre Paolo Angheben di Vallarsa, che si trova in Etiopia da circa 45 anni, De Marchi si è recato nel paese africano più di 10 volte a partire dal 2006, per portare i contributi raccolti, i quali sono serviti per realizzare diverse opere importanti:
– nel paese di Daka Bora per costruire una scuola per 300 bambini e per pagare le condutture necessarie per collegare il paese all’acquedotto comunale;
– a Weragu per promuovere la costruzione del ponte sul fiume Minne, fiume che divide la vallata in due e, durante la stagione delle piogge, isola la popolazione dal resto del mondo;
– per contribuire alla costruzione della biblioteca del centro giovanile a Debre Selam;
– per costruire il reparto maternità nella clinica di Modjo;
– per aiutare diversi giovani nel loro corso di studi;
– per costruire il salone della scuola materna di Modjo che ospita attualmente 350 bambini.

Nell’attesa che il buon De Marchi, nonostante l’età che avanza, torni in Etiopia, a lui è stato intitolato il salone della scuola, per ringraziarlo di tutto il lavoro di sostegno a lungo effettuato affinché i giovani possano costruire il loro futuro e la gente etiope possa vivere con dignità nella propria terra.

In Etiopia si dice: «God bless him» (Dio lo benedica) e tutti coloro che lo hanno aiutato.

da Eleonora Arlati
06/03/2020

 

Ricordando un caro amico

Signor Direttore,
ho letto con piacevole sorpresa, nel numero del mese di aprile 2020, sotto il titolo «Ricordando padre Silvano Cacciari» la lettera di un’insegnante, la dr. Brigida Pastorello, che elogia e ringrazia per l’opera di assistenza spirituale ricevuta e il servizio sanitario specie ai più bisognosi, in terra di missione in vari continenti, e singolarmente a Torino e provincia, del padre Silvano Cacciari, improvvisamente  mancato il 18 gennaio scorso all’affetto dei suoi cari, una solida e unita famiglia dell’interland bolognese.

Conobbi padre Cacciari a metà degli anni ‘60: un brillante missionario, docente e giurista, molto noto in città, alla cui intraprendenza imprenditoriale furono legate per alcuni decenni le sorti lusinghiere dell’ospedale Koelliker di Torino, fiore all’occhiello della sanità piemontese. Ebbi modo di apprezzarne le spiccate virtù umane oltre che di religioso e missionario esemplare, quando nel 2015 ho accettato di assisterlo, come avvocato, nella vicenda giudiziaria, resa pubblica dalla stampa nazionale, ormai acqua passata dopo il suo decesso.

Ma non è di questa che intendo parlare, […] ma della grande amicizia, sorta nei miei confronti da parte sua e cordialmente ricambiata, dalla quale mi sento sinceramente gratificato, per l’impareggiabile esempio di onestà intellettuale e professionale, per la profonda sensibilità umana, per l’umile accettazione del ritiro in Casa Madre come custode del santuario del beato Allamano.

Padre Cacciari non fu lapidato alla maniera giudaica, come scrive la dr. Pastorello, né può essere paragonato al Cristo crocifisso, non oserei arrivare a tanto! Tuttavia, ricordandolo nella preghiera di fraterno suffragio mi auguro sinceramente che il Padre Celeste, accogliendo
padre Cacciari nel suo regno di luce e di pace, gli abbia reso giustizia, cosa cui non sono arrivati in tempo o non hanno potuto perfezionare i tribunali di questo mondo.

Sac. prof. Valerio Andriano,
03/05/2020, Torino

A Giulietto

Lo scorso 26 aprile è morto Giulietto Chiesa, giornalista, scrittore e parlamentare europeo. Aveva 79 anni. Grande esperto del mondo sovietico, aveva lavorato per quotidiani e televisioni. La sua collaborazione con MC era iniziata nel dicembre 2002 con un articolo nel dossier dedicato all’Iraq di Saddam Hussein, ma era durata soltanto lo spazio di qualche numero. Troppe le polemiche con i lettori. La sua rubrica – dal titolo emblematico di «Luoghi comuni» – era sempre un pugno allo stomaco. Aveva anche contribuito con un capitolo al fortunato saggio «La guerra, le guerre. Viaggio in un mondo di conflitti e di menzogne» (Emi, 2004), lavoro curato da Benedetto Bellesi, compianto ex direttore di MC, e dal sottoscritto.

A Giulietto Chiesa vada il mio personale grazie. Che riposi in pace.

Paolo Moiola
01/05/2020

Un incontro indimenticabile

Incontrai dom Aldo Mongiano la prima volta a Rio de Janeiro. Era la primavera del 1992. Lui era in transito da Boa Vista per un rientro in Italia, io ero in viaggio per il Sud America con un amico, ed eravamo in quei giorni ospiti alla parrocchia Nossa Senhora Consolata, che i missionari della Consolata gestivano nei pressi delle favelas Mangueira, Morro do telegrafo, Tuiutí, Arará. Padre Claudio Fattor ne era il parroco.

Mongiano aveva un giorno libero e ci propose di fare una visita con lui ai padiglioni in costruzione di Rio92, la conferenza sul clima che sarebbe diventata famosa.

E così andammo. Mi ricordo quel vescovo così semplice e allo stesso tempo così profondo e diretto. Ci parlò di Roraima, della problematica indigena. Per noi, giovani alla scoperta del mondo, fu non solo interessante, ma entusiasmante.

A un certo punto ci disse: «Ricordatevi sempre che bisogna essere in pace con quattro cose: con se stessi, con gli altri, con la natura e, infine, ma non per ultimo, con Dio». Questa semplice regola, che può dar adito a profonde meditazioni e a verifiche personali, me la porto dietro da allora. Chiese poi, a noi giovinastri in cerca di avventura se, nel nostro futuro, pensavamo di dare priorità alla formazione di una famiglia. La domanda ci stupì e ci colse impreparati.

Mentre visitavamo lo spazio dove si sarebbe svolto Rio92, nel quale operai montavano i diversi padiglioni, il vescovo ci lanciò una sfida: «Perché non venite qualche tempo a lavorare con noi a Roraima, per la causa indigena?».

Mesi dopo, rientrato a Torino, scrissi a dom Mongiano una lettera (non c’erano mail, né tanto meno programmi di messaggistica e chiamate con internet): ero disponibile a passare un periodo di volontariato con lui. Alcune settimane dopo arrivò l’attesa busta con le insegne vescovili: «Mi dispiace la situazione è notevolmente peggiorata, non possiamo prenderci al responsabilità di inserire delle persone nuove». Purtroppo la tensione a Boa Vista era molto alta, i fazendeiros avevano minacciato di morte il vescovo. La difesa dei popoli indigenti e della loro terra da parte della chiesa aveva dato fastidio. Ne fui deluso. Ma la causa indigena mi restò dentro. Anni dopo sarei andato a Roraima e ci sarei pure tornato. Caro dom Aldo, grazie e buon viaggio.

Marco Bello
24/04/2020

PREGHIERA (a modo mio)

Signore Dio,
Liberaci dal coronavirus, da chi specula su di esso e sulle normative anti contagio.
Liberaci dal tormento dei vigili urbani avidi e arroganti.
Liberaci dall’oppressione dei carabinieri infedeli e dai poliziotti corrotti.

Sgombera i tribunali dai giudici adoratori di se stessi e collusi con la mafia.
Liberaci dalla tirannia del petrolio, di chi ne fomenta le guerre e di chi distrugge le foreste naturali per le piantagioni di palma da olio.

Liberaci dalla piaga dell’evasione fiscale ma anche dal rigorismo criminale, dalle manovre di chi per risanare, si arroga il diritto di perseguitare e depredare.
Liberaci, o Signore, dalla piaga del neoliberalismo rampante, dall’egemonia di coloro per i quali, «con il denaro» è complemento di compagnia e non di mezzo; da quelli che onorano la moneta come se questa fosse la loro madre, la loro sposa, la loro prole.
Liberaci da tutti quelli che pensano di poter trattare le persone per cui il denaro è solo uno strumento di sussistenza e non un fine, come merce di infima qualità.

Liberaci dall’ossessione antropocentrica di quanti sopravvalutano la scienza umana e la sua ricerca tecnologica e in nome di corona-management, corona-economy, corona-bond, pensano di poter umiliare e perseguire amministrativamente, se non addirittura penalmente, la preghiera di riparazione, la corona del rosario, l’adorazione eucaristica, la cena eucaristica, e il sacramento della riconciliazione.

Yury Skarfenko
Fano, 30/04/2020

Condivido il fatto che viviamo tempi difficili e che probabilmente noi li rendiamo ancora più difficili con i nostri comportamenti sbagliati, la nostra arroganza e la nostra idolatria del potere, del successo, del denaro e della sicurezza. Ma ho qualche riserva su questa preghiera. Sa tanto di «lista della spesa» o di promemoria di cose che Lui deve fare. Forse ci siamo dimenticati che Lui, in Gesù, ci ha già offerto un modello di vita e dei criteri di relazione umana che contestano tutti gli atteggiamenti elencati. Forse, invece di dire a Dio di fare le cose al posto nostro, dovremmo ascoltare di più quello che Lui ci ha già detto e piuttosto chiedergli la forza di mettere in pratica quello che preghiamo nel «Padre nostro».

Nel vivo desiderio che possiamo passare presto da una fase in cui la priorità è «non morire» a quella in cui «vivere» (non per pochi privilegiati, ma per tutta l’umanità e il creato) diventi il centro di tutto.

Riflessione su questo tempo

Si lamentano quasi tutti tranne i giovani cui è chiesto il sacrificio più grande, pur essendo, statisticamente, i meno coinvolti in questa epidemia.

Si lamentano gli anziani, i più a rischio, che pensano di essere immuni per averne affrontate tante, comprese guerre e fame. Si lamentano i cattolici che vorrebbero tornare alla normalità senza riflettere sull’opportunità che questa quaresima prolungata ci offre con il digiuno. Si lamentano gli pseudo sportivi manco dovessero allenarsi per le olimpiadi e li vedi correre senza fiato, pur di uscire di casa.

Invece i giovani hanno accettato di veder sospesa la loro vita e lo hanno fatto con responsabilità e altruismo; per molti dovrebbe essere l’anno della maturità, della prima vacanza con i compagni, dei primi amori, della patente, dei sabati sera, degli abbracci, delle risate per qualunque cosa.

E invece è l’anno della scuola online. È l’anno in cui le risate si fanno nelle chat di gruppo. È l’anno in cui la maturità si fa online, non si fa, si fa con uno scritto o due, … E per molti è anche l’anno della solidarietà, essendosi messi a disposizione, numerosi, come volontari, per portare viveri agli anziani.

Si sono adattati a questa nuova realtà meglio di tutti quanti noi che abbiamo trovato da lamentarci davvero su qualunque cosa. A nostra discolpa, il fatto che non abbiamo più molti treni da prendere e la sensazione che perso uno, persi tutti. Ma credo che dovremmo davvero imparare da loro più di quanto non avremmo pensato.

Rita Ruotolo
Torino, 28/04/2020

Grazie padre Pavese

La domenica del Buon Pastore (3 maggio 2020), è deceduto padre Francesco Pavese, Imc. Abbiamo appreso con dolore la notizia della sua dipartita, che lascia un vuoto denso di gratitudine e di nostalgia. Padre Pavese era un fratello di cui abbiamo potuto apprezzare la ricchissima eppur semplice personalità, il suo amore profondissimo alla Consolata e la sua passione per la conoscenza e l’approfondimento della figura del nostro fondatore, il beato Giuseppe Allamano […].

Grazie, padre Pavese! La Consolata, che hai amato con vero amore di figlio, ti accolga tra le sue braccia!

suor Simona Brambilla, MC
03/05/2020

 

Padre Francesco Pavese e diversi altri confratelli sono stati vittime del virus. Torneremo a parlare di loro nei prossimi numeri. Pregate con noi. Grazie.